UTENZE. IL 2018 NON PROMETTE REGALI: RAFFICA DI RINCARI IN ARRIVO
DI VIRGINIA MURRU
In dirittura d’arrivo, da gennaio, una serie d’aumenti nelle bollette riguardanti la fornitura di luce e gas, ma non solo: il repertorio è più ampio e coinvolgerà servizi fondamentali, come trasporti, banche, pedaggi autostradali, assicurazioni.
La manovra 2018, dopo il lungo e faticoso iter parlamentare, è diventata legge, tanti gli emendamenti apportati durante il suo percorso, gli interventi sono frutto di sforzi notevoli per le limitate finanze dello Stato. Si chiedeva tanto a questa Legge di Bilancio, forse troppo considerato il ‘budget’, del resto il ministro Pier Carlo Padoan ha ripetuto spesso che le risorse non erano infinite.
Molti obiettivi si sono raggiunti, ma resta l’amarezza di quel limite che ingabbia, dietro le finanze dello Stato c’è un debito pubblico simile ad un drago insaziabile, che inghiotte risorse senza sosta, e nessuno ha ancora trovato l’arma giusta per bloccarlo.
I grandi sforzi compiuti dalla manovra appena convertita in legge, sono solo la prima fase di un ciclo, che riprende il corso nel nuovo anno con tutte le strategie e misure atte a portare energia all’erario, perché tutto il piano di spese deve essere adeguatamente coperto, anche in previsione del prossimo ‘esercizio’ dell’azienda Italia.
E il cittadino resta sempre sotto mira, il reddito delle famiglie, soprattutto quello che consente di arrivare in affanno a fine mese, torna in trincea, in Italia metà anno si lavora per le tasse (negli Usa solo fino ad aprile). In ogni caso sono i contribuenti a trasformarsi in Atlante e a reggere l’immane peso che la spesa pubblica comporta. Così, ogni anno si ripete, e la speranza di una condizione di vita migliore, affiora appena dal cappello di quel grande illusionista che è poi lo Stato.
Il 2018 sarà il capoverso di un rituale che riprende il suo avvio, anche in termini fiscali; in agguato sempre qualche rincaro, soprattutto sul versante delle utenze, indispensabili al normale svolgimento della vita quotidiana. Il nuovo anno, ormai alle porte, non si presenta come il sacco di una generosa befana, pieno di sconti e condoni, o riduzioni d’imposta, anzi.
Secondo l’Adusbef, sarebbe pronto un potente morso al reddito del cittadino, già ipotecato da troppi impegni fiscali e insidiato da oneri di ogni genere. Sarà quasi di mille euro la spesa in più prevista per ogni famiglia (esattamente 952 euro), a causa degli aumenti in vista sulle utenze, e non solo di luce e gas, anche i servizi delle banche faranno parte del pacchetto di rincari, le polizze, i trasporti.
Aumenta il costo dell’energia, la tendenza dei prezzi va verso l’alto, sembra che solo il tasso d’inflazione sia insensibile.
Nonostante i prezzi delle materie prime siano ancora accettabili, questi giorni quello del greggio ha raggiunto vertici ai quali non eravamo più abituati: oltre 60 euro a barile (oggi il Brent è a 66,72).
L’Adusbef spiega che le fatture sui consumi di energia elettrica aumenteranno per 22 milioni di famiglie già dal prossimo gennaio. Per quel che concerne le bollette della luce, si sa che è già prossima la riforma delle tariffe, le quali penalizzeranno proprio le famiglie che consumano meno, e che appunto riguardano 22 milioni di abitazioni, più o meno il 70%; non si tratta di buona perequazione, anche se non siamo propriamente nell’ambito dei tributi.
Ma nel lungo orizzonte dei rincari ci sono anche le tariffe del gas, i servizi offerti dalle banche, le assicurazioni e i pedaggi stradali. E si va ancora oltre con i trasporti, le utenze dell’acqua e la tassa sui rifiuti (per la quale si aspettava un rimborso, causa errori di calcolo..).
Una vera e propria stazione d’inferno per il cittadino, che non può compensare con salari più congrui, e tanto meno appoggiarsi con sicurezza all’importo percepito con la pensione. Si fa riferimento alle classi sociali meno abbienti, alle fasce intermedie, i cui nuclei familiari rappresentano gran parte della popolazione.
Del resto, il cittadino italiano, e non è una novità, è quello più tartassato in Europa; i rincari annunciati peseranno anche sulle imprese, soprattutto quelle piccole. Tra colpi e contraccolpi, tirando le somme, a pagare di più saranno gli ‘ultimi’, per i quali nessuno garantisce un reale reddito d’inclusione.
La stangata in arrivo, insomma, costerà poco meno di mille euro. Un’autentica sferzata, una raffica non di poco conto. Sarà pertanto il costo della vita in generale ad aumentare in modo pesante, e a ridurre notevolmente la capacità di acquisto delle famiglie; non sarà solo lo Stato, in modo diretto, ad affondare le mani nelle tasche del cittadino, ma tutto il sistema che vi ruota intorno.
NATALE 2017. L’EURO E’ CROLLATO, IN POCHE ORE PERSO IL 3% DEL VALORE CONTRO IL DOLLARO
DI VIRGINIA MURRU
Per la divisa europea, la perdita repentina del 3% nel volgere di poche ore, non è stato propriamente un regalo di Natale.
Il mondo della finanza è quanto di più aleatorio possa esistere, nel volgere di 24 ore può accadere di tutto, e spesso gli outlook, le stime delle Agenzie di rating, lo sguardo lungo degli analisti, non sono sufficienti a mettere a tacere il rischio, e prevenire così eventi che possono diventare drammatici.
Lo sanno bene gli operatori dei mercati finanziari, o chiunque conosca da vicino le subdole leggi della finanza.
Una delle belve in agguato può essere la speculazione, ma concorrono anche altri fattori, che non risparmiano le ‘vittime’ neppure il giorno di Natale, appunto. Proprio così: nelle atmosfere soft della festa più attesa dell’anno, che coincide – tanto per coniugare sacro e profano – con la tanto sospirata tredicesima, si possono verificare eventi che nessuno mette in conto, specie quando riguardano una valuta stabile, tra le più forti sul piano globale.
Si allude all’euro, la divisa europea che continua a tenere testa al dollaro, e che all’esordio dell’autunno ha perfino preoccupato per quei balzi in avanti, l’esuberanza e la tendenza a segnare distanze sempre più marcate proprio nei confronti biglietto verde.
Si è pensato a qualche strategia per frenare la smania di schizzare troppo in alto, avrebbe finito col danneggiare l’export. Già, perché nel mondo della finanza vi sono ‘ruoli’ incompatibili, che possono marciare controsenso, in apparente contraddizione con il reale stato dei fatti.
L’euro, comunque, proprio il giorno di Natale, ovvero un giorno fa, ha passato un brutto momento, dato che ha perso in poche ore il 3% del valore, scendendo a 1,15 in rapporto al dollaro. Il 24 dicembre (sempre nei confronti del dollaro), era a 1,18. Un vero e proprio caos per il sistema dei prezzi e la stabilità necessaria a garantirlo.
Un crollo, come si diceva, non previsto, neppure ‘diagnosticato’ anzitempo, dato che la divisa europea, come si sa, è in buona salute. Secondo analisti ed esperti, la perdita è riconducibile ad una sorta di ‘effetto boomerang’ delle vendite computerizzate, e ai loro automatismi, non pertanto a movimenti speculatori.
Tale effetto sarebbe stato stigmatizzato dalla ridotta portata degli scambi in un giorno come il Natale, dove di norma si tira il freno a mano più o meno ovunque, e per ovvie ragioni. L’entità della perdita subita dall’euro sarebbe però del 2% in realtà, secondo i dati diffusi dall’Agenzia Bloomberg, che sono stati poi pubblicati dal Financial Times il 26 dicembre.
Il calo negli scambi non deriverebbe dai fondamentali, ma da vendite automatiche da computer, che si avvalgono di algoritmi.
A conferma di queste analisi, c’è un ‘segnale’ che rivela le ragioni dei movimenti dietro le quinte, chiamato anche in gergo ‘flash crash’; alla caduta è seguito infatti un rapido recupero. Si è trattato dunque delle conseguenze del basso traffico di scambi nei mercati (che a Natale erano chiusi) e dei programmi informatici di trading, che con i loro automatismi possono avere innescato questi ‘crash’, come fossero cortocircuiti dovuti all’attività del trading quando non è guidato dai normali processi posti in essere dagli investitori, e dagli esperti che lavorano normalmente nelle sale operative.
Svelato dunque l’arcano: i responsabili sarebbero gli algoritmi dei robo-advisor, programmi informatici impostati in modo automatico, per garantire un certo flusso di operazioni finanziarie, anche il giorno di Natale. Qui l’euro è stata una sorta di vittima, perché in modo autonomo e automatico sono evidentemente partiti, tramite i ‘comandi’ dei robo-advisor, gli ordini, i quali, in mancanza del normale traffico dei mercati, hanno creato tali risultati. Comunque sia, non si è trattato di un bel regalo di Natale..
E tuttavia, sempre secondo i resoconti degli analisti, la vulnerabilità esisteva già nel ‘sentiment’ degli operatori, un sentire che non era a favore della divisa europea, c’era quindi una certa esposizione al rischio. Sul piano geopolitico non hanno giovato al buon ‘sentiment’ degli investitori, le elezioni in Catalogna, che hanno seminato nuovamente incertezza. I mercati, come si sa, sono spugne che assorbono ogni urto, e lo traducono in codici non criptati, ma certamente in dati che riflettono la super sensibilità verso i più vaghi sospetti di cambiamento, che possano anche da lontano insidiare lo status quo.
Di certo si sa che si arriva al flash-crash quando una valuta è già nel mirino, i mercati registrano i ‘rumors’, ogni eventuale umore che non sia in sintonia con la stabilità. Simili eventi non sono certo agli esordi, l’importante è che il sistema provveda in modo veloce a ristabilire l’equilibrio preesistente, e a neutralizzare il panico, visto che l’effetto più immediato nei mercati è proprio di carattere emotivo.
Ogni tanto queste evenienze, che sono poi il riflesso degli automatismi software, ci riportano al ruolo indispensabile della mente umana, la quale, per quanto sia stata superata in termini di efficienza dai prodotti del suo stesso ingegno, resta indispensabile nella guida e nell’orientamento dei medesimi.
MANOVRA. RITIRATI DUE EMENDAMENTI, SU LAVORO A TERMINE E INDENNITA’ DI LICENZIAMENTO
DI VIRGINIA MURRU
Non ci saranno cambiamenti nella norma che disciplina i contratti a termine, 36 mesi di lavoro continuativo costituiscono il limite, al di là del quale scattano le condizioni per passare ad un contratto a tempo indeterminato.
L’emendamento presentato pochi giorni fa dal Pd, in Commissione Bilancio, alla Camera, era una proposta che piaceva ai sindacati: si chiedeva di portare il limite a 24 mesi di lavoro continuativo, ma poi la proposta è stata ritirata. La durata massima resta pertanto di 36 mesi, nell’ambito di questo periodo, i datori di lavoro potranno prorogarne i termini per 5 volte, con il consenso del lavoratore.
La Cgil considera grave il ritiro dell’emendamento. Così si è espressa la Segretaria Confederale, Tania Sacchetti:
“La nota congiunta di oggi conferma gli effetti disastrosi del Jobs Act. Quanto si sta decidendo in queste ore sui temi del lavoro è grave e conferma l’incapacità dell’Esecutivo a mantenere gli impegni”.
Non sono benevole le critiche della Cgil, il ritiro dei due emendamenti alla manovra, riguardanti l’aumento dell’indennità di licenziamento e la riduzione della durata massima dei contratti a tempo determinato, hanno reso più aspre le divergenze tra sindacato e Governo in merito alle politiche del Lavoro. Secondo la dirigente della Cgil Tania Sacchetti, “entrambi gli emendamenti, nonostante la valenza limitata, potevano costituire l’inizio di un iter volto a mettere in discussione la struttura tutt’altro che solida del Jobs Act”.
E’ noto che i sindacati hanno lottato strenuamente contro l’abolizione dell’art. 18 (tanto per fare un esempio). Susanna Camusso, nel corso di una manifestazione indetta dal sindacato (ottobre 2014), commentò: ‘L’articolo 18 non è totem ideologico ma tutela concreta.’
La Sacchetti stigmatizza e dichiara: “La conseguenze disastrose del Jobs Act sono state confermate da una nota congiunta diffusa da Istat, Inail, Inps, Anpal e Ministero del Lavoro. Anche nel terzo trimestre del 2017 si registra un calo dei contratti a tempo indeterminato, e un aumento di quelli a tempo determinato. Abbiamo sempre sostenuto che è fondamentale puntare su investimenti pubblici e lavoro di qualità, per stimolare la crescita inclusiva e arginare l’emergenza della disoccupazione giovanile.”
Gli emendamenti, tra raffiche di polemiche, non sono stati tuttavia approvati; su indicazione del governo e del relatore alla manovra, Francesco Boccia, Cesare Damiano ha ritirato l’emendamento che stabiliva in 8 mensilità minime (erano 4), da versare al lavoratore, qualora si verificassero casi di licenziamento senza giusta causa. Ma poi, lo stesso Damiano, evidentemente poco convinto, ha commentato al riguardo:
“Si sta commettendo un errore che non è giusto sottovalutare, sarà alla fine la prossima legislatura a farsi carico del problema, dato che nel nostro paese il datore di lavoro che licenzia se la cava con oneri minimi, e questo non si può accettare.”
Si può ancora precisare che, per quel che concerne i contratti a tempo determinato, il decreto Poletti (del marzo 2014), è stato finora poco efficace, dato che non ha realmente affrontato il problema del precariato ‘estremo’, ossia quello che interessa i lavoratori impegnati in contratti di pochi giorni. Secondo i report di Istat, Inail, Inps e Anpal, sono circa 500 mila coloro che nel mondo del lavoro sono impiegati come interinali, per un terzo il rapporto di lavoro ha la durata di un giorno.
Ora il lavoro a chiamata ha preso il posto dei voucher, così tanto ‘incriminati’, e aboliti nei primi mesi dell’anno in corso, semplicemente questo genere di reclutamento ha ripreso forza a causa della tracciabilità dei voucher.
Ci sono cambiamenti anche sul ‘bonus bebé’, ossia l’assegno destinato alle famiglie con un figlio, che sia naturale, adottato o in affido. La Commissione Bilancio ha approvato un emendamento presentato da Alternativa popolare, il quale apporta delle modifiche alle norme già approvate dal Senato, la misura riprende la sua validità per nuovi nati e bambini adottati tra il 1° gennaio e il 31 di dicembre del 2018.
Al compimento del primo anno di vita verrà erogato l’assegno, gli importi relativi sono stati confermati, ossia 960 euro l’anno, con l’Isee che supera i 7 mila euro l’anno, ma non va oltre i 25 mila.
L’erogazione sarà di 1.920 euro l’anno, con un Isee che non sia superiore i 7 mila. E’ passato anche l’emendamento che porta a 4 mila euro la soglia di reddito per i figli lavoratori sotto i 24 anni, i quali resteranno fiscalmente a carico dei genitori. Tra gli 11 emendamenti presentati dal relatore Francesco Boccia (Pd), c’è anche quello che conferma il canone Rai, fissato ancora a 90 euro.
LA NUOVA VERSIONE DELLA WEB TAX
DI VIRGINIA MURRU
Lo prevede uno degli emendamenti del relatore alla manovra, Francesco Boccia (Pd), presidente della Commissione Bilancio, che ha fatto sapere di aver depositato 12 emendamenti, tra i quali un ‘pacchetto digitale’, con un intervento sul FinTech, la modifica alle norme sulla spedizione postale dei pacchi, e nuove regole sulla protezione dei dati digitali.
La web tax in apparenza sembra meno aggressiva verso i suoi bersagli: l’imposta sulle transazioni digitali è stata dimezzata e va al 3%, ma non è stata estesa all’e-commerce. In realtà, secondo uno degli emendamenti presentati dal relatore, portandola al 3% (rispetto al 6% stabilito dal Senato), non ci sarà più il credito d’imposta, ma con una diversa base imponibile si potranno incassare 190 mln, ossia 78 milioni in più, comunque ossigeno per l’erario, dato che era previsto un gettito di 112 milioni.
La nuova versione, dunque, non si applica all’e-commerce e alla cessione di beni, come era già stato espresso in un primo momento dal relatore, ma alla cessione di servizi, con un’aliquota dimezzata (3%).
La web tax troverà applicazione, in veste di ritenuta alla fonte, direttamente sulle transazioni, e riguarderà coloro che effettuano più di tre mila transazioni di servizi nel corso dell’anno. Di fatto non ci saranno più le comunicazioni all’Agenzia delle Entrate, dunque non si potranno tracciare le imprese digitali, e, come si è visto, non ci sarà più il credito d’imposta sulle imprese residenti, utile per evitare doppie tassazioni.
Per quel che concerne il ruolo di sostituti d’imposta svolti dalle banche, si è ugualmente deciso di sospenderne la funzione. L’imposta entrerà in vigore il primo di gennaio del 2019.
Il ‘pacchetto digitale’ prevede interventi di FinTech (ossia Financial Technology, che attraverso le più avanzate tecnologie dell’informazione, fornisce servizi e prodotti finanziari).
Tra gli emendamenti anche diverse agevolazioni per le imprese che si occupano di materia finanziaria, un regime autorizzativo meno pesante, ossia una zona franca nella quale le startup della finanza potranno trattare in sicurezza i loro prodotti per un periodo di 3 anni.
La clientela deve essere limitata, ma intanto potranno esercitare la loro attività con maggiore elasticità e senza le pressioni derivanti dalle regole un po’ contorte, alle quali devono sottostare di norma gli operatori del credito. Si tratta di un primo riconoscimento a livello fiscale del Fintech, vale a dire i nuovi strumenti finanziari, quelli che transitano sulle piattaforme digitali. In Gran Bretagna la chiamano ‘sandbox’.
La regolamentazione del ‘sandbox’ spetterà tuttavia a Bankitalia, Consob e Ministero dell’Economia, con i propri rappresentanti, che potrebbero formare in seguito un Ente permanente. L’istituzione di un nuovo Ente servirebbe a dare indicazioni e orientamenti di carattere innovativo sul versante finanziario.
Tra gli emendamenti, l’obbligo per le Poste Italiane di realizzare un servizio postale di carattere universale, si occuperà infatti dei pacchetti con un peso fino a 5 kg.
E’ vincolante anche per il garante della privacy stabilire le regole di tutela dei dati personali sensibili, in formato digitale. Questo è il pacchetto di emendamenti alla manovra, sul sistema regolatorio digitale, presentato da Francesco Boccia.
La Commissione ha ripreso i lavori e continuerà a mettere al vaglio gli emendamenti che sono stati presentati negli ultimi giorni, in particolare quelli concernenti l’Agricoltura, lo Sport e la famiglia, giudicati già in modo favorevole dal Governo.
SECONDO I REPORT STATISTICI, L’ITALIA NEL 2016 REGISTRA IL PIU’ ELEVATO NUMERO DI POVERI
UNICREDIT, ‘PIANO TRANSFORM 2019’, NPL RIDOTTI DI ALTRI 4 MILIARDI
DI VIRGINIA MURRU
Lo ‘strategic plan 2016/19’, deciso lo scorso anno da Unicredit, prosegue con il ‘perseguimento degli obiettivi chiave ’, lo ha dichiarato il Ceo Jean Pierre Mustier, confermando anche l’aumento del dividendo.
Il piano di cessione dei crediti deteriorati è una strategia in linea con le direttive europee, e il raggiungimento di questi punti fondamentali è stato inserito nella nota di aggiornamento del Piano industriale, presentato proprio oggi a Londra. Il Ceo di Unicredit afferma con orgoglio che il management ha deciso d’incrementare il dividendo, per l’esercizio 2019, del 30%, sottolineando che il target Cet1 ratio6 andrà a superare il 12,5%. Performance che indicano uno stato patrimoniale di buona salute per l’istituto di credito, e soprattutto buone prospettive nel breve e medio periodo.
Proprio lo scorso dicembre era stato presentato un documento, lo ‘Strategic Plan’, che indica le linee guida nella gestione dell’Istituto:
“Una banca panaeuropea, semplice, con una rete unica in Europa Occidentale, Centrale e Orientale, a disposizione della sua ampia base di clienti.”
In sintesi si delinea una rete di azioni che stanno già tracciando il futuro della banca, la quale trae insegnamento dalle negative eredità del passato, e punta ad eliminare in primis l’ingombrante fardello degli Npl, per acquisire più competitività, anche attraverso una posizione patrimoniale realmente rafforzata, affinché i risultati di questi interventi si riflettano a lungo termine.
Tra gli obiettivi c’è l’attività di de-risking, fondamentale, con un potenziamento dei tassi di copertura, per creare una base più solida rispetto al passato.
Incentivazione della disciplina di gestione del rischio, attraverso erogazioni future più garantite in termini di qualità.
Un programma di misure di efficienza e disciplina dei costi, in grado di ridurre notevolmente il rapporto costi/ricavi, col raggiungimento di un nuovo modello di business. Da sottolineare i ‘risparmi annui ricorrenti netti’ per 1,7 miliardi di euro, a partire dal 2019.
Altro punto importante del Piano: una più efficiente redditività, insieme ad una nuova politica di distribuzione dei dividendi cash, alla quale si sta già dando attuazione.
C’è da dire che questa revisione strategica ha interessato le principali aree dell’istituto, con il solo fine di rinvigorire e ottimizzare la dotazione di capitale del gruppo.
Si tratta di obiettivi pragmatici, target raggiungibili. In primis il miglioramento della qualità dell’attivo, ma non meno importante la trasformazione del modello operativo, che deve focalizzarsi sui clienti, anche attraverso la semplificazione degli standard di prodotti e servizi, affinché siano sensibilmente ridotti i costi delle attività riguardanti i clienti stessi.
Basi di partenza che fanno lezione delle difficoltà del passato, perché solo così è possibile costruire su fondamenta finanziariamente più solide e sicure.
A questo riguardo c’è da sottolineare la megacartolarizzazione da 17,7 miliardi; l’istituto ha firmato accordi per limitare la partecipazione nel portafoglio di Npl, ossia la riduzione della sua posizione nel portafoglio FINO al di sotto del 20%. Tale decisione era stata già annunciata nel comunicato stampa del 17 luglio scorso. Obiettivo comunque reso noto dal Gruppo una prima volta nel corso del ‘Capital Markets Day 2016’.
Il portafoglio Fino in origine era pari a 17,7 mld di euro di crediti in sofferenza lordi (al 30 giugno 2016), e ridotti a circa 16,2 mld di euro esattamente un anno dopo, ossia al 30 giugno scorso.
Unicredit sostiene che il piano di riduzione di Npl è un percorso strategico fondamentale, ‘si tratta di passi cruciali’. Sono state anche chiuse 557 filiali in Europa nel 2017, tagli non semplici, ma processi necessari per la riduzione dei costi. Il piano di riduzione dell’organico è iniziato nel 2015; attraverso ulteriori chiusure di filiali, ha portato a 72% il target previsto. Un piano ambizioso che il management sta portando scrupolosamente a compimento, i risultati sono racchiusi come sempre nei numeri.
INDAGINE SU DEUTSCHE BANK, DALLA PROCURA DI TRANI A QUELLA DI MILANO
DI VIRGINIA MURRU
I tedeschi di Deutsche Bank, nel 2011, hanno giocato sullo stato dell’economia italiana, che lottava strenuamente per riuscire ad avere ragione di una crisi aggressiva, che stava intaccando il sistema profondamente: il paese sembrava davvero prossimo al baratro. Certamente era l’anticamera della recessione. La crisi economica globale, aveva del resto risparmiato solo la Cina e l’India, ma non gli States, proprio qui si era scatenata la tempesta, e l’Europa, per ovvie ragioni, non ne fu immune.
La Deutsche Bank, l’istituto di credito più importante della Germania, ma anche uno dei maggiori a livello internazionale, aveva deciso nel 2011 di trarre vantaggio della situazione, dato che deteneva 8 miliardi di euro in titoli del nostro debito (Btp). Giocando le sue carte poteva con un soffio farci scivolare davvero in basso, e infatti lo fece, ma barando, nascondendo, appunto, i suoi assi nella manica.
Ai suoi manager bastava speculare sui titoli di Stato italiani (il debito sovrano era veramente critico), del resto avevano davanti i più potenti mezzi di ‘forecast’ finanziari per intuire che il Paese controllava a fatica i remi di una congiuntura fortemente segnata dalla crisi globale. Crisi partita dagli States nel 2007, legata ai mutui subprime, al quale poi è seguito il crack di Lehman Brothers. Una delle principali banche d’affari americane, caduta in un crocevia di eventi sfavorevoli che la misero in ginocchio; non era invulnerabile alla stregua di una statua di bronzo, era un gigante con i piedi d’argilla. All’inizio del 2016 ha perso il 48% di valore delle sue azioni.
In un mondo globalizzato nessuno è più al sicuro in ambito finanziario, e nemmeno gli accessi di Deutsche Bank sono stati ‘a prova di scasso’, dato che due anni fa ha rischiato il default, poi salvata dal provvidenziale soccorso di Stato, con le mani lunghe di Angela Merkel e il ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble. Non è un mistero né per i tedeschi, naturalmente, né lo è in Europa, anche se il salvataggio è avvenuto in deroga, e in barba ai regolamenti dell’Ue (alle regole del Bank Recovery and Resolution Directive che impedisce un salvataggio di Stato, ossia il bail-out).
Regolamenti che proprio i tedeschi, vigilando come molossi in ambito Eurozona, hanno strenuamente difeso. Hanno puntato i fari, per esempio, su un Istituto di credito italiano, su Monte dei Paschi, che aveva necessità di un intervento pubblico per essere messo in salvo, ma i tedeschi a suo tempo espressero tutto il loro dissenso in ambito Ue, dichiarandosi contrari. Eppure il loro governo non era agli esordi quando ha deciso di salvare Deutsche Bank, ne avevano già fatte di operazioni in deroga alle norme europee sui loro istituti. Del “rischio default” del colosso finanziario, ne ha parlato diffusamente anche il settimanale finanziario tedesco, Handelsblatt.
Una premessa per concludere che questi giganti della finanza, possono diventare dei burattinai, e usare le liane che li legano agli Stati in crisi, tramite appunto i titoli che possiedono del debito sovrano, per realizzare operazioni a loro favore, senza alcuno scrupolo morale, in totale cinismo, anche se lo Stato in questione finisce poi in una scarpata.
E’ quello che stava accadendo all’Italia nel 2011, Deutsche Bank era come un caimano che aveva nelle potenti fauci una parte consistente di titoli di Stato, e di quegli 8 mild, nel primo semestre dell’anno, decise di venderne 7, ma senza fare tanto rumore. Si comportò tuttavia come un ladro che ruba con la luce accesa, anzi, quasi alla luce del sole. Speculò sulle disgrazie di un Paese in affanno, le cui finanze facevano acqua da tutte le parti. La vendita dei titoli ne portò al tracollo il valore, lo spread fece un balzo terribile, tale da causare la caduta del governo Berlusconi.
Prima un’implosione di cause, e poi con la spinta causata dai manager di DB, l’esplosione, al quale seguirono, come avvoltoi, i declassamenti delle Agenzie di Rating: un tornado. Uno dei momenti congiunturali più difficili per il Paese.
Ma fino a che punto sono responsabili i tedeschi della Deutsche? Certamente questo colosso conosce bene tutta la potenza esplosiva di certe armi finanziarie, ne fu il detonatore, e premette il fatale ‘pulsante’, per pura speculazione, per i propri interessi, dato che fin da allora, il maggiore istituto bancario tedesco, accusava falle nei suoi sistemi.
Ora, sulla maxi speculazione della Deutsche indaga la Procura di Milano (da ottobre), per ragioni di competenza territoriale (è stata la difesa della banca tedesca a chiederlo), dopo essere passata per quella di Trani. Non si è trattato di avocazione, lo ha deciso la Corte di Cassazione. L’accusa è di manipolazione del mercato, un’operazione finanziaria di circa 10 mld di euro. I magistrati pugliesi avevano chiesto il rinvio a giudizio di 5 manager, i top alla guida del gruppo Deutsche nel 2011 (ora c’è un nuovo management): l’ex presidente Josef Ackermann, e due ex Ad, Jurgen Fitschen e Anshuman Jail, e dello stesso Istituto, in qualità di persona giuridica.
Dall’indagine e dal controllo di documenti sequestrati da agenti della finanza nella sede milanese, è emerso che, dopo la vendita dei titoli di Stato italiani (7 mliardi in Btp), nel primo semestre 2011, Deutsche aveva ricominciato ad acquistare titoli del nostro debito sovrano (nel mese di luglio), i quali, proprio in seguito ai movimenti di mercato causati dalla speculazione, erano stati svalutati parecchio, e pertanto era più che mai conveniente acquistare.
E infatti acquistò di nuovo titoli per un importo di circa 3 miliardi, ma non lo fece sapere in giro, per non destare sospetti. Solo che non sono occorsi droni particolari per venire a capo degli intenti truffaldini del management dell’istituto tedesco. E non era il solo ‘malloppo’: altri quattro miliardi e mezzo di titoli erano in mano ad una società che la Deutsche aveva acquisito nel 2010.
Dagli atti risulta che solo alla fine di luglio del 2011, la banca tedesca annunciò la vendita dei titoli italiani avvenuta entro giugno, ma tenne ben stretto in pugno il segreto sui nuovi acquisti. Strategie, ovviamente, per fare passare in sordina l’operazione, ma i manager erano ben consapevoli del colpo inferto allo Stato italiano, causando la volata dello spread (ossia i rendimenti tra Btp e bund tedeschi), e facendo cadere il governo, il quale fu consegnato ad un ‘Caronte’ esperto in ambito finanziario, Mario Monti.
Certo, in seguito alla travolgente crisi della Grecia, e la forte esposizione al rischio delle banche tedesche, la mega operazione dei titoli di Stato italiani, rappresentava un affare non di poco conto per Deutsche. E intanto l’Italia stava per seguire le sorti della Grecia.. Il Financial Times, tanto per amplificare sul piano internazionale la notizia sul preoccupante stato dell’economia italiana, fece sapere che gli investitori fuggivano dal Paese, terza economia della zona euro. Secondo i magistrati italiani, la decisione dei manager di Deutsche, di ridurre l’esposizione sui titoli di Stato italiani, per importi così rilevanti, è a dir poco eclatante per quel che concerne i reali intenti.
C’era la volontà di lucrare su un momento veramente drammatico per l’Italia; le conseguenze, infatti si ripercossero sul differenziale di rendimento tra Btp decennali e omologhi Bund, uno schizzo che a fine anno superò i 500 punti base.
In Parlamento si chiese l’intervento di una Commissione d’inchiesta, e c’era ben donde. Nel bilancio della Deutsche Bank, tra i documenti, c’è un prospetto che indica l’esposizione al rischio dei paesi più vulnerabili in quel periodo (Grecia in primis, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna), nella colonna riguardante l’Italia si evidenzia, per il primo semestre 2011, un’esposizione di 996 milioni.
E’ pur vero, che in un periodo di buio pesto per l’economia europea, non era inconsueto per le banche, effettuare operazioni di cessione di titoli di Stato a rischio, mentre si attivavano anche ‘derivati di copertura’ (Credit Default Swap, per esempio).
Il management della Deutsche ha pertanto manipolato i mercati, e lo ha fatto con metodi a dir poco illeciti, poiché nei primi mesi del 2011 li rassicurava sulla sostenibilità del debito sovrano italiano, mentre in realtà, stava già pianificando una drastica riduzione dell’esposizione al rischio, attraverso la vendita dei titoli di debito contenuti nel suo portafoglio.
E portò, come si è visto, a compimenti gli obiettivi con una vendita massiccia di ben 7 miliardi di euro, proprio entro giugno di quell’anno.
Ovviamente non era pensabile che i mercati finanziari restassero indifferenti, l’operazione influenzò pesantemente il valore di mercato dei titoli, e non solo. Fu una slavina che tutto travolse all’interno del suo raggio d’azione: lo spread, il rating delle Agenzie internazionali, che peraltro sono state perseguite a loro volta dalla Procura di Trani per i danni che hanno causato all’economia italiana. Il declassamento del rating italiano, un dannosissimo downgrade, secondo le accuse della Procura (da A a BBB+), fu deciso “illegittimamente e dolosamente” da S&P nel 2011 “al solo fine di danneggiare l’Italia”.
Ma non finì così, tante furono le ripercussioni, tra queste anche il versamento di 2,5 miliardi di euro da parte del Ministero del Tesoro alla banca d’affari americana Morgan Stanley. Il pagamento era dovuto perché stabilito da una clausola in un contratto di finanziamento tra il Ministero dell’Economia e la banca Usa. Tale condizione portò all’estinzione di un derivato e il conseguente pagamento dell’importo da parte del Ministero del Tesoro.
Secondo un’indagine della COnsob, poi trasmessa alla Procura di Trani, che già stava indagando su Standard & Poor’s, Morgan Stanley è azionista dell’Agenzia di rating, il che crea le premesse per i fortissimi dubbi sulle mosse seguite alla tempesta scatenata da Deutsche Bank.
Ci si chiede come mai il Mef abbia ceduto alle pressioni di Morgan Stanley e abbia autorizzato il pagamento senza nulla obiettare in merito. Ci fu Brunetta, all’epoca, che espresse sarcasmo per il comportamento ‘impassibile’ del Ministro dell’Economia.
Ma alla Procura di Trani i dubbi sono aumentati quando si è scoperto che, nel periodo in cui il Tesoro ha versato la somma di due miliardi e mezzo, ai vertici della banca d’affari americana c’era Domenico Siniscalco, che aveva ricoperto la carica di Direttore Generale al Tesoro (in Italia, ovvio), e successivamente era anche diventato ministro dell’Economia. Interrogativi che passeranno alla Procura di Milano, che ora ha in mano gli atti.
TENSIONI TRA ISRAELE E PALESTINA: QUANDO LE PAROLE DIVENTANO ORDIGNI
DI VIRGINIA MURRU
Era nell’aria, ci si attendeva una reazione ben precisa, ed eccoli i risultati della politica internazionale scellerata, che scansa il buon senso per ragioni che vanno al di là della ponderazione dei propri atti, in un’epoca in cui gli equilibri geopolitici del pianeta, la stessa pace, sono nelle mani di personaggi che hanno manifestato segnali a dir poco pericolosi.
Le tensioni roventi tra Israele e Palestina hanno ripreso la loro escalation di violenze, da fonti palestinesi si apprende che ci sono stati 114 feriti, tanti dei quali con contusioni derivanti dai proiettili rivestiti di gomma lanciati dall’esercito israeliano. Altri palestinesi sono stati soccorsi in seguito ad intossicazione da gas lacrimogeni.
E la mattanza nella linea di Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme est, continua. Il fuoco delle tensioni ardeva certo sotto la cenere, ma era il caso che Trump
istigasse con l’ennesima sfida, se le parole non di rado sono le armi più destabilizzanti e pericolose? Il presidente degli Usa e il suo entourage non potevano ignorare le conseguenze di certe dichiarazioni, e nella striscia di Gaza le sirene hanno di nuovo suonato, mentre la gente si è riversata nei rifugi.
La decisione di trasferire la sede diplomatica americana da Tel Aviv a Gerusalemme, per imporre uno status ben preciso alla città, che non sarà più lo spartiacque fra tre religioni, non poteva suscitare entusiasmo né in Palestina né altrove nel mondo.
Tutto questo mentre il genero di Donald Trump, Jared Kusner era impegnato su un fronte di pace, e stava lavorando proprio per creare le migliori condizioni per riportare i rapporti tra palestinesi e israeliani su un piano di più sensato equilibrio. Non si sa fino a che punto i palestinesi si fidassero, ma si attendevano maggiori sviluppi. Non ci dovevano essere ingerenze, sia pure indirette, in ogni caso, era una partita da risolvere inter partes, secondo gli accordi di Oslo. Una partita infinita, che dura da oltre 60 anni.
Ma Trump è ‘uomo di parola’ e doveva mantenere la promessa fatta in campagna elettorale. E tuttavia, sul trasferimento della sede diplomatica, c’è anche un rimando politico che proviene dal Congresso, il cosiddetto ‘Jerusalem Embassy Act’ che era stato appunto votato nel 1995, ma al quale nessuno dei presidenti che si sono succeduti alla Casa Bianca aveva dato seguito.
Ognuno, vista la delicatezza e i rischi, ha rinunciato regolarmente, di sei mesi in sei mesi con la propria firma. Trump non vuole tradire gli elettori di credo ebraico, a costo di scatenare dissenso ovunque – perfino Theresa May ha espresso il suo disappunto – ma i riflessi peggiori sono stati i disordini, l’amplificazione delle tensioni a Gerusalemme.
Se Trump si ostinerà a portare avanti le sue strategie scellerate, le conseguenze potrebbero essere ben maggiori. Accendere nuovamente le ire dell’Intifada e le reazioni del suo nemico sionista, sempre pronto ad usare la forza per sopprimere le ragioni di un popolo cacciato dalla propria terra, senza alcuna misericordia, serve solo a riaprire i battenti di un incubo nella coscienza dell’umanità.
Gli Usa si sono sempre comportati da gendarmi nel mondo, decidendo il bello e il cattivo tempo, comminando sanzioni agli Stati non in regola con i principi democratici, come Cuba, costretta all’embargo per 50 anni, non sarebbe ora di sanzionare anche loro, per il lungo repertorio di violenze perpetrate a danno di popoli inermi?