DEUTSCHE BANK, IL MALE ACUTO DELLA FINANZA TEDESCA

 

DI VIRGINIA MURRU

 

Ovvero il gigante con i piedi d’argilla, come spesso è stata definita negli ultimi dieci anni. E di ragioni ce ne sono state, l’istituto bancario tedesco si porta dietro un lungo repertorio di cadute e ‘mezze rialzate’, che non hanno mai determinato la sospirata svolta.

Altri incidenti di percorso e valanghe sono seguite, lo sa bene il Governo tedesco, che senza fare tanto rumore è intervenuto per fasciare le ferite, adottando protocolli di cura non proprio ortodossi.

Non per Bruxelles; proprio il presidente uscente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, lo ha sottolineato senza peli sulla lingua durante un’intervista al quotidiano tedesco Handelsblatt, circa due mesi fa. Juncker liquidò con pochi spiccioli in quella circostanza l’arroganza dei tedeschi, i quali non hanno fatto altro che puntare il dito sui conti  pubblici italiani. Così, in poche caustiche parole,  nel corso dell’intervista disse: “I tedeschi amano lamentarsi degli italiani, ma anche loro hanno violato il patto di stabilità 18 volte – le ho contate – e continuano a farlo..”

Il colosso bancario tedesco intanto annuncia una perdita di 3,15 miliardi di euro nel secondo trimestre 2019, nello stesso periodo, lo scorso anno, si registrava un utile pari a oltre 400 milioni di euro. Proprio di recente il gigante teutonico ha annunciato tagli severissimi per l’occupazione, si tratta di 18 mila esuberi che non sarà facile ‘metabolizzare’.

Nel piano di ristrutturazione anche una bad bank, nella quale confluiranno titoli ad alto rischio per un importo di circa 74 miliardi di euro. E molto verosimilmente l’austerity non finirà qui. Tanti sono stati i piani di risanamento seguiti fino ad ora quale trattamento terapeutico di un male ormai cronico.  In realtà Deutsche Bank da una decina d’anni ha davvero dimostrato di avere i  piedi d’argilla, in tante circostanze anzi di non camminare con le proprie gambe, ma con il sostegno di finanziamenti pubblici.

Nella primavera scorsa si parlava di fusione con un altro grande istituto tedesco, il secondo per importanza: Commerzbank, ma poi questa unione a rischio tra un cieco ed uno zoppo non s’aveva da fare, e non si è fatta.

Si è pensato e ripensato ad una nuova impostazione di business, cambiando orientamento e obiettivi, ma in fin dei conti il protocollo di cura su questo colosso infermo non ha mai prodotto i risultati sperati. Secondo gli esperti in parte è dipeso dal fatto che per anni ha strizzato gli occhi verso l’America, attratta dal trading di azioni, mercato dei derivati. Ha insomma tentato di   seguire le orme di altri istituti blasonati a Wall Street. Ed è stato un fallimento, non poteva competere con gli istituti americani, da qui il proposito di tornare all’attività bancaria che comporta meno rischi.

Troppi errori di gestione e governance, che hanno fatto arricciare il naso agli azionisti, ora  di tutte le lotte in trincea per primeggiare a Wall Street resta una reputazione piuttosto compromessa, ferite  tutt’altro che cicatrizzate. Per un ancoraggio più sicuro si pensa intanto di mettere limiti rigorosi alla speculazione finanziaria globale.

Il piano lanciato poche settimane fa dal Cda di Deutsche Bank, comporterà a breve termine oneri per 3 miliardi di euro (nel secondo semestre dell’anno in corso), e una perdita che si aggira sui 3 miliardi.

Considerata la situazione finanziaria tutt’altro che rosea, la perdita già accertata di 3,15 mld di euro, non sarà un trattamento indolore.

Resta peraltro difficile accettare che, nel contesto di un’economia così solida come quella tedesca, s’insinuino ombre tanto insidiose nel comparto bancario, che avrebbe dovuto essere lo specchio di un andamento economico ben saldo ed efficiente. Eppure sia Deutsche Bank che Commerzbank hanno perso circa un terzo del loro valore in borsa. Non semplice da capire.

Sul tema rovente dei cosiddetti ‘aiuti di Stato’, sono stati in tanti ad alzare la voce.

Ma il settore bancario continua a trasgredire,  persuaso che la Germania possa permetterselo, trattandosi della locomotiva che traina l’economia dell’Unione. Ad affermarlo non sono i ‘detrattori’ all’interno dell’Unione europea, con frecciatine velenose, ma alcuni economisti tedeschi. Di recente se ne dava conto proprio in un articolo pubblicato sul Corriere Economia,

L’economista che si esprime in modo chiaro sulla questione ‘aiuti di Stato’ al settore bancario tedesco, è Martin Hellwig, che ha peraltro portato avanti studi “Sulla crisi finanziaria della Germania dal 2007 al 2017”. Un decennio nel quale la crisi di Deutsche Bank è esplosa in tutta la sua drammaticità.

Secondo la ricerca dell’economista tedesco, e le stime sugli interventi pubblici destinati a finanziare salvataggi di istituti di credito, le cifre sarebbero di tutto rispetto: 250 miliardi di euro il costo affrontato dallo Stato per gestire le crisi bancarie. Sui contribuenti tedeschi, di conseguenza, ha gravato per un importo di oltre 70 miliardi di euro.

Deutsche Bank ed altri istituti del comparto, sono stati aiutati indirettamente anche dal contributo dei Governi nei quali queste banche erano pesantemente esposte al rischio (Grecia, Irlanda, Spagna).

Per questo Hellwig scrive: “Senza il sostegno pubblico indiretto, le perdite delle banche sarebbero state maggiori, così come il contributo richiesto ai contribuenti tedeschi, gioco forza coinvolti nella crisi.”

Sottolineando che oltre alla crisi di Deutsche Bank, ci sono stati altri dissesti anche nell’ambito di istituti bancari pubblici, come quelli regionali WestLB, Hsh Nordbank, SachsenLB e altre. La spiegazione sta nei legami tra il mondo finanziario e quello politico: “Al governo servivano nel Bundesrat (Uno dei 5 Organi Costituzionali) i voti dei politici regionali, legati alle banche del loro territorio..”

Ed è proprio il legame quasi simbiotico tra la classe politica e gli istituti di credito locali e regionali, a spingere il Governo centrale, tramite il ministro delle Finanze, a chiedere di mostrare indulgenza verso le banche in dissesto, sull’orlo del default, il che non ha contribuito ad incentivare il senso di responsabilità, dato che poi proprio questi istituti hanno continuato ad operare sulla red line del rischio.