BREXIT. JOHNSON: VINTA UNA DURA BATTAGLIA A BRUXELLES, WESTMINSTER E STORMONT L’INCOGNITA

DI VIRGINIA MURRU

Certamente, dopo le novità emerse in data odierna, ci sono i presupposti per sperare che il tormentone Brexit sia giunto al suo capolinea: in Europa, dopo tre anni di ‘up and down’ circa un accordo con Bruxelles, volto ad un un ritiro ordinato del Regno Unito dall’Ue, si dovrebbe quasi respirare con sollievo.

Ma non è esattamente così: l’esito sulla Brexit è ancora di pertinenza del Parlamento del Regno Unito, a Bruxelles il deal può contare sull’endorsement della Commissione Europea, che sta già perorando la causa della nuova intesa raggiunta tra il capo negoziatore dell’Ue, Michel Barnier e  il Governo di Sua Maestà. E oggi anche i leader dei 27 Paesi che hanno approvato le proposte di Londra sul nuovo compromesso riguardante il backstop.

Secondo le ultime dichiarazioni delle opposizioni, l’atmosfera a Westminster, nonostante Johnson abbia sacrificato almeno la metà del suo orgoglio  in nome dell’opportunismo della posta in gioco, non promette un passaggio sotto un viale di rose senza spine. Si presenta piuttosto come una strada tempestata di chiodi, a tratti pure un po’ velenosi. Ché di veleno con le sue sortite l’inquilino di Downing Street ne ha seminato nel corso delle aspre discussioni in Parlamento. Corbyn era l’oggetto preferito delle sue invettive, e non ha disdegnato di usare i peggiori epiteti per screditarlo davanti alla maggioranza e all’opposizione.

Ha usato tutte le sue armi retoriche, abbastanza abile del resto in questo versante,  e non ha esitato a portare sull’’arena’ perfino la regina, che si sa, ha un grande ascendente sul popolo. Insomma ha tentato di tutto, ma ha incassato anche sonore strigliate a Westminster:  attraverso il voto, al suo linguaggio risoluto e rude, che fluiva senza alcun freno inibitorio, il Parlamento britannico ha messo un argine, simile al filo spinato, oltre il quale il premier non poteva azzardare.

Si è vissuto quindi in un clima ‘strisciante’ d’instabilità, tensione,  indeterminismo, e su certi aspetti anche timore per le contrapposizioni che proprio in Gran Bretagna ne sono scaturite. I rapporti politici tra i Governi May/Johnson e l’opposizione a Westminster sono stati pertanto caratterizzati da scontri durissimi per ovvie ragioni contese, finite perfino in controversie per supposti ‘attentati’ alla Costituzione davanti alla Corte Suprema. In fin dei conti il referendum del 2016 non è riuscito a dirimere la disputa sulla volontà popolare, divisa in due poli opposti, ossia tra ‘Leave’ o brexiters, e ‘Remain’.

Johnson, per rabbonire i ‘malvagi’ di Bruxelles (li ha definiti anche nazisti..), attraverso la sua ‘corte’ di consiglieri Tory, ha dovuto escogitare compromessi tali da sciogliere i ghiacciai dei Palazzi dell’Unione. Aveva già messo in atto qualche schermaglia con un’apparente e allettante proposta, ma in sostanza le concessioni di circa due settimane fa erano davvero una ‘farsa’.

Questi giorni, con l’approssimarsi della scadenza fatidica del 31 ottobre, data in cui la Gran Bretagna può lasciare l’Eu, con o senza un deal, il premier britannico si è reso conto che a Bruxelles non sono né sprovveduti né mancano d’intelligenza, e perciò ha ‘confezionato’ una proposta con la quale finalmente si può ragionare.

Non è che sia proprio il massimo al quale l’Ue ambiva, ma intanto, l’ostacolo sull’oggetto del contendere – che era la questione del backstop nell’Irlanda del Nord – è stato in qualche modo aggirato. Il backstop, conosciuto anche come accordo del ‘Venerdì Santo’, e che rimanda alla frontiera con l’Irlanda, per decenni funestata di scontri e vittime, è stato anzi eliminato a favore di un accordo comunque chiaro in merito alla circolazione delle merci da e per l’Ue, in Ulster.

Le incognite non mancano, ed è per questo che il deal difficilmente sarà approvato dal DUP (Democratic Unionist Party); ma rischia soprattutto l’ennesima bocciatura a Westminster. Jeremy Corbyn ha definito l’accordo ottenuto con Bruxelles peggiore di quello presentato in Parlamento da Theresa May, come del resto ha affermato anche il Segretario ‘ombra’ della Brexit Keir Starmer. E poi sappiamo com’è finita.

Il Labour chiede ormai con grande convinzione un secondo referendum. Purtroppo sarebbe l’ultima stazione della speranza per evitare il ‘break’ con l’Unione, ma sembra un’ipotesi piuttosto remota.

L’accordo prevede che Belfast (con una certa autonomia da Londra, un parlamento, lo Stormont, e un capo di Governo), resti ‘allineata’ all’Ue per ciò che concerne la libera circolazione di merci, ma giurisdizionalmente, in quanto territorio dell’UK, resterà parte integrante dell’unione doganale che fa capo a Londra. Lo stesso capo negoziatore Ue, Michel Barnier non nega qualche riserva, soprattutto perché il deal deve superare i carboni ardenti di due ‘parlamenti’, come si è visto: Westminster e Stormont a Belfast.

Secondo i quotidiani britannici l’ottimismo è veramente simile ad una candela accesa, esposta a tutte le correnti, non è un faro con una luce alta e invulnerabile.

Intanto il Presidente della Commissione europea uscente, Jean-Claude Juncker, sta esercitando la sua influenza e pressione affinché si rispetti il nuovo accordo, e in questo versante difficilmente, a questo punto, sorgeranno ostacoli. Juncker ha tentato di mediare anche con i rappresentanti del DUP, punto cruciale per il passaggio del deal, al fine di scongiurare il rigetto, che al momento sembra più che probabile.

Non è stato semplice per i negoziatori  trovare un punto finale di convergenza, ma l’importante è che si sia trovata una linea di simmetria comune, sia pure dopo estenuanti trattative con i leader  dell’Unione nel corso del summit odierno, ché nessuna delle parti era disposta a concedere più del ‘necessario’.

Il documento sulla trattativa ovviamente c’è, così come gli accordi di carattere politico sulle relazioni con il Regno Unito dopo la fase di transizione.

Johnson attende il prossimo sabato come una ‘liberazione’, o supposta tale: di certo sta investendo tutte le sue speranze su Westminster e nelle capacità di persuasione che le sue abilità oratorie gli consentono.

Ma non sarà semplice come attraversare Tower Bridge. Il dirupo da superare, ché di questo si tratta considerate le difficoltà che presenta, è il nodo rappresentato dalle frontiere irlandesi, il deal ha cercato di bypassarlo tramite uno ‘status particolare’ per l’Ulster.

E’ previsto un periodo di transizione di 14 mesi, che può essere ulteriormente prorogato per altri 2 anni, mediante accordo tra le parti. Per 4 anni l’irlanda del Nord resterà coordinata in materia di circolazione di beni alle norme comunitarie, ma allo stesso tempo (status un po’ contorto) farà parte del ‘customs system’ o sistema doganale dell’UK. Scaduti i 4 anni di appartenenza promiscua in materia doganale, l’Irlanda del Nord potrà decidere se promulgare questo regime alle frontiere o modificarlo.

A queste condizioni, ossia rispettando l’autorità sul proprio territorio dell’Ulster (oggi nel sistema Ue), il compromesso può essere accettato secondo i negoziatori di Bruxelles. L’Irlanda del Nord resta pertanto nel Mercato Unico per un periodo di transizione, e su materie concernenti beni, aiuti di Stato, Iva, controlli sanitari e veterinari, prodotti agricoli.

Il premier Johnson, soddisfatto dei risultati raggiunti, ossia di avere convinto la Commissione Europea, il Consiglio dei 27, dichiara:

“è stato raggiunto un grande nuovo deal, il Regno Unito riprende il controllo”.

Ma per dirla con un luogo comune, ha vinto solo due battaglie, per vincere la ‘guerra’, dovrà avere armi potenti e scudi a prova di frecce, che a Westminster mireranno bene al bersaglio.