IL VIRUS. INVISIBILE, MA IN GRADO DI METTERE IN GINOCCHIO L’UMANITA’

DI VIRGINIA MURRU

 

(Il privilegio di viaggiare in incognito dentro un organismo umano..)

 

E’ noto che gli ‘umani’ mi chiamano ‘virus’, ma poi loro aggiungono ‘microrganismo’, per vendetta, credo, dato che non sono mai stato amato e apprezzato come meriterei; e sono piccolo, lo so, ma c’era bisogno di misurarmi in nanometri? Che umiliazione.. Si mette perfino in dubbio il fatto che io sia un essere vivente: no, non lo accetto, con tutto il caos di cui sono capace? Non può essere.

Ma tant’è: la natura con me non è stata generosa. Comunque, viaggiare in incognito, tra autostrade ematiche e dorsali biologiche, che presentano panorami unici e attrattive paesaggistiche suggestive, credetemi, è un privilegio, e sono perfino felice del mio stato, vivere una vita da virus penso sia il massimo che mi potesse capitare. E’ così e basta, essere invisibile agli occhi degli esseri umani in definitiva è un vantaggio, visto il destino da perseguitato che mi ritrovo, meglio sorvolare sull’argomento..

E sono bello e forte, checché se ne dica, i miei ‘tratti’ somatici sono diversi, dipende.. a volte sembro pieno di aculei, altre assumo le sembianze di una navicella spaziale, forse per questo mi trattano da alieno, non me ne curo poi tanto. Piuttosto, quando cerco la dimora giusta evito di entrare in una ‘catapecchia’, faccio in modo d’essere ospitato in un organismo che può offrirmi un trattamento da ospite d’eccezione, degno di un hotel a 4 stelle.

Sono forte, dicevo, a dispetto delle mie dimensioni, e a volte, senza volere, combino certi casini all’interno di un organismo.. ma non lo faccio di proposito, questo è certo, devo pure difendermi dalle cannonate che mi sparano addosso. Ho imparato, col tempo, ad affinare le armi e ad adottare strategie tutte mie, sono costretto in qualche modo alla metamorfosi, a mascherarmi, altrimenti, come faccio a sopravvivere?

La mia ‘intelligenza’ è qualcosa che non mi compete, ma so che la mia reazione dipende dal fatto che gli umani seminano le mie ‘strade’ di ‘mine’, che mi esploderebbero contro se non cambiassi i connotati. Sono invisibile, certo, piccolissimo, un essere acellulare (lo dico a denti stretti..), ma così forte da riuscire, qualche volta, a combinare davvero disastri. E’ la sfida tra Davide e Golia, più o meno l’allegoria è questa, anche se sul piano etico, non risulto molto vincente; va bene, sorvoliamo, non so chi sia la coscienza e non lo voglio sapere.

Devo dire che prima d’intraprendere un viaggio, non sempre passo facilmente inosservato; in fase di partenza i controlli ‘immunitari’ sono in genere piuttosto severi, a volte esibire un ‘documento d’identità’ equivale ad essere rifiutati e cacciati senza pietà né un minimo di cortesia, come fossi il peggiore dei criminali.. Questo proprio non lo capirò mai, se madre natura ha previsto la mia esistenza nell’eden della creazione, una ragione ci sarà. E’ meglio non porsi tante domande, e io del resto vado imperterrito per le mie strade.

Cerco di non farmi notare, sorveglio le porte vulnerabili dell’organismo che mi accingo a visitare, e la faccio in barba alle sentinelle del sistema immunitario, solitamente armate fino ai denti, e pronte a darmi il ben servito, qualora mi riconoscessero. Io per loro sono un ‘agente patogeno’; questi esseri umani sono proprio i più eccentrici dell’universo, complicano anche le realtà più semplici. Il mio nome deriva dal latino, se lo sono inventato questi sapientoni, e significa veleno, lo so che mi odiano da sempre, e temo che non siano i soli..

Purtroppo ho bisogno di loro per sopravvivere, come di altri organismi complessi, per replicare la mia esistenza e andare avanti, bisogna pure sbarcare il lunario. Questi umani sostengono che sia poco meno di un parassita, e offendono senza ritegno; dicono perfino che sia un sempliciotto, e abbia necessità del metabolismo cellulare di un altro organismo superiore, perché non ho una struttura biochimica perfetta per la biosintesi, dunque non potrei replicarmi. Ora, questo sarà anche vero, in effetti ho solo un nucleo e un rivestimento esterno proteico, ma loro dimenticano che il mio viaggio è stato piuttosto lungo, che sono implicato nella genesi della vita nel pianeta, e non mi si può trattare come un delinquente che può anche fare fuori la gente con cinismo, quando le cose si mettono male.

Insomma, occorre perseveranza nel giudizio. Ma torniamo a noi, non è così semplice eludere la sorveglianza del sistema immunitario, e delle ‘sentinelle’ di cui vi accennavo poc’anzi. Ce ne vogliono di strategie e ardimento, per sbaragliare queste difese e banchettare indisturbati all’interno di una cellula, utilizzando i suoi arredi interni, enzimi e organelli, costringendola, attraverso il limitato materiale genetico di cui sono dotato, a replicare tanti e tanti altri ‘individui’ perfettamente simili a me. La strada è lunga, piena di pericoli, erte, trappole.

Ieri, per esempio, avevo già trovato spazio nelle prime vie respiratorie di un umano, quando questi ha cominciato a starnutire, e non la finiva più. Sembrava un terremoto dell’ottavo grado della scala Richter. Mi ha scaraventato nell’aria con una tale violenza.. ero anche in buona compagnia, tra l’altro, e ce l’avremmo fatta benissimo a sbaragliare ogni difesa, ma questo non trova altro da fare che starnutire! Ve lo dicevo io che non è semplice come una passeggiata.. Prediligo gli organismi umani, certi amici miei invece mammiferi di specie diverse, e altre mie conoscenze sono affezionati al regno vegetale, mah..

E infine ho tanti amici proprio buonissimi, innocui, che non hanno alcun potere patogeno, li faranno santi prima o poi. Per millenni e millenni sono riuscito a farmi gli affari miei senza essere disturbato, poi, come al solito, arrivano questi esseri umani con la smania compulsiva di sapere e scoprire, anche quello che non è visibile. E inventano il microscopio elettronico.. ehh, quello ottico non bastava, dato che li ha aiutati a sterminare intere legioni di batteri, io per essere scovato avevo necessità di strumenti finissimi e potenti. E così, se fino a un secolo fa passavo ovunque indisturbato, da quando è stato scoperto il metodo per ingrandire in modo esponenziale, ecco la fregatura, non posso più nascondermi. Ma il danno per me è relativo, perché non sono un ‘essere’ arrendevole. Quante storie poi per una banale influenza, mi trattano da mostro, parlano di ceppi endemici virulenti.. di tutto pur di farmi fuori s’inventano.

E allora raccontiamolo il mio viaggio speciale, avventuroso e pieno di meraviglie. Certo.. meraviglie, quello che so fare io non è uno scherzo. So fare cose incredibili col mio acido nucleico e l’’aiuto’ della cellula che mi ospita; non volentieri, devo dire. E poi tutto questo chiasso intorno a me, interi battaglioni di scienziati e gente in camice bianco, quante attenzioni mi riservano, non resta che convincersi che sono affascinante, un portento della natura.

Prima di tutto, comunque, devo ammettere che sono di origini modeste, e pertanto avendo una struttura elementare, sono forzato ad un destino ‘endocellulare’. Quando mi muovo in incognito, e mi trovo fuori dalla cellula, sede privilegiata, in uno stato extra-cellulare, dunque, mi chiamo virione, solo quando arrivo al traguardo, e comincio la mia attività di replicazione endocellulare, mi si può chiamare virus, che bel nome..

Dopo avere attraversato indenne le varie frontiere e i controlli di un organismo, e assistito da vicino a certi spettacoli stupefacenti della vita, attraversando anche ‘fiumi e canali’ di colori vari, arrivo trafelato alla meta, ed eccolo il mio bersaglio: una cellula bella e prosperosa..

E’ da sposare, credetemi, è irresistibile. Ho un abito resistente, niente male, che mi aiuta a preservare il ‘core’, il materiale genetico che mi porto dietro, così eccomi qui, mi sembra d’essere stato catapultato da un paracadute, davanti a questo ben di Dio.. Fisso la mia ancora attraverso il capside, il mio abito esterno, sui recettori della membrana plasmatica della cellula, e il gioco è fatto, che le piaccia o no alla signora cellula, questo matrimonio ‘s’à da fare’..

Si chiama ‘pinocitosi’, la fase in cui la cellula decide d’inglobarmi attraverso la sua membrana, e ‘lei’ è troppo ingenua, non sa cosa l’aspetta. Quando all’improvviso abbandono l’abito da cerimonia, ossia il capside, per liberare il mio acido nucleico, DNA o RNA, dipende.. i miei sogni si realizzano in pieno. Questo era il mio fine, abitare in tale sontuosa dimora, e utilizzarne gli arredi, per replicare altri virioni e liberarli nell’organismo ospite.. Alla fine, posso anche concludere che la missione è compiuta, non mi volto indietro, a vedere il volto della signora cellula, sedotta e abbandonata, anzi, lei mi urla contro che è stata violentata e.. oddio, credo pure, ma senza volerlo, di averla fatta fuori! O forse no, magari si salva, in fondo non sono cose che mi riguardano.

Intanto il viaggio dei nuovi amici, che in qualche modo ho contribuito a clonare, è già cominciato, e qui vorrei fermarmi, perché, credetemi, lo scenario non è dei più edificanti, ma non è mica colpa mia se la sorte mi ha obbligato a questo ruolo.. A parer mio c’è da esserne fieri, così piccolo, ma tanto forte da abbattere roccaforti, vi sembra roba da poco? Lo so bene che il parere degli esseri che si sentono aggrediti, è di ben altro tenore, e le guerre contro di me sono sempre più sofisticate, e allora non stupitevi se devo difendermi..

Eppure mi usano per ogni sorta d’esperimenti e ricerche.

Quei diavoli in camice bianco, per esempio, mi hanno usato come un Caronte per trasportare l’Ngf ( nerve grouth factor), sì.. il fattore di crescita nervoso, inventato da una tale cocciuta neurologa di nome Levi Montalcini. Secondo gli scienziati, per curare l’Alzheimer era necessario utilizzare un virus come vettore, e imbarcare all’interno il fattore di crescita nervoso, direttamente nell’area cerebrale danneggiata, e pare abbia dato anche ottimi risultati. E poi.. dopo tutti questi servigi.. subisco assalti continui, e persecuzioni, e perdite notevoli.. Ma sono irriducibile, come la Fenice, so rialzarmi e combattere; alla fine, poi, chi vincerà? Non sono molto ottimista, credetemi, e ho le mie ragioni..

 

I GIORNI DELLA MERLA, TRA REALTA’ E LEGGENDA

DI VIRGINIA MURRU

 

Gli ultimi giorni di gennaio, rappresentano il cuore dell’inverno, richiamano i paesaggi quasi spettrali dei campi deserti, spesso coperti di neve, soprattutto al nord, ma non solo, alle cupe atmosfere delle strade di città, nelle quali la gente si sposta velocemente, vestita di tutto punto: sono i giorni della merla.

La tradizione popolare italiana ha attribuito questo curioso epiteto agli ultimi giorni di gennaio, in virtù di una leggenda tramandata di generazione in generazione, che suscita le domande curiose dei bambini, ma anche degli adulti. Quest’anno, peraltro, rispetta in pieno il significato di freddo e gelo legato a questo breve periodo dell’anno. In ogni regione ci sono versioni diverse della leggenda, ma la morale e il messaggio è sempre lo stesso, i giorni della merla sono in qualche modo uno svincolo, una sorta di crocevia tra il mese più rappresentativo della stagione invernale, e febbraio, che solitamente presenta temperature meno aggressive, anche se il rigore comunque persiste, dipende ovviamente dall’assetto climatico.

I contadini con il loro prezioso sapere, basato sull’osservazione diretta dei fenomeni naturali, hanno sempre sostenuto che dal clima che si presenta durante i giorni della merla, dipenderà quello di febbraio, e a marzo l’inizio della rinascita in natura, ovvero la primavera. Se gli ultimi giorni di gennaio, dal 29 al 31, saranno miti, la primavera rimanderà il suo ciclo di stagione, si presenterà fredda e interessata da forti movimenti di correnti, vento e instabilità. Se invece questi giorni ‘cruciali’ saranno veramente freddi, osservando le direttive della natura, la primavera anticiperà il suo arrivo, e già dalle prime settimane di marzo, si potrà assistere all’esuberante estro della natura, con gli alberi a foglia caduca che aprono le loro gemme e fioriscono, si potranno ammirare le cascate gialle delle ginestre lungo i pendii, che adorneranno e renderanno più festoso e vitale il paesaggio, specie quello rurale fuori dalle zone urbane.

Neppure i meteorologi in questo caso mettono in discussione la saggezza popolare, e ogni anno vediamo che nei loro servizi di previsione del tempo, fanno riferimento ‘ai giorni della merla’ (29-31 gennaio), come significativi dell’andamento del mese successivo, e della primavera in generale per quel che riguarda l’evoluzione del clima e delle temperature.

La leggenda legata a questi giorni, è davvero accattivante e curiosa, intenerisce soprattutto i bambini. Ovviamente protagonista è la merla, che è femminile quanto a genere, ma il dimorfismo in natura presenta altre caratteristiche su questi bellissimi uccelli, il cui canto, tra l’altro, è splendido, e allieta l’alba dei giorni invernali, soprattutto quando comincia la stagione degli amori, proprio tra fine gennaio e febbraio.

La merla dunque, essendo femmina, presenta una livrea diversa dal maschio, infatti ha un piumaggio lucente e bruno, e lo è anche il becco. Il maschio invece ha un piumaggio nero brillante e il becco inconfondibilmente giallo, per cui il nero che si attribuisce alla merla nella leggenda, come vedremo, non è propriamente così in realtà..

Si racconta che un tempo la merla avesse una livrea di piume bianche bellissime, e che se ne andasse in giro durante le giornate di febbraio ostentando il suo piumaggio, al punto da indispettire gennaio, il quale le rendeva la vita difficile divertendosi a improvvisare bufere di neve, forti raffiche di vento e gelo nell’aria, ogni volta che il bellissimo volatile usciva per approvvigionarsi di cibo. Alla fine la merla non ne poté più dei suoi dispetti, e decise di fargli una sfuriata con  invettive tali da indurlo a controllare il potere degli elementi.

“Sei dispettoso e crudele, anche quest’anno hai fatto morire tanti uccelli, ma non ti vergogni? – Devi smetterla di renderci la vita così dura, come possiamo sopravvivere noi animali, tu sei contro la natura, questa è la verità..”

“Sciocchezze – rispose gennaio, per nulla commosso – vedo che ti pavoneggi ogni giorno, nonostante il tempo, non sembra importarti poi tanto del freddo.. Secondo te, io dovrei dispensare sole a piacimento, solo perché a te il freddo dà fastidio? – Deve esserci freddo, la natura ha bisogno di riposo, inoltre io sono indispensabile con il mio rigore, perché questi sono i regolamenti del Creato.. morire per rinascere, a me è stato attribuito questo compito ingrato, d’accordo, ma devo svolgerlo, che vi piaccia o no, e ora finiscila con le tue rimostranze, mi stanno venendo a noia..”  Niente, imperturbabile, insensibile. La merla s’indignò ancora di più, e decise che il prossimo inverno avrebbe acuito l’ingegno, facendola in barba alla strafottenza del primo mese dell’anno. Così fece. Durante il periodo autunnale divenne insolitamente operosa, e riempì  il nido di cibo, così che a gennaio non fosse costretta ad andare in giro tra la neve, il vento e il gelo, rischiando perfino di morire assiderata.

E giunse gennaio.. ma questa rivalsa non le bastò, nutrita a dovere ogni giorno, malgrado il tempo, ogni tanto metteva in movimento le ali e si faceva qualche giretto nei dintorni, non disdegnando il canto, e finendo per indispettire sempre più gennaio, che credeva di averla relegata nel nido, con esibizioni di tormente, tempeste e tutto ciò che l’estro della sua natura gli metteva a disposizione. Cosa mai poteva fare?

Bisogna a questo punto precisare che nel calendario Romano, gennaio aveva 29 giorni, mentre febbraio ne aveva due in più.. Quando gennaio si rese conto che il tempo a disposizione era finito, mentre la merla pestifera esultava cantando in lungo e in largo tra un campo e un filo di corrente, decise di rivolgersi a febbraio.. per chiedergli credito. Gli spiegò la situazione, con una certa aria da vittima, e riuscì a persuadere febbraio, che in fondo era un semplicione ingenuo. E così riuscì a fregargli due giorni, per portare la merla alla più assoluta esasperazione, diventando ancora più crudele, rendendo questo ulteriore spazio di tempo, più duro da trascorrere. La merla, che credeva di avere ormai attraversato il ponte ed essersi lasciata alle spalle quel mese odioso, si ritrovò senza cibo, costretta a trascorrere parte della giornata al freddo, così tanto intenso da rischiare di non farcela a sopravvivere.

L’ultima possibilità fu il rifugio nel tepore della canna fumaria di un camino, era talmente infreddolita che vi si tuffò, trovando all’interno un mattone sporgente che le garantiva protezione e appoggio. Dopo tre giorni notò che all’esterno il clima era migliorato, un quadrato di cielo limpido attrasse la sua attenzione e così abbandonò il rifugio. Ma.. per salvarsi dovette sacrificare la sua livrea bianca e bellissima, diventò infatti nera come.. il carbone. Non se ne curò più di tanto..

Ecco dunque la ragione e il significato dei ‘giorni della merla’, e dei due giorni chiesti in prestito da gennaio, perché diventassero davvero impossibili da trascorrere all’aria aperta. E’ ovviamente una leggenda, ma il genere umano è avvezzo a trovare ragioni a qualsiasi avvenimento, anche alle leggende.

CHIARA VIGO, UNICA MAESTRA AL MONDO DELLA SETA DEL MARE, OVVERO IL BISSO

DI VIRGINIA MURRU
 

Il Bisso, filo di seta che viene dal mare, e Chiara Vigo, l’unica Maestra al mondo che ne conosce i misteri, già proposta all’Unesco come patrimonio dell’umanità.

La storia del bisso, lunga oltre 7 millenni si ferma a S. Antioco, un grosso borgo di mare situato nell’isola omonima, a sud della Sardegna. Osservando da vicino le vicissitudini storiche si ha l’impressione di entrare in uno scenario mitologico, con vaghi aloni esoterici.

Eppure, nonostante lo scorrere del tempo, ancora oggi si può assistere con stupore alla lavorazione del ‘filo d’acqua e di mare’, il quale presenta luminescenze uniche, e dopo lunghi trattamenti, la sua consistenza serica diventa morbidissima nelle mani di Chiara Vigo, unica donna al mondo a conoscere i segreti della seta del mare, ultima rappresentante di una catena che abbraccia una trentina di generazioni.

Il bisso, prima d’essere stato indossato da personaggi biblici come Salomone e alti dignitari religiosi del tempo, da principesse e regnanti, seguiva processi di lavorazione finissimi e piuttosto complessi, ma il risultato era un tessuto sfolgorante, che i Caldei, raffinatissimi tessitori e tintori, esperti di tessuti pregiati e originali, coloravano secondo procedure strettamente dipendenti dalle risorse della natura.

Le origini del bisso sono legate alla storia delle Civiltà del Mediterraneo, in particolare agli Ebrei, Caldei, Fenici, Egizi e Cretesi, tutti popoli che avevano manifestato notevole creatività in questo settore. La cosiddetta ‘seta del mare’ è un filo che presenta consistenza e resistenza allo strappo, e questo, a parte le virtù estetiche, è una delle caratteristiche che lo hanno sempre reso prezioso.

Ma ciò che rende il bisso del tutto unico è l’origine, in quanto è un prodotto elargito direttamente dal mare, attraverso una sua creatura, ‘la pinna nobilis’ o nacchera, un mollusco bivalve che può raggiungere notevoli dimensioni, anche oltre un metro di lunghezza. L’interno delle valve è madreperlaceo e contiene l’animale, protagonista assoluto nella produzione del filato di bisso. Esso infatti secerne all’estremità appuntita delle valve una sostanza serica che a contatto con l’acqua diventa filiforme; la lunghezza varia a seconda degli esemplari, ma in media il bioccolo di filo grezzo è lungo circa 25 cm.

I popoli del Mediterraneo che producevano la seta del mare, pescavano grandi quantità di pinna nobilis ed estraevano completamente il ciuffo di fili dall’interno delle valve, uccidendo per conseguenza l’animale. Attualmente la pinna rientra tra le specie protette pioiché si è riscontrato che a causa della pesca indiscriminata è in pericolo d’estinzione. Pertanto Chiara Vigo, la sola donna che ancora oggi porta avanti questa tradizione millenaria, durante le sue immersioni alla ricerca della pinna è riuscita a sviluppare tecniche di ‘prelievo’ del prezioso filo senza nuocere all’animale, asportandone solo qualche cm e riposizionando la nacchera poi sul fondale.

Questa sostanza serica secreta dal mollusco ha la funzione di tenerlo saldo sui fondali, vive bene in profondità che vanno dai sei metri ai quaranta, ma è diventato sempre più raro anche per ragioni d’inquinamento oltre che di pesca incontrollata. La pinna vive al meglio tra praterie di Poseidonia, una pianta non un’alga, che solitamente si accompagna alla sua presenza nei fondali.

Altra creatura marina associata alla produzione del bisso è il murice, un mollusco che i Fenici conoscevano bene dato che questo mollusco monovalva forniva una sostanza rosso-violaceo: la porpora, usata per la tintura dei filati non solo di bisso.

E’ stata in definitiva la porpora a dare il nome a questo popolo d’ingegnosi mercanti, abilissimi nel commercio di prodotti vari, che portavano ovunque attraverso imbarcazioni all’avanguardia nel primo e secondo millennio A.C. Etimologicamente infatti, Phònix, nome greco dei Fenici, significa proprio porpora.

Anche i processi di lavorazione per ottenere questa tinta sgargiante erano piuttosto lunghi, e poiché doveva pure essere maleodorante, si svolgeva al di fuori dei centri abitati. In ogni caso è grazie all’ingegnoso modo di sfruttare le risorse del mare che si ottenevano risultati così eccellenti, e i tessuti tinti secondo queste tecniche erano peraltro piuttosto costosi, dato il pregio e la non facile reperibilità. Per questo erano capi che solo gli alti dignitari religiosi e i regnanti, faraoni compresi, potevano permettersi. Non erano certamente retaggio della gente comune.

Non esiste una datazione certa sulle origini del bisso marino, si sa che nel Vecchio Testamento ci sono decine di riferimenti a questo tessuto pregiato, pare che lo stesso Salomone indossasse una tunica tessuta con la seta del mare e che addirittura ne promuovesse la produzione, facendo arrivare esperti tessitori per assicurarsene la disponibilità.

A S. Antioco, cittadina dell’isola omonima, l’antica Solki, che ha un passato storico veramente ricco d’eventi, crocevia nel Mediterraneo per i popoli che venivano dall’Oriente, e meta privilegiata dei Fenici, si ferma anche la storia di questa fibra setosa.

Pare sia stata, secondo la leggenda, la principessa Berenice, ebrea di origine, consorte dell’imperatore Tito e non molto amata a Roma, a trasferirsi a S. Antioco e a trasmettere alla popolazione – formata già da un consistente numero di Ebrei confinati nel posto – tutti i segreti del bisso e dei suoi delicati processi di lavorazione. Ma certezze non ve ne sono. Anche la regina di Saba pare indossasse indumenti di questo luminoso tessuto.

Un manufatto in bisso risalente al IV secolo è stato ritrovato nel primo decennio del novecento nei pressi di Budapest, si tratta di un capo di vestiario femminile, e infatti secondo le notizie riguardanti il reperto era venuto alla luce in seguito ad uno scavo archeologico, nel sarcofago di una donna che doveva essere di nobile rango se poteva permettersi d’indossare una veste di bisso. Comunque, tale reperto, è andato perduto in seguito ai bombardamenti che si sono susseguiti sul posto durante la seconda guerra mondiale.

Una cuffia in bisso è stata invece rinvenuto nel corso di scavi archeologici nella basilica Saint Denise di Parigi, ora è conservata nel vicino museo, si pensa realizzata intorno al secolo XIV.

I segreti riguardanti la produzione di questo filato sono tanti, e non tutti si conoscono, Chiara Vigo è l’unica donna di S. Antioco, unica Maestra al mondo ancora in grado di lavorarlo. Dopo l’immersione nei fondali porta in superficie esigue quantità di bioccoli e conserva gelosamente i segreti che a sua volta le sono stati trasmessi dalla nonna materna, Leonilde, alla quale ha dovuto giurare, secondo la consuetudine, che non avrebbe mai lucrato sulla lavorazione del filato di bisso. E infatti tiene a precisare che ‘il bisso non si compra e non si vende’, è patrimonio di chiunque e deve essere pertanto reso disponibile a tutti, soprattutto a coloro che si avvicinano con rispetto a lei per andare oltre il mistero di questa fibra in apparenza così fragile e invece tanto tenace, come del resto lo è il carattere della Maestra.

E’ naturale che questa donna straordinaria sia oggetto d’ attenzione da parte di persone interessate alla storia del bisso. Nel Museo, allestito a sue spese a S. Antioco, vi si possono trovare reperti riguardanti il prezioso tessuto, che sono antichissimi. E’ sempre assediata da visitatori, giornalisti, troupe televisive, tutti smaniosi di strappare un velo al mistero della seta del mare.

Chiara ha realizzato capolavori in bisso presenti in numerosi musei europei e anche oltre oceano, ha fatto dono delle sue opere a grandi personaggi dei nostri tempi: una stola in bisso a Giovanni Paolo II, una cravatta offerta in omaggio a Clinton, e tanti altri doni elargiti a persone che, a parer suo, meritavano queste esclusive creazioni.

Di recente è stato pubblicato un libro dedicato a Chiara Vigo e all’Arte della lavorazione del bisso, lo ha scritto Susanna Lavazza, il ibro è intitolato “Dal buio alla luce, il bisso marino e Chiara Vigo”.

La Maestra è spesso invitata per conferenze in tutto il mondo, quando naturalmente è richiesto un contributo qualificato e speciale, come può esserlo il suo, che viene dall’esperienza diretta, e ha tanto da raccontare in questo ambito.

Cominciò nel VI secolo D. C. la ‘crisi’ nella produzione del bisso tra i popoli del Medio Oriente, il declino avvenne in seguito all’importazione del baco da seta dalla Cina, che prevedeva metodi di lavorazione certamente più semplici, disponibilità e in certo qual modo abbondanza e facilità nella diffusione anche in Europa.

Non ci si deve meravigliare se all’epoca furono i Romani a farsi artefici dell’importazione della nuova magica fibra, questa volta non prodotta dal mare, ma offerta da una creatura di terra, ossia il baco.

Il Maestro Chiara Vigo ha un carisma veramente speciale, quelli che l’hanno incontrata non possono sottrarsi all’aura magica che viene dalla sua persona; nelle parole e nei gesti c’è qualcosa che va oltre il singolare ‘mestiere’: si avvertono atmosfere indefinibili nel suo sguardo come se portasse con sé l’alito di un tempo lontano, con i suoi misteri e le sue consuetudini.

Misteriosi sono anche i canti che rivolge al mare ogni mattina all’alba, e le parole del giuramento che la nonna Leonilde le fece pronunciare, antico rituale e ‘passaggio’ generazionale dei segreti del bisso, dove il rispetto e l’etica legata al possesso dei manufatti sono severissimi. Queste le parole del giuramento:

“Ponente, Levante, Maestro e Grecale
prendete la mia anima e
gettatela nel fondale
che sia la mia vita
per Essere, Pregare e Tessere
per ogni gente
che da me va e da me viene
senza tempo, senza nome, senza colore, senza confini,
senza denaro
in nome del Leone dell’Anima mia e
dello Spirito Eterno
così sarà..”

L’eco dei millenni sembra vibrare in queste parole o si tratta forse del vago rumore dell’onda e del ritrarsi della risacca, mentre tra mare e terra s’intreccia una strana alleanza, tenuta salda da un filo d’oro: l’oro del mare, ovvero il bisso.

SYLVIA PLATH, UNA POESIA PER ISTIGARE LA FINE

DI VIRGINIA MURRU
“Poetry for me is like water or bread, something essential to me..” (La poesia per me è come l’acqua e il pane, qualcosa che mi è essenziale)
In un’intervista concessa a Peter Orr nell’autunno del ’62 – qualche mese prima della sua scomparsa, avvenuta a Londra nel febbraio 1963 – la poetessa americana sosteneva che la Poesia aveva un’importanza fondamentale nella sua vita.
“Not just satisfaction – rispose alla domanda di Orr, che le chiedeva quanto fosse importante nella sua vita – I couldn’t live without it!” – ‘Non potrei vivere senza..’
 
E purtroppo la Poesia non è stato un valore sufficiente a darle la forza di vivere, flussi impetuosi nella vita privata avevano messo a dura prova le sue labili resistenze, e non era riuscita ad andare oltre queste turbolenze, non aveva un substrato psicologico a prova di tempesta, e cedette.
 
Un gesto, il suo, forse solo un azzardo pagato caro, quasi una premonizione nella poesia Lady Lazarus
Ma gli studiosi della sua opera, le stesse autorità che a suo tempo avevano cercato risposte al gesto estremo di togliersi la vita, concordano nel sostenere che Sylvia Plath, quella fredda mattina di febbraio, intendesse solo attirare l’attenzione su di sé, probabilmente del marito, che l’aveva lasciata pochi mesi prima per un’altra donna.
 
Eppure aveva messo in conto il rischio al quale andava incontro, aveva protetto i suoi due bambini chiudendo a chiave la porta, sigillando le fessure, affinché essi non potessero essere raggiunti dalle esalazioni del gas della cucina, ma aveva lasciato anche un inequivocabile numero di telefono sul tavolo: “chiamate il mio medico a questo numero..” Una richiesta e un’istanza di vita, non di morte.
 
La poetessa di Boston non voleva morire a soli 30 anni, voleva stordirsi, intossicarsi, creare un po’ di rumore e movimento intorno al suo ineluttabile dolore, e poi magari rientrare nei binari ordinati della vita. Un gesto convulso, certo, una richiesta di aiuto e attenzione, del resto non era nuova a queste tentazioni, dieci anni prima, a soli vent’anni, aveva istigato la morte con una dose di narcotici che poteva esserle fatale, se non fosse stata soccorsa in tempo.
 
La sua storia è quella di una vita precaria, un equilibrio vulnerabile, sospeso tra abisso e superficie, ‘up and down’, sempre in trincea, in lotta perenne con le sfide del quotidiano, tra stati depressivi gravi, e qualche ricovero in clinica psichiatrica, dove più di una volta fu sottoposta all’elettroshock.
 
E magari l’uso non sempre scientificamente ortodosso di questo strumento clinico, l’avevano ulteriormente sconvolta.
Sylvia affrontò la prima crisi a New York, mentre era impegnata in un tirocinio, si trattava di un giornale di moda, ed era un premio che le era stato assegnato nel corso del suo penultimo anno di frequenza al College. Probabilmente aveva solo necessità di sostegno psicologico e morale, era comunque la caduta in un cerchio d’ombra che aveva origini molto probabili nella sua stessa infanzia. Il rapporto conflittuale tra la madre e il padre, un entomologo stimato e docente di college; l’autoritarismo eccessivo di lui, l’avevano certamente segnata in un periodo di crescita fondamentale per l’affermazione del suo equilibrio e della personalità.
 
Non si tratta di supposizioni, basta leggere una delle sue più significative opere poetiche, intitolata proprio “Daddy”, e dedicata al padre, per comprendere il risentimento e l’avversione che provava nei suoi confronti; mai sopiti dopo la scomparsa di lui, avvenuta per ragioni di salute quando la Plath aveva otto anni. La madre non permise che lei e il fratellino partecipassero ai funerali, e questo non è certamente un dettaglio trascurabile nel tragico ordine della loro storia familiare.
 
La madre aveva 21 anni meno del padre, e magari faticava ad accettare il rigore che egli esigeva in famiglia, per questo nella poesia ‘Daddy’, Sylvia traccia di lui un profilo impietoso, tra rimandi alle origini tedesche e similitudini naziste, fino alla citazione di ‘Mein Kampf’.. Era odio inesorabile, un drappo nero che le copriva il cielo, che si frapponeva tra il suo desiderio di ricostruire e il flusso di energia negativa, rimando alla memoria dell’infanzia. Più in là avrebbe appreso il resto, anche dai resoconti della madre, la quale, tuttavia, non aveva mai rappresentato un’ancora sicura sulla quale fermarsi nei momenti in cui la fragilità la scaraventava lontano dalle frontiere della società in cui viveva.
 
Ma era intelligentissima e brillante, Sylvia, e dopo il dramma della clinica, aveva lottato strenuamente per tornare in linea di partenza, riappropriandosi di quell’io stravolto dalle vicissitudine dell’esistenza, e delle sue solide appartenenze, che erano poi i suoi studi. Dopo un anno li portò a termine, con una splendida tesi su Dostoevskij e si laureò con la lode.
 
Non solo: ottenne una borsa di studio di due anni per l’Università di Cambridge, e nel settembre del ’55 partì verso l’Inghilterra, tappa che porterà sussulti positivi nel suo animo, una fiducia nuova nelle sue capacità espressive, e nell’avvenire. Il soggiorno e gli studi proseguirono in modo proficuo, anche se il richiamo latente e malinconico del suo animo in tumulto erano sempre dietro la porta; ma lei s’immergeva negli studi e teneva a distanza il demone insolente.
 
Fu proprio durante la sua permanenza in Inghilterra che conobbe un poeta i cui versi da tempo l’affascinavano: Ted Hughes. E il destino la portò proprio nella sua strada in una sera buia dell’inverno del ’56. Sylvia si recò ad una festa, e in questa circostanza, senza riflettere, senza dare spazio alla ragione, si ritrovò fulminata dal brillante poeta inglese, che la conquistò con la sua aria indolente e sorniona. Da allora diventò un gioco a due nella scacchiera della vita. La Plath provava un’attrazione irresistibile verso Hughes, poeta già affermato nel suo paese, e così lasciò che egli guidasse i suoi passi, si abbandonò a quell’amore folgorante, pensando che il mondo fosse nato con lui e il resto fosse soltanto una naturale sequenza d’eventi.
 
Fu questa arresa a se stessa e all’altro che condizionarono i suoi impulsi, perfino la creatività poetica. I due si sposarono in breve tempo, e decisero di stabilirsi negli States, dove entrambi si dedicarono all’insegnamento, e alla loro attività letteraria.
 
Sylvia frequentò poi i seminari di Robert Lowell all’Università di Boston, e qui le sue peculiarità espressive acquistarono una più decisa personalità artistica. Lowell era considerato il maestro dello stile ‘Confessional Poetry’ (anche nel suo background ci sono esperienze traumatiche in cliniche psichiatriche..), che fu poi  quello di coloro che avevano seguito le sue lezioni. Della Plath, dunque, e di Anne Sexton, le due poetesse si conobbero proprio in questo periodo, diventando ottime amiche. In seguito condivisero anche il medesimo destino: morirono entrambe suicide, a distanza di circa dieci anni l’una dall’altra. Entrambe ricevettero il Premio Pulitzer, la Sexton quand’era in vita, la Plath dopo la sua scomparsa.
 
Del resto, non impiegarono molto a capire che tra loro le ‘affinità elettive’ erano tante, attraversate dallo stesso uragano e impeto emotivo, entrambe reduci da scosse interiori che le avevano portate al limite della ragione, borderline. Entrambe dipendenti da terapie farmacologiche, dovute agli stati depressivi nella Plath, e al disordine psichico nella Sexton, devastata dall’alcool e da un’inquietudine fatale.
 
La Plath aveva comunque un animo ingenuo ma puro, aspirava ad una tranquilla vita familiare, non era attratta da avventure e atteggiamenti trasgressivi, come l’altra. La sua unica ambizione era l’affermazione in ambito letterario.
Entrambe, oggi si può dire forse più degli anni sessanta, in campo artistico erano anticonformiste al limite dell’avanguardismo, sono del parere che se fossero nate (paradossalmente..) un secolo prima, e le si fosse viste passare nei dintorni di Montmartre, insieme a Baudelaire e Rembaud, sarebbe stato praticamente naturale. Artisti, soggiogati dallo stesso demone, ‘maudits’ in qualche modo, hanno rappresentato la ribellione verso un certo modo d’intendere l’arte e di chi se ne fa interprete.
 
Hanno sconvolto i ‘sistemi’ attraverso le loro opere, senza rivoluzioni più o meno dichiarate in piazza, o manifesti, semplicemente con la testimonianza del loro stile di vita e dei loro scritti. Un modo d’essere, non di apparire, giusto o sbagliato che fosse.
La Sexton però, nonostante fosse costretta a gestirsi come un funambolo in un equilibrio compromesso, malgrado i ‘breakdown’ nervosi, riusciva ad affermarsi con le sue pubblicazioni, era stimata e seguita con grande interesse.
Sylvia non riscontrava la stessa accoglienza; la critica, anzi, dopo la pubblicazione di ‘The Colossus’, era stata piuttosto tiepida, e tante aspettative erano andate in fumo, creando in lei un clima d’insicurezza che fertilizzava in modo perverso la fragilità emotiva. Aveva necessità di conferme e gratificazioni, si misurava peraltro con i successi della Sexton e quelli del marito, al quale, segretamente, contendeva il prestigio e la stima dei lettori.
 
Lo confessa ne ‘La campana di vetro’; e anche in prosa non si smentisce il suo stile, seppure leggermente romanzato, è quello confessionale, ossia autobiografico, senza possibilità di equivoco.
 
Ma anche ai diari privati confida la sua frustrazione in qualità di poetessa, definisce anzi fallimento la sua giovane carriera in questo campo, ed appare intimorita, rivela tutta la sua disarmante fragilità. “In che modo posso tenermi Ted, se sono una donna sterile? (intellettualmente..) Sterile, sterile?” Era un assillo, una freccia di consapevolezza scagliata nel nero di un traguardo che franava davanti a sé. Con tutte le sue forze  avrebbe voluto entrare nelle grazie dei lettori, solo così pensava di affrancarsi dallo squallore del passato, invece, per giunta, la sorte le aveva messo a fianco un marito che l’abbagliava con la sua luce, mentre inesorabilmente la rendeva ombra.
 
Non riusciva psicologicamente a metabolizzare questo conflitto latente, lottava tra l’amore che sentiva per lui, e il desiderio di emergere dalle tenebre che la opprimevano. Tra loro cominciarono i primi dissapori, che non si allentarono neppure con la nascita del secondogenito, Nicholas, anzi: l’intesa che c’era stata si dissolse. Era stato come un sogno caduto in un lago limaccioso,  creava onde concentriche sempre più estese, inarrestabili. Fino alla separazione, che avvenne nel ’62, ma non per ragioni letterarie, il veleno era una pozione semplice, ma insopportabile per Sylvia, che scoprì d’essere tradita dal marito. Ted era stato tutto l’Universo per lei, all’improvviso era diventato infido e inaffidabile, come un fiume d’inferno che scorre in superficie, poi, in modo occulto, entra in un corso sotterraneo, senza una risorgente, una speranza.
 
Da allora si sente inghiottita da un cerchio di fuoco, tutto le crolla davanti agli occhi, non sa più cosa ci sia davanti a sé, il mondo diventa un vecchio nemico da sorvegliare a vista, e la sua vita una scatola vuota in balia di correnti sinistre. L’abbattimento della depressione non è più dietro la porta, E’ uno spettro errante che la fa entrare in un’orbita di arrese e scoraggiamento. Il demone del suicidio la insidia, ma lei, malgrado la separazione, ha ancora qualche spicciolo per lottare, e queste risorse fittizie le investe tutte nella scrittura.
 
Gran parte della sua produzione poetica, e in prosa, sono il frutto di questa full immersion nell’arte. Nel giro di sei mesi scrive tantissimo. Paradossalmente riesce a dare il meglio di sé, la miniera dell’estro ce l’ha dentro, attinge dalle personali esperienze, lo stile è sempre ‘confessional’, e per questa ragione il marito dopo la sua morte farà sparire tutti gli scritti di lei che in qualche modo lo coinvolgono, non lascerà che detriti del loro tormentato rapporto nelle carte della Plath. E’ ovvio che sia stato aspramente criticato, oltre che accusato d’essere la causa prima del suicido di lei.
 
Qualcuno, in riferimento agli scritti che Hughes ha sottratto alla memoria della moglie, ha visto una sorta di vendetta ‘postuma’. Sylvia, alcuni giorni prima della loro separazione perse il controllo dopo la conferma dei tradimenti di lui, e così prese i suoi scritti, li portò fuori casa e li bruciò.
 
In ogni caso, le carte mancanti avrebbero certamente contribuito ad esprimere una luce più chiara sul loro rapporto, ed è proprio questo che Hughes intendeva evitare.
Che la Plath in un tragico, istrionico tentativo avesse cercato di richiamare l’attenzione su di sé, è evidente dalle circostanze, come la certezza che non intendesse realmente suicidarsi, altrimenti non avrebbe lasciato un biglietto sul tavolo con il preciso scopo d’essere soccorsa. La Plath quella tragica mattina aspettava peraltro un’amica australiana, che purtroppo non arrivò in tempo.
 
Noi lo chiamiamo impropriamente destino, comunque sono magnetismi che agiscono al di là della vittima, la accerchiano come un demone implacabile, e la conducono oltre la stessa volontà d’essere. La vita diventa un oggetto sempre più evanescente e privo di attrattive, la morte quasi un contrappasso, una meta che interrompe con il suo black-out tutti i disincanti e le angosce.
 
Sylvia Plath chiedeva disperatamente aiuto, soccorso alle sue intime fragilità e alla condizione di abbandono in cui si trovava, ma non immaginava che la morte facesse sul serio, e che invece per i suoi scritti l’attenzione della gente sarebbe stata veramente grande proprio da quel momento.
 
E’ strano e arduo convincersi che sia necessario morire per vivere tra i propri simili, certo è che gli scritti di Sylvia dopo la sua scomparsa, hanno creato un clamore che impressiona: ciò che prima era stato letto superficialmente, dopo fu analizzato e studiato meticolosamente, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, una chiave o una rivelazione da offrire ad una folla di lettori che si erano assiepati dietro i muri della sua breve esistenza.
 
Per tragica ironia della sorte, la donna con la quale il marito l’aveva tradita si tolse la vita nel medesimo modo, pochi anni più tardi.
La Plath intanto è stata l’unica artista alla quale è stato assegnato postumo il Premio Pulitzer. Una rivincita e un riscatto al quale aveva inutilmente aspirato quando era in vita.
Il talento per la Poesia era esploso soprattutto nell’ultimo anno della sua esistenza, quello che era venuto meno era il talento alla vita. La vita si dovrebbe accettare, in fondo è come un ladro onesto: ruba con la luce accesa.
Ma non siamo qui per giudicare.
 

STEMMA DELLA SARDEGNA. PERCHE’ I 4 MORI? UNA STORIA AVVINCENTE E LEGGENDARIA

DI VIRGINIA MURRU

 

 Prima o poi I visitatori dell’isola s’interrogano sull’origine del suo stemma, anche perché l’immagine dei 4 mori la si nota sventolare nei vessilli  all’esterno degli  edifici delle istituzioni regionali; ma la si trova impressa non di rado  negli indumenti sportivi, per non parlare delle bandierine allo stadio, o di quelle esibite in occasione di cerimonie in cui la Sardegna è protagonista. Dietro questo simbolo c’è un lungo ‘viaggio’ storico, accattivante direi. Di certo la Sardegna, quasi per antonomasia, viene definita “l’isola dei 4 mori”.

 Possiamo già introdurci attraverso i meandri della storia  precisando che lo stemma fu adottato  dai Savoia dopo il 1720,  in seguito al Trattato di Londra (e successivo dell’Aia), allorché l’isola fu assegnata a Vittorio Amedeo II, consentendo così la nascita del  Regno di Sardegna.  A riprova dell’integrazione con Casa Savoia, il simbolo lo ritroviamo  nello stemma dei Granatieri di Sardegna, anche se, va detto, questo corpo militare non ha molto a che vedere con l’isola, ma si tratta pure del Regno di Sardegna, e pertanto il nome è giustificato.

 I sardi hanno riconosciuto come proprio questo simbolo intorno al ‘500, nonostante, come si vedrà più avanti, esso circolasse già da due secoli prima, nella corrispondenza proveniente dalla Corte aragonese. Solo per fini di orientamento temporale possiamo dire che in Sardegna, il vessillo con lo scudo dei 4 mori, cominciò a sventolare  nelle sedi del Partito Sardo d’Azione, a partire dai primi decenni del novecento, semplicemente perché lo aveva adottato quale emblema del Partito.

 La testa di moro tuttavia non è così rara neppure nell’araldica europea, mistero che però non intendiamo ‘inquisire’.

 Per vedere invece sventolare il vessillo nei Palazzi della Regione Sardegna, occorse ancora qualche decennio, e si va alla fine del secondo conflitto mondiale, quando l’isola diventò Regione Autonoma, a Statuto speciale. Nel 1950, in apertura di seduta del primo Consiglio regionale, l’Assemblea esaminò la questione dello Stemma, e non ci furono dubbi sul simbolo dei 4 mori, tutti i consiglieri e autorità presenti approvarono all’unanimità la proposta all’ordine del giorno.

 Secondo quanto fu messo a verbale, ci fu soltanto un astenuto, che motivò comunque la sua decisione in modo alquanto circostanziato. Partendo da premesse storiche inconfutabili, egli fece osservare che era necessario riflettere sull’origine del simbolo, il quale non era sardo, e pertanto si poteva essere tratti in inganno dalla convinzione che i 4 mori rappresentassero i 4 Giudicati in cui l’isola era stata divisa nel Medioevo, ossia circa 9 secoli prima, quando era libera e indipendente da dominazioni straniere.

“Attenzione – disse questo distinto signore sassarese – vi state lasciando trarre in inganno perché il simbolo da quasi un millennio circola in Sardegna, ma non ci appartiene in termini di autentica sardità”.

 Quel signore presente in qualità di consigliere, non si commosse affatto quando tutti  decisero di approvare uno stemma così conosciuto e familiare, da sembrare una scelta ovvia, legittima. Chi ‘contestava’ la scelta era il prof. Antonio Era, uno studioso che conosceva bene la storia giuridica dell’isola, docente di Storia delle Istituzioni Giuridiche della Sardegna all’Università di Sassari, con precedenti incarichi all’Università di Pisa, città nella quale aveva conseguito la libera docenza in Storia del diritto italiano. Antonio Era aveva una sterminata cultura, ed era un grande esperto di Storia della Sardegna.

 L’Assemblea non intendeva comunque tornare indietro, nonostante l’inappuntabile precisazione, e lo Stemma diventò simbolo ufficiale della Regione (inserito anche nel Gonfalone) nel 1952, vessillo che sventola da 70 anni ormai nel Palazzo della Regione. Lo stemma aveva ancora molte similitudini con quello in uso ai tempi del Regno di Sardegna, mancava  l’aquila sabauda e la corona, ma i mori avevano la benda negli occhi ed il profilo era rivolto verso l’inferitura.

 Nel 1999, lo stemma che compariva nel vessillo cambiò diversi dettagli. Si intervenne per semplificarlo, via dunque la ‘cornice’, mentre il volto dei mori cambiò orientamento: erano rivolti ora verso destra. Inoltre, particolare non trascurabile e significativo, la benda non era più negli occhi ma nella fronte, annodata sull’occipite. Ci piace pensare che, allegoricamente, il messaggio rimandi ad una Sardegna che intende spalancare bene gli occhi sul  futuro. Niente bende, dunque.

L’ultimo intervento sullo stemma è recente, del 2005, ma si è trattato di modifiche volte a rendere il vessillo più ‘elegante’, medesime modifiche anche sullo stendardo.

 C’è ancora nell’isola chi rimbrotta riguardo alla scelta dei 4 mori quale simbolo della Sardegna, soprattutto negli ambienti della Cultura isolana, e le ragioni, bisogna riconoscerlo, ci sono, esattamente come le aveva il prof. Era quando sosteneva che non solo originariamente non appartiene ai sardi, ma rimanda alla storia di dominazione dei Catalano-Aragonesi prima, e spagnoli poi (dal 1469), otto secoli in tutto.. Di un’invasione non c’è da andarne molto fieri, insomma. Molto più felice la scelta sarebbe stata in termini di orgoglio, secondo l’opinione di tanti, se fosse ricaduta sullo stemma del Giudicato di Arborea, il cosiddetto “desdichado”, rappresentato da un albero sradicato, che non affonda le radici da nessuna parte, e richiama l’epoca in cui l’isola era divisa in 4 Giudicati: allora era  libera e indipendente..

 Senza dimenticare che il desdichado è comunque un emblema templare, le tre radici rappresentano la Trinità, e le sette braccia dell’albero hanno riferimenti che s’ispirano alla nostra galassia: il sole, la luna, e i pianeti più importanti. Il richiamo va poi alla religione monoteista ebraica, lo stesso significato si ritrova nelle sette braccia del candelabro ‘Menorah’, il quale ardeva, secondo il credo ebraico, nel tempio di Gerusalemme.

 Vediamo ora di ‘scandagliare’ più in prodondità sulle origini del simbolo.

 Per troppi secoli i 4 mori avevano accompagnato le vicissitudini storiche dei sardi; dopo il matrimonio tra Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona il simbolo divenne retaggio quasi esclusivo dell’isola; comparve sulla facciata di alcuni edifici a Cagliari (è presente anche nei pinnacoli del Palazzo del Comune), e in carte e documenti che circolavano nell’isola.  

 Origini a parte, era diventato col tempo uno stemma che esprimeva l’orgoglio dei sardi, quel forte senso di appartenenza al territorio, un sigillo  che va oltre le proprie radici, perché un’isola solitamente sviluppa una storia a sé, e la memoria  talvolta scopre le sue pietre miliari in simboli di epoche storiche remote.

 Una precisazione è in ogni caso necessaria: i 4 mori prima di giungere in Sardegna, hanno compiuto un lungo percorso storico in Spagna, nazione che ha dominato l’isola per 8 lunghi secoli, prima attraverso i Catalano-Aragonesi, e poi, dopo il matrimonio tra Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, allorché il Regno si compose in unità formando una sola Nazione, con gli spagnoli. In ogni caso di dominio si trattava, e la Cultura dell’isola ne è stata fortemente condizionata.

 Insomma, il simbolo dei 4 mori non è di esclusivo ‘monopolio’ sardo, è nato altrove, tra vicende storiche intrise di leggenda, sia pure verosimili e in alcuni casi corrispondenti a fatti realmente accaduti. Si può aggiungere a questa breve introduzione, che anche lo stemma della Corsica presenta un moro bendato ben visibile al centro di uno scudo, e non è certo un caso. Eppure la presenza dei mori bendati non è neppure sola esclusiva delle due isole, si trovano riscontri in altri stemmi di Paesi europei, e questo dettaglio complica non poco la certezza dell’ultima ricostruzione, basata su un millennio di storia.

La storia dell’araldica europea del resto è molto complessa.

 Il legame con la Corsica, isola che per milioni di anni, è rimasta unita alla Sardegna (in seguito al distacco del blocco sardo-corso dalla Provenza), e che per ovvie ragioni condivide diversi capitoli di storia, per quel che riguarda il simbolo trova fondamento proprio nelle vicende storiche. Fu sul finire del XII secolo che Bonifacio VIII – per mettere fine alla Guerra del Vespro, che durava da 15 anni, scoppiata a Palermo contro gli Angiò – (considerati invasori, poiché si erano impossessati dell’isola dopo avere sterminato i legittimi successori al trono degli Svevi, eredi di Federico II), decise d’infeudare il Regno Sardiniae et Corsicae a Giacomo II d’Aragona.

Fu solo un atto ‘formale’, gli Aragonesi avevano già in mano la Sicilia, e sarebbe troppo lungo andare a ritroso e spiegare tutte le implicazioni storiche riguardanti l’intervento di Bonifacio VIII. Lo Stato Pontificio aveva peraltro, a sua volta, interessi precisi sulle due isole, così come Genova e Pisa.

 Nella Guerra del Vespro entrarono nel conflitto con gli Angiò gli Aragonesi, in quanto Pietro III era marito di una discendente degli Svevi, e la lotta, per terra e per mare, non aveva fine.

 In seguito alla scomparsa del Papa Martino IV, salì al soglio pontificio Bonifacio VIII, il quale, per tentare di porre fine ai disordini dei Vespri, intervenne con una mediazione, per istituire, sia pure sulla carta, il Regno Sardiniae et Corsicae, così da tenere  buoni gli Aragonesi. Come si è visto lo infeudò a Giacomo II,  catalano, e allora re d’Aragona e Valencia. Ma la bolla d’infeudazione, che si precisa era stato un atto nominale, non ebbe conseguenze sulla Corsica, in realtà mai conquistata, ma ne ebbe sulla Sardegna, che conquistata fu: il dominio, ripetiamo, durò otto secoli.

 Dopo l’intervento del Papa, il regno di Aragona si sentì legittimato e investito di autorità nei confronti dell’isola, imporre l’egemonia su tutto il territorio  fu solo la conseguenza del lungo dominio.

 Il ‘passaggio’ dello stemma con i 4 mori nell’isola, assodato il fatto  che ebbe origine in Aragona, e si ritrova ancora oggi nei musei spagnoli e perfino impresso all’esterno di qualche antico edificio, è dunque parte del  percorso che ha compiuto lungo i secoli questo simbolo, emblema di uno stretto legame tra la Sardegna e gli Aragonesi. Uno stemma con i 4 mori, con benda sulla fronte, si trova anche nel Palazzo della Deputazione del Regno d’Aragona a Saragozza, edificio del XVI secolo.  

 Già nel XIV secolo, Alfonso IV d’Aragona si avvaleva di sigilli di piombo con il simbolo dei 4 mori non bendati, evidentemente riferimento diretto al Regno, e tuttavia le origini di questo singolare emblema sono ancora più profonde, come vedremo da questo breve excursus storico.

 Le ipotesi, prima che se ne occupasse una ricercatrice dell’Università di Cagliari, la professoressa Luisa D’Arienzo, negli anni ’80, erano tante, ognuna con un relativo margine di attendibilità. Tra le più accreditate c’era il richiamo ai 4 Giudicati che dividevano in epoca Medievale l’isola, formatisi intorno alla metà dell’800, un assetto territoriale che si rivelò efficace sia sul piano giurisdizionale che ‘politico’.  Questa interpretazione riscosse credibilità fino alla fine del XIX secolo, piaceva agli storici sardi l’idea che il simbolo avesse origini autoctone, ma successive ricerche tracciarono un orientamento più affine al reale svolgimento dei fatti sulla questione.

 Altra ipotesi riguarda lo scudo con croce bianca in campo rosso, che rappresentava il gonfalone dei Pisani, consegnato dal pontefice (Benedetto VIII)  quale simbolo di crociata, in quanto avevano accettato il suo invito a soccorrere l’isola, insieme ai genovesi, minacciata dall’invasione degli Arabi di Museto. Il gonfalone era pertanto il simbolo di una crociata contro gli arabi.

 Manca tuttavia l’aspetto più peculiare, quello dei 4 mori, per cui tale ipotesi non ebbe mai un’eccessiva rilevanza negli studi riguardanti il simbolo. Si ipotizzò che derivasse addirittura dai templari, in quanto nello stemma del gran maestro dell’ordine, c’erano tre mori con la benda sulla fronte. Ma anche questa interpretazione storica non ha riscontri attendibili.

 Gli studi portati avanti dalla prof.ssa D’Arienzo, hanno messo in luce eventi e date precisi. Il sigillo era giunto in Sardegna in seguito allo sbarco dell’infante Alfonso, nel 1323, per ragioni, neanche a dirlo, di conquista (come si è accennato). Egli, per ingraziarsi l’assenso delle autorità di Cagliari, concesse una serie di privilegi e garanzie alla città, riscontrabili in numerose bolle, che portavano impresso proprio il sigillo dei 4 mori, conferma, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che il simbolo veniva dalla casa di Aragona. L’unica differenza con quello a noi noto, è che i mori non erano bendati, neppure sulla fronte.  Dunque il sigillo era in uso nella Cancelleria di corte, già da tempo,  prima che gli Aragonesi conquistassero la Sardegna, ossia fin dalla fine del XII secolo.

 Sempre secondo le ricerche della prof.ssa D’Arienzo, il primo sigillo che si conosce è in piombo, e fu utilizzato da Pietro III il Grande, il quale alla morte del padre, Giacomo I – che per questioni di eredità aveva diviso il regno in due parti – obbligò il fratello a diventare feudatario del Regno, e le isole Baleari che gli erano state assegnate, rientrarono nella Casata.  Così si scongiurò una divisione della Corona. Per ufficializzare e legittimare il Regno, egli creò un nuovo simbolo, lo stemma dei 4 mori, che divenne anche il sigillo adottato nella cancelleria per le missive che partivano dalla Corte.

 Intorno allo scudo, nel quale vi era una croce bianca in campo rosso, e i 4 mori, c’era una scritta in latino: “Il serpente portò i danni ma la croce li ha respinti”. All’epoca il male per la penisola iberica veniva da sud, dagli usurpatori arabi, che costrinsero gli abitanti a cruente battaglie, nel tentativo di respingerli e liberare i territori nei quali si erano insediati.

 Era in definitiva uno stemma che intendeva celebrare la sconfitta degli Arabi, con la croce, simbolo del Cristianesimo, e i mori che rappresentano i regni d’Aragona riconquistati ( i 4 Regni erano Aragona, Catalogna, Valencia e le Baleari).

 A queste lotte sanguinose contro l’invasore Arabo, aveva contribuito anche un antenato di Pietro III, che portava il suo stesso nome, Pietro I, il quale era un valoroso condottiero, e aveva avuto la meglio proprio due secoli prima sui mori, nella battaglia di Alcoraz (1096). E questo è il fatto storico più rilevante, perché da qui viene il simbolo dei mori.

 A questo punto entra in scena una leggenda, la quale evoca scenari che hanno secondo gli storici dei fondamenti di verità.

Sembra che nel corso della battaglia di Alcoraz, le sorti dello scontro con i mori volgessero in favore di questi ultimi, quando all’improvviso apparve un cavaliere con un mantello bianco ed una croce rossa sul petto, la leggenda narra che avesse un impeto terribile e si scagliasse contro i mori travolgendoli. Decidendo anche in pochissimo tempo l’esito della battaglia.

 Secondo le interpretazioni degli spagnoli, cattolicissimi come si sa, quel cavaliere misterioso che si era poi dissolto nel nulla, era S. Giorgio, giunto in difesa di Pietro I d’Aragona, e sancirne la vittoria sui mori. Mentre i soldati facevano bottino dei corpi dei nemici caduti, pare avessero notato 4 teste di principi mori, una a poca distanza dall’altra, travolti dalla furia della battaglia, teste che portavano una corona preziosa, tempestata di gemme.

 Erano stati questi eventi a indurre Pietro I a fissare nella memoria storica della Casata la misteriosa vittoria dei Cristiani sui mori, e per questo egli decise di creare un emblema che ricordasse quel glorioso, indimenticabile avvenimento. Lo scudo era bianco con la croce rossa come quella del cavaliere che fece irruzione nel campo di battaglia,  ai quattro lati c’era  la testa dei 4 principi mori con la corona.

Da allora diventò il simbolo della Casa di Aragona.

 Ci sono certo i contorni della leggenda, ma la battaglia di Alcoraz, che ebbe luogo nell’XI secolo, è un fatto storico accertato. Secondo gli studi della ricercatrice D’Arienzo, la leggenda si deve ad un italiano, vissuto tra il ‘400 e il ‘500. Egli era giunto alla corte d’Aragona per merito di una contessa dalla Sicilia, e si era recato in Spagna con lo scopo d’insegnare letteratura latina. Tempo dopo fu poi assunto da Ferdinando il Cattolico, diventando lo storico ufficiale del Regno di Aragona.

 Naturalmente la leggenda in sé potrebbe essere stata, in seguito a qualche lacuna di dati storici reali, un modo all’epoca suggestivo per celebrare quella vittoria. Sono reali tuttavia gli avvenimenti principali, la vittoria sui mori che fu autentica, e la scelta di Pietro I di adottare il simbolo dei 4 mori, prima tappa di un lungo viaggio, che poi approderà In Sardegna, dopo alcuni secoli. E questa, secondo accurate ricerche negli archivi storici spagnoli, è l’origine del simbolo.

 In Sardegna, a parte il lungo percorso storico,  si riscontrano importanti riferimenti sulla monetazione, dove ritroviamo ancora il simbolo dei 4 mori, I primi cagliarese furono emessi da Ferdinando il Cattolico nel XV secolo; Vittorio Amedeo II invece emise monete da uno a 3 cagliarese, e proprio su queste monete si può ‘rinvenire’ il simbolo dei mori, insieme all’effigie del re sabaudo. I cagliarese furono emessi fino al 1821, fino a quando Casa Savoia decise di adottare la monetazione decimale nel conio, e i cagliarese scomparvero dalla circolazione.

 Il simbolo dei 4 mori è stato adottato anche dalla Brigata Sassari, i leggendari combattenti che si distinsero per coraggio e audacia nel corso della I Guerra mondiale, formata da due reggimenti di fanteria, con due diverse dislocazioni nell’isola.

 

 

 

PERDONO..

Perdono
 
perché io non son sottomessa
una che piega il ginocchio sul male
e, cosa inaudita,
chiama l’arroganza per nome.
 
E son scellerata
giro intorno alla verità
come un’ape intorno al suo favo.
E poi perché son implacabile
con le mie istanze di pace
amo provocare, essere schietta,
proprio per fare “male”.
 
E lucido le scarpe del giusto
ho la strana mania di rovistare cassetti
dentro coscienze tiranne,
che non mi lascian passare.
 
‘Diritto alla privacy’, dicono.
Cos’è la privacy?
Un dogma della libertà?
la mia è stata linciata.
 
Perdono anche perché
io non so profanar soglie altrui
e la mia innocenza non è inganno,
non è scalpo da esibire come trofeo.
 
E poi son guastafeste
insolente
responsabile di piani falliti
di utopie scritte con l’inchiostro dell’abominio.
Perdono anche perché
io non sono perfetta,
Dio basta a se stesso..
 
E poi perdono, perdono
perché i sentimenti per me
non sono affare di Stato,
ma un conto serio, privato.
 
Perdono infine per l’intransigenza,
perché su sacri valori
io non voglio giocare,
sul rispetto voglio esagerare,
e trattandosi di libertà,
meglio approssimare per eccesso.
 
maggio 2003

GROTTE DELLA SARDEGNA, MONDI SOTTERRANEI AMATI DAGLI SPELEOLOGI DI TUTTO IL MONDO

DI VIRGINIA MURRU

 

Il fascino della Sardegna non si ferma nella linea di costa, certo piena di suggestione, ma prosegue nell’entroterra, dove le attrattive naturalistiche e paesaggistiche fanno parte dell’eclettismo di una natura ancora in parte misteriosa, nella quale, non di rado, la storia ha lasciato le sue pietre miliari.

Ce ne parla l’autore di “Fra mondi sotterranei e trekking d’avventura”, Elio Aste, che ha percorso da speleologo e trekker ogni angolo, ogni pertugio delle grotte immerse nei meandri più selvaggi ed esclusivi del centro dell’isola. Sicuramente un esperto, dato che per tutta la sua vita ha attraversato gli altopiani e ne conosce le caratteristiche naturalistiche, come pochi. Un libro che illumina a giorno gli ambienti ipogei di questi ‘santuari’ ubicati nel cuore delle montagne, interessate dal fenomeno carsico, regno del calcare, e di tanti segreti celati nei loro ambulacri.

Se l’intento dell’autore era quello di sorprendere, conducendo l’immaginario del lettore nella magnificenza di una natura integra, in gran parte selvaggia, attraverso la descrizione minuziosa e accurata di percorsi riservati a chi conosce i segreti riposti della Sardegna più esclusiva, bisogna dire che è riuscito nell’intento. E’ una semplice deduzione, non c’è smania di scivolare in retorica, questo libro non ne ha bisogno, e neppure Elio Aste, che ha all’attivo numerose pubblicazioni di carattere naturalistico-esplorativo nel territorio dell’isola, e ha riscosso il successo che davvero merita, sia in termini di competenza che di esperienza in questo ambito.

Dopo avere chiuso il libro, restano impresse le atmosfere nelle quali chi legge viene guidato, perché l’autore, oltre che speleologo, naturalista, fotografo ed esperto di archeologia, è anche uno scrittore di rara maestria ed efficacia espressiva. Lo stile della narrazione, acuto e attento al dettaglio, le descrizioni vivissime di ogni passo percorso, coinvolgono ed avvincono: nessuno può restare indifferente davanti agli spettacoli che si prospettano in questi scenari di natura così esuberanti.

Attraversando campi solcati, o percorrendo i salienti più impegnativi – anche per coloro che sono avvezzi ad avventurarsi in luoghi impervi, e a spendere le proprie energie nei sentieri più ostici ed accidentati – si può comprendere meglio il senso dell’essere e dell’esistere, si può riflettere all’immenso valore di questo patrimonio naturale, e concludere che la vita altro non è che il soffio d’ingegno di un grande Regista, che sa dell’ordine e dell’equilibrio nella Creazione.

L’uomo ha il dovere di rispettarne le leggi, non di sconvolgerle per fini che non rientrano in questo grandioso disegno, dove anche il senso di un filo d’erba va al di là di noi.

Ci parla di bellezza e di perfetto equilibrio biologico, Aste, ci sconvolge con prospettive che sospendono il respiro, ci porta dentro anfratti e grotte nelle quali il mondo con il suo caos, sembra solo un lontano ricordo, un’aberrazione.

Ci racconta egregiamente le immagini, piccoli microcosmi sospesi nella magnificenza di questo territorio barbaricino, circondato dalle propaggini calcareo- dolomitiche del Monte Corrasi. Questi sono santuari naturali in cui anche il silenzio produce la sua eco e diventa catarsi; sono spazi in cui non esiste nulla che non venga da una sapienza che sfugge allo sguardo di chi osserva con stupore.

C’è un ordine primordiale che coniuga perfettamente gli elementi, non si può scorgere una ‘nota’ stonata tra le meraviglie delle concrezioni sospese nelle sale scintillanti delle grotte: è una bellezza che frastorna, e poiché non abbiamo la fortuna di percorrere questi itinerari, e ammirare dal vivo un simile splendore, questo libro ce ne propone le emozioni, attraverso le sensazioni di chi ha già percorso, con le gambe e lo sguardo, questi orizzonti.

Ci sono immagini folgoranti, e sottolineo che non si tratta di esaltazione, chi ama la natura non può che ritrovarsi in questo transfert, immedesimarsi e sognare di stare al passo di chi racconta le straordinarie avventure in luoghi quasi ‘immuni’ dal tempo; certamente integri sul piano ambientale. Poco conosciuti perché non tutti sono disposti a marciare dalle prime ore dell’alba fino al tramonto, a dormire in ripari sotto roccia, fra silenzi interrotti da rumori furtivi nei cespugli, versi di animali notturni, campanacci lontani.

Occorre spirito di sacrificio per essere ripagati poi dalla magnificenza di visioni che penso l’autore, nonostante l’abilità espressiva evidente nell’opera, abbia faticato a descrivere, perché davanti a tanta bellezza qualcosa sfugge anche all’occhio più esperto, allo sguardo di chi per passione e amore verso la natura, è portato ad andare oltre la superficie. A trovare quindi la verità e i segreti più nascosti dei tesori che si presentano con una semplicità pura e disarmante, e proprio per questo incantevoli.

Elio Aste, dopo decenni di esplorazioni nelle aree più remote della Sardegna, tra i meandri dei Supramontes, continua a farsi sorprendere dalla natura più ‘riservata’ e splendida dei paesaggi montani, specie quelli che ruotano intorno al massiccio del Gennargentu. Accompagna il lettore passo dopo passo nelle sue straordinarie esperienze di trekker, come un inedito Caronte, che evita i gironi infernali della vita e conduce tra le sponde di autentici paradisi.

E, se nella magniloquenza di quei silenzi si sentisse il sussurro del divino Poeta, con le sue impeccabili terzine di endecassillabi:

“Ed elli a me, come persona accorta: /Qui si convien lasciare ogne sospetto;/ ogne viltà convien che qui sia morta..”,

bisognerebbe allora convincersi che qui si parla di luoghi in cui la vita diventa leggera, evanescente, senza le contaminazioni della fallacia umana; non una voce che arriva dai luoghi della pena. Perché in questi versanti, tra il Supramonte di Oliena e Dorgali, Orgosolo e Urzulei, si avverte un senso di pace assoluta, non vi sono violazioni che provengono dal mondo asservito al progresso.

L’acqua è sempre limpida nelle sorgenti de “Su Cologone”, e purissima è quella dei laghetti e corsi sotterranei delle grotte, le cui immagini, riportate in questa bellissima opera, sono il riflesso fedele delle visioni di quel mondo sommerso; quasi inverosimili nella loro integra bellezza. L’opera è stata suddivisa in itinerari, studiati per raggiungere gli obiettivi più interessanti sul piano naturalistico e paesaggistico, nonché archeologico, storico, speleologico, botanico..

Gli itinerari, nel sommario, sono evidenziati con colori diversi, come già fa notare la Casa Editrice ‘Italian Edition’: il verde per indicare che in quel percorso si possono trovare luoghi di ristoro; in blù gli itinerari in cui si trovano sorgenti sicure per dissetarsi; in rosso quelle in cui è possibile pernottare; infine sono segnati in giallo i siti consigliati solo a persone particolarmente esperte, in grado di utilizzare l’idonea attrezzatura per spostarsi con agilità, impossibili da percorrere senza, dunque riservati a speleologi in particolare.

Suggestivi e affascinanti gli itinerari che descrivono i collegamenti sotterranei delle grotte “Sa Oche” e “Su Bentu”, comunicanti tramite un grande sifone, situate sul fondo della vallata di Lanaittu. Le due grotte, che presentano scenari maestosi, ambienti attraversati da soffi di vento – da qui il nome ‘Su Bentu’ – che turbinano all’interno di quegli spazi ipogei (soprattutto dopo lunghe tempeste, in seguito alle quali l’aria viene spinta all’interno e produce boati), segnati dal fenomeno carsico. Il carsismo è la nota dominante della roccia calcarea, è il processo chimico esercitato dalle acque meteoriche che sono filtrate nel corso dei millenni nelle fessure del calcare, e hanno creato il mondo meraviglioso, a volte sconvolgente delle grotte.

Dopo lunghi temporali, seguiti da ondate di piena, l’acqua scorre alla base di questo complesso montuoso, portando in superficie un corso d’acqua impetuoso che emerge all’esterno con tutta la sua forza.

Spiega l’autore a proposito delle origini della grotta ‘Su Bentu’: “la grotta Su Bèntu è impostata prevalentemente su immani fenditure, che s’estendono nel sottosuolo per decine di chilometri e che assolvono a funzioni di drenaggio e di veicolazione delle acque, provenienti dal sovrastante Monte Corràsi e, in parte, anche dai Supramonti di Orgosolo e di Urzulei”.

Le due grotte (Sa Oche e Su Bentu) sono spesso meta di esplorazioni da parte di speleologi provenienti da ogni parte del mondo, per via dell’assetto interno particolare, e soprattutto perché in qualche modo sono ‘gemelle’, in quanto legate tra loro da un tracciato sommerso invaso dall’acqua. Le sale di entrambe le grotte, erano frequentate, secondo vari ritrovamenti di reperti (tra i quali ossa umane, scheletri, avanzi di pasti), fin da epoche remote. La passione verso questi mondi nascosti e talvolta ostili, ha causato qualche vittima tra gli speleologi, dei quali uno straniero, giovanissimo.

Di notevole interesse la descrizione della grotta ‘Crobeddu’, che ne mette in rilievo il valore scientifico, ma anche storico e culturale, dovuto alle ‘frequentazioni’ di questo straordinario ambiente ipogeo, eletto a dimora nel XIX secolo dall’omonimo bandito, che ha dato il nome alla grotta. Qui si sono commessi anche delitti, con sommari processi ‘per direttissima’ da parte del bandito, il quale era spietato verso chi lo tradiva.

Ma queste cavità naturali erano quasi certamente considerate anche luoghi sacri per le popolazioni di epoca pre-nuragica e nuragica, siti idonei al culto delle acque, che si svolgeva secondo rituali legati al fervore verso le divinità. La valle del Lanaittu in epoca nuragica doveva essere un territorio piuttosto antropizzato, anche perché l’approvvigionamento idrico era assicurato da numerosi corsi d’acqua e sorgenti.

“Mondi sotterranei e trekking d’avventura” è un libro da leggere, i temi trattati suscitano un grande interesse, si è attratti da questi luoghi circondati dal mistero.

Purtroppo, la conoscenza sui ritmi di vita delle popolazioni che vi abitarono in epoca remota è limitata, forse per questo calamitano l’attenzione, affascinano. Anche le legioni romane, comunque vi transitarono, col fine di indurre alla resa i sardi più riottosi, irriducibili, che non ne volevano sapere di essere colonizzati: per questo i territori barbaricini si erano meritati l’appellativo “Barbaria”, toponimo che come un timbro a cartiglio si portano ancora dietro (da qui deriva appunto ‘Barbagia).

L’ultimo capitolo è riservato ai versi dell’autore, il quale ha scritto componimenti poetici molto suggestivi, la cui forza espressiva deriva dal continuo contatto con la natura e gli ambienti montani che ha esplorato, amato e rispettato. Versi che sono in simbiosi dunque con il racconto dettagliato degli itinerari percorsi, ne riflettono le sensazioni, i colori, l’aria respirata nelle altitudini più esclusive e selvagge delle montagne sarde; in quest’opera protagonista è il Monte Corrasi che sovrasta il centro abitato di Oliena, comune ubicato a poca distanza da Nuoro.

Elio Aste ha collaborato con report di carattere naturalistico e speleologico, tra gli anni ’70 e ’90, con i due maggiori quotidiani sardi, ‘La Nuova Sardegna e l’’Unione Sarda’. Diverse sono le opere pubblicate, tra cui “Sardegna nascosta”, “Sardegna selvaggia”, “Tiscali” (tanto per citare le pù conosciute). Le prime due a tiratura limitata, tanto che è quasi impossibile trovarli in libreria. L’autore ha una straordinaria conoscenza in ambito naturalistico e ambientale, per questo le sue pubblicazioni hanno il valore di manuali, proprio perché i suoi interessi e le descrizioni spaziano su ogni fronte della scienza.

 

 

 

 

 

 

 

 

LA VITA E’ MIA

 

DI VIRGINIA MURRU

 

lascia in pace il mio tempo
maturo da sempre
davanti al sole

Strappa i chiodi
da tutte le mie strade
vorrei parole libere
niente più maschere
nel corso del mio andare.

Sono intossicata di parole
basta folli congiunture
non serve mai tacere –
sono azzime le ore
e astinenze di vita
hanno scavato miniere sull’errore.

Io ringhio alla menzogna
e non son cane
toglimi l’osso e spezza la catena..

V.M. 2002

ROMA: UNA CIVILTA’ CHE SCAVALCA I MILLENNI E NON PERMETTE OBLIO

DI VIRGINIA MURRU

 

Il ritrovamento a Como delle 300 monete d’oro d’epoca romana, non contribuiranno a ridurre il debito pubblico italiano, ma certamente arricchiranno i musei; simili scoperte non possono che avere un’importanza storica rilevante.

Le monete sono state rinvenute, come si sa, in un sito del centro storico della città, (Via Diaz), cantiere Cressoni, durante i lavori di sbancamento del cinema-teatro, che dovrebbe lasciare posto ad un nuovo edificio.

Sono stati gli operai del cantiere a ritrovare, ad appena un metro di profondità, il contenitore di particolare fattura, realizzato con pietra ollare; ha una certa similitudine con le urne nelle quali solitamente si custodivano i tesori. E di tesoro si tratta, non vi sono dubbi su questo, l’oro utilizzato dai romani ha un alto grado di purezza, è evidente dal colore delle monete, ritrovate impilate una sull’altra, sembra che abbiano appena lasciato la zecca, tanto sono lucenti.

Il ritrovamento ha un notevole valore storico, dato che, nei lavori di scavo susseguitisi nel corso dei secoli, non sono state rinvenute grandi quantità di “sesterzi aurei” coniati dai romani.
Dichiara il ministro dei Beni Culturali, Alberto Bonisoli:

“Gli archeologi stanno valutando la portata storica e culturale della scoperta, e la direzione scientifica che sovraintende agli scavi, ha subito trasferito le monete in una sede di restauro del Mibac a Milano, dove l’urna che le conteneva è già oggetto di studio e di analisi.”

E’ stata subito informata la Sovrintendenza Archeologica, e sul sito del ritrovamento ora proseguono gli scavi, si pensa che le monete e i monili siano solo un indizio per altri importanti reperti.

Intanto gli esperti hanno stabilito che il ritrovamento potrebbe collocarsi in epoca bizantina, o risalire ad uno/due secoli prima di Cristo, questo sarebbe il quadro temporale più attendibile. Gli oggetti preziosi ritrovati insieme alle monete si suppongono legati alla fondazione e origine stessa della città di Como, ma gli orientamenti temporali non sono ancora certi: potrebbe anche trattarsi di un periodo precedente, quando il territorio era abitato da tribù di Celti e Galli.

Si va dai due secoli A.C. al IV secolo D.C., più avanti gli studi sui reperti esprimeranno una datazione più attendibile.
La Civiltà romana e i suoi tesori, ogni tanto tornano in superficie in seguito a scoperte casuali, e altre portate avanti con mesi e a volte anni di scavi da parte di squadre di archeologi.

Casuale fu anche il ritrovamento di Orselina, nel Canton Ticino, quattro anni fa: com’è noto, in un terreno privato nel quale si eseguivano lavori di scavo per ragioni ben lontane dall’eccezionale scoperta, furono rinvenute in un contenitore di ceramica, migliaia di monete in bronzo d’epoca imperiale, risalenti ai primi secoli d.C.

E’ verosimile che questi tesori venuti alla luce dopo alcuni millenni, e conservatisi perfettamente integri, dentro anfore di materiale diverso, siano stati nascosti per essere protetti da eventuali insidie provenienti da nemici esterni al territorio, non ultimi le orde di barbari che giungevano continuamente dal Nord.
La presenza dei Romani a Como e dintorni, è un dato certo, gli studi sulle monete e l’anfora che li contiene, saranno utili per una conoscenza più profonda della presenza romana nella città, e magari per rivelare ulteriori dettagli sui traffici commerciali che il lago permetteva.

Di certo si può dire che si tratta della scoperta più sensazionale avvenuta nell’ultimo decennio, per il prezioso valore storico e numismatico degli oggetti rinvenuti, non solo in Italia ma nell’intera Europa.

PICCOLA VITA IGNARA..

DI VIRGINIA MURRU

 

Ero una piccola vita
con l’anima intrecciata a fili di paglia
cresciuta dentro un nido sopra i rovi
come una parola tesa verso l’alto
che non aspetta l’eco del ritorno.

E raccoglievo bacche nelle siepi
salivo a piedi nudi sulle piante
credendo fosse il vertice del mondo.

Era semplicemente vita
quella che non domanda da chi viene
offre sorrisi anche alle tempeste
non cerca strade larghe al suo andare
cammina con i chiodi sotto i piedi.

Quella era vita immune da pensiero
con vuoti di tempo da riempire a caso
nemmeno si facevan congetture
sulle ragioni del Cielo quando piove.

Mentre lente avanzavano le sere
senza spiegarmi nulla, senza amore,
ombre armate di male, di silenzio
avevano già scritto il mio destino

contavano le lacrime sul volto
fino a riempire il mare ed anche oltre.