BREXIT. JOHNSON: VINTA UNA DURA BATTAGLIA A BRUXELLES, WESTMINSTER E STORMONT L’INCOGNITA

DI VIRGINIA MURRU

Certamente, dopo le novità emerse in data odierna, ci sono i presupposti per sperare che il tormentone Brexit sia giunto al suo capolinea: in Europa, dopo tre anni di ‘up and down’ circa un accordo con Bruxelles, volto ad un un ritiro ordinato del Regno Unito dall’Ue, si dovrebbe quasi respirare con sollievo.

Ma non è esattamente così: l’esito sulla Brexit è ancora di pertinenza del Parlamento del Regno Unito, a Bruxelles il deal può contare sull’endorsement della Commissione Europea, che sta già perorando la causa della nuova intesa raggiunta tra il capo negoziatore dell’Ue, Michel Barnier e  il Governo di Sua Maestà. E oggi anche i leader dei 27 Paesi che hanno approvato le proposte di Londra sul nuovo compromesso riguardante il backstop.

Secondo le ultime dichiarazioni delle opposizioni, l’atmosfera a Westminster, nonostante Johnson abbia sacrificato almeno la metà del suo orgoglio  in nome dell’opportunismo della posta in gioco, non promette un passaggio sotto un viale di rose senza spine. Si presenta piuttosto come una strada tempestata di chiodi, a tratti pure un po’ velenosi. Ché di veleno con le sue sortite l’inquilino di Downing Street ne ha seminato nel corso delle aspre discussioni in Parlamento. Corbyn era l’oggetto preferito delle sue invettive, e non ha disdegnato di usare i peggiori epiteti per screditarlo davanti alla maggioranza e all’opposizione.

Ha usato tutte le sue armi retoriche, abbastanza abile del resto in questo versante,  e non ha esitato a portare sull’’arena’ perfino la regina, che si sa, ha un grande ascendente sul popolo. Insomma ha tentato di tutto, ma ha incassato anche sonore strigliate a Westminster:  attraverso il voto, al suo linguaggio risoluto e rude, che fluiva senza alcun freno inibitorio, il Parlamento britannico ha messo un argine, simile al filo spinato, oltre il quale il premier non poteva azzardare.

Si è vissuto quindi in un clima ‘strisciante’ d’instabilità, tensione,  indeterminismo, e su certi aspetti anche timore per le contrapposizioni che proprio in Gran Bretagna ne sono scaturite. I rapporti politici tra i Governi May/Johnson e l’opposizione a Westminster sono stati pertanto caratterizzati da scontri durissimi per ovvie ragioni contese, finite perfino in controversie per supposti ‘attentati’ alla Costituzione davanti alla Corte Suprema. In fin dei conti il referendum del 2016 non è riuscito a dirimere la disputa sulla volontà popolare, divisa in due poli opposti, ossia tra ‘Leave’ o brexiters, e ‘Remain’.

Johnson, per rabbonire i ‘malvagi’ di Bruxelles (li ha definiti anche nazisti..), attraverso la sua ‘corte’ di consiglieri Tory, ha dovuto escogitare compromessi tali da sciogliere i ghiacciai dei Palazzi dell’Unione. Aveva già messo in atto qualche schermaglia con un’apparente e allettante proposta, ma in sostanza le concessioni di circa due settimane fa erano davvero una ‘farsa’.

Questi giorni, con l’approssimarsi della scadenza fatidica del 31 ottobre, data in cui la Gran Bretagna può lasciare l’Eu, con o senza un deal, il premier britannico si è reso conto che a Bruxelles non sono né sprovveduti né mancano d’intelligenza, e perciò ha ‘confezionato’ una proposta con la quale finalmente si può ragionare.

Non è che sia proprio il massimo al quale l’Ue ambiva, ma intanto, l’ostacolo sull’oggetto del contendere – che era la questione del backstop nell’Irlanda del Nord – è stato in qualche modo aggirato. Il backstop, conosciuto anche come accordo del ‘Venerdì Santo’, e che rimanda alla frontiera con l’Irlanda, per decenni funestata di scontri e vittime, è stato anzi eliminato a favore di un accordo comunque chiaro in merito alla circolazione delle merci da e per l’Ue, in Ulster.

Le incognite non mancano, ed è per questo che il deal difficilmente sarà approvato dal DUP (Democratic Unionist Party); ma rischia soprattutto l’ennesima bocciatura a Westminster. Jeremy Corbyn ha definito l’accordo ottenuto con Bruxelles peggiore di quello presentato in Parlamento da Theresa May, come del resto ha affermato anche il Segretario ‘ombra’ della Brexit Keir Starmer. E poi sappiamo com’è finita.

Il Labour chiede ormai con grande convinzione un secondo referendum. Purtroppo sarebbe l’ultima stazione della speranza per evitare il ‘break’ con l’Unione, ma sembra un’ipotesi piuttosto remota.

L’accordo prevede che Belfast (con una certa autonomia da Londra, un parlamento, lo Stormont, e un capo di Governo), resti ‘allineata’ all’Ue per ciò che concerne la libera circolazione di merci, ma giurisdizionalmente, in quanto territorio dell’UK, resterà parte integrante dell’unione doganale che fa capo a Londra. Lo stesso capo negoziatore Ue, Michel Barnier non nega qualche riserva, soprattutto perché il deal deve superare i carboni ardenti di due ‘parlamenti’, come si è visto: Westminster e Stormont a Belfast.

Secondo i quotidiani britannici l’ottimismo è veramente simile ad una candela accesa, esposta a tutte le correnti, non è un faro con una luce alta e invulnerabile.

Intanto il Presidente della Commissione europea uscente, Jean-Claude Juncker, sta esercitando la sua influenza e pressione affinché si rispetti il nuovo accordo, e in questo versante difficilmente, a questo punto, sorgeranno ostacoli. Juncker ha tentato di mediare anche con i rappresentanti del DUP, punto cruciale per il passaggio del deal, al fine di scongiurare il rigetto, che al momento sembra più che probabile.

Non è stato semplice per i negoziatori  trovare un punto finale di convergenza, ma l’importante è che si sia trovata una linea di simmetria comune, sia pure dopo estenuanti trattative con i leader  dell’Unione nel corso del summit odierno, ché nessuna delle parti era disposta a concedere più del ‘necessario’.

Il documento sulla trattativa ovviamente c’è, così come gli accordi di carattere politico sulle relazioni con il Regno Unito dopo la fase di transizione.

Johnson attende il prossimo sabato come una ‘liberazione’, o supposta tale: di certo sta investendo tutte le sue speranze su Westminster e nelle capacità di persuasione che le sue abilità oratorie gli consentono.

Ma non sarà semplice come attraversare Tower Bridge. Il dirupo da superare, ché di questo si tratta considerate le difficoltà che presenta, è il nodo rappresentato dalle frontiere irlandesi, il deal ha cercato di bypassarlo tramite uno ‘status particolare’ per l’Ulster.

E’ previsto un periodo di transizione di 14 mesi, che può essere ulteriormente prorogato per altri 2 anni, mediante accordo tra le parti. Per 4 anni l’irlanda del Nord resterà coordinata in materia di circolazione di beni alle norme comunitarie, ma allo stesso tempo (status un po’ contorto) farà parte del ‘customs system’ o sistema doganale dell’UK. Scaduti i 4 anni di appartenenza promiscua in materia doganale, l’Irlanda del Nord potrà decidere se promulgare questo regime alle frontiere o modificarlo.

A queste condizioni, ossia rispettando l’autorità sul proprio territorio dell’Ulster (oggi nel sistema Ue), il compromesso può essere accettato secondo i negoziatori di Bruxelles. L’Irlanda del Nord resta pertanto nel Mercato Unico per un periodo di transizione, e su materie concernenti beni, aiuti di Stato, Iva, controlli sanitari e veterinari, prodotti agricoli.

Il premier Johnson, soddisfatto dei risultati raggiunti, ossia di avere convinto la Commissione Europea, il Consiglio dei 27, dichiara:

“è stato raggiunto un grande nuovo deal, il Regno Unito riprende il controllo”.

Ma per dirla con un luogo comune, ha vinto solo due battaglie, per vincere la ‘guerra’, dovrà avere armi potenti e scudi a prova di frecce, che a Westminster mireranno bene al bersaglio.

 

BORIS JOHNSON ALL’UE: QUESTE SONO LE MIE CONDIZIONI, PRENDERE O LASCIARE

DI VIRGINIA MURRU

 

Ed è esattamente l’ultimatum che il premier britannico ha lanciato alle Autorità dell’Unione europea: “take it or leave it” (prendere o lasciare, appunto..), ma è chiaro che gioca d’azzardo, perché nel suo irriducibile atteggiamento c’è poca credibilità.

E’ noto che ha perso numerose battaglie, gran parte dei rappresentanti del popolo a Westeminster gli si è rivoltata contro, ci sono eccessi di risolutezza nel suo modo di proporsi, e anche il credito che riscuote tra i suoi è fissato sulle sabbie mobili del rischio. Rischio per l’economia che già si porta il peso di tre anni d’instabilità, con i fondamentali che hanno mostrato segni di cedimento. In primis sono i mercati finanziari a ringhiare contro la Brexit, ma ormai si sta diffondendo anche tra la gente un senso di sfiducia e paura per il futuro del Paese.

Il PM, inquilino bizzarro di Downing Street, continua a minacciare di abbandonare l’Ue , sostenendo che il Regno Unito se ne andrà dall’Unione comunque, sia che si accettino le sue condizioni, sia che si decida di respingerle.

Dietro la sua baldanza e le dichiarazioni arroganti, in realtà si cela l’insicurezza di un Premier circondato dal dissenso, soprattutto in ambito internazionale (a parte l’endorsement dei soliti noti potenti che simpatizzano a distanza e lo istigano a gettarsi nel burrone..).

E’ una sicumera che non convince nelle interviste in TV – dove di recente gli si è contestato anche di avere le ‘mani lunghe’ con le donne – insomma si percepiscono cedimenti sul piano psicologico, c’è una sicurezza che vacilla, nonostante l’attitudine a giocarsi tutto in una sola posta. E in effetti sta rischiando con l’inclinazione al ruolo del funambolo, ma è consapevole che le sue ‘volate’ non hanno alcuna garanzia di salvataggio.

Agisce in nome e per conto proprio e del Governo che rappresenta, come se Westeminster – che proprio di recente ha approvato una norma che pone il veto su una trattativa con implicazioni di no-deal – fosse un optional della democrazia britannica, un’aristocratica democrazia che vanta secoli e secoli nel suo excursus storico.

Ma Johnson continua a minacciare anche Westeminster: se non si piegheranno al suo volere, chiuderà ancora l’attività del Parlamento.

Ora ci si chiede: si era mai visto un simile saltimbanco nella storia della politica britannica? Per quanto Enrico VIII ne avesse combinate di tutti i colori, era certamente più scaltro e avveduto.

Johnson della questione Brexit ne ha fatto una crociata personale, una trincea nella quale si sta barricando forte dell’esito della consultazione referendaria del 2016. In tre anni tuttavia, troppe vicissitudini hanno proiettato  ombre sulle conseguenze dell’abbandono del Mercato Unico. Si tratta di deragliamenti in termini di percentuali sui dati macro dell’economia britannica, che già all’indomani del referendum hanno fatto sussultare la City, centro finanziario londinese d’importanza strategica per tutti i settori, ma hanno creato soprattutto fermento negativo nei mercati.

Le condizioni per la trattativa con Bruxelles proposte da Johnson sono state liquidate in modo pressoché lapidario dai membri laburisti del parlamento: “né credibil né attuabili” (neither credible nor workable..), e del resto, com’è noto, proprio recentemente Westeminster ha deliberato a maggioranza una norma sul veto ad un piano Brexit no-deal.

Ma per il premier le delibere del Parlamento a quanto pare contano come gli iconici suoni delle cornamuse scozzesi, che rimandano a venti contrari di dissenso. E non solo gli scozzesi minacciano rivolta, di questa proposta sibillina sul backstop alle frontiere dell’Irlanda del Nord, sono poco convinti gli stessi irlandesi, sia quelli del Nord che la Repubblica, saldamente legata all’Unione europea.

Ma vediamo di capire il reale significato del piano presentato da Johnson, e consegnato a Bruxelles stamattina per mano del capo negoziatore britannico per la Brexit, David Frost.

C’è qualche innegabile ‘concessione’, ma il parere delle Autorità Ue è che dietro questo apparente compromesso vi sia la coda di volpe del premier britannico. Non c’è convinzione, e del resto come potrebbe essere credibile? La proposta è in apparenza semplice e allettante, ma ‘a termine’, ossia concedere la permanenza nel Mercato Unico dell’Irlanda del Nord fino al 2025, con alcune varianti sul piano commerciale degli scambi, ma poi blindare le frontiere, e addio backstop che è costato migliaia di vittime.

Della proposta dell’esecutivo non sono persuasi neppure allo Stormont, il Parlamento dell’Irlanda del Nord; vi sono punti poco chiari sui quali neppure gli Unionisti irlandesi che supportano Johnson al Governo sono convinti.

Non sarebbero previsti nuovi dazi lungo le frontiere, e i controlli sarebbero ridotti, Londra concederebbe una maggiore integrazione nel Mercato Unico alla parte Nord dell’isola sotto la sua giurisdizione, giusto per dare il contentino a Bruxelles, ma di fatto non sono previsti reali cambiamenti nella trattativa.

In ogni caso dare la possibilità all’Irlanda del Nord di decidere del proprio futuro (sul piano degli scambi commerciali), con il voto ogni 4 anni, ha reso disponibili gli Unionisti (il DUP). Si tratta comunque di un periodo di transizione, con alcune concessioni all’Ue sull’Irlanda del Nord, in termini di scambi commerciali, non pretese d’ingerenze politiche o giuridiche, dato che il Governo è tutt’altro che disposto a concedere influenze  su una parte del suo territorio.

Insomma il piano per sbloccare definitivamente la Brexit e mollare gli ormeggi da Bruxelles è circondato di nebbia, quella nebbia fitta dell’esecutivo londinese che sta veramente tentando il tutto per tutto, pur di non arrivare ad una proroga della scadenza fatidica del 31 ottobre, oltre la quale nulla sembra garantito per la sfida del premier.

Boris Johnson, prima di trasmettere l’ultimo piano da proporre a Bruxelles, ha spiegato i dettagli nel corso del  congresso dei Tory. Si parlava di proposta secretata, ma in realtà c’è ben poco di nuovo, tant’è che i quotidiani inglesi ne avevano già diffuso gli estremi nei giorni scorsi.

E tuttavia il premier ripete come un tam tam la solita solfa: “o Bruxelles si adegua alla ‘nuova’ offerta, oppure la Gran Bretagna lascerà l’Unione con la formula no-deal. E suona come una raffica sinistra, ogni volta che quella minaccia s’insinua nella foga del suo eloquio lapidario, dove sempre si avverte l’impressione che non ci sia scampo.

La paura sul backstop (o accordo del Venerdì Santo, attraverso il quale si raggiunse un accordo con la Repubblica d’Irlanda per la fine del sanguinoso conflitto nel 1998), è più che giustificata.

La possibilità data dal Governo all’Irlanda del Nord di decidere del proprio futuro (su certi aspetti concernenti lo scambio di beni con l’Ue) sembra essere stata introdotta, come già accennato, per convincere della proposta anche il partito degli Unionisti nordirlandesi (DUP – Democratic Unionist Party), che al Parlamento di Londra sostiene il governo Conservatore di Johnson.

Ma non c’è da rallegrarsene eccessivamente, perché gli entusiasmi si spengono quando nel nuovo Piano  si sottolinea che alla fine del periodo di transizione, l’Irlanda del Nord uscirà definitivamente dall’Unione europea insieme al Regno Unito.

Ed è questo punto fondamentale che intrappola i negoziatori dell’Unione, che ora si ritrovano a gestire e decidere l’aut aut del premier britannico, il quale detta regole e condizioni: prendere o lasciare, appunto.

Scrive The Guardian: “Boris Johnson sembra  stia combattendo una battaglia già persa in partenza, tentando di evitare che il Regno Unito continui a stare nell’Unione oltre la scadenza del 31 ottobre – sulla base di un’aspra analisi del capo negoziatore Ue, Michel Barnier – il quale, secondo indiscrezioni, sembra abbia definito il nuovo piano di Johnson “un’autentica trappola.”

Non meno caustiche le dichiarazioni di Jean Claude Junker, il quale, durante una telefonata con il premier Johnson, ha affermato che nella proposta persistono punti molto problematici per quel che concerne le frontiere tra Irlanda e Irlanda del Nord.

Il premier Boris, intanto, nonostante ostenti sicurezza nelle sue azioni di Governo, vive in realtà ore difficilissime, così si è espresso con un quotidiano inglese: “Questo Governo vuole raggiungere un accordo, come sono certo che tutti vogliano. Se non sarà possibile, ciò determinerebbe il fallimento del piano strategico del governo, del quale saremmo tutti responsabili.”

Di seguito l’originale della missiva di Johnson all’Ue.

 

 

 

BREXIT. IL PREMIER JOHNSON CON LA PROROGATION GIOCA LA SUA ULTIMA CARTA

DI VIRGINIA MURRU
Il Regno Unito è in rivolta contro la decisione scellerata di Boris Johnson di sospendere in un momento così delicato l’attività del Parlamento, interpretata dal popolo come intento di portare a termine la questione Brexit, fosse pure ‘hard brexit’, ossia il ‘no-deal’ tanto temuto perfino da una parte dei parlamentari Tory.
Proprio tra questi ultimi sono decine le defezioni interne, per protesta contro le misure spregiudicate del premier, il quale, com’è noto, è deciso a sbarcare la Brexit a qualunque costo.
C’è chi rimpiange Theresa May, che è stata una convinta assertrice della logica dei Leave, e ha portato avanti in modo inflessibile e ortodosso le scelte di quella metà del popolo britannico che aveva votato contro la permanenza nel Mercato Unico.
E tuttavia la May, che in termini di risolutezza non aveva nulla da imparare, tendeva anche le orecchie verso il dissenso dei suoi, sul rischio della trattativa con Bruxelles che escludesse una ‘separazione consensuale’, nella quale vi fossero gli estremi del buon senso e della distensione.
E poi c’era la questione del backup, il problema della frontiera tra Irlanda del Nord e Irlanda: la pace, ottenuta dopo anni e anni di scontri e vittime, non poteva (e non può) essere insidiata. Indietro con la Storia non si torna, tuonava lo scorso dicembre il ministro degli Esteri irlandese. Mentre il capo negoziatore Ue, Michel Barner, prospettava la soluzione di tenere tra i confini del Mercato Unico l’Irlanda del Nord.
Lasciare all’Unione europea una ‘costola’ del Regno Unito in nome della Brexit? Mai. Per la May e il suo entourage politico si trattava di un ricatto da respingere categoricamente. Come sarebbe stato possibile concepirlo? C’è già la Scozia che scalpita dai tempi di Maria Stuarda, e ancora chiede a gran voce indipendenza tramite la premier Nicola Sturgeon, dunque cedere come nulla fosse una parte di sovranità sull’Irlanda del Nord, che avrebbe rischiato l’annessione al resto dell’isola? Impossibile, una provocazione per la premier.
Accettare l’indipendenza dei Paesi del Commonwealth non è stato uno scherzo per i privilegi che la Gran Bretagna vi aveva esercitato per secoli, ma dare corso al totale disfacimento dello Stato mai. E’ già una guerra in sordina tra Londra ed Edimburgo, nessuna delle parti disposta a mollare gli ormeggi sulla questione.
Di certo nessuno avrebbe immaginato, all’indomani dell’esito del referendum, che la Brexit sarebbe diventato un dilemma Shakespeariano di questa portata, che avrebbe creato conflitti politici tali da rischiare una guerra civile, dato il clima di divisione e tensione che si è creato nel volgere di tre anni.
Già un dilemma era la questione del divorzio dall’Ue, e tale resta, un’incognita che in apparenza ha una via maestra e tante diramazione, ma tutte strade tempestate di mine.
Intanto la Gran Bretagna ha già subito in tre anni pesanti contraccolpi economici e finanziari dopo la vittoria dei ‘Leave’, il 23 giugno 2016. Tantissime grandi industrie e importanti istituti di credito, hanno lasciato il Paese, altri sono in procinto di farlo, perché uscire dai Trattati dell’Unione europea non può che essere traumatico, trattandosi di un mercato che può contare su circa 500 milioni di persone, e agevolazioni in termini commerciali non di poco conto.
Negli ultimi giorni tutto il Paese si sta rivoltando contro Boris Johnson, c’è tensione, fermento e paura per le conseguenze di questo deliberato atto politico che potrebbe segnare con lettere di fuoco la sorte dell’economia britannica. Soprattutto potrebbe rendere più acuto il rischio delle tensioni nel Paese, le contrapposizioni sull’opportunità della Brexit hanno certamente spostato l’asse del ‘gradimento’ da parte dei cittadini britannici, ora la scelta potrebbe essere più chiara e matura di tre anni fa; ma c’è resistenza anche verso un secondo referendum. E allora?
Sul piano sociale è difficile tracciare una linea di resoconti e convergenze in questo ambito, l’incertezza persiste, anche perché, francamente, c’è una classe dirigente che non è in grado di offrire garanzie, di traghettare la questione Brexit in una sponda o nell’altra, senza creare forti malcontenti e proteste.

Dalle colonne del Times Boris Johnson minaccia che i Tory ribelli saranno cacciati dal partito, e avverte:
“it’s me or Corbyn chaos” (sceglete, o me il caos di Corbyn). Dopo le defezioni dei tanti parlamentari Tory, intanto si mette a rischio la stessa maggioranza. Così l’opposizione replica che è pura strategia per arrivare alle elezioni generali. E un altro casino è servito, tanto per continuare ad infarcire di complicazioni e ordigni una situazione già di per sé esplosiva. Ma tant’è..
Rodd Liddle, giornalista, saggista e polemista britannico, proprio ieri sul Sunday Times si rivolgeva con ironia ai Remainers, scesi in piazza nel disperato tentativo di bloccare il corso della Brexit, ricorrendo all’ultimo avamposto della ‘Democrazia tradita’ dalla decisione del premier Johnson di prorogare la chiusura del Parlamento.
Liddle testualmente invita la gente in rivolta a smetterla con l’isteria di slogan che rimandano a presunti ‘golpe’: “Boris Johnson non è un dittatore e Westminster non è andato in fiamme”. Scrive, e continua in tono sarcastico ricorrendo a termini di paragone tra Johnson e Nazismo, tira in ballo perfino le camere a gas, per estremizzare e riportare la gente su una linea di ragionamento più razionale.
Il dibattito sulla legittimità della scelta politica del premier, imperversa nei media, ormai il popolo ha processato per direttissima questo atto ritenuto sconsiderato dalla maggioranza, perfino dai Tory, dei quali i più agguerriti sono i rappresentanti scozzesi, alcuni infatti si sono dimessi.
Non è più una questione di opposizione in Parlamento, l’allarme riguarda il supposto abuso di potere di Johnson, che pur di sbarcare la Brexit è ricorso al supporto della Corona, strappando l’assenso alla regina, che di fatto non poteva negarlo (non ci sono precedenti), poiché, paradossalmente, l’atto relativo al ‘prorogation’ ( proroga della chiusura estiva dell’attività delle Camere tra una sessione e l’altra, comunque prevista dalla Costituzione) è legittimo sul piano giuridico.
L’autorizzazione alla sospensione dell’attività parlamentare concessa dalla regina Elisabetta, rientra pertanto nella procedura sancita da norme precise. Ma il clima di diffidenza è tale che alla gente la mossa del premier è apparso come un attentato alla democrazia, proprio perché a monte vi sono ragioni di opportunismo politico, in un momento delicatissimo per il Paese, mentre la regina ha assunto le sembianze di un ordigno nucleare sulla Brexit.
Dunque si può procedere alla ‘prorogation’, nonostante le proteste, salvo il rischio – fanno osservare i maligni – di finire come Carlo I, il quale durante il suo regno, nel 1641 impedì la normale attività del Parlamento, provocando una guerra civile. ll popolo infine prese il sopravvento e il monarca fu decapitato.

VIVERE DA PROTAGONISTI IN EUROPA, FEDERICA MOGHERINI


 

DI VIRGINIA MURRU

 

Protagonista, appunto, per ruolo e competenza, Federica Mogherini  da cinque anni  ormai  è l’Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari esteri e la Politica di Sicurezza  (Pesc) oltre che vice presidente della Commissione europea, il mandato  è prossimo alla scadenza.

La sua nomina, nell’estate del 2014 è stata piuttosto contrastata, nonostante la sua carica di Ministro degli Esteri nel Governo italiano, non tutti in Europa si sentivano garantiti da una donna troppo giovane (aveva appena 40 anni) e senza la dovuta esperienza per quella delicata ed importante investitura nelle Istituzioni europee.

Matteo Renzi, però, allora Presidente del Consiglio, era deciso a portare avanti quella candidatura  e lottò non poco,  fino a quando riuscì nel suo intento.  Inviò una lettera a Jean Claude Junker, affermando che il Governo italiano intendeva designare l’allora ministro degli Esteri  (Federica Mogherini) quale candidato alla carica di Alto Rappresentante dell’Ue .

Il quinquennio precedente era stato ricoperto dalla britannica  Catherine Ashton, ma durante il suo mandato non aveva lasciato orme davvero incisive.

Alcuni Paesi dell’Est non volevano sentire parlare della candidata italiana, che non consideravano all’altezza di quel ruolo, e  ‘troppo’ amica della Russia e di Mr. Putin.   Ma c’era anche una parte della stampa europea che nutriva riserve nei confronti della candidata italiana: l’Economist  non spense una parola in favore, e anzi espresse perplessità, adducendo ragioni che non si conciliavano con i requisiti di quella carica così rappresentativa per l’Unione. “Occorre usare metodi meritocratici per la nomina di rappresentanti così strategici per l’Europa” – scriveva il settimanale in quel periodo. La Mogherini era in carica alla Farnesina da appena 5 mesi, altra freccia velenosa  per chi si opponeva alla sua nomina.

Ma il veleno proveniva anche da altre testate blasonate, quali  Financial Times, Le Monde, Wall Street Journal: più o meno velatamente tutti le negavano il ‘benestare’.

Renzi  mise in atto un mezzo terremoto, consultando i leader europei e affermando che quel ruolo doveva essere attribuito alla ‘famiglia socialista europea’, se non si accetteva Mogherini l’altro candidato italiano sarebbe stato Massimo D’Alema. Si creò nell’estate del 2014 un vortice di  telefonate incrociate, il Governo italiano spinse sulla candidatura del suo ministro degli Esteri  a ‘Lady Pesc’. Molti leader europei le avrebbero preferito Emma Bonino, la si riteneva inadeguata a rendere incisivo il ruolo  non propriamente definito di “Ministro degli Esteri dell’Unione”.

Il presidente del Consiglio italiano non si mosse di un millimetro, la candidata di Roma era diventata una sfida.  “Il PD è il partito più forte tra i rappresentanti del Pse, e reclama  la candidata italiana” – sosteneva.  Le ragioni addotte dai partner europei  le riteneva inconsistenti, una sorta di ostruzionismo ad oltranza; e così la battaglia per questa nomina  andò avanti, colpo su colpo,  muro contro muro.

Le strategie per tentare di persuadere i leader dell’Ue, sono state tante,  durante gli incontri a Bruxelles  Renzi ricordava che l’Italia è uno dei Paesi fondatori , e  ogni anno versa ben 24 miliardi di euro per tenere saldo il bilancio dell’Unione.  Nel corso dei confronti tra i leader ci furono dure battaglie e schermaglie per evitare quella nomina, ma alla fine, dopo un mese di estenuanti dibattiti e trattative sulla scelta della candidata idonea, si decise per Federica Mogherini. Estenuata, per la verità, era anche lei, che definì quel periodo “sfida immane”.  Il suo mandato è cominciato così il 1° novembre 2014.

I nodi poi, col passare dei mesi e degli anni si sono sciolti, dimostrare di essere all’altezza non è stato difficile per Lady Pesc (Politica Estera e Sicurezza Comune), che ha riversato tutta la sua passione e il coinvolgimento possibili nelle relazioni internazionali.  E’ un ruolo effettivamente di Ministro degli Esteri, anche se l’Unione Europea resta fino ad ora un Organismo sovranazionale, non una federazione di Stati Uniti d’Europa, legati da un solo ed unico esecutivo politico.

Al di là dell’assetto politico, Federica Mogherini, di fatto, ha un mandato di rappresentanza dell’Unione nel mondo, accoglie i leader  e si reca in visita ufficiale ovunque, quale rappresentante, appunto, dell’Unione europea, svolgendo un’attività delicatissima soprattutto in aree del pianeta in cui, sul piano geopolitico, sono interessate da conflitti e contrasti. Aree in cui per la mediazione occorre  avere doti non comuni, e il pugno di ferro di chi  dà voce agli ideali di pace di un Continente.

Ma chi è e da dove viene l’Alto Rappresentante per la Politica Estera dell’Ue? Considerata da molti un fenomeno, la Mogherini ha bruciato tappe nella sua carriera  che solitamente vanno ben al di là dei suoi attuali 45 anni.  E’ romana, ha frequentato liceo e Università a Roma,  laureandosi col massimo dei voti in Scienze Politiche, e una tesi  redatta  a tema ‘Filosofia  politica’.

Dichiaratamente antirazzista, dopo il 1990 si è occupata delle campagne Arci  contro il dilagare di focolai xenofobi in tanti Paesi europei, prima ancora è stato membro all’European Youth Forum, il Forum europeo per la gioventù, nonché vicepresidente dell’Organizzazione della gioventù socialista europea. Ideologicamente schierata a sinistra, è stata sempre fedele agli ideali politici della sua gioventù.

Ha fatto parte della FGCI (Federazione giovanile comunisti italiani), iscritta a metà degli anni ’90 alla Sinistra giovanile, in ambito DS (Democratici di sinistra), nel quale ha ricoperto anche ruoli di rilievo.  A partire da questi anni il suo background, per quel che concerne le esperienze in ambito internazionale, è sempre più avanti. Si  occupa  fin da allora di problematiche politiche in aree critiche del pianeta.

Nel 2007 sarà Walter Veltroni  a conferirle un incarico delicato in qualità di Responsabile nazionale Riforme e Istituzioni nella Segreteria del  PD.  Carica che quasi naturalmente la porta in Parlamento l’anno seguente, quale deputata alla Camera, ovviamente in una lista del PD.  Ricopre diversi incarichi anche nelle Commissioni parlamentari, avvicinandosi alle relazioni con l’Europa  in qualità di membro di alcune Delegazioni parlamentari.

E’ un’escalation continua, passo dopo passo, esperienza su esperienza. DI nuovo la si ritrova in Parlamento nel 2013, e continua la sua attività nelle Commissioni parlamentari, tra Difesa, Affari Esteri e rapporti con l’Ue. Diventa anche membro della Commissione accreditata all’Assemblea parlamentare Nato, e nel 2014 ne diventa Presidente.

Da febbraio 2014 al 31 ottobre dello stesso anno è stata nominata Ministro degli  Affari Esteri e della Cooperazione internazionale. Il giorno seguente (primo novembre 2014) si ‘trasferisce’ a Bruxelles per assolvere gli impegni del nuovo mandato: quello di Alto Rappresentante dell’Unione europea per gli Affari Esteri, e insieme Vicepresidente della Commissione Europea.

Federica Mogherini ha lavorato bene durante  il suo mandato, mettendo a tacere tutte quelle voci autorevoli che l’avevano considerata poco meno che ‘indegna. D’indole moderata, si è sempre schiarata per la difesa dei grandi valori fondanti dell’Unione, ispirandosi ai principi di pace e concordia fra i popoli, esprimendosi apertamente contro  il filo serpeggiante degli ideali destabilizzanti, quali il razzismo, la xenofobia, il sovranismo a scapito del ruolo guida dell’Ue in Europa.

Nel  sito ufficiale, al riguardo, si legge un suo eloquente assioma:

“Oggi chi parla di sovranismo lavora tenacemente per smantellare il principale e più efficace strumento di sovranità che noi europei abbiamo – che è la nostra Unione. La nostra sovranità non si cede in Europa, si esercita in Europa.”

Il  mese scorso, nel corso di una seduta del Parlamento europeo, ha dichiarato:

“L’Unione Europea si ispira al principio secondo il quale non si può ricorrere alla forza militare per il cambiamento delle frontiere.”

Si riferiva ai  confini stabiliti dal governo Israeliano nelle alture del Golan.

“L’Ue – disse – non può pertanto riconoscere in quei territori la sovranità di Israele.”

Che piaccia o no al Governo israeliano, la Mogherini ha sempre privilegiato il linguaggio diplomatico diretto, e si è sempre espressa come ‘voce’ compatta dell’Unione,  in sedi non di rado piuttosto scomode, dove dall’altra parte, non proprio in ombra, c’erano gli Usa a svolgere un ruolo di contrapposizione, soprattutto in era Trump.

E infatti proprio il presidente degli Usa ha firmato  una dichiarazione nella quale riconosce invece la sovranità di Israele sulle alture del Golan, dando  partita vinta al primo ministro israeliano Netanyahu. E non è certo la prima volta.

Dalla diplomazia Ue nessuno sconto ad Israele,  ogni volta che si è verificata una sopraffazione ai danni della Palestina.

Con la Mogherini sono sempre chiare le posizioni dei Paesi membri,  anche quando si è trattato di dossier ‘pesanti’ e delicati , quali   la politica internazionale relativa alla Siria, ai Balcani, Ucraina, Cina, Giappone, Usa, Libia e tanti Paesi africani. Senza contare Israele, come si è visto.

E’ stata tra i protagonisti dell’accordo sul nucleare iraniano, anche qui il rappresentante della diplomazia Ue, ha svolto un delicato ruolo di mediazione (l’accordo fu negoziato con un o staff di sole donne).

L’italiana Mogherini si è peraltro definita “una fanatica della mediazione”.  E sempre convinta della forza incisiva del cosiddetto ‘soft power’ (ovvero un potere che non ricorre alle prove di forza).

Non le è stato risparmiato nulla, a cominciare da tutti coloro che si sono atteggiati a ‘critici’ della sua attività diplomatica,  nemmeno in occasione della  visita ad Amman alcuni anni fa (marzo 2016), quando si trovava in conferenza stampa con il collega giordano,  e commentava l’evento di terrorismo a Bruxelles, dove ci furono  diverse vittime.

La Mogherini non celò  la sua commozione davanti alla stampa e alle telecamere. Un gesto di grande umanità giudicato segno di temperamento fragile, in momenti in cui si pretende che un essere umano debba avere il contegno di una statua di bronzo. Ma di fronte a certi eventi, i cedimenti sono umani, appunto.

Il suo mandato intanto sta per scadere, in più circostanze ha dichiarato che  la sua esperienza finisce quest’anno, non riproporrà la sua candidatura.

 

 

TEMPESTA SULLA BREXIT: LE RIVELAZIONI DI CHRIS WYLIE NON NE ACCELERANO IL CORSO

DI VIRGINIA MURRU

 

Il percorso verso la Brexit è già di per sé travagliato e irto di ostacoli, i colpi di scena non sono certo mancati. Nello stesso Regno Unito, sul finire del 2016, si è messa in discussione la legittimità costituzionale nella procedura da seguire per l’uscita dall’Ue, se n’è occupata poi la Corte Suprema, la quale ha dato ragione ai sostenitori del ‘Remain’: necessaria l’autorizzazione del parlamento, per l’approvazione dei vari step durante i negoziati con l’Unione.

Le sorprese, tuttavia, non sono finite. Quest’anno, nell’”easter egg”, c’era qualcosa di più rilevante: lo scandalo emerso in seguito alle rivelazioni di Christopher Wylie, 28 anni, cofondatore di Cambridge Analytica, società legata da contratto di collaborazione a Facebook.

L’informatore, ora ex dipendente della società londinese, ha fornito gli estremi per un’inchiesta giornalistica, che ha contribuito a portare a conoscenza degli utenti europei e americani, la violazione della privacy su circa 50 milioni di profili Facebook.

Intanto, Wylie, ha reso testimonianza davanti al parlamento inglese, tramite la Commissione Affari interni della Camera dei Comuni. L’informatore ha riferito delle strategie illecite e truffaldine adottate dal gruppo ”pro Brexit’’, volte a portare avanti il progetto di abbandono dell’Unione Europea, durante la campagna referendaria di due anni fa.

Le sue affermazioni sono state poi confermate anche da un altro testimone.
Wylie ha denunciato pubblicamente quello che è accaduto, perciò il whistleblower è stato definito “gola profonda e genio dislessico”, di un caso diventato clamoroso a livello internazionale, che non si è esaurito né è destinato a dissolversi come un semplice polverone mediatico.

Vi sono ripercussioni, in ciò che il giovane scienziato ha rivelato, che riguardano l’orizzonte politico, nell’ampio spettro d’azione che ha interessato eventi fondamentali nell’assetto interno e internazionale, quali l’esito del referendum sulla Brexit e l’elezione del presidente degli Usa, Donald Trump.
Cambridge Analytica ha seguito entrambe le campagne elettorali, con precisa attività di propaganda, sia in favore della Brexit che di Trump.

Le consultazioni elettorali sarebbero state in qualche modo ‘dopate’ da condizionamenti favoriti dall’uso illecito dei dati ‘trafugati’ agli ignari utenti facebook. Dati manipolati allo scopo d’indirizzare le intenzioni di voto in una direzione ben precisa: nel caso del referendum avvenuto nel giugno del 2016 in Gran Bretagna, verso la Brexit, mentre negli Usa, l’influenza sulla libera scelta di voto, doveva favorire proprio l’attuale presidente in carica. Extrema ratio di chi intendeva imburattinare la volontà popolare, e la libera espressione del voto, orientandone gli intenti nella direzione voluta.

“Missione compiuta” per Cambridge Analytica, ma a volte, per dirla con un luogo comune, il diavolo dimentica poi di fare i coperchi per le oscure manovre architettate dietro le quinte. In fin dei conti, questi sopraffini interventi di manipolazione degli elettori, vanno a scapito della libertà individuale, diritto che dovrebbe essere sacro e inviolabile, ma a quanto pare neppure i diritti fondamentali di una costituzione sono a “prova di scasso”.

L’acquisizione dei dati riguardanti circa 50 milioni di utenti Facebook da parte di Cambridge Analytica UK (società di consulenza con sede a Londra, si occupa di elaborazione e analisi di dati nel corso di una campagna elettorale), avveniva, secondo Wylie, tramite una società collegata (Aggregatelq), che permetteva l’accesso ai profili facebook .
Ma in che modo gli elettori, tramite il social, venivano influenzati nelle scelte elettorali?

Si analizzavano i dati che li riguardavano, le preferenze, e si influenzavano attraverso messaggi mirati, questa la strategia psicologica adottata per ‘dirottare’ il voto. Una sorta di ‘broglio-imbroglio’.

Ma non è tutto. Pare siano state violate le leggi di finanziamento stesso della campagna elettorale sulla Brexit, tramite trasferimento di donazioni tra associazioni ‘pro Leave’, e dunque favorevoli alla fuga dall’Ue. Secondo le indagini in corso, è stato superato il budget massimo consentito dalla legge britannica ai finanziamenti della propaganda elettorale. Una truffa ordita dai ‘ Vote Leave’.

Wylie è esplicito su questo punto: l’esito del referendum, senza questi espedienti poco ortodossi, sarebbe stato diverso.
Tutto un sottobosco di intenti ed azioni volte a influenzare l’esito del voto. Esistono le prove, ora l’onere di illuminare a giorno queste trame ordite all’insaputa dell’elettorato, sarà della Giustizia britannica. Il Ceo Mark Zuckemberg, intanto, invitato ad una audizione dal parlamento britannico, si è disimpegnato e ha autorizzato alcuni suoi collaboratori a rendersi disponibili.

Il giovanissimo amministratore delegato di Facebook, pungolato anche dal Senato americano, e invitato a rispondere delle responsabilità del social network davanti alla Commissione Commercio, ha deciso di presentarsi. In questa sede dovrà rispondere della violazione delle norme sulla privacy, sui dati riguardanti i profili di milioni di utenti. Anche in questo caso, si aveva accesso alle preferenze politiche, e con strategie di propaganda e messaggi mirati, nel corso della campagna elettorale, si cercava d’indirizzare il voto nella direzione voluta.

Wylie, ex dipendente di Cambridge Analytica, intervistato, al riguardo, sostiene:

“Come si fa a dire che comunque, anche senza questi risultati condizionati, l’esito sarebbe stato quello che è poi emerso, sia in Gran Bretagna che negli Usa? Se dopo una prestazione sportiva, in seguito ai controlli anti-doping, si riscontra che un atleta ha fatto uso di droghe, gli si prende la medaglia, e non si sta a pensare se il risultato, nonostante tutto sarebbe stato il medesimo. Così dovrebbe essere quando accadono eventi di carattere elettorale pilotati o illecitamente influenzati: si annullano.”

E aggiunge: “non è uno scherzo, la Brexit ha prodotto fondamentali cambiamenti di carattere costituzionale nel Regno Unito.”

Gina Muller, imprenditrice inglese, che aveva già messo in discussione, sul finire del 2016, la legittimità della procedura relativa alla Brexit, (convinta ‘Pro Ue’, aveva perorato la causa di chi voleva che fosse il parlamento inglese a pronunciarsi tramite il voto, sull’iter da seguire per l’uscita dall’Ue), esulta, e invoca un nuovo referendum, con maggiore vigilanza sui finanziamenti.

Facile a dirsi, non saranno dello stesso avviso né i conservatori britannici né quelli americani. A proposito di conservatori, uno dei due fondatori di Cambridge Analytica, è Robert Mercer, finanziere, magnate e ombra discreta di Trump (più che mai durante la sua campagna elettorale), sostenitore di tante iniziative politiche conservatrici.
Cambridge Analytica, su cui Mercer ha investito milioni di dollari, ha ovviamente diverse ‘succursali’ negli Stati Uniti, e ha seguito la campagna elettorale di Donald Trump, non è difficile concludere che le rivelazioni di Wylie siano più che verosimili a questo punto.

Anche l’Ue, tramite il Commissario alla Giustizia, ha chiesto, entro due settimane, chiarimenti a Facebook sull’uso improprio dei dati personali di milioni di cittadini europei. Ma non finisce qui.

Wylie, esperto di analisi dei dati, non per nulla è stato apostrofato con l’epiteto ‘gola profonda’. Egli ha fatto cenno ad un altro Stato nel mirino di Cambridge Analytica: l’Italia..
Ma è solo un cenno, non svela altro, anche se è difficile credere che le sue conoscenze al riguardo non vadano oltre.

“La società ha lavorato per alcuni partiti politici – sostiene – ma non so quali siano. So solo che c’era un italiano che lavorava con Cambridge Analytica, era il collegamento con l’Italia, ma non conosco il nome.”

Intanto la procura di Roma ha dato il via alle indagini, in seguito ad un esposto presentato da Codacons, Associazione dei consumatori che intende portare avanti un’azione di tutela nei confronti dei circa 30 milioni di italiani iscritti al social Facebook. L’esposto è stato trasmesso a ben 104 Procure in Italia, oltre che al Garante della Privacy, al fine di verificare se siano stati commessi illeciti proprio sul piano della privacy in territorio italiano.

Negli Usa non sono meno zelanti in proposito, già avviata una class action, con relativa azione legale, contro Facebook, i cui estremi sono stati presentati presso la Corte Distrettuale di S. José, in California.