QUELLA CONCORRENZA EUROPEA CHE FA SCAPPARE WHIRPOOL

DI PIERLUIGI PENNATI

Il lungo corteo che ieri ha percorso i cinque chilometri che separano lo stabilimento dal centro cittadino di Riva di Chieri, in provincia di Torino, è passato anche davanti all’oratorio dove da qualche mese campeggia uno striscione: «Noi stiamo con i lavoratori della Embraco».

Questa l’ennesima azienda che delocalizza andandosene dall’Italia, questo il paese dove tra pochi giorni ci saranno quasi 500 nuovi poveri senza un lavoro vero, non un lavoretto od un impiego temporaneo, un lavoro vero e che si pensava stabile che di colpo, quasi senza preavviso, viene a mancare.

È Whirlpool Usa, quotata a New York, che lo chiede, l’azienda Embraco, che per lei produce motori per frigoriferi, deve chiudere la produzione in Italia per spostarla, si dice, nello stabilimento di Spisska Nova Ves in Slovacchia, dove i lavoratori sarebbero già in allerta nonostante lo scontento per le condizioni lavorative poco dignitose.

La ragione?

Né la controllante Whirpool, che si limita a dare ordini, né Embraco la specificano, diramando solo una nota nella quale si conferma “l’intenzione di procedere alla cessazione della produzione nello stabilimento di Riva Presso Chieri, mantenendo comunque una presenza in Italia”.

Tutto arriva dopo anni di aiuti elargiti da Finpiemonte, e non solo, alla Embraco per continuare a produrre nello stabilimento di Riva: nel 2004 la giunta guidata da Enzo Ghigo, Forza Italia, sovvenzionò con 7,7 milioni di euro, il governo Berlusconi fornì 5 milioni e la provincia poco più di mezzo milione, mentre al governo della regione sotto Roberto Cota si devono le ultime risorse, non meno di due milioni sulla carta, assegnati solo per un terzo, mentre, nella trattativa che era già in corso dopo l’annuncio nelle ultime settimane di una riduzione della produzione, la giunta regionale in carica aveva offerto il restante milione e mezzo di euro, rifiutato però dalla proprietà che ora chiude e se ne va, anche se non completamente, nella nota diramata, l’azienda sostiene che “l’Italia rimane un Paese importante per Embraco che manterrà qui una presenza con un ufficio commerciale al fine di continuare ad assistere la propria clientela”, ben 40 unità che sopravvivranno ai 537 occupati, con un bilancio di 497 lavoratori licenziati.

Nella stessa nota si legge anche che “prima di giungere a questa decisione sono stati attentamente valutati diversi scenari alternativi ma nessuno di questi ha rappresentato una soluzione appropriata per continuare la produzione nello stabilimento” e l’azienda si dice anche “pienamente consapevole delle sue responsabilità nei confronti dei propri dipendenti”, per i quali “lavorerà in stretta collaborazione con i rappresentanti sindacali, le autorità pubbliche e i funzionari locali per cercare soluzioni perseguibili e su misura per il personale coinvolto”.

Ma la realtà è che, come sempre, le decisioni sembrano essere già state prese e ora si vorrebbero probabilmente usare gli strumenti di legge per evitare problemi e se possibile persino guadagnarci, anche perché se in Italia i dati ufficiali dicono che il costo del lavoro è di 27,5 Euro l’ora, in Slovacchia, dove sembra essere destinata la produzione, è di soli 10,2, con un più che dimezzamento del costo della mano d’opera per l’azienda.

Proprio la mano d’opera, è evidente, è l’unico elemento della produzione che sfugge alle leggi generali dei mercati, infatti se per una materia prima il valore dipende da fattori quasi incomprimibili e la trasformazione rientra negli investimenti, il lavoro umano dipende solo da quanto la persona è in grado di accettare e sopportare in termini economici e di tempo, quindi, almeno teoricamente, può essere portato agli estremi fisici attraverso la competizione tra i soggetti.

Così, senza regole che impediscano almeno ai paesi membri della comunità europea di “rubarsi” le imprese, attirandole con condizioni migliori per loro, e senza limiti generali che tengano conto del valore anche della dignità umana, in Europa si passa da un costo del lavoro di 42 Euro in Danimarca a 4,4 in Bulgaria e, senza cercare in nazioni lontane, nella sola Comunità Europea ci sono ben sedici nazioni dove il lavoro costa meno che in Italia, persino in Inghilterra, e, tra queste, dieci sono sotto la metà del nostro valore nazionale.

Così, in uno scenario nazionale dove si scoprono esistere realtà che già pagano i dipendenti pochi euro l’ora, a quasi nulla serviranno le promesse elettorali di fissare il salario minimo ad almeno dieci euro l’ora, servono invece riforme che tengano conto della dignità delle persone in modo globale o che ci possano sottrarre a questo perverso sistema di concorrenza tra stati, che dovrebbero essere “fratelli” e che invece si accaparrano attività piantandosi “coltelli” alle spalle, vale a dire uscire dall’Europa.

La politica dei favori alle imprese ha fallito, anche questo sembra essere evidente, serve ora un ritorno ad una politica della nazione, curiosamente quella stessa politica attuata a partire dalla fondazione della repubblica che, salvaguardando ed aumentando diritti e dignità dei lavoratori, è stata capace di portare l’Italia fuori dalla crisi del dopoguerra, ma che è durata solo fino agli anni ’80, quando, in nome di un’economia globale sconosciuta al popolo, si sono cominciati a erodere, fino ad annullarli, diritti e tutele, non solo del singolo ma anche della società, arrivando alla cancellazione della divisione tra affari e commercio che prima proteggeva il mercato del lavoro e che oggi sta portandolo alla distruzione.

Embraco non sarà l’ultima azienda che se ne va, le aziende, se i governi non fermano questi processi, si spostano dove conviene a loro e non dove conviene ai dipendenti: Adriano Olivetti, inascoltato, pensava ad una “fabbrica per l’uomo” e non ad un ”uomo per la fabbrica”, dopo tanti anni oggi rischiamo di non avere nemmeno più le fabbriche.