ACEA: SINDACATI IN FESTA, MA L’ARTICOLO 18 NON SERVE PIÙ A NULLA

DI PIERLUIGI PENNATI

Che Confindustria adottasse un manuale del “buon padrone” era risaputo, non fanno nemmeno più effetto le frasi copia incolla utilizzate da tutte le aziende per reagire con omogeneità alle richieste dei lavoratori, ma che la sottoscrizione “in autonomia” di un Contratto Integrativo Aziendale potesse addirittura costare l’espulsione dall’associazione industriali, questo ancora non lo avevamo potuto immaginare.

Il pomo della discordia è l’accordo tra ACEA e sindacati, ancora fresco di firma, in esso, oltre alle altre previsioni economiche e normative, di fatto si intende ripristinare per i dipendenti della società la piena effettività della stesura originale dell’articolo 18, ovvero vietato licenziare anche i neo assunti senza un giustificato motivo.

Prima di elencare, però, favorevoli e contrari, serve comunque una riflessione di base, perché l’articolo 18 della legge 300/70, precedentemente alla modifica del 2012, individuava in modo generale l’illegittimità del licenziamento quando questo era “intimato senza giusta causa o giustificato motivo”, mentre successivamente le tutele venivano previste solamente quando questo avveniva in modo “discriminatorio ai sensi dell’articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell’articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all’articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero perché’ riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del codice civile”.

Dal confronto dei due casi si evidenziano già delle differenze che, pur non essendo valutabili facilmente per via della necessaria conoscenza di tutte le situazioni richiamate nella legge, nell’accordo siglato con ACEA sarebbero spazzate, via provocando la conseguente ira dell’unione industriali e l’esultanza dei sindacati, se non fosse per un piccolo insignificante dettaglio: anche con l’articolo 18 nella stesura originale la giurisprudenza non è più la stessa.

Quello che oggi non si deve dimenticare è che il 7 dicembre 2016, con sentenza n.25201, la Corte di Cassazione ha radicalmente modificato l’interpretazione di “giusta causa o giustificato motivo” prevista nell’incriminato articolo 18, aggiungendo alle tradizionali e comprensibili ragioni di licenziamento, tra le quali spiccava la crisi aziendale, anche la competitività dell’impresa.

A tal proposito non è inutile ricordare anche che il “giustificato motivo” era ed è ancora regolato dalla legge 604 del 1966, anch’essa toccata dalla legge Fornero, 92/12, ma che ha lasciato immutato l’articolo 3 che dice ancora semplicemente: “Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso é determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.”

Fino a dicembre 2016 i giustificato motivo legato all’organizzazione dell’impresa era praticamente solo quando si poteva dichiarare una situazione di crisi, l’alta Corte, invece, chiamata a giudicare un licenziamento individuale avvenuto solo per ridurre il personale ed aumentare la redditività dell’azienda in forte attivo, attraverso la ridistribuzione del carico di lavoro del licenziato tra altri due dipendenti, ha detto: “Ai fini della legittimità del licenziamento individuale intimato per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della I. n. 604 del 1966, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, tra le quali non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell’impresa, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa; ove però il licenziamento sia stato motivato richiamando l’esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese notevoli di carattere straordinario ed in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste, il recesso può risultare ingiustificato per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità e sulla pretestuosità della causale addotta dall’imprenditore“.

Ecco che, improvvisamente, la situazione di crisi non è più indispensabile e tutti i dipendenti sono posti indiscriminatamente sotto la spada di Damocle del maggior profitto, vale a dire che possono essere licenziati anche quando un datore di lavoro senza troppi scrupoli, ed ultimamente sembra esserci una vera e propria epidemia, voglia solo far lavorare come schiavi i propri dipendenti, sopravvissuti dopo aver sacrificato qualcuno di loro.

Ecco che, a questo punto, siamo all’epilogo e dopo l’accordo storico di ACEA la giunta capitolina a 5 stelle, per prima, proclama di aver voluto riproporre, forse provocatoriamente e per propaganda, il testo originale dell’articolo 18 in un accordo con i suoi dipendenti; Confindustria, anch’essa forse provocatoriamente e per propaganda, si lamenta minacciando un’espulsione eccellente ed i sindacati, forse solo per propaganda, osannano alla vittoria di Pirro.

Da una parte il vicepresidente per le relazioni industriali di Confindustria, Maurizio Stirpe, che sbotta contro l’accordo per non essere nemmeno stato informato: “proditorio dei principi della correttezza e lealtà dei rapporti sindacali”, che vede la cosa anche come “una ingerenza indebita della politica” che “coglie di sorpresa”, non escludendo il ricorso ai probiviri per un’eventuale espulsione e dall’altra il segretario della Federazione Italiana Lavoratori Chimica Tessile Energia Manifatture (CGIL) che dice che il diritto del lavoro “rientra in fabbrica” con “un atto di coraggio dei vertici aziendali cui rivolgiamo il nostro plauso e, insieme, il giusto premio nei confronti delle organizzazioni sindacali di categoria e aziendali per la tenacia nel voler raggiungere un risultato che hanno fortemente voluto e per il quale si sono coerentemente battuti”.

Anche Susanna Camusso, sotto i riflettori di sempre, è raggiante e sostiene che questo atto “può segnare un punto di svolta che potrà consentire, anche a quell’azienda, di essere attenta non solo ai bisogni del management e della politica, ma a quelli ben più importanti dei cittadini e dei lavoratori”, “quanto sottoscritto in Acea apre una nuova fase della contrattazione.”.

Pane al pane, vino al vino, se l’accordo integrativo siglato non tiene conto delle novità introdotte dal Jobs Act sull’articolo 18 e mantiene la possibilità di reintegro per i licenziamenti senza giusta causa e giustificato motivo anche per i nuovi assunti, quello che va valutato è che ormai sarà sufficiente un minimo cambio di direzione delle aziende per poter riorganizzare il lavoro ed espellere chiunque “non serva più”, giovane od anziano che sia.

Come al solito mentre il saggio indica la luna tutti stiamo ad osservare il dito.