È ANCORA AMAZON, MA ADESSO LICENZIA

DI PIERLUIGI PENNATI

È ancora Amazon a far parlare di sé, ma questa volta non per l’attivo storico con ricavi alle stelle, per il supermercato senza personale, i droni o le polemiche sui braccialetti, questa volta a farla da padrona è la ghigliottina.

Dopo anni di assunzioni la società fondata da Jeff Bezos sembra in procinto di invertire la tendenza e licenziare, lo ha rivelato la stampa americana, confermata poi dalla proprietà, obiettivo: ridurre le spese.

Così non solo in Italia si fa cassa, ovunque sia possibile licenziare si comprimono gli organici a parità di produzione, con il risultato di aumentare i carichi di lavoro delle persone fino al limite fisico sostenibile, vale a dire fino a quando la prestazione d’opera non è più un lavoro moderno, ma qualcosa di vicino e più simile ad una moderna schiavitù.

Ecco che dopo 8 anni di assunzioni ininterrotte che hanno fatto raggiungere il personale di Amazon impegnato nell’e-commerce fino a 566mila dipendenti nel 2017, le indiscrezioni parlano oggi di 12mila licenziamenti complessivamente in tutto il mondo, dei quali quasi 4mila nel solo quartier generale di Seattle, un terzo del totale.

Dipendenti quadruplicati in pochi anni e poi apparentemente gettati via come numeri in eccesso, non per crisi aziendale, ma per cambiamento della politica occupazionale interna.

La domanda, ancora una volta, non è solo perché avvenga, ma quanto realmente conti ancora la manodopera umana, quale posto nella scala dei valori venga universalmente riconosciuto ad essa se non si può più fare a meno delle macchine ma si possono trattare le persone alla stessa stregua dei numeri.

La prima cosa che mi viene in mente è l’esperienza della svizzera Swatch, quella degli orologi, per i meno giovani non sarà difficile ricordare la follia che a fine anni ’80 colpì una gran parte del mondo per i loro prodotti e durata oltre un decennio.

Gli orologi di plastica da loro prodotti costavano 50 franchi, ai tempi 50.000 lire, quelli semplici, e 100 franchi, i cronografi e gli automatici, ed ancora oggi hanno lo stesso prezzo, ma la corsa modaiola ad acquistarli li aveva fatti diventare introvabili, alcune versioni, come il cronografo “Black Friday”, erano così rare da farle valutare ai collezionisti migliaia di franchi ancor prima della loro emissione ed alcuni modelli andavano all’asta per cifre favolose.

La Swatch andava a gonfie vele, aveva ordini per anni ma non accennava ad aumentare il personale e la produzione.

Alla domanda fatta ai responsabili aziendali del perché della loro calma, questi risposero che l’azienda era consapevole che si trattava di un momento di fortuna, ma che non sarebbe durato in eterno, e pur non potendo fare previsioni quando sarebbe finito avrebbero avuto il problema di gestire una crisi aziendale, conti in rosso e famiglie sul lastrico e questo non era economicamente ed eticamente sostenibile per loro.

La follia finì e la Swatch non licenziò nessuno, non entrò in crisi e, tra alti e bassi di mercato, è ancora oggi una delle aziende di orologi più conosciute al mondo e con una ragionata politica di espansione, insidiata solo dagli Smart Swatch sempre più di moda.

Ancora una volta dobbiamo imparare dalla ristretta mentalità svizzera?

Forse, ma forse dovremmo solo pensare di più alle persone e meno al mero profitto: come è possibile considerare progresso l’espandere il valore virtuale del denaro a discapito di chi dovrebbe produrlo e beneficiarne?

In un processo industriale ci sono molti fattori in gioco, tra questi certamente la materia prima, la sua trasformazione e la manodopera necessaria, se la materia prima è soggetta a regole oltre le quali il suo valore non è più comprimibile senza comprometterla e quindi irrinunciabile, la sua trasformazione coinvolge gli investimenti, macchinari ed impianti, anch’essi comprimibili fino ad un certo punto e rientranti in costi fissi di ammortamento, fuori da questo processo resta solo la manodopera: fino a che punto se ne possono comprimere i costi?

La risposta è semplice e ce la insegna la storia: fino al limite della sopportazione umana.

È così che è nato il proletariato, è così che venivano trattati gli schiavi, è così che sono sorte le grandi ribellioni.

Amazon non è un’eccezione, la finanza globale domina le attività umane, vale a dire, non potendo agire troppo sugli altri fattori, tende a comprimere il valore della prestazione d’opera fino ad annullarne la dignità ed aumentando lo sfruttamento fino a trasformare il lavoro in schiavitù.

Che il lavoro nobiliti l’uomo è una stereotipo che tutti conosciamo, questo deriva dal fatto che ai tempi dei nobili e dei contadini il lavoro non era considerato nobile perché non produceva ricchezza per chi lo faceva ma solo per chi lo controllava, i nobili, appunto.

Nel moderno concetto del lavoro questo è in grado di produrre ricchezza ed emancipazione anche per chi lo fa, quindi rende nobili, ovvero nobilita.

È quando questa ricchezza viene meno, perché non permette di andare oltre la sopravvivenza, che dobbiamo farci delle domande e porci dei limiti, se è vero che siamo in democrazia, se è vero che la sovranità spetta al popolo, dovrebbe essere quest’ultimo l’oggetto della maggiore attenzione da parte dello stato e non solo il lavoro od il valore economico virtuale che esso produce.

Se l’etica e la morale sono valori dimenticati dalla finanza, queste non possono essere trascurate dall’uomo che dovrebbe, perlomeno, imporvi due fattori: un valore minimo della prestazione legato al costo della vita ed una assicurazione sociale sostenuta dalle attività di chi lavora.

C’è una guerra in corso tra i mercati e l’umanità, sta a noi scegliere da che parte stare.