GENTILONI NON SORPRENDE

DI PIERLUIGI PENNATI
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Nessuna vera sorpresa alla conferenza stampa di fine anno di Gentiloni che, nel ricordare che il suo governo è nato il giorno successivo alle “dimissioni di Matteo Renzi, provocate dalla sconfitta al referendum” ha detto “Continueremo le riforme avviate dal governo Renzi” perché “Cancellare o relegare nell’oblio il governo Renzi sarebbe un errore” ed ancora “La rivendicazione di continuità non è un puntiglio, ma completamento delle riforme è un’esigenza del Paese, non abbiamo finito e non abbiamo scherzato. Tutti devono essere consapevoli che il processo di riforme andrà avanti nel tempo che abbiamo a disposizione”.
Si spinge poi sulla legge elettorale per la quale sostiene che “Il governo cercherà di dare un contributo anche sulla legge elettorale”, “Avere con sollecitudine regole elettorali non è interesse di chi vuole accorciare o allungare la legislatura, è interesse nostro e delle istituzioni e per questo il governo accompagnerà, sollecitando, questo percorso perché lo riteniamo importante”.
E per il 2017 “Il governo farà del suo meglio per migliorare la situazione del Paese” “proseguendo le riforme che sono avviate”, ma anche senza rinunciare a parlare del Jobs Act che considera “un’ottima riforma del lavoro”, sostenendo che “Nel contesto dell’economia italiana e dei suoi livelli di crescita i nostri numeri di lavoro a tempo indeterminato, di riduzione della disoccupazione, vanno nella direzione giusta”, ma poi, non perdendo di vista la possibilità imminente del referendum, “Certamente è qualcosa che dobbiamo sviluppare. E correggere e cambiare dove c’è da correggere e cambiare. C’è qualcosa da cambiare nei famosi voucher, senza accedere all’idea che questi voucher siano una specie di virus che semina lavoro nero nella nostra società. Perché nascono, all’opposto, come un tentativo di rispondere.”, ammettendo che “ci sono anche cose che non funzionano, eccessi o settori in cui l’uso dei voucher va limitato. Dobbiamo capire questi abusi che rischiano di snaturare uno strumento senza pensare che siano l’origine di tutti guai perché è una semplificazione che non aiuta”.
Sule tasse “Il governo negli ultimi due o tre anni ha fatto riduzioni fiscali molte serie”, ma non promette nulla, “non diciamo a 15 giorni dal nostro insediamento cose impegnative che potrebbero non essere mantenute”
La sicurezza resta un problema, “Non esistono paesi non a rischio ma esistono paesi che possono impegnarsi sul terreno della prevenzione e sicurezza e su quello dell’accoglienza”, “ci sono tante cose da fare. Dobbiamo mantenere alta la guardia “.
Per MPS sostiene che il governo ha “messo in sicurezza il risparmio con il decreto salva risparmio, la cui attuazione sarà lunga e complicata”, rivendicando di aver preso una decisione “strategica e fondamentale” con l’obiettivo principale di “salvaguardare i risparmiatori”.
Non sono mancate parole per la vicenda Vivendi per la quale ci sarebbe l’attenzione vigile del governo che è consapevole “dell’importanza di Mediaset in Italia” e per il quale “il fatto che sia oggetto di una scalata non ci lascia indifferente” ed in chiusura, incalzato dai cronisti, è riuscito persino a difendere la contestata nomina a sottosegretario alla Presidenza del Consiglio di Maria Elena Boschi, spiegando che si è trattato di una decisione personale, “che ci crediate o no”, dato che sarebbe “una risorsa e può fare un lavoro molto utile.”
Chi si aspettava sorprese è, evidentemente, rimasto deluso.

GENTILONI NON SORPRENDE

Nessuna vera sorpresa alla conferenza stampa di fine anno di Gentiloni che, nel ricordare che il suo governo è nato il giorno successivo alle “dimissioni di Matteo Renzi, provocate dalla sconfitta al referendum” ha detto “Continueremo le riforme avviate dal governo Renzi” perché “Cancellare o relegare nell’oblio il governo Renzi sarebbe un errore” ed ancora “La rivendicazione di continuità non è un puntiglio, ma completamento delle riforme è un’esigenza del Paese, non abbiamo finito e non abbiamo scherzato. Tutti devono essere consapevoli che il processo di riforme andrà avanti nel tempo che abbiamo a disposizione”.

Si spinge poi sulla legge elettorale per la quale sostiene che “Il governo cercherà di dare un contributo anche sulla legge elettorale”, “Avere con sollecitudine regole elettorali non è interesse di chi vuole accorciare o allungare la legislatura, è interesse nostro e delle istituzioni e per questo il governo accompagnerà, sollecitando, questo percorso perché lo riteniamo importante”.

E per il 2017 “Il governo farà del suo meglio per migliorare la situazione del Paese” “proseguendo le riforme che sono avviate”, ma anche senza rinunciare a parlare del Jobs Act che considera “un’ottima riforma del lavoro”, sostenendo che “Nel contesto dell’economia italiana e dei suoi livelli di crescita i nostri numeri di lavoro a tempo indeterminato, di riduzione della disoccupazione, vanno nella direzione giusta”, ma poi, non perdendo di vista la possibilità imminente del referendum, “Certamente è qualcosa che dobbiamo sviluppare. E correggere e cambiare dove c’è da correggere e cambiare. C’è qualcosa da cambiare nei famosi voucher, senza accedere all’idea che questi voucher siano una specie di virus che semina lavoro nero nella nostra società. Perché nascono, all’opposto, come un tentativo di rispondere.”, ammettendo che “ci sono anche cose che non funzionano, eccessi o settori in cui l’uso dei voucher va limitato. Dobbiamo capire questi abusi che rischiano di snaturare uno strumento senza pensare che siano l’origine di tutti guai perché è una semplificazione che non aiuta”.

Sule tasse “Il governo negli ultimi due o tre anni ha fatto riduzioni fiscali molte serie”, ma non promette nulla, “non diciamo a 15 giorni dal nostro insediamento cose impegnative che potrebbero non essere mantenute”

La sicurezza resta un problema, “Non esistono paesi non a rischio ma esistono paesi che possono impegnarsi sul terreno della prevenzione e sicurezza e su quello dell’accoglienza”, “ci sono tante cose da fare. Dobbiamo mantenere alta la guardia “.

Per MPS sostiene che il governo ha “messo in sicurezza il risparmio con il decreto salva risparmio, la cui attuazione sarà lunga e complicata”, rivendicando di aver preso una decisione “strategica e fondamentale” con l’obiettivo principale di “salvaguardare i risparmiatori”.

Non sono mancate parole per la vicenda Vivendi per la quale ci sarebbe l’attenzione vigile del governo che è consapevole “dell’importanza di Mediaset in Italia” e per il quale “il fatto che sia oggetto di una scalata non ci lascia indifferente” ed in chiusura, incalzato dai cronisti, è riuscito persino a difendere la contestata nomina a sottosegretario alla Presidenza del Consiglio di Maria Elena Boschi, spiegando che si è trattato di una decisione personale, “che ci crediate o no”, dato che sarebbe “una risorsa e può fare un lavoro molto utile.”

Chi si aspettava sorprese è, evidentemente, rimasto deluso.

“NESSUNA ALTERNATIVA AL PROPORZIONALE”, QUANDO TUTTO È RELATIVO

Lo sapeva Einstein, ma non bisogna essere geni per capirlo: tutto è relativo.

Così, dopo aver tentato nel 2006 la stessa riforma costituzionale fallita anche da Matto Renzi, per un maggioritario che escludesse le minoranze e fornisse pieni poteri al vincitore delle elezioni in nome della governabilità, anche Silvio Berlusconi fa retromarcia, anzi, potremmo dire un vero e proprio “indietro tutta”.

Ecco che, alla vigilia dell’annuncio delle nomine dei sottosegretari del nuovo governo, un Berlusconi ormai ridotto ai minimi termini e con la credibilità ossidata dal tempo, la posizione ufficiale che dà del suo partito è il ritorno alle origini costituzionali: il proporzionale puro, o quasi.

“Noi non vediamo un’altra soluzione che quella di un sistema elettorale proporzionale che garantisca la corrispondenza tra la maggioranza parlamentare e la maggioranza popolare. E solo una legge proporzionale in uno scenario politico tripolare può garantire che la maggioranza in parlamento si identifichi con la maggioranza dei cittadini”.

Questo il Silvio Berlusconi di fine 2016 nel tradizionale messaggio di stagione a Paolo Russo, coordinatore di Forza Italia a Napoli, “Mi auguro che il governo Gentiloni traduca in concreto il proposito di facilitare un accordo su questa materia, che ovviamente spetta al Parlamento, e che in sede parlamentare il Pd dimostri di aver capito la lezione della sconfitta referendaria e si renda partecipe di un percorso condiviso sulle regole”.

Dopo tante battaglie per sdoganare un concetto di destra nell’Italia dalle radicate reminiscenze antifasciste e poter governare da solo, di fronte alla possibilità che a farlo siano altri, ed in particolare un movimento 5 stelle del quale dice che “non è credibile”, l’unica alternativa rimastagli per sopravvivere politicamente sembra essere quella di tornare a contare i singoli voti, e magari persino le preferenze.

Ma Berlusconi è Berlusconi e certamente la sola sopravvivenza gli va stretta, quindi apre già la campagna elettorale per tentare un rientro in grande stile, ancora una volta da leader e prodigando suggerimenti al governo che afferma di voler sostenere solo per i provvedimenti che riterrà utili e positivi, nonostante sia la fotocopia del precedente: “Al governo spetta gestire alcune vere e proprie emergenze sul piano interno e internazionale. Lo vedremo all’opera e valuteremo ogni provvedimento proposto dal governo stesso sostenendolo col nostro voto ove lo ritenessimo positivo e utile nei confronti dell’Italia e degli italiani. Questo da sempre è il nostro modo di essere all’opposizione, una opposizione responsabile che ci distingue dalla politica del tanto peggio, tanto meglio, proprio dell’opposizione della sinistra. Naturalmente si tratta di un governo molto simile al precedente, al quale noi non possiamo e non vogliamo assicurare il nostro sostegno, pur apprezzando lo stile sobrio ed equilibrato fin qui manifestato dal Presidente del Consiglio”.

Fin qui le novità non sembrano poi tante, in fondo sostenere i governi per i provvedimenti utili e per il rilancio dell’economia e dell’immagine nazionale non dovrebbe essere una concessione delle opposizioni ma un dovere civico di tutti, ma il punto è proprio questo, con un atto pubblico di apparente coerenza e responsabilità si ridà tono e vitalità ad un partito che ormai molti avevano pensato finito, che sarà di Forza Italia senza Berlusconi?

Eccolo quindi di nuovo alla carica ed in campagna elettorale: “Di fronte alla sconfitta del renzismo e all’evidente incapacità dei Cinque stelle di proporsi come credibile alternativa di governo solo una proposta politica seria, credibile, basata su un programma liberale e riformatore, sui principi cristiani e sui valori del partito del popolo europeo, può permettere all’Italia di uscire dalla crisi e al tempo stesso sconfiggere la disaffezione alla politica che ha portato metà degli italiani a disertare le urne. Ed è soprattutto nei confronti di questi italiani che noi dobbiamo svolgere una campagna di persuasione e di coinvolgimento”.

La stagione degli slogan e dei proclami sembra quindi ancora aperta nella nostra nazione e non mancano persino le promesse: “Nella cosiddetta povertà relativa ci sono pensionati che, dopo una vita di lavoro, avrebbero diritto a trascorrere con serenità e in condizioni dignitose la propria vecchiaia. Per questo l’aumento delle pensioni minime a mille euro è uno dei primi provvedimenti che prenderà il nostro governo. Siamo credibili nel prometterlo, perché lo abbiamo già fatto, nel 2001, quando abbiamo aumentato le pensioni ad un minimo di un milione di lire, cifra che allora significava un grande passo avanti”.

Indietro tutta, quindi, per andare avanti, ma se in Italia la vera crisi si gioca sulla credibilità, chi spunterà la partita: il nuovo che indietreggia od il vecchio che avanza?

"NESSUNA ALTERNATIVA AL PROPORZIONALE", QUANDO TUTTO È RELATIVO

DI PIERLUIGI PENNATI
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Lo sapeva Einstein, ma non bisogna essere geni per capirlo: tutto è relativo.
Così, dopo aver tentato nel 2006 la stessa riforma costituzionale fallita anche da Matto Renzi, per un maggioritario che escludesse le minoranze e fornisse pieni poteri al vincitore delle elezioni in nome della governabilità, anche Silvio Berlusconi fa retromarcia, anzi, potremmo dire un vero e proprio “indietro tutta”.
Ecco che, alla vigilia dell’annuncio delle nomine dei sottosegretari del nuovo governo, un Berlusconi ormai ridotto ai minimi termini e con la credibilità ossidata dal tempo, la posizione ufficiale che dà del suo partito è il ritorno alle origini costituzionali: il proporzionale puro, o quasi.
“Noi non vediamo un’altra soluzione che quella di un sistema elettorale proporzionale che garantisca la corrispondenza tra la maggioranza parlamentare e la maggioranza popolare. E solo una legge proporzionale in uno scenario politico tripolare può garantire che la maggioranza in parlamento si identifichi con la maggioranza dei cittadini”.
Questo il Silvio Berlusconi di fine 2016 nel tradizionale messaggio di stagione a Paolo Russo, coordinatore di Forza Italia a Napoli, “Mi auguro che il governo Gentiloni traduca in concreto il proposito di facilitare un accordo su questa materia, che ovviamente spetta al Parlamento, e che in sede parlamentare il Pd dimostri di aver capito la lezione della sconfitta referendaria e si renda partecipe di un percorso condiviso sulle regole”.
Dopo tante battaglie per sdoganare un concetto di destra nell’Italia dalle radicate reminiscenze antifasciste e poter governare da solo, di fronte alla possibilità che a farlo siano altri, ed in particolare un movimento 5 stelle del quale dice che “non è credibile”, l’unica alternativa rimastagli per sopravvivere politicamente sembra essere quella di tornare a contare i singoli voti, e magari persino le preferenze.
Ma Berlusconi è Berlusconi e certamente la sola sopravvivenza gli va stretta, quindi apre già la campagna elettorale per tentare un rientro in grande stile, ancora una volta da leader e prodigando suggerimenti al governo che afferma di voler sostenere solo per i provvedimenti che riterrà utili e positivi, nonostante sia la fotocopia del precedente: “Al governo spetta gestire alcune vere e proprie emergenze sul piano interno e internazionale. Lo vedremo all’opera e valuteremo ogni provvedimento proposto dal governo stesso sostenendolo col nostro voto ove lo ritenessimo positivo e utile nei confronti dell’Italia e degli italiani. Questo da sempre è il nostro modo di essere all’opposizione, una opposizione responsabile che ci distingue dalla politica del tanto peggio, tanto meglio, proprio dell’opposizione della sinistra. Naturalmente si tratta di un governo molto simile al precedente, al quale noi non possiamo e non vogliamo assicurare il nostro sostegno, pur apprezzando lo stile sobrio ed equilibrato fin qui manifestato dal Presidente del Consiglio”.
Fin qui le novità non sembrano poi tante, in fondo sostenere i governi per i provvedimenti utili e per il rilancio dell’economia e dell’immagine nazionale non dovrebbe essere una concessione delle opposizioni ma un dovere civico di tutti, ma il punto è proprio questo, con un atto pubblico di apparente coerenza e responsabilità si ridà tono e vitalità ad un partito che ormai molti avevano pensato finito, che sarà di Forza Italia senza Berlusconi?
Eccolo quindi di nuovo alla carica ed in campagna elettorale: “Di fronte alla sconfitta del renzismo e all’evidente incapacità dei Cinque stelle di proporsi come credibile alternativa di governo solo una proposta politica seria, credibile, basata su un programma liberale e riformatore, sui principi cristiani e sui valori del partito del popolo europeo, può permettere all’Italia di uscire dalla crisi e al tempo stesso sconfiggere la disaffezione alla politica che ha portato metà degli italiani a disertare le urne. Ed è soprattutto nei confronti di questi italiani che noi dobbiamo svolgere una campagna di persuasione e di coinvolgimento”.
La stagione degli slogan e dei proclami sembra quindi ancora aperta nella nostra nazione e non mancano persino le promesse: “Nella cosiddetta povertà relativa ci sono pensionati che, dopo una vita di lavoro, avrebbero diritto a trascorrere con serenità e in condizioni dignitose la propria vecchiaia. Per questo l’aumento delle pensioni minime a mille euro è uno dei primi provvedimenti che prenderà il nostro governo. Siamo credibili nel prometterlo, perché lo abbiamo già fatto, nel 2001, quando abbiamo aumentato le pensioni ad un minimo di un milione di lire, cifra che allora significava un grande passo avanti”.
Indietro tutta, quindi, per andare avanti, ma se in Italia la vera crisi si gioca sulla credibilità, chi spunterà la partita: il nuovo che indietreggia od il vecchio che avanza?

IL JOBS ACT CAMBIA PER EVITARE IL REFERENDUM

DI PIERLUIGI PENNATI
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Tutto da rifare. Sembra un bollettino di guerra quello che ogni giorno che passa rende sempre più evidente la situazione: nessuno dei governi tecnici o di responsabilità passati ha centrato davvero l’obiettivo.
Con tre milioni di disoccupati stabilmente censiti, i Vaucher venduti in ottobre a quota 121 milioni, mobilità, cassa integrazione e DISCOLL cestinati da capodanno e che la NASpI non lascia intendere di poter davvero soppiantare del tutto, il 2017 non sembra partire sotto buoni auspici ed a questo si aggiunga che le proteste non si fermano più alle piazze, ma imbracciano le armi del diritto proponendo referendum al posto di semplici manifestazioni e dichiarazioni di dissenso.
Per far fronte a questa situazione di emergenza, generata anche dalla pressione dei tre referendum promossi dalla Cgil sul ritorno all’articolo 18, l’abolizione dei voucher e la corresponsabilità negli appalti, il governo sembra essere pronto a una stretta sui voucher, abbassandone i tetti ed aumentando controlli e sanzioni.
I ticket da dieci euro lordi, ma che ne valgono solo sette, sono nati per pagare i lavoretti, ma sono diventati in fretta il simbolo della nuova precarietà e della protesta contro le politiche del lavoro dell’esecutivo Renzi dopo la liberalizzazione normativa.
I margini per intervenire non sembrano essere molti e, forse, solo la loro abolizione potrebbe segnare una vera novità, ma attualmente l’attesa del governo sembra essere per il primo monitoraggio sulla tracciabilità dei ticket, che potrebbe arrivare già nei prossimi giorni, e la decisione della Consulta l’11 gennaio.
Dalle tabelle INPS si dovrebbe poter dedurre se l’obbligo introdotto ad ottobre di mandare un SMS od una email almeno un’ora prima di impiegare la manodopera attraverso i Vaucher abbia funzionato da deterrente o meno. Senza un evidente calo delle cifre il ministro del Lavoro Poletti si è detto pronto a “rideterminare dal punto di vista normativo il confine del loro uso”.
Ma l’attesa è per la decisione della Corte sulla globalità dei quesiti proposti che potrebbero minare alle fondamenta l’intero impianto del Jobs Act, eventualità di fronte alla quale la sola modifica od abolizione dei voucher non sarà più così importante.
Ma se dovesse passare la sola richiesta di abolizione dei voucher, una loro modifica diventerà obbligata per riportare il tetto massimo di introiti per il lavoratore a 5 mila euro, dagli attuali 7 mila, o persino meno, ma anche inasprendo i controlli ed aumentando le sanzioni pecuniarie per i furbetti che vorrebbero sostituire i contratti di lavoro con i soli buoni.
Teoricamente i voucher dovevano consentire l’emersione del lavoro nero, ma sembra essere successo esattamente il contrario con i ticket utilizzati proprio per nascondere il lavoro nero.
Il parere su questo punto sembra essere unanime, i sindacati, ma anche il presidente della Commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano e il presidente dell’INPS Tito Boeri, hanno definito i voucher come una nuova frontiera per il precariato.
Il problema sarebbe che i datori di lavoro segnerebbero molte meno ore di lavoro di quelle effettivamente rese dal personale, per correre ai ripari solo durante i controlli, o peggio, quando accade un incidente del lavoro. In queste occasioni il datore di lavoro correrebbe e a compilare anche i voucher a copertura delle ore restanti per risultare in regola con i contributi.
Cesare Damiano aveva già dichiarato che “le prestazioni di lavoro accessorio devono tornare ad essere attività lavorative di natura meramente occasionale, rese da soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mercato del lavoro.”
Per fare ciò si dovrebbe tornare perlomeno alla legge Biagi dove erano elencate le tipologie di lavori ammessi, con i Vaucher, invece, lo spirito della legge Biagi è stato profondamente cambiato e l’idea di far emergere quote di lavoro nero si è trasformata esattamente nel suo contrario, dato che mentre la Legge Biagi prevedeva che i voucher potessero essere utilizzati solo per “lavoretti” con la nuova normativa i datori di lavoro possono pagare prestazioni che inizialmente non erano previste nel concetto di “buono lavoro“.
Oggi il Referendum della CGIL chiede la cancellazione del lavoro accessorio, il governo sembra essere quindi al lavoro per scongiurarlo.

IL JOBS ACT CAMBIA PER EVITARE IL REFERENDUM

Tutto da rifare. Sembra un bollettino di guerra quello che ogni giorno che passa rende sempre più evidente la situazione: nessuno dei governi tecnici o di responsabilità passati ha centrato davvero l’obiettivo.

Con tre milioni di disoccupati stabilmente censiti, i Vaucher venduti in ottobre a quota 121 milioni, mobilità, cassa integrazione e DISCOLL cestinati da capodanno e che la NASpI non lascia intendere di poter davvero soppiantare del tutto, il 2017 non sembra partire sotto buoni auspici ed a questo si aggiunga che le proteste non si fermano più alle piazze, ma imbracciano le armi del diritto proponendo referendum al posto di semplici manifestazioni e dichiarazioni di dissenso.

Per far fronte a questa situazione di emergenza, generata anche dalla pressione dei tre referendum promossi dalla Cgil sul ritorno all’articolo 18, l’abolizione dei voucher e la corresponsabilità negli appalti, il governo sembra essere pronto a una stretta sui voucher, abbassandone i tetti ed aumentando controlli e sanzioni.

I ticket da dieci euro lordi, ma che ne valgono solo sette, sono nati per pagare i lavoretti, ma sono diventati in fretta il simbolo della nuova precarietà e della protesta contro le politiche del lavoro dell’esecutivo Renzi dopo la liberalizzazione normativa.

I margini per intervenire non sembrano essere molti e, forse, solo la loro abolizione potrebbe segnare una vera novità, ma attualmente l’attesa del governo sembra essere per il primo monitoraggio sulla tracciabilità dei ticket, che potrebbe arrivare già nei prossimi giorni, e la decisione della Consulta l’11 gennaio.

Dalle tabelle INPS si dovrebbe poter dedurre se l’obbligo introdotto ad ottobre di mandare un SMS od una email almeno un’ora prima di impiegare la manodopera attraverso i Vaucher abbia funzionato da deterrente o meno. Senza un evidente calo delle cifre il ministro del Lavoro Poletti si è detto pronto a “rideterminare dal punto di vista normativo il confine del loro uso”.

Ma l’attesa è per la decisione della Corte sulla globalità dei quesiti proposti che potrebbero minare alle fondamenta l’intero impianto del Jobs Act, eventualità di fronte alla quale la sola modifica od abolizione dei voucher non sarà più così importante.

Ma se dovesse passare la sola richiesta di abolizione dei voucher, una loro modifica diventerà obbligata per riportare il tetto massimo di introiti per il lavoratore a 5 mila euro, dagli attuali 7 mila, o persino meno, ma anche inasprendo i controlli ed aumentando le sanzioni pecuniarie per i furbetti che vorrebbero sostituire i contratti di lavoro con i soli buoni.

Teoricamente i voucher dovevano consentire l’emersione del lavoro nero, ma sembra essere successo esattamente il contrario con i ticket utilizzati proprio per nascondere il lavoro nero.

Il parere su questo punto sembra essere unanime, i sindacati, ma anche il presidente della Commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano e il presidente dell’INPS Tito Boeri, hanno definito i voucher come una nuova frontiera per il precariato.

Il problema sarebbe che i datori di lavoro segnerebbero molte meno ore di lavoro di quelle effettivamente rese dal personale, per correre ai ripari solo durante i controlli, o peggio, quando accade un incidente del lavoro. In queste occasioni il datore di lavoro correrebbe e a compilare anche i voucher a copertura delle ore restanti per risultare in regola con i contributi.

Cesare Damiano aveva già dichiarato che “le prestazioni di lavoro accessorio devono tornare ad essere attività lavorative di natura meramente occasionale, rese da soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mercato del lavoro.”

Per fare ciò si dovrebbe tornare perlomeno alla legge Biagi dove erano elencate le tipologie di lavori ammessi, con i Vaucher, invece, lo spirito della legge Biagi è stato profondamente cambiato e l’idea di far emergere quote di lavoro nero si è trasformata esattamente nel suo contrario, dato che mentre la Legge Biagi prevedeva che i voucher potessero essere utilizzati solo per “lavoretti” con la nuova normativa i datori di lavoro possono pagare prestazioni che inizialmente non erano previste nel concetto di “buono lavoro“.

Oggi il Referendum della CGIL chiede la cancellazione del lavoro accessorio, il governo sembra essere quindi al lavoro per scongiurarlo.

E' IL KILLER DI BERLINO L'UOMO UCCISO A SESTO SAN GIOVANNI

DI PIERLUIGI PENNATI
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Sarebbe l’attentatore del mercatino di Natale di Berlino, Anis Amri, quello rimasto ucciso questa notte durante un controllo documenti alla stazione di Sesto San Giovanni.
Gli agenti erano intervenuti a seguito di una segnalazione per dei rumori simili a spari o botti, prematuri per capodanno. Sul piazzale della stazione solo uno straniero, un nordafricano al quale hanno chiesto i documenti. L’uomo ha aperto lo zaino che aveva con sé ed estratta una pistola ha fato fuoco ferendo alla spalla un agente, Christian Movio.
L’identificazione dell’uomo è poi arrivata sia dai tratti somatici che dalla comparazione delle impronte. Il Ministro dell’Interno Minniti conferma: “E’ lui senza dubbio”.
Il tunisino sarebbe arrivato dalla Francia a Milano in treno e secondo Repubblica, avrebbe gridato “Allah akbar” prima di morire. A testimoniare il tragitto ci sarebbe un biglietto ferroviario trovato addosso.
In conferenza stampa Minniti ha spiegato che la vicenda “può portare a sviluppi futuri”, e che l’indagine è stata presa in carico dalla magistratura milanese.
Anis Amri ha trascorso cinque anni in Italia, sbarcato a Lampedusa nel 2011 e registrato come minore non accompagnato, era stato condannato per dei disordini nel centro di accoglienza dove era ospitato e trascorso quattro anni in carcere tra Catania e Palermo.
Il portavoce del ministro degli Esteri tedesco, in una conferenza stampa di governo a Berlino ha detto “Siamo molto grati alle autorità italiane per la stretta collaborazione”.

E’ IL KILLER DI BERLINO L’UOMO UCCISO A SESTO SAN GIOVANNI

Sarebbe l’attentatore del mercatino di Natale di Berlino, Anis Amri, quello rimasto ucciso questa notte durante un controllo documenti alla stazione di Sesto San Giovanni.

Gli agenti erano intervenuti a seguito di una segnalazione per dei rumori simili a spari o botti, prematuri per capodanno. Sul piazzale della stazione solo uno straniero, un nordafricano al quale hanno chiesto i documenti. L’uomo ha aperto lo zaino che aveva con sé ed estratta una pistola ha fato fuoco ferendo alla spalla un agente, Christian Movio.

L’identificazione dell’uomo è poi arrivata sia dai tratti somatici che dalla comparazione delle impronte. Il Ministro dell’Interno Minniti conferma: “E’ lui senza dubbio”.

Il tunisino sarebbe arrivato dalla Francia a Milano in treno e secondo Repubblica, avrebbe gridato “Allah akbar” prima di morire. A testimoniare il tragitto ci sarebbe un biglietto ferroviario trovato addosso.

In conferenza stampa Minniti ha spiegato che la vicenda “può portare a sviluppi futuri”, e che l’indagine è stata presa in carico dalla magistratura milanese.

Anis Amri ha trascorso cinque anni in Italia, sbarcato a Lampedusa nel 2011 e registrato come minore non accompagnato, era stato condannato per dei disordini nel centro di accoglienza dove era ospitato e trascorso quattro anni in carcere tra Catania e Palermo.

Il portavoce del ministro degli Esteri tedesco, in una conferenza stampa di governo a Berlino ha detto “Siamo molto grati alle autorità italiane per la stretta collaborazione”.

L'ULTIMO ATTO DELLA LEGGE FORNERO

DI PIERLUIGI PENNATI
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Mentre siamo tutti in attesa di sapere se si voterà a primavera per il nuovo parlamento o per il referendum contro il Jobs Act una nuova scadenza sta per arrivare inesorabilmente: il 1° gennaio 2017 diremo addio definitivamente all’indennità di mobilità.
Per effetto di una delle norme contenute nel D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, detto anche “Salva Italia” o definito come “Riforma delle pensioni Fornero”, dal nome di Elsa Fornero che ne fu promotrice, dal 1° gennaio scomparirà, dopo 25 anni dalla sua introduzione, l’indennità di mobilità per i lavoratori colpiti da licenziamento collettivo. Ai disoccupati resterà solo l’assegno NASpI.
Per la precisione, sparisce l’indennità spettante ai lavoratori licenziati da imprese industriali con più di 15 dipendenti o commerciali con oltre 50, sostituito dall’assegno NASpI, uguale per tutti.
Con l’assegno di mobilità, i benefici fiscali riguardavano le assunzioni di lavoratori iscritti nelle liste di mobilità indennizzata con una contribuzione previdenziale a carico dell’azienda pari a quella degli apprendisti, per 18 mesi in caso di assunzione a tempo indeterminato e 12 mesi a tempo determinato, più un contributo mensile, pari al 50% dell’indennità non ancora percepita suddivisa in fasce, 12 mesi per gli under 50; 24 mesi per gli over 50 e 36 mesi per gli over 50 residenti nel Mezzogiorno e nelle aree ad alto tasso di disoccupazione.
Fino a fine 2014, un lavoratore del Sud over 50 licenziato, poteva avere fino a 48 mesi di di indennità di mobilità, dal 2015 al 2016 si è passati a 36 mesi e 24 mesi, mentre nel 2016 il sussidio durava 12 mesi per gli under 40 anni, 18 tra i 40 e i 49 anni al Sud o più di 50 al Nord e 24 per gli over 50 che risiedevano nel sud.
Ora, la durata della Naspi sarà quasi sempre inferiore alla mobilità e l’assegno potrà essere uguale fino al 75% dello stipendio medio degli ultimi 4 anni, diminuendo di mese in mese e solo chi è già in mobilità potrà continuare a percepire il vecchio assegno, mentre per gli altri non sarà più possibile ottenerne di nuovi.
Così Elsa Fornero, forse più conosciuta per il caso degli esodati, una massa di lavoratori rimasti incastrati tra l’allungamento dell’età pensionistica e la mobilità utilizzata come mezzo di prepensionamento, o per il famoso pianto pubblico, per l’errore commesso nell’abbandonare a se stessi migliaia di lavoratori ormai disoccupati per effetto della sua riforma, presto tornerà a far parlare di se per aver, forse, creato un ulteriore problema ad altre migliaia di persone.
Secondo uno studio del sindacato UIL il numero di persone interessate già nel 2017 potrebbe essere ragionevolmente di circa 185.000, così suddivise: 104 mila residenti nelle Regioni del Nord, 37 mila nelle Regioni del Centro, e 44 mila nelle Regioni meridionali. Per tutte queste persone, afferma ancora il sindacato, «a partire dal prossimo anno sarà più difficile, soprattutto al Sud, ricollocarsi nel mondo del lavoro».
La riforma segna un ulteriore passo nella parabola discendente dei diritti del lavoratori, da quando nel 1970, con la legge 300/70, detta statuto dei lavoratori, fu istituita la regola che tutelava le assunzioni a tempo indeterminato rendendo difficile e complicato licenziare.
La legge sulla mobilità, che fu istituita la prima volta nel 1991 e che ha avuto successive modifiche e norme collaterali, potrebbe essere considerata il primo importante passo verso l’abolizione di quell’articolo 18 tanto odiato dalle aziende ed il Jobs Act l’ultimo vero episodio importante.
Ora, in attesa di sapere se e quando voteremo per abolire il Jobs Act voluto dal governo Renzi, la legge Fornero continuerà come un fantasma ancora in circolazione a comprimere le possibilità di sopravvivenza per moltissimi lavoratori italiani delle classi più deboli già duramente provati negli ultimi anni e se tornare indietro non sembra un percorso ragionevole per il mondo delle banche e della finanza, una maggiore attenzione alle situazioni dei più indifesi dovrebbe essere data, almeno per riequilibrare alla base quelle giustizia sociale che sembra mancare sempre di più ogni giorno che passa.

VIRGINIA RAGGI RISCHIA L'ACCUSA DI ABUSO DI UFFICIO

DI PIERLUIGI PENNATI
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La sindaca Virginia Raggi rischia l’iscrizione nel registro degli indagati per abuso d’ufficio per essersi assunta la responsabilità della nomina, ritenuta illegittima, di Raffaele Marra a direttore del personale del Campidoglio e successivamente del fratello di questi, Renato Marra, a responsabile del Turismo della Capitale.
La decisione dell’Authority arriva alla fine di una complessa istruttoria avviata da un esposto della DIRER, il sindacato dei dirigenti della Regione Lazio, nella quale compare anche la difesa di Marra da parte della sindaca di Roma che aveva dichiarato di aver compiuto da sola l’istruttoria sul conferimento degli incarichi ai dirigenti, mentre nel dispositivo dell’ordinanza di nomina si afferma “di conferire, con il riconoscimento della fascia retributiva, come risultante dall’istruttoria svolta dalle strutture competenti ai sensi della disciplina vigente, gli incarichi di direzione”.
L’Autorità Nazionale Anticorruzione chiarisce in una nota che «la delibera adottata dall’Autorità è stata trasmessa alla procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, alla struttura comunale competente per l’accertamento dell’eventuale responsabilità disciplinare e alla procura regionale della Corte dei Conti e all’Ispettorato della funzione pubblica per le questioni relative all’inquadramento del dottor Marra nei ruoli della dirigenza di Roma Capitale. Ulteriori elementi riguardanti la procedura di interpello sono stati chiesti al Responsabile Prevenzione della Corruzione e Trasparenza di Roma Capitale».
L’ANAC ha specifica anche di aver «ritenuto configurabile il conflitto di interessi», dato che questa contestazione «sussiste sia nel caso in cui il dirigente abbia svolto un mero ruolo formale nella procedura che nell’eventualità di una sua partecipazione diretta all’attività istruttoria, come sembrerebbe emergere dall’ordinanza sindacale n. 95/2016».
Il parere dell’Autorità è stato trasmesso anche ai PM della Corte dei Conti per investigare sull’ipotesi che con il suo comportamento Virginia Raggi possa per aver provocato anche un danno all’erario comunale.

LA TRATTATIVA ALMAVIVA AL RUSH FINALE

DI PIERLUIGI PENNATI
pierluigi-pennati
La trattativa Almaviva è ripresa intorno alle 14,30 presso la sede del ministero dello Sviluppo economico dove sono arrivati anche i tre segretari generali di CGIL, CISL e UIL, Susanna Camusso, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo, presenti anche i tre segretari generali della categoria.
I sindacati avevano proposto ieri il congelamento degli scatti di anzianità per il 2017 in cambio del mantenimento degli organici, ma all’azienda non sarebbe bastato perchè si sarebbe trattato di “un singolare sistema di salario da restituire nell’anno successivo” e che “obbligherebbe comunque l’azienda ad accantonare il corrispondente ammontare e a registrare una ricaduta sostanzialmente nulla sul conto economico”, aggiungendo che la proposta dei sindacati sarebbe “dai contenuti approssimativi e dagli effetti inconsistenti”, “un alibi più che una proposta”.
Ma a poche ore dalla scadenza dei termini della procedura, anche in considerazione della distanza che separa le posizioni delle parti, una mediazione in extremis del governo è stata ritenuta accettabile almeno dai sindacati che in una nota congiunta dichiarano “CGIL, CISL, UIL e UGL danno la loro disponibilità ad accettare il percorso illustrato che, per avere efficacia e credibilità, dovrà prevedere una costante e fattiva presenza del Ministero”.
Nella proposta ammortizzatori sociali ed esodo volontario fino al 31 marzo 2017, insieme ad un impegno della parti sociali a proseguire il confronto per trovare soluzioni in tema di: recupero di efficienza e produttività in grado di allineare le sedi di Roma e Napoli alle altre sedi aziendali; interventi temporanei sul costo del lavoro.
Ora l’ultima parola spetta all’azienda, ma fuori dalle stanze di discussione, dove il clima è decisamente teso, la speranza più diffusa sembra essere quella che alla fine qualcosa si possa firmare: poco sarà sempre meglio di niente.

VIRGINIA RAGGI RISCHIA L’ACCUSA DI ABUSO DI UFFICIO

La sindaca Virginia Raggi rischia l’iscrizione nel registro degli indagati per abuso d’ufficio per essersi assunta la responsabilità della nomina, ritenuta illegittima, di Raffaele Marra a direttore del personale del Campidoglio e successivamente del fratello di questi, Renato Marra, a responsabile del Turismo della Capitale.

La decisione dell’Authority arriva alla fine di una complessa istruttoria avviata da un esposto della DIRER, il sindacato dei dirigenti della Regione Lazio, nella quale compare anche la difesa di Marra da parte della sindaca di Roma che aveva dichiarato di aver compiuto da sola l’istruttoria sul conferimento degli incarichi ai dirigenti, mentre nel dispositivo dell’ordinanza di nomina si afferma “di conferire, con il riconoscimento della fascia retributiva, come risultante dall’istruttoria svolta dalle strutture competenti ai sensi della disciplina vigente, gli incarichi di direzione”.

L’Autorità Nazionale Anticorruzione chiarisce in una nota che «la delibera adottata dall’Autorità è stata trasmessa alla procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, alla struttura comunale competente per l’accertamento dell’eventuale responsabilità disciplinare e alla procura regionale della Corte dei Conti e all’Ispettorato della funzione pubblica per le questioni relative all’inquadramento del dottor Marra nei ruoli della dirigenza di Roma Capitale. Ulteriori elementi riguardanti la procedura di interpello sono stati chiesti al Responsabile Prevenzione della Corruzione e Trasparenza di Roma Capitale».

L’ANAC ha specifica anche di aver «ritenuto configurabile il conflitto di interessi», dato che questa contestazione «sussiste sia nel caso in cui il dirigente abbia svolto un mero ruolo formale nella procedura che nell’eventualità di una sua partecipazione diretta all’attività istruttoria, come sembrerebbe emergere dall’ordinanza sindacale n. 95/2016».

Il parere dell’Autorità è stato trasmesso anche ai PM della Corte dei Conti per investigare sull’ipotesi che con il suo comportamento Virginia Raggi possa per aver provocato anche un danno all’erario comunale.

LA TRATTATIVA ALMAVIVA AL RUSH FINALE

La trattativa Almaviva è ripresa intorno alle 14,30 presso la sede del ministero dello Sviluppo economico dove sono arrivati anche i tre segretari generali di CGIL, CISL e UIL, Susanna Camusso, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo, presenti anche i tre segretari generali della categoria.

I sindacati avevano proposto ieri il congelamento degli scatti di anzianità per il 2017 in cambio del mantenimento degli organici, ma all’azienda non sarebbe bastato perchè si sarebbe trattato di “un singolare sistema di salario da restituire nell’anno successivo” e che “obbligherebbe comunque l’azienda ad accantonare il corrispondente ammontare e a registrare una ricaduta sostanzialmente nulla sul conto economico”, aggiungendo che la proposta dei sindacati sarebbe “dai contenuti approssimativi e dagli effetti inconsistenti”, “un alibi più che una proposta”.

Ma a poche ore dalla scadenza dei termini della procedura, anche in considerazione della distanza che separa le posizioni delle parti, una mediazione in extremis del governo è stata ritenuta accettabile almeno dai sindacati che in una nota congiunta dichiarano “CGIL, CISL, UIL e UGL danno la loro disponibilità ad accettare il percorso illustrato che, per avere efficacia e credibilità, dovrà prevedere una costante e fattiva presenza del Ministero”.

Nella proposta ammortizzatori sociali ed esodo volontario fino al 31 marzo 2017, insieme ad un impegno della parti sociali a proseguire il confronto per trovare soluzioni in tema di: recupero di efficienza e produttività in grado di allineare le sedi di Roma e Napoli alle altre sedi aziendali; interventi temporanei sul costo del lavoro.

Ora l’ultima parola spetta all’azienda, ma fuori dalle stanze di discussione, dove il clima è decisamente teso, la speranza più diffusa sembra essere quella che alla fine qualcosa si possa firmare: poco sarà sempre meglio di niente.

L’ULTIMO ATTO DELLA LEGGE FORNERO

Mentre siamo tutti in attesa di sapere se si voterà a primavera per il nuovo parlamento o per il referendum contro il Jobs Act una nuova scadenza sta per arrivare inesorabilmente: il 1° gennaio 2017 diremo addio definitivamente all’indennità di mobilità.

Per effetto di una delle norme contenute nel D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, detto anche “Salva Italia” o definito come “Riforma delle pensioni Fornero”, dal nome di Elsa Fornero che ne fu promotrice, dal 1° gennaio scomparirà, dopo 25 anni dalla sua introduzione, l’indennità di mobilità per i lavoratori colpiti da licenziamento collettivo. Ai disoccupati resterà solo l’assegno NASpI.

Per la precisione, sparisce l’indennità spettante ai lavoratori licenziati da imprese industriali con più di 15 dipendenti o commerciali con oltre 50, sostituito dall’assegno NASpI, uguale per tutti.

Con l’assegno di mobilità, i benefici fiscali riguardavano le assunzioni di lavoratori iscritti nelle liste di mobilità indennizzata con una contribuzione previdenziale a carico dell’azienda pari a quella degli apprendisti, per 18 mesi in caso di assunzione a tempo indeterminato e 12 mesi a tempo determinato, più un contributo mensile, pari al 50% dell’indennità non ancora percepita suddivisa in fasce, 12 mesi per gli under 50; 24 mesi per gli over 50 e 36 mesi per gli over 50 residenti nel Mezzogiorno e nelle aree ad alto tasso di disoccupazione.

Fino a fine 2014, un lavoratore del Sud over 50 licenziato, poteva avere fino a 48 mesi di di indennità di mobilità, dal 2015 al 2016 si è passati a 36 mesi e 24 mesi, mentre nel 2016 il sussidio durava 12 mesi per gli under 40 anni, 18 tra i 40 e i 49 anni al Sud o più di 50 al Nord e 24 per gli over 50 che risiedevano nel sud.

Ora, la durata della Naspi sarà quasi sempre inferiore alla mobilità e l’assegno potrà essere uguale fino al 75% dello stipendio medio degli ultimi 4 anni, diminuendo di mese in mese e solo chi è già in mobilità potrà continuare a percepire il vecchio assegno, mentre per gli altri non sarà più possibile ottenerne di nuovi.

Così Elsa Fornero, forse più conosciuta per il caso degli esodati, una massa di lavoratori rimasti incastrati tra l’allungamento dell’età pensionistica e la mobilità utilizzata come mezzo di prepensionamento, o per il famoso pianto pubblico, per l’errore commesso nell’abbandonare a se stessi migliaia di lavoratori ormai disoccupati per effetto della sua riforma, presto tornerà a far parlare di se per aver, forse, creato un ulteriore problema ad altre migliaia di persone.

Secondo uno studio del sindacato UIL il numero di persone interessate già nel 2017 potrebbe essere ragionevolmente di circa 185.000, così suddivise: 104 mila residenti nelle Regioni del Nord, 37 mila nelle Regioni del Centro, e 44 mila nelle Regioni meridionali. Per tutte queste persone, afferma ancora il sindacato, «a partire dal prossimo anno sarà più difficile, soprattutto al Sud, ricollocarsi nel mondo del lavoro».

La riforma segna un ulteriore passo nella parabola discendente dei diritti del lavoratori, da quando nel 1970, con la legge 300/70, detta statuto dei lavoratori, fu istituita la regola che tutelava le assunzioni a tempo indeterminato rendendo difficile e complicato licenziare.

La legge sulla mobilità, che fu istituita la prima volta nel 1991 e che ha avuto successive modifiche e norme collaterali, potrebbe essere considerata il primo importante passo verso l’abolizione di quell’articolo 18 tanto odiato dalle aziende ed il Jobs Act l’ultimo vero episodio importante.

Ora, in attesa di sapere se e quando voteremo per abolire il Jobs Act voluto dal governo Renzi, la legge Fornero continuerà come un fantasma ancora in circolazione a comprimere le possibilità di sopravvivenza per moltissimi lavoratori italiani delle classi più deboli già duramente provati negli ultimi anni e se tornare indietro non sembra un percorso ragionevole per il mondo delle banche e della finanza, una maggiore attenzione alle situazioni dei più indifesi dovrebbe essere data, almeno per riequilibrare alla base quelle giustizia sociale che sembra mancare sempre di più ogni giorno che passa.

NON É DI STASI IL DNA SOTTO LE UNGHIE DI CHIARA

DI PIERLUIGI PENNATI
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A nove anni, dai fatti ancora nessuna verità per l’omicidio di Chiara Poggi, un nuovo test del DNA scagionerebbe Stasi, oggi in carcere dopo due assoluzioni ed una condanna, unico imputato di un processo dalle molte leggerezze, partite dalla sua insistenza nel telefonare a Chiara Poggi invece di crearsi un alibi.
Erano le 13.50 quando Alberto Stasi scopre il cadavere di Chiara Poggi dopo averla lungamente cercata invano al telefono, la sua invasione sulla scena del delitto lascia fin dall’inizio molti dubbi, tra questi le scarpe da tennis senza tracce di sangue, prova che secondo i giudici della Cassazione lo inchioda alle sue responsabilità, la misteriosa sparizione di una bicicletta nera da donna, avvistata e poi scomparsa, ma anche la grande assenza di un’arma del delitto, mai trovata e mai definitivamente identificata.
Secondo gli investigatori Chiara Poggi muore tra le 9.12 e le 9.35, l’ex fidanzato non ha e non si procura un alibi insistendo invece nel telefonare a Chiara, dell’arma del delitto nessuna traccia, secondo i giudici la ragazza fu colpita con un martello portato da Stasi e da lui poi occultato insieme a due asciugamani da spiaggia.
Due testimoni notano una bicicletta nera da donna appoggiata alla villetta di Garlasco, alle 9.10 e tra le 9.23 e le 9.31, per poi sparire alle 10.20, mentre Alberto Stasi alle 9.35 Alberto era ancora a casa sua lavorando al computer.
Chiara fu assalita all’ingresso della casa, in pigiama, davanti alle scale che portano al piano superiore. Le impronte di digitali di Stasi vengono trovate un po’ dappertutto, sul dispenser del bagno ed in altri luoghi, ma aveva una relazione con Chiara e questo poteva essere normale.
Alla fine di tre lunghi e sofferti gradi di giudizio, la cassazione, il 12 dicembre 2015, conferma la sentenza-bis d’Appello e condanna definitivamente Stasi a 16 anni di reclusione, confermando la validità delle prove, tra queste la principale sono state le scarpe del ragazzo prive di sostanze ematiche dopo l’ingresso in casa e che avrebbero invece dovuto macchiarsi di sangue a causa della “camminata” nella villetta.
Oggi, la rivelazione choc: «Il DNA sotto le unghie di Chiara Poggi non è di Alberto Stasi ma di un giovane che la conosceva».
Lo dice una perizia di parte della famiglia di Alberto Stasi, il profilo del DNA trovato sotto le unghie di Chiara sarebbe sicuramente di un soggetto maschio con nove marcatori compatibili con la famiglia di un altro giovane che conosceva Chiara e solo cinque con quella di Stasi.
Elisabetta Ligabò, l’instancabile madre che ha sempre creduto all’innocenza del figlio lo rivela al Corriere, comunicando i risultati di laboratorio ottenuti da un conosciuto genetista su incarico di un’agenzia investigativa milanese, e che ora vorrebbe riaprire il caso.
La mamma di Stasi dichiara che presenterà un esposto per chiedere la revisione del processo sulla base di questa nuova prova che considera definitiva per dimostrare l’innocenza del figlio: «Non ho fatto che ripeterlo e finalmente ne ho la conferma. Mai e poi mai Alberto avrebbe potuto uccidere Chiara. Si amavano e avevano progetti in comune. La sera prima erano andati a cena insieme. Di lì a poco sarebbero partiti per le vacanze. Erano felici, uniti, erano spensierati, vivevano con la gioia e la fiducia nel futuro tipica dei giovani fidanzati. Alberto stava per laurearsi e se c’era una persona che più di ogni altra lo spronava e gli dava forza, che lo incoraggiava e lo appoggiava, quella era Chiara. Amo mio figlio, l’avrei amato anche da colpevole ma chi sa del delitto ha continuato a non parlare e a stare nascosto, scegliendo il silenzio, un silenzio terribile, asfissiante, un silenzio atroce che ha coperto e depistato. Così facendo non ha reso giustizia a una ragazza morta e, allo stesso tempo, sta uccidendo una seconda persona».
Secondo la madre, Alberto «è stato privato della vita. Io ho combattuto a lungo, a volte anche in solitaria, specie da quando è venuto a mancare mio marito. Ho combattuto contro le convinzioni dei tanti che a cominciare da qui, da Garlasco, subito avevano decretato la colpevolezza di mio figlio senza alcuna esitazione. Alberto il killer dagli occhi di ghiaccio… Non ho creduto nemmeno per un istante a una sua responsabilità. Non ha ammazzato Chiara. E se finora era una convinzione, adesso è una certezza: quella persona deve spiegarmi la presenza del suo DNA sotto le unghie della ragazza. Lo deve a me, lo deve ai genitori di Chiara, lo deve a tutti».
La prova del DNA fu misteriosamente sottovaluta e quasi ignorata nel corso del processo, ora, la nuova prova, individuata sotto forma anonima dal genetista, estraneo fino ad ora alle indagini, potrebbe riaprire il caso.
Dalle nuove analisi emerge che «una perfetta compatibilità genetica tra il profilo del cromosoma Y estrapolato dal professor De Stefano», il genetista che aveva effettuato le prime indagini presentate alla Corte d’Appello di Milano nel processo-bis, «sul quinto dito della mano destra e sul primo dito della sinistra, con il profilo genetico aploide del cromosoma Y ottenuto dal cucchiaino e dalla bottiglietta d’acqua». Gli oggetti al tempo analizzati, con il limite che «il cromosoma Y identifica tutti i soggetti maschi appartenenti al medesimo nucleo familiare ed esso non è utilizzabile per identificare un singolo soggetto ma, piuttosto, una famiglia».
In un paese di soli diecimila abitanti come Garlasco una famiglia potrebbe essere un nascondiglio troppo piccolo per poter celare una persona che deve dar conto delle ragioni del contatto diretto con Chiara, assassinata la mattina del 13 agosto 2007.
La madre di stasi chiede ora la scarcerazione del figlio come atto dovuto: «Credo sia giusto e sacrosanto che mio figlio esca dal carcere. Al più presto. Alberto e io abbiamo già atteso e sofferto troppo. Troppo».

NON É DI STASI IL DNA SOTTO LE UNGHIE DI CHIARA

A nove anni, dai fatti ancora nessuna verità per l’omicidio di Chiara Poggi, un nuovo test del DNA scagionerebbe Stasi, oggi in carcere dopo due assoluzioni ed una condanna, unico imputato di un processo dalle molte leggerezze, partite dalla sua insistenza nel telefonare a Chiara Poggi invece di crearsi un alibi.

Erano le 13.50 quando Alberto Stasi scopre il cadavere di Chiara Poggi dopo averla lungamente cercata invano al telefono, la sua invasione sulla scena del delitto lascia fin dall’inizio molti dubbi, tra questi le scarpe da tennis senza tracce di sangue, prova che secondo i giudici della Cassazione lo inchioda alle sue responsabilità, la misteriosa sparizione di una bicicletta nera da donna, avvistata e poi scomparsa, ma anche la grande assenza di un’arma del delitto, mai trovata e mai definitivamente identificata.

Secondo gli investigatori Chiara Poggi muore tra le 9.12 e le 9.35, l’ex fidanzato non ha e non si procura un alibi insistendo invece nel telefonare a Chiara, dell’arma del delitto nessuna traccia, secondo i giudici la ragazza fu colpita con un martello portato da Stasi e da lui poi occultato insieme a due asciugamani da spiaggia.

Due testimoni notano una bicicletta nera da donna appoggiata alla villetta di Garlasco, alle 9.10 e tra le 9.23 e le 9.31, per poi sparire alle 10.20, mentre Alberto Stasi alle 9.35 Alberto era ancora a casa sua lavorando al computer.

Chiara fu assalita all’ingresso della casa, in pigiama, davanti alle scale che portano al piano superiore. Le impronte di digitali di Stasi vengono trovate un po’ dappertutto, sul dispenser del bagno ed in altri luoghi, ma aveva una relazione con Chiara e questo poteva essere normale.

Alla fine di tre lunghi e sofferti gradi di giudizio, la cassazione, il 12 dicembre 2015, conferma la sentenza-bis d’Appello e condanna definitivamente Stasi a 16 anni di reclusione, confermando la validità delle prove, tra queste la principale sono state le scarpe del ragazzo prive di sostanze ematiche dopo l’ingresso in casa e che avrebbero invece dovuto macchiarsi di sangue a causa della “camminata” nella villetta.

Oggi, la rivelazione choc: «Il DNA sotto le unghie di Chiara Poggi non è di Alberto Stasi ma di un giovane che la conosceva».

Lo dice una perizia di parte della famiglia di Alberto Stasi, il profilo del DNA trovato sotto le unghie di Chiara sarebbe sicuramente di un soggetto maschio con nove marcatori compatibili con la famiglia di un altro giovane che conosceva Chiara e solo cinque con quella di Stasi.

Elisabetta Ligabò, l’instancabile madre che ha sempre creduto all’innocenza del figlio lo rivela al Corriere, comunicando i risultati di laboratorio ottenuti da un conosciuto genetista su incarico di un’agenzia investigativa milanese, e che ora vorrebbe riaprire il caso.

La mamma di Stasi dichiara che presenterà un esposto per chiedere la revisione del processo sulla base di questa nuova prova che considera definitiva per dimostrare l’innocenza del figlio: «Non ho fatto che ripeterlo e finalmente ne ho la conferma. Mai e poi mai Alberto avrebbe potuto uccidere Chiara. Si amavano e avevano progetti in comune. La sera prima erano andati a cena insieme. Di lì a poco sarebbero partiti per le vacanze. Erano felici, uniti, erano spensierati, vivevano con la gioia e la fiducia nel futuro tipica dei giovani fidanzati. Alberto stava per laurearsi e se c’era una persona che più di ogni altra lo spronava e gli dava forza, che lo incoraggiava e lo appoggiava, quella era Chiara. Amo mio figlio, l’avrei amato anche da colpevole ma chi sa del delitto ha continuato a non parlare e a stare nascosto, scegliendo il silenzio, un silenzio terribile, asfissiante, un silenzio atroce che ha coperto e depistato. Così facendo non ha reso giustizia a una ragazza morta e, allo stesso tempo, sta uccidendo una seconda persona».

Secondo la madre, Alberto «è stato privato della vita. Io ho combattuto a lungo, a volte anche in solitaria, specie da quando è venuto a mancare mio marito. Ho combattuto contro le convinzioni dei tanti che a cominciare da qui, da Garlasco, subito avevano decretato la colpevolezza di mio figlio senza alcuna esitazione. Alberto il killer dagli occhi di ghiaccio… Non ho creduto nemmeno per un istante a una sua responsabilità. Non ha ammazzato Chiara. E se finora era una convinzione, adesso è una certezza: quella persona deve spiegarmi la presenza del suo DNA sotto le unghie della ragazza. Lo deve a me, lo deve ai genitori di Chiara, lo deve a tutti».

La prova del DNA fu misteriosamente sottovaluta e quasi ignorata nel corso del processo, ora, la nuova prova, individuata sotto forma anonima dal genetista, estraneo fino ad ora alle indagini, potrebbe riaprire il caso.

Dalle nuove analisi emerge che «una perfetta compatibilità genetica tra il profilo del cromosoma Y estrapolato dal professor De Stefano», il genetista che aveva effettuato le prime indagini presentate alla Corte d’Appello di Milano nel processo-bis, «sul quinto dito della mano destra e sul primo dito della sinistra, con il profilo genetico aploide del cromosoma Y ottenuto dal cucchiaino e dalla bottiglietta d’acqua». Gli oggetti al tempo analizzati, con il limite che «il cromosoma Y identifica tutti i soggetti maschi appartenenti al medesimo nucleo familiare ed esso non è utilizzabile per identificare un singolo soggetto ma, piuttosto, una famiglia».

In un paese di soli diecimila abitanti come Garlasco una famiglia potrebbe essere un nascondiglio troppo piccolo per poter celare una persona che deve dar conto delle ragioni del contatto diretto con Chiara, assassinata la mattina del 13 agosto 2007.

La madre di stasi chiede ora la scarcerazione del figlio come atto dovuto: «Credo sia giusto e sacrosanto che mio figlio esca dal carcere. Al più presto. Alberto e io abbiamo già atteso e sofferto troppo. Troppo».

BUFERA IN CAMPIDOGLIO: ARRESTATO MARRA, BRACCIO DESTRO DELLA RAGGI

DI PIERLUIGI PENNATI
pierluigi-pennati
Raffaele Marra, direttore del personale del comune di Roma e braccio destro di Virginia Raggi, è stato arrestato insieme a Sergio Scarpellini, presidente dell’omonimo gruppo immobiliarista, nell’ambito di una indagine dei Carabinieri su fatti che risalgono al tempo della giunta Alemanno, tra il 2013 al 2016, quando Marra era direttore dell’ufficio delle Politiche abitative del Comune e capo del Dipartimento del patrimonio e della casa.
Da un’inchiesta de L’Espresso erano emerse compravendite di case da privati ed enti con valutazioni fuori mercato che avevano insospettito gli investigatori ed il caso della fortuita vendita di un appartamento con il contemporaneo acquisto di un altro più pregiato gestita da Scarpellini non era passato inosservato, evidenziando nelle indagini la valorizzazione quasi tripla del primo ed uno sconto “di quasi mezzo milione di euro” per il secondo. Investito dalla polemica Marra aveva dichiarato “è una permuta indiretta, la fa chiunque”.
Secondo gli investigatori, Scarpellini avrebbe anticipato, mettendolo a disposizione di Marra, il denaro per acquistare l’attico di proprietà dell’ENASARCO, la cassa previdenziale degli agenti e dei rappresentanti di commercio, dove lui già viveva quale dipendente e contemporaneamente acquisito, in permuta, il vecchio appartamento del funzionario.
Dopo gli arresti i Carabinieri stanno eseguendo nuove perquisizioni in Campidoglio dove due giorni fa la polizia aveva acquisito le carte relative a tutte le nomine della sindaca Virginia Raggi.

BUFERA IN CAMPIDOGLIO: ARRESTATO MARRA, BRACCIO DESTRO DELLA RAGGI

Raffaele Marra, direttore del personale del comune di Roma e braccio destro di Virginia Raggi, è stato arrestato insieme a Sergio Scarpellini, presidente dell’omonimo gruppo immobiliarista, nell’ambito di una indagine dei Carabinieri su fatti che risalgono al tempo della giunta Alemanno, tra il 2013 al 2016, quando Marra era direttore dell’ufficio delle Politiche abitative del Comune e capo del Dipartimento del patrimonio e della casa.

Da un’inchiesta de L’Espresso erano emerse compravendite di case da privati ed enti con valutazioni fuori mercato che avevano insospettito gli investigatori ed il caso della fortuita vendita di un appartamento con il contemporaneo acquisto di un altro più pregiato gestita da Scarpellini non era passato inosservato, evidenziando nelle indagini la valorizzazione quasi tripla del primo ed uno sconto “di quasi mezzo milione di euro” per il secondo. Investito dalla polemica Marra aveva dichiarato “è una permuta indiretta, la fa chiunque”.

Secondo gli investigatori, Scarpellini avrebbe anticipato, mettendolo a disposizione di Marra, il denaro per acquistare l’attico di proprietà dell’ENASARCO, la cassa previdenziale degli agenti e dei rappresentanti di commercio, dove lui già viveva quale dipendente e contemporaneamente acquisito, in permuta, il vecchio appartamento del funzionario.

Dopo gli arresti i Carabinieri stanno eseguendo nuove perquisizioni in Campidoglio dove due giorni fa la polizia aveva acquisito le carte relative a tutte le nomine della sindaca Virginia Raggi.

IL PIANO DI RENZI: ANDARE ALLE URNE IN PRIMAVERA PER EVITARE IL REFERENDUM SUL JOBS ACT

DI PIERLUIGI PENNATI
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Aveva detto che se vinceva il NO saremmo tornati indietro di 30 anni, il NO ha vinto e Matteo Renzi si è sbagliato di poco, aveva aggiunto uno zero di troppo alla sua stima, infatti stiamo forse per tornare indietro, ma di soli 3 anni, a prima del Jobs Act.
In realtà se questo potrà accadere lo sapremo solo il prossimo 11 gennaio, quando la Corte Costituzionale deciderà sull’ammissibilità dei referendum sul lavoro promossi dalla Cgil.
I quesiti in questione sono tre: abrogazione delle norme sui licenziamenti illegittimi, cancellazione dei limiti sulla responsabilità solidale in materia di appalti ed eliminazione delle norme su Voucher e lavoro accessorio.
Fin da ora i pronostici fanno tremare l’ex primo ministro che fa sapere che «Il Jobs Act non si tocca. Reintrodurre l’articolo 18 sarebbe come dire “ragazzi abbiamo scherzato”. Il giorno dopo arriverebbe un downgrading per l’Italia dalle agenzie di rating».
La legge è stata una delle bandiere dei suoi oltre mille giorni di governo e la sua revisione potrebbe disinnescare la bomba ad orologeria del referendum chiesto dalla CGIL con 3,3 milioni di firme raccolte e sul quale l’11 gennaio si pronuncerà la Corte Costituzionale. Nessuno ha però sollevato dubbi sul via libera della Consulta, dopo quello della Cassazione.
La strategia di Renzi potrebbe essere quella di andare alle urne in primavera proprio per evitare la consultazione, ma se nel suo partito in molti hanno dei dubbi a riguardo, la questione non sarebbe comunque chiusa, il Jobs Act, la revisione dell’articolo 18 ed in particolare il sistema dei Voucher non hanno convinto fin da subito e gli ultimi, secondo molti, sarebbero persino dannosi oltre che inutili per non aver mostrato evidenze di alcun emersione del lavoro nero.
Ora, dopo lo schiaffo del 4 dicembre Matteo Renzi non dorme più sonni tranquilli, un risultato referendario contro una delle leggi-manifesto del suo governo sarebbe un colpo dopo il quale diventerebbe davvero molto difficile riprendersi per tutto il PD che perderebbe ogni credibilità, avendo sostenuto i provvedimenti per i quali servirebbe ora una retro marcia totale.
Per disinnescare la mina referendaria il piano sarebbe semplice: elezioni anticipate. Il pensiero è stato esplicitato proprio dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti: «Se si vota prima del referendum il problema non si pone. Ed è questo, con un governo che fa la legge elettorale e poi lascia il campo, lo scenario più probabile». Infatti, se la Consulta darà il via libera, il referendum si dovrebbe svolgere tra il 15 aprile e il 15 giugno ma, con le lezioni, slitterebbe di un anno.
Le polemiche seguite alle affermazioni del ministro hanno prodotto un’immediata levata di scudi costringendolo a correggersi e dichiarare che le sue parole erano solo «un’ovvia constatazione» e non «un’ipotesi invocata».
Susanna Camusso non ha perso l’occasione di ironizzare: «Immagino che Poletti abbia una sfera di cristallo e abbia in sé anche le funzioni di presidente della Repubblica» , «Niente furberie per evitare il referendum, le minacce sul voto non funzionano».
Ma non sono le uniche voci contrarie, Gaetano Quagliariello parla di «strage del senso delle istituzioni», Stefano Fassina evidenzia «la distanza del governo dal Paese reale» ed anche nella minoranza PD non mancano critiche, Cesare Daminao è convinto che «Con i referendum della Cgil bisogna misurarsi: non si può mettere la testa sotto la sabbia».
Il dopo Renzi comincia in irta salita, modificare il Jobs Act per rendere inefficace le firme od andare al voto, comunque vada non sarà facile uscirne.

IL PIANO DI RENZI: ANDARE ALLE URNE IN PRIMAVERA PER EVITARE IL REFERENDUM SUL JOBS ACT

Aveva detto che se vinceva il NO saremmo tornati indietro di 30 anni, il NO ha vinto e Matteo Renzi si è sbagliato di poco, aveva aggiunto uno zero di troppo alla sua stima, infatti stiamo forse per tornare indietro, ma di soli 3 anni, a prima del Jobs Act.

In realtà se questo potrà accadere lo sapremo solo il prossimo 11 gennaio, quando la Corte Costituzionale deciderà sull’ammissibilità dei referendum sul lavoro promossi dalla Cgil.

I quesiti in questione sono tre: abrogazione delle norme sui licenziamenti illegittimi, cancellazione dei limiti sulla responsabilità solidale in materia di appalti ed eliminazione delle norme su Voucher e lavoro accessorio.

Fin da ora i pronostici fanno tremare l’ex primo ministro che fa sapere che «Il Jobs Act non si tocca. Reintrodurre l’articolo 18 sarebbe come dire “ragazzi abbiamo scherzato”. Il giorno dopo arriverebbe un downgrading per l’Italia dalle agenzie di rating».

La legge è stata una delle bandiere dei suoi oltre mille giorni di governo e la sua revisione potrebbe disinnescare la bomba ad orologeria del referendum chiesto dalla CGIL con 3,3 milioni di firme raccolte e sul quale l’11 gennaio si pronuncerà la Corte Costituzionale. Nessuno ha però sollevato dubbi sul via libera della Consulta, dopo quello della Cassazione.

La strategia di Renzi potrebbe essere quella di andare alle urne in primavera proprio per evitare la consultazione, ma se nel suo partito in molti hanno dei dubbi a riguardo, la questione non sarebbe comunque chiusa, il Jobs Act, la revisione dell’articolo 18 ed in particolare il sistema dei Voucher non hanno convinto fin da subito e gli ultimi, secondo molti, sarebbero persino dannosi oltre che inutili per non aver mostrato evidenze di alcun emersione del lavoro nero.

Ora, dopo lo schiaffo del 4 dicembre Matteo Renzi non dorme più sonni tranquilli, un risultato referendario contro una delle leggi-manifesto del suo governo sarebbe un colpo dopo il quale diventerebbe davvero molto difficile riprendersi per tutto il PD che perderebbe ogni credibilità, avendo sostenuto i provvedimenti per i quali servirebbe ora una retro marcia totale.

Per disinnescare la mina referendaria il piano sarebbe semplice: elezioni anticipate. Il pensiero è stato esplicitato proprio dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti: «Se si vota prima del referendum il problema non si pone. Ed è questo, con un governo che fa la legge elettorale e poi lascia il campo, lo scenario più probabile». Infatti, se la Consulta darà il via libera, il referendum si dovrebbe svolgere tra il 15 aprile e il 15 giugno ma, con le lezioni, slitterebbe di un anno.

Le polemiche seguite alle affermazioni del ministro hanno prodotto un’immediata levata di scudi costringendolo a correggersi e dichiarare che le sue parole erano solo «un’ovvia constatazione» e non «un’ipotesi invocata».

Susanna Camusso non ha perso l’occasione di ironizzare: «Immagino che Poletti abbia una sfera di cristallo e abbia in sé anche le funzioni di presidente della Repubblica» , «Niente furberie per evitare il referendum, le minacce sul voto non funzionano».

Ma non sono le uniche voci contrarie, Gaetano Quagliariello parla di «strage del senso delle istituzioni», Stefano Fassina evidenzia «la distanza del governo dal Paese reale» ed anche nella minoranza PD non mancano critiche, Cesare Daminao è convinto che «Con i referendum della Cgil bisogna misurarsi: non si può mettere la testa sotto la sabbia».

Il dopo Renzi comincia in irta salita, modificare il Jobs Act per rendere inefficace le firme od andare al voto, comunque vada non sarà facile uscirne.

GENTILONI INCASSA LA FIDUCIA ANCHE AL SENATO

DI PIERLUIGI PENNATI
pierluigi-pennati
Lega e Ala non hanno partecipato al voto, come avvenuto alla Camera, M5S invece resta in aula e vota contro, alla fine si contano 169 SI e 99 contrari, senza astenuti, lo stesso numero di sì del governo Renzi del 24 febbraio del 2014, ma con 139 contrari.
Il premier ha dichiarato che il “primo compito è completare le riforme”, “quello appena insediato non è un governo di inizio legislatura, ma innanzitutto deve completare la eccezionale opera di riforma, innovazione, modernizzazione di questi ultimi anni”, “Sarebbe assurdo pensare di completare le riforme avviate senza continuità”.
Il movimento 5 stelle, rimasto in aula, ha ribadito la sua posizione forte di “20 milioni di no al governo Gentiloni”.
La maggioranza richiesta, su 269 presenti e 268 votanti, era di 135 voti in un Senato che come alla Camera era stato svuotato delle opposizioni, ma anche con gli scranni dei ministri quasi vuoti.
I 35 senatori M5s in mattinata avevano abbandonato l’aula durante le dichiarazioni di voto lasciando polemicamente sui loro banchi deserti una copia della Costituzione, ma se i 18 senatori di ALA di Verdini, esclusi dagli incarichi ministeriali, hanno abbandonato a se stesso il nuovo premier, il nuovo governo si è arricchito inaspettatamente di due sì non previsti dei senatori ex SEL Dario Stefàno e Luciano Uras.
Favorevole al nuovo governo anche l’ex premier e senatore a vita Mario Monti.
I lavori della seduta sono stati immediatamente sospesi dopo il voto, Il Senato tornerà a riunirsi martedì 20 dicembre.

LA TERZA REPUBBLICA

DI PIERLUIGI PENNATI
pierluigi-pennati
Ci siamo svegliati una mattina con le città tappezzate di grandi manifesti di bambini che sorridendo esclamavano “Fozza Itaia”, è servito un po’ di tempo per capirlo, ma era il partito di Berlusconi che nasceva e con esso nasceva il cambiamento, non della politica, ma del modo di fare politica fino ad allora conosciuto, quello basato su di una solida e riconosciuta costituzione repubblicana antifascista che nessuno osava criticare, abusare, forse.
Era il 1994 e Berlusconi si poneva come il nuovo, il cambiamento e nel contempo un cittadino normale, operaio, artigiano, popolare. Nasceva in quel tempo l’idea di seconda repubblica, che gli esperti collocano tra il 1992 ed il 1994 a seguito dell’inchiesta “mani pulite”, e che ha visto cambiamenti davvero epocali, anche se non in ordine cronologico, tra i quali la famosa “svolta di Fiuggi” con la quale il Movimento Sociale Italiano abbandonò ufficialmente, per bocca del suo segretario Gianfranco Fini, i riferimenti ideologici al fascismo al fine di qualificarsi come forza politica legittimata a governare.
La scomparsa della Democrazia Cristiana e del Partito Socialista Italiano, ma più specificatamente dell’alleanza politica fra Craxi, Andreotti e Forlani, il cosiddetto CAF, la crescita forse inaspettata della Lega Nord e il suo ingresso in Parlamento insieme alla nuova legge elettorale maggioritaria denominata Mattarellum del 1994, approvata a seguito dei referendum del 1991 e del 1993 sulla legge elettorale del Senato, segnarono il confine definitivo in pochi anni tra la prima e la seconda repubblica italiana.
Il referendum costituzionale del 4 dicembre scorso poteva, forse, segnare un ulteriore passo verso una terza repubblica, con cambiamenti importanti per la governabilità e la democrazia: a seconda dei punti di vista, scampato pericolo o mancata occasione.
Renzi, dopo Berlusconi, fallisce il secondo tentativo di modifica costituzionale nella stessa direzione, una sorta di abolizione, od almeno riduzione, del Senato così come lo conosciamo ora.
Non è un mistero che io fossi personalmente contrario, ma forse erano contrari anche molti tra coloro che hanno votato SI a questa riforma. Io ne conosco diversi, che, però, riconoscevano ad essa il merito di segnare un cambiamento, qualunque esso fosse.
Lo slogan del 1992, alla ricerca di un consenso popolare preventivo per introdurre il cambiamento, era “La politica, l’economia, la società, adesso si cambia davvero!”, nel 2016 il cambiamento lo si è cercato senza un preventivo consenso popolare con un “Basta un SI” recitato come un mantra nelle sole ultime due settimane di una campagna referendaria durata per il NO oltre otto mesi, da quando, cioè era mancata la maggioranza dei due terzi del parlamento per la sua approvazione senza voto popolare.
Quello che è successo fin dal risultato elettorale delle elezioni politiche del 24 e 25 febbraio 2013 è ormai cronaca e quasi tutta con il solo PD vero protagonista nel ruolo di suonatore e cantante, promotore di tre governi, tutti retti da una composizione in minima parte variabile, e con il suo ruolo centrale fisso insieme ad NCD ed UDC come alleati di maggioranza sempre presenti.
Così sia il Governo Letta, in dieci mesi, che quello di Renzi, in ventidue, non sono riusciti a convincere né il parlamento, né soprattutto gli italiani della qualità della loro azione di governo, il primo che non voleva essere il “Re Travicello” ed il secondo, forse, ha imitato troppo il successore della stessa favola di Esopo, fino a diventarne simbolo e vittima.
Oggi, il nuovo Presidente del Consiglio dei Ministri Paolo Gentiloni si è proposto dapprima come governo di scopo, dichiarato da molti fotocopia del precedente, per «Accompagnare e, se possibile, facilitare il percorso delle forze parlamentari per arrivare a nuove regole elettorali». Una nuova legge elettorale, quindi, e poi al voto. Invece ha formato un ampio governo “provvisorio”, con diciotto i ministri di cui ben 5 nuovi ingressi e la riconferma di tutti gli uscenti, tranne Stefania Giannini e Maria Elena Boschi che cambia ruolo e viene “promossa” a sottosegretario alla presidenza del consiglio.
Un governo tutt’altro che fotocopia, quindi, ma nemmeno provvisorio, almeno apparentemente, altrimenti perché allargare la cerchia dei ministeri? Solamente per allargare la maggioranza ed incassare la fiducia? Francamente sembra poco credibile e con il conforto delle dichiarazioni degli esponenti dello stesso PD, come Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza, che affermano di votare si la fiducia, ma di riservarsi di decidere successivamente provvedimento per provvedimento.
Una legge elettorale e poi il voto non prevedono grandi provvedimenti ulteriori, se non quelli urgenti, quindi non vi sarebbe nemmeno ragione di altri cinque ministeri, ma, soprattutto, non vi era ragione di confermare tutti i ministri contro ogni pronostico e di fornire una sorta di promozione alla ministra Boschi, che il 22 maggio 2016, intervistata durante la trasmissione “In mezz’ora” ed incalzata da Lucia Annunziata che chiedeva “Io voglio un sì o un no, ma se Renzi perde e lascia la politica, lei lascia la politica o no?”, rispose “Si, perché è un lavoro che abbiamo fatto insieme e quindi ci assumiamo insieme le responsabilità di un progetto politico nel quale abbiamo creduto e lavorato per tanto tempo”.
Gentiloni, invece, la ricicla: si farà Gentiloni ingolosire dall’esperienza di governo e pensare di poter restare a sua volta fino a fine legislatura?
Comunque vada potrebbe essere un suicidio e se la prima repubblica non sembrava governabile per via di un sistema proporzionale che permetteva ai piccoli partiti di ricattare i grandi, la seconda repubblica non sembra aver prodotto un risultato apprezzabile. La montagna ha partorito il topolino. I governi non hanno mai davvero visto coalizioni ristrette. Quello di Letta ha visto il sostegno di ben 7 coalizioni. Quello di Renzi, 6, contraddicendo il mito di una governabilità a suon di maggioranze.
È proprio questa necessità sempre attuale di trovare accordi tra i partiti che, forse, ha spinto Renzi a tentare la modifica costituzionale, come già fece Berlusconi, ma entrambi hanno fallito ed entrambi hanno visto ridurre il consenso elettorale per i loro partiti ottenendo la reazione contraria e disgustata di molti italiani che prima li sostenevano.
La personalizzazione della politica, fatta di slogan, demagogia e populismo ha portato già una volta alla riduzione ai minimi termini o addirittura all’estinzione dei partiti che l’hanno promossa, come per Forza Italia ed AN e, dopo una prima aggregazione eterogenea, potrebbe oggi toccare al PD scindersi di nuovo e disperdersi ulteriormente permettendo ai partiti emergenti, e francamente vedo solo il movimento 5 stelle, di imporsi.
Saranno loro ad avviare il processo di riforme necessario per andare verso la terza repubblica? Non lo so. Penso però che non siano né il governo Gentiloni, né il Pd ancora troppo diviso, a gestire il cambiamento.
Attendiamo una repubblica che forse non verrà mai.

GENTILONI: PRIMO SI, OGGI LA CONTA AL SENATO

DI PIERLUIGI PENNATI
pierluigi-pennati
Dopo aver superato con 473 votanti, 368 sì e 105 contrari il primo voto di fiducia per il suo governo, risultato, per la verità non proprio entusiasmante anche per l’assenza delle opposizioni che hanno abbandonato l’aula prima del voto per andare a fomentare la folla davanti a Montecitorio, oggi si replica al Senato.
I voti alla camera sono stati dieci voti in meno rispetto a quelli avuti da Matteo Renzi nel suo primo voto di fiducia della Camera, ma all’epoca esisteva ancora Scelta Civica, che, dopo aver subito varie trasformazioni, è oggi in parte confluita in ALA che insieme a Lega e M5S non ha partecipato a questa votazione.
Anche Verdini e Scelta Civica hanno votato no, così come Forza Italia ed oggi al Senato potrebbero esserci delle sorprese, dato che la prima conta dei voti di fiducia favorevoli è davvero al limite.
Sisma, banche, Sud e lavoro sono le priorità dichiarate dal premier che intende andare “avanti finché avrò la fiducia”, ed ai 5 Stelle, ma in modo molto soft, rivolge un “il Parlamento non è un social”, al centro del suo discorso di ieri anche la necessità di «rasserenare il clima politico», che strappa l’unico applauso nei soli 17 minuti del suo intervento assestando anche un buffetto alle opposizioni che lasciano l’aula dicendo loro che «I paladini della Carta nel momento più importante non ci sono».
Denis Verdini che si aspettava un riconoscimento nel nuovo esecutivo per il sostegno al Governo Renzi e che può contare su 18 senatori a Palazzo Madama, ha fatto sapere che oggi potrebbero anche votare contro.
Il voto è previsto per le 15, ma già dalle 9.30 inizia la discussione sulle comunicazioni del premier Gentiloni che interverrà in replica alle 13.

GENTILONI INCASSA LA FIDUCIA ANCHE AL SENATO

Lega e Ala non hanno partecipato al voto, come avvenuto alla Camera, M5S invece resta in aula e vota contro, alla fine si contano 169 SI e 99 contrari, senza astenuti, lo stesso numero di sì del governo Renzi del 24 febbraio del 2014, ma con 139 contrari.

Il premier ha dichiarato che il “primo compito è completare le riforme”, “quello appena insediato non è un governo di inizio legislatura, ma innanzitutto deve completare la eccezionale opera di riforma, innovazione, modernizzazione di questi ultimi anni”, “Sarebbe assurdo pensare di completare le riforme avviate senza continuità”.

Il movimento 5 stelle, rimasto in aula, ha ribadito la sua posizione forte di “20 milioni di no al governo Gentiloni”.

La maggioranza richiesta, su 269 presenti e 268 votanti, era di 135 voti in un Senato che come alla Camera era stato svuotato delle opposizioni, ma anche con gli scranni dei ministri quasi vuoti.

I 35 senatori M5s in mattinata avevano abbandonato l’aula durante le dichiarazioni di voto lasciando polemicamente sui loro banchi deserti una copia della Costituzione, ma se i 18 senatori di ALA di Verdini, esclusi dagli incarichi ministeriali, hanno abbandonato a se stesso il nuovo premier, il nuovo governo si è arricchito inaspettatamente di due sì non previsti dei senatori ex SEL Dario Stefàno e Luciano Uras.

Favorevole al nuovo governo anche l’ex premier e senatore a vita Mario Monti.

I lavori della seduta sono stati immediatamente sospesi dopo il voto, Il Senato tornerà a riunirsi martedì 20 dicembre.

LA TERZA REPUBBLICA

Ci siamo svegliati una mattina con le città tappezzate di grandi manifesti di bambini che sorridendo esclamavano “Fozza Itaia”, è servito un po’ di tempo per capirlo, ma era il partito di Berlusconi che nasceva e con esso nasceva il cambiamento, non della politica, ma del modo di fare politica fino ad allora conosciuto, quello basato su di una solida e riconosciuta costituzione repubblicana antifascista che nessuno osava criticare, abusare, forse.

Era il 1994 e Berlusconi si poneva come il nuovo, il cambiamento e nel contempo un cittadino normale, operaio, artigiano, popolare. Nasceva in quel tempo l’idea di seconda repubblica, che gli esperti collocano tra il 1992 ed il 1994 a seguito dell’inchiesta “mani pulite”, e che ha visto cambiamenti davvero epocali, anche se non in ordine cronologico, tra i quali la famosa “svolta di Fiuggi” con la quale il Movimento Sociale Italiano abbandonò ufficialmente, per bocca del suo segretario Gianfranco Fini, i riferimenti ideologici al fascismo al fine di qualificarsi come forza politica legittimata a governare.

La scomparsa della Democrazia Cristiana e del Partito Socialista Italiano, ma più specificatamente dell’alleanza politica fra Craxi, Andreotti e Forlani, il cosiddetto CAF, la crescita forse inaspettata della Lega Nord e il suo ingresso in Parlamento insieme alla nuova legge elettorale maggioritaria denominata Mattarellum del 1994, approvata a seguito dei referendum del 1991 e del 1993 sulla legge elettorale del Senato, segnarono il confine definitivo in pochi anni tra la prima e la seconda repubblica italiana.

Il referendum costituzionale del 4 dicembre scorso poteva, forse, segnare un ulteriore passo verso una terza repubblica, con cambiamenti importanti per la governabilità e la democrazia: a seconda dei punti di vista, scampato pericolo o mancata occasione.

Renzi, dopo Berlusconi, fallisce il secondo tentativo di modifica costituzionale nella stessa direzione, una sorta di abolizione, od almeno riduzione, del Senato così come lo conosciamo ora.

Non è un mistero che io fossi personalmente contrario, ma forse erano contrari anche molti tra coloro che hanno votato SI a questa riforma. Io ne conosco diversi, che, però, riconoscevano ad essa il merito di segnare un cambiamento, qualunque esso fosse.

Lo slogan del 1992, alla ricerca di un consenso popolare preventivo per introdurre il cambiamento, era “La politica, l’economia, la società, adesso si cambia davvero!”, nel 2016 il cambiamento lo si è cercato senza un preventivo consenso popolare con un “Basta un SI” recitato come un mantra nelle sole ultime due settimane di una campagna referendaria durata per il NO oltre otto mesi, da quando, cioè era mancata la maggioranza dei due terzi del parlamento per la sua approvazione senza voto popolare.

Quello che è successo fin dal risultato elettorale delle elezioni politiche del 24 e 25 febbraio 2013 è ormai cronaca e quasi tutta con il solo PD vero protagonista nel ruolo di suonatore e cantante, promotore di tre governi, tutti retti da una composizione in minima parte variabile, e con il suo ruolo centrale fisso insieme ad NCD ed UDC come alleati di maggioranza sempre presenti.

Così sia il Governo Letta, in dieci mesi, che quello di Renzi, in ventidue, non sono riusciti a convincere né il parlamento, né soprattutto gli italiani della qualità della loro azione di governo, il primo che non voleva essere il “Re Travicello” ed il secondo, forse, ha imitato troppo il successore della stessa favola di Esopo, fino a diventarne simbolo e vittima.

Oggi, il nuovo Presidente del Consiglio dei Ministri Paolo Gentiloni si è proposto dapprima come governo di scopo, dichiarato da molti fotocopia del precedente, per «Accompagnare e, se possibile, facilitare il percorso delle forze parlamentari per arrivare a nuove regole elettorali». Una nuova legge elettorale, quindi, e poi al voto. Invece ha formato un ampio governo “provvisorio”, con diciotto i ministri di cui ben 5 nuovi ingressi e la riconferma di tutti gli uscenti, tranne Stefania Giannini e Maria Elena Boschi che cambia ruolo e viene “promossa” a sottosegretario alla presidenza del consiglio.

Un governo tutt’altro che fotocopia, quindi, ma nemmeno provvisorio, almeno apparentemente, altrimenti perché allargare la cerchia dei ministeri? Solamente per allargare la maggioranza ed incassare la fiducia? Francamente sembra poco credibile e con il conforto delle dichiarazioni degli esponenti dello stesso PD, come Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza, che affermano di votare si la fiducia, ma di riservarsi di decidere successivamente provvedimento per provvedimento.

Una legge elettorale e poi il voto non prevedono grandi provvedimenti ulteriori, se non quelli urgenti, quindi non vi sarebbe nemmeno ragione di altri cinque ministeri, ma, soprattutto, non vi era ragione di confermare tutti i ministri contro ogni pronostico e di fornire una sorta di promozione alla ministra Boschi, che il 22 maggio 2016, intervistata durante la trasmissione “In mezz’ora” ed incalzata da Lucia Annunziata che chiedeva “Io voglio un sì o un no, ma se Renzi perde e lascia la politica, lei lascia la politica o no?”, rispose “Si, perché è un lavoro che abbiamo fatto insieme e quindi ci assumiamo insieme le responsabilità di un progetto politico nel quale abbiamo creduto e lavorato per tanto tempo”.

Gentiloni, invece, la ricicla: si farà Gentiloni ingolosire dall’esperienza di governo e pensare di poter restare a sua volta fino a fine legislatura?

Comunque vada potrebbe essere un suicidio e se la prima repubblica non sembrava governabile per via di un sistema proporzionale che permetteva ai piccoli partiti di ricattare i grandi, la seconda repubblica non sembra aver prodotto un risultato apprezzabile. La montagna ha partorito il topolino. I governi non hanno mai davvero visto coalizioni ristrette. Quello di Letta ha visto il sostegno di ben 7 coalizioni. Quello di Renzi, 6, contraddicendo il mito di una governabilità a suon di maggioranze.

È proprio questa necessità sempre attuale di trovare accordi tra i partiti che, forse, ha spinto Renzi a tentare la modifica costituzionale, come già fece Berlusconi, ma entrambi hanno fallito ed entrambi hanno visto ridurre il consenso elettorale per i loro partiti ottenendo la reazione contraria e disgustata di molti italiani che prima li sostenevano.

La personalizzazione della politica, fatta di slogan, demagogia e populismo ha portato già una volta alla riduzione ai minimi termini o addirittura all’estinzione dei partiti che l’hanno promossa, come per Forza Italia ed AN e, dopo una prima aggregazione eterogenea, potrebbe oggi toccare al PD scindersi di nuovo e disperdersi ulteriormente permettendo ai partiti emergenti, e francamente vedo solo il movimento 5 stelle, di imporsi.

Saranno loro ad avviare il processo di riforme necessario per andare verso la terza repubblica? Non lo so. Penso però che non siano né il governo Gentiloni, né il Pd ancora troppo diviso, a gestire il cambiamento.

Attendiamo una repubblica che forse non verrà mai.

GENTILONI: PRIMO SI, OGGI LA CONTA AL SENATO

Dopo aver superato con 473 votanti, 368 sì e 105 contrari il primo voto di fiducia per il suo governo, risultato, per la verità non proprio entusiasmante anche per l’assenza delle opposizioni che hanno abbandonato l’aula prima del voto per andare a fomentare la folla davanti a Montecitorio, oggi si replica al Senato.

I voti alla camera sono stati dieci voti in meno rispetto a quelli avuti da Matteo Renzi nel suo primo voto di fiducia della Camera, ma all’epoca esisteva ancora Scelta Civica, che, dopo aver subito varie trasformazioni, è oggi in parte confluita in ALA che insieme a Lega e M5S non ha partecipato a questa votazione.

Anche Verdini e Scelta Civica hanno votato no, così come Forza Italia ed oggi al Senato potrebbero esserci delle sorprese, dato che la prima conta dei voti di fiducia favorevoli è davvero al limite.

Sisma, banche, Sud e lavoro sono le priorità dichiarate dal premier che intende andare “avanti finché avrò la fiducia”, ed ai 5 Stelle, ma in modo molto soft, rivolge un “il Parlamento non è un social”, al centro del suo discorso di ieri anche la necessità di «rasserenare il clima politico», che strappa l’unico applauso nei soli 17 minuti del suo intervento assestando anche un buffetto alle opposizioni che lasciano l’aula dicendo loro che «I paladini della Carta nel momento più importante non ci sono».

Denis Verdini che si aspettava un riconoscimento nel nuovo esecutivo per il sostegno al Governo Renzi e che può contare su 18 senatori a Palazzo Madama, ha fatto sapere che oggi potrebbero anche votare contro.

Il voto è previsto per le 15, ma già dalle 9.30 inizia la discussione sulle comunicazioni del premier Gentiloni che interverrà in replica alle 13.

GENTILONI É UN RENZI-BIS?

DI PIERLUIGI PENNATI
pierluigi-pennati
Alla fine abbiamo un candidato e, come prevedibile, non senza polemiche e proteste.
Paolo Gentiloni ha accettato con riserva l’incarico di formare un nuovo governo definendolo «un grande onore» ed aggiungendo «Cercherò di svolgere questo compito con dignità».
Già nel primo breve discorso non lesina elogi al premier dimissionario Matteo Renzi, sottolineandone la grande coerenza con l’impregno preso in campagna referendaria che gli impedisce di accettare il reincarico. La realtà, però, è che Renzi aveva detto sia di non volere restare al governo, sia che non avrebbe fatto differenza e la vera coerenza la si potrà misurare solo quando sapremo se manterrà davvero fede alla sua parola di lasciare non solo il governo ma anche la politica. Gli allibratori sono già al lavoro.
Secondo Gentiloni, l’obiettivo del suo governo è chiaro: «Accompagnare e, se possibile, facilitare il percorso delle forze parlamentari per arrivare a nuove regole elettorali». Una nuova legge elettorale, quindi, e poi al voto.
Un governo di scopo per far fronte alle urgenze: «per affrontare priorità internazionali, economiche, sociali, a cominciare dalla ricostruzione delle zone colpite dal terremoto. Conto di riferire al presidente della Repubblica il più presto possibile».
Definisce anche il quadro di azione come conseguenza del netto rifiuto delle opposizioni a collaborare: «Non per scelta ma per senso di responsabilità ci muoveremo nel quadro del governo e della maggioranza uscente».
Le opposizioni non hanno tardato a farsi sentire con i 5 stelle in testa definendo immediatamente su Facebook Paolo Gentiloni come l’avatar di Renzi «l’ennesimo politicante di professione interessato a far perdere ai cittadini la loro sovranità», «Il popolo italiano non può essere ancora calpestato».
Per il movimento, dunque, Paolo Gentiloni non è altro che Renzi stesso sotto mentite spoglie e che al governo Renzi non potrà altro che dare continuità, a cominciare dalla riconferma dei ministri e della maggioranza di supporto.
Renato Schifani, Forza Italia, chiede che «assuma come priorità la necessità di trovare il più largo consenso possibile sull’unico tema all’ordine del giorno: la riforma della legge elettorale», mentre per Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, si ripropone la logica del Gattopardo «Tutto cambia perché nulla cambi. Siamo passati dal governo del burattino delle lobby al governo del burattino del burattino delle lobby» e annuncia senza esitazioni una manifestazione in piazza per il 22 gennaio.
Ma per Mattarella era necessario formare un governo con pieni poteri per poter approvare una legge elettorale omogenea per Camera e Senato avendo già incassato il sostegno annunciato dal capogruppo del Pd Luigi Zanda poco prima del suo discorso, il quale ha assicurato «pieno sostegno alla soluzione che Mattarella riterrà più opportuna», ma con un obiettivo: «andare al voto in tempi il più rapidi possibile».
Con Gentiloni, romano classe 1954, in effetti non si concede molto alle opposizioni, dato che, giornalista professionista, è stato tra i fondatori della Margherita, deputato dal 2001 e già ministro delle Comunicazioni nel secondo governo Prodi oltre che componente della direzione nazionale del PD e ministro degli esteri con Matteo Renzi.
Sapremo solo domani come andrà a finire, ma, da indiscrezioni, sembrerebbe che sacrificate le ministre Poletti, Giannini, Boschi e Madia, che sembra non abbiano convinto molto il nuovo premier incaricato, per accontentare l’opposizione interna al PD, il governo in arrivo potrebbe somigliare di più ad un reimpasto che ad una vera novità.

GENTILONI É UN RENZI-BIS?

Alla fine abbiamo un candidato e, come prevedibile, non senza polemiche e proteste.

Paolo Gentiloni ha accettato con riserva l’incarico di formare un nuovo governo definendolo «un grande onore» ed aggiungendo «Cercherò di svolgere questo compito con dignità».

Già nel primo breve discorso non lesina elogi al premier dimissionario Matteo Renzi, sottolineandone la grande coerenza con l’impregno preso in campagna referendaria che gli impedisce di accettare il reincarico. La realtà, però, è che Renzi aveva detto sia di non volere restare al governo, sia che non avrebbe fatto differenza e la vera coerenza la si potrà misurare solo quando sapremo se manterrà davvero fede alla sua parola di lasciare non solo il governo ma anche la politica. Gli allibratori sono già al lavoro.

Secondo Gentiloni, l’obiettivo del suo governo è chiaro: «Accompagnare e, se possibile, facilitare il percorso delle forze parlamentari per arrivare a nuove regole elettorali». Una nuova legge elettorale, quindi, e poi al voto.

Un governo di scopo per far fronte alle urgenze: «per affrontare priorità internazionali, economiche, sociali, a cominciare dalla ricostruzione delle zone colpite dal terremoto. Conto di riferire al presidente della Repubblica il più presto possibile».

Definisce anche il quadro di azione come conseguenza del netto rifiuto delle opposizioni a collaborare: «Non per scelta ma per senso di responsabilità ci muoveremo nel quadro del governo e della maggioranza uscente».

Le opposizioni non hanno tardato a farsi sentire con i 5 stelle in testa definendo immediatamente su Facebook Paolo Gentiloni come l’avatar di Renzi «l’ennesimo politicante di professione interessato a far perdere ai cittadini la loro sovranità», «Il popolo italiano non può essere ancora calpestato».
Per il movimento, dunque, Paolo Gentiloni non è altro che Renzi stesso sotto mentite spoglie e che al governo Renzi non potrà altro che dare continuità, a cominciare dalla riconferma dei ministri e della maggioranza di supporto.

Renato Schifani, Forza Italia, chiede che «assuma come priorità la necessità di trovare il più largo consenso possibile sull’unico tema all’ordine del giorno: la riforma della legge elettorale», mentre per Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, si ripropone la logica del Gattopardo «Tutto cambia perché nulla cambi. Siamo passati dal governo del burattino delle lobby al governo del burattino del burattino delle lobby» e annuncia senza esitazioni una manifestazione in piazza per il 22 gennaio.

Ma per Mattarella era necessario formare un governo con pieni poteri per poter approvare una legge elettorale omogenea per Camera e Senato avendo già incassato il sostegno annunciato dal capogruppo del Pd Luigi Zanda poco prima del suo discorso, il quale ha assicurato «pieno sostegno alla soluzione che Mattarella riterrà più opportuna», ma con un obiettivo: «andare al voto in tempi il più rapidi possibile».

Con Gentiloni, romano classe 1954, in effetti non si concede molto alle opposizioni, dato che, giornalista professionista, è stato tra i fondatori della Margherita, deputato dal 2001 e già ministro delle Comunicazioni nel secondo governo Prodi oltre che componente della direzione nazionale del PD e ministro degli esteri con Matteo Renzi.

Sapremo solo domani come andrà a finire, ma, da indiscrezioni, sembrerebbe che sacrificate le ministre Poletti, Giannini, Boschi e Madia, che sembra non abbiano convinto molto il nuovo premier incaricato, per accontentare l’opposizione interna al PD, il governo in arrivo potrebbe somigliare di più ad un reimpasto che ad una vera novità.

IL ROTTAMATORE DA ROTTAMARE

DI PIERLUIGI PENNATI
pierluigi-pennati
Voleva essere la soluzione ed è diventato il problema, voleva rottamare ed è diventato da rottamare.
Dopo tre anni di governo imposto a suon di maggioranza relativa, al di là di opinabili bilanci di gestione, gli alti e bassi del capo del governo ci hanno lasciato in una situazione di grande incertezza: farà il nuovo governo, non lo farà, chi lo sa?
Il capo dello stato è conosciuto come persona austera e, fortunatamente, prenderà una decisione che sarà condivisibile dai più, anche se, ovviamente, lascerà l’amaro in bocca a molti.
Elezioni subito: si, ma con quale legge. Renzi bis: vogliamo scherzare? Governo tecnico: manco a parlarne.
Sembra davvero tutto molto complicato, il fatto certo è che quasi tutte le soluzioni e gli atti dell’appena concluso governo Renzi sembrano da rifare, ci lascia una situazione incredibile e complicata, quindi l’ipotesi di un Renzi bis, sebbene tra le più gettonate, fa davvero pensare a come, chi non ha saputo davvero far ripartire l’Italia in tre anni, possa galleggiare ancora per qualche mese, o forse due anni, in attesa di elezioni anticipate o a scadenza.
Soprattutto, basterà un governo limitato in tutto, chiunque sarà il primo ministro, a darci una nuova e più adatta legge elettorale? Difficile davvero, pensarlo, la fretta è una cattiva consigliera e non dovremmo lasciarci prendere da essa, quindi, Renzi bis o meno, il prossimo governo avrà l’arduo compito di cominciare dal rottamare il precedente e che sia Renzi stesso a poterlo fare pare davvero difficile, ma anche che lo faccia un altro governo “provvisorio”, lasciando l’unica alternativa al galleggiare alla deriva fino a nuove elezioni.
Personalmente penso che queste dovrebbero essere al più presto possibile e senza nuove leggi affrettate, a meno di tornare indietro anche con la legge elettorale ripristinando il proporzionale puro e ricominciando tutto daccapo, come si fa quando i pasticci si accumulano e non vi è più soluzione ragionevole ad essi.
In ogni caso, solo un nuovo parlamento legittimato da un voto popolare potrà tentare di ricucire gli strappi fin qui accettati da un parlamento pieno di contraddizioni come quello attuale.

IL ROTTAMATORE DA ROTTAMARE

Voleva essere la soluzione ed è diventato il problema, voleva rottamare ed è diventato da rottamare.

Dopo tre anni di governo imposto a suon di maggioranza relativa, al di là di opinabili bilanci di gestione, gli alti e bassi del capo del governo ci hanno lasciato in una situazione di grande incertezza: farà il nuovo governo, non lo farà, chi lo sa?

Il capo dello stato è conosciuto come persona austera e, fortunatamente, prenderà una decisione che sarà condivisibile dai più, anche se, ovviamente, lascerà l’amaro in bocca a molti.

Elezioni subito: si, ma con quale legge. Renzi bis: vogliamo scherzare? Governo tecnico: manco a parlarne.

Sembra davvero tutto molto complicato, il fatto certo è che quasi tutte le soluzioni e gli atti dell’appena concluso governo Renzi sembrano da rifare, ci lascia una situazione incredibile e complicata, quindi l’ipotesi di un Renzi bis, sebbene tra le più gettonate, fa davvero pensare a come, chi non ha saputo davvero far ripartire l’Italia in tre anni, possa galleggiare ancora per qualche mese, o forse due anni, in attesa di elezioni anticipate o a scadenza.

Soprattutto, basterà un governo limitato in tutto, chiunque sarà il primo ministro, a darci una nuova e più adatta legge elettorale? Difficile davvero, pensarlo, la fretta è una cattiva consigliera e non dovremmo lasciarci prendere da essa, quindi, Renzi bis o meno, il prossimo governo avrà l’arduo compito di cominciare dal rottamare il precedente e che sia Renzi stesso a poterlo fare pare davvero difficile, ma anche che lo faccia un altro governo “provvisorio”, lasciando l’unica alternativa al galleggiare alla deriva fino a nuove elezioni.

Personalmente penso che queste dovrebbero essere al più presto possibile e senza nuove leggi affrettate, a meno di tornare indietro anche con la legge elettorale ripristinando il proporzionale puro e ricominciando tutto daccapo, come si fa quando i pasticci si accumulano e non vi è più soluzione ragionevole ad essi.

In ogni caso, solo un nuovo parlamento legittimato da un voto popolare potrà tentare di ricucire gli strappi fin qui accettati da un parlamento pieno di contraddizioni come quello attuale.

E ADESSO ARRANGIATEVI!

DI PIERLUIGI PENNATI
pierluigi-pennati
Eh no, Matteo, non si fa così! Non puoi andartene in questo modo e lasciare il giocattolo che ti si è rotto nelle mani degli altri per essere riparato, è una brutta azione!
Sono d’accordo, avevi detto che se perdevi il referendum non solo ti saresti dimesso, ma avresti proprio abbandonato la politica, ma questo era prima di dire che, invece, il referendum non era contro di te e che saresti restato.
Adesso, al contrario del contrario del contrario, non solo non resti più, ma sembra che nemmeno di lasciare la politica ti va più bene e te ne vai sbattendo la porta e lasciando i cocci infranti nelle fragili mani delle opposizioni che tu stesso hai voluto ridurre al lumicino in questi anni.
Oggi, con tutte le istituzioni ed i media invasi da persone tue fedelissime lasci la patata bollente, anzi, rovente, nelle mani di quelli che te l’avevano detto. Se da una parte gioisco che, finalmente, possiamo guardare al futuro con l’idea di poter ancora partecipare democraticamente alla vita della repubblica, dall’altro, a partire dalla scelta di votare il 4 dicembre invece di accorpare le giornate elettorali in periodi meno sotto pressione, la tua dipartita in questo modo lascia tutti senza paracadute.
Lo so, ce la faremo, ce l’abbiamo sempre fatta, specie dopo che il Presidente della Repubblica aveva assunto un atteggiamento responsabile, come da suo ruolo istituzionale.
In poco più di mille giorni di governo ci hai dato leggi che sono apparse ai più inique, hai colonizzato la RAI e asservito i giornali, quasi tutti, hai fatto capire che anche la rete era dalla tua parte e che noi, poveri illusi, eravamo una minoranza e poi… ci dici che non credevi ti odiassimo tanto e te ne vai lasciandoci nei guai?
Caro Matteo, scusa se ti do del tu, ma sono stato scout anche io e ricordo bene che Baden Powell diceva che per lo Scout “il modo vero di essere felici è rendere felici gli altri. Prova a lasciare questo mondo un po’ meglio di come l’hai trovato e quando arriva il tuo momento per morire, tu puoi morire felice nel sentire che in ogni caso tu non hai perso il tuo tempo ma hai fatto del tuo meglio.”
Caro Matteo, prova ad essere un po’ Scout e non solo a dichiararlo, almeno prima di andartene dalla politica, ti saremo tutti grati e ti dimostreremo che non era vero che ti odiavamo, odiavamo solo il tuo modo di fare.

E ADESSO ARRANGIATEVI!

Eh no, Matteo, non si fa così! Non puoi andartene in questo modo e lasciare il giocattolo che ti si è rotto nelle mani degli altri per essere riparato, è una brutta azione!

Sono d’accordo, avevi detto che se perdevi il referendum non solo ti saresti dimesso, ma avresti proprio abbandonato la politica, ma questo era prima di dire che, invece, il referendum non era contro di te e che saresti restato.

Adesso, al contrario del contrario del contrario, non solo non resti più, ma sembra che nemmeno di lasciare la politica ti va più bene e te ne vai sbattendo la porta e lasciando i cocci infranti nelle fragili mani delle opposizioni che tu stesso hai voluto ridurre al lumicino in questi anni.

Oggi, con tutte le istituzioni ed i media invasi da persone tue fedelissime lasci la patata bollente, anzi, rovente, nelle mani di quelli che te l’avevano detto. Se da una parte gioisco che, finalmente, possiamo guardare al futuro con l’idea di poter ancora partecipare democraticamente alla vita della repubblica, dall’altro, a partire dalla scelta di votare il 4 dicembre invece di accorpare le giornate elettorali in periodi meno sotto pressione, la tua dipartita in questo modo lascia tutti senza paracadute.

Lo so, ce la faremo, ce l’abbiamo sempre fatta, specie dopo che il Presidente della Repubblica aveva assunto un atteggiamento responsabile, come da suo ruolo istituzionale.

In poco più di mille giorni di governo ci hai dato leggi che sono apparse ai più inique, hai colonizzato la RAI e asservito i giornali, quasi tutti, hai fatto capire che anche la rete era dalla tua parte e che noi, poveri illusi, eravamo una minoranza e poi… ci dici che non credevi ti odiassimo tanto e te ne vai lasciandoci nei guai?

Caro Matteo, scusa se ti do del tu, ma sono stato scout anche io e ricordo bene che Baden Powell diceva che per lo Scout “il modo vero di essere felici è rendere felici gli altri. Prova a lasciare questo mondo un po’ meglio di come l’hai trovato e quando arriva il tuo momento per morire, tu puoi morire felice nel sentire che in ogni caso tu non hai perso il tuo tempo ma hai fatto del tuo meglio.”

Caro Matteo, prova ad essere un po’ Scout e non solo a dichiararlo, almeno prima di andartene dalla politica, ti saremo tutti grati e ti dimostreremo che non era vero che ti odiavamo, odiavamo solo il tuo modo di fare.

BUONGIORNO ACCOZZAGLIA!

DI PIERLUIGI PENNATI
pierluigi-pennati
C’è stata una nuova alba, il sole è sorto ancora una volta, non ci sono state catastrofi economiche e l’Italia si è svegliata forte e democratica come sempre, anzi, di più e il sole del giorno dopo il referendum ha rischiarato il paese ancora una volta mettendo ancor più in luce le contraddizioni del premierato di Matteo Renzi che aveva lasciato capire di voler attuare una diffusa giustizia sociale, ma ha praticato divisione; dare più soldi agli italiani, ma ha salvato le banche a loro spese; che il referendum costituzionale non sarebbe stata una prova su se stesso, ma ha subito affermato di aver perso personalmente; che il suo governo non era in discussione dopo il voto, ma ha dichiarato di volersi dimettere senza nemmeno attendere l’esito finale.
Anche quando ha detto di aver perso, non è sembrato del tutto vero, Matteo Renzi ha vinto la sua battaglia perchè è riuscito a riportare al voto milioni di italiani ormai demotivati, ottenendo un’affluenza alle urne storica ed in controtendenza generale e non solo per la nostra penisola.
Alla fine Matteo Renzi ci ha dato una mano, è riuscito quasi da solo a risvegliare il nostro spirito di libertà, mai sopito veramente e che di fronte alla possibile compressione della propria libertà ci ha fatto accorrere ai seggi per esprimere democraticamente il nostro parere. Ha compiuto un’impresa ciclopica, specie quando è sembrato cadere in errore ed ha chiamato “accozzaglia” i suoi avversari, apparentemente senza tenere conto che i materiali più solidi sono proprio un’accozzaglia, come il calcestruzzo: sabbia, cemento e ferro che singolarmente possono produrre una massa adeguatamente coesa, ma insieme danno il meglio, producendo muri solidi e spesso impenetrabili.
È questa accozzaglia che ha saputo cementare che ha vinto, insieme a lui ha vinto la coscienza popolare che ha risvegliato.
Sembra assurdo, ma con una riforma che in molti abbiamo giudicato sbagliata ha risvegliato la voglia generale di cambiamento. L’affluenza al voto e l’eterogeneità degli elettori dicono che gli italiani quando possono agiscono e che in fondo hanno bisogno di stabilità, ma anche di cambiamento, solo che per cambiare non bisogna mettere loro paura, ma accompagnarli con un’azione di governo che porti progressivamente ed in modo comprensibile e condivisibile a quella giustizia sociale ed equa dignità che desiderano e che meritano.
Le dimissioni del governo governo Renzi non possono essere solo vittoria o sconfitta per qualcuno, perché non sia stato tutto vano le sue dimissioni dovranno aprire la strada a riforme responsabili, quelle del giorno successivo alle provocazioni ed alla fretta di governare a tutti i costi. Il dopo Renzi sarà compito dell’accozzaglia, quella voluta dai padri fondatori e che deve dare prova di sé dimostrando che all’Italia non servono governi forti, ma governi democratici, non pugni di ferro, ma comprensione ed umanità, quell’umanità che i governi tecnici e gli sbruffoni di provincia e di città non hanno ancora saputo restituirci.
Buongiorno accozzaglia, preparati, tocca a te, tocca a tutti noi.

BUONGIORNO ACCOZZAGLIA!

C’è stata una nuova alba, il sole è sorto ancora una volta, non ci sono state catastrofi economiche e l’Italia si è svegliata forte e democratica come sempre, anzi, di più e il sole del giorno dopo il referendum ha rischiarato il paese ancora una volta mettendo ancor più in luce le contraddizioni del premierato di Matteo Renzi che aveva lasciato capire di voler attuare una diffusa giustizia sociale, ma ha praticato divisione; dare più soldi agli italiani, ma ha salvato le banche a loro spese; che il referendum costituzionale non sarebbe stata una prova su se stesso, ma ha subito affermato di aver perso personalmente; che il suo governo non era in discussione dopo il voto, ma ha dichiarato di volersi dimettere senza nemmeno attendere l’esito finale.

Anche quando ha detto di aver perso, non è sembrato del tutto vero, Matteo Renzi ha vinto la sua battaglia perchè è riuscito a riportare al voto milioni di italiani ormai demotivati, ottenendo un’affluenza alle urne storica ed in controtendenza generale e non solo per la nostra penisola.

Alla fine Matteo Renzi ci ha dato una mano, è riuscito quasi da solo a risvegliare il nostro spirito di libertà, mai sopito veramente e che di fronte alla possibile compressione della propria libertà ci ha fatto accorrere ai seggi per esprimere democraticamente il nostro parere. Ha compiuto un’impresa ciclopica, specie quando è sembrato cadere in errore ed ha chiamato “accozzaglia” i suoi avversari, apparentemente senza tenere conto che i materiali più solidi sono proprio un’accozzaglia, come il calcestruzzo: sabbia, cemento e ferro che singolarmente possono produrre una massa adeguatamente coesa, ma insieme danno il meglio, producendo muri solidi e spesso impenetrabili.

È questa accozzaglia che ha saputo cementare che ha vinto, insieme a lui ha vinto la coscienza popolare che ha risvegliato.

Sembra assurdo, ma con una riforma che in molti abbiamo giudicato sbagliata ha risvegliato la voglia generale di cambiamento. L’affluenza al voto e l’eterogeneità degli elettori dicono che gli italiani quando possono agiscono e che in fondo hanno bisogno di stabilità, ma anche di cambiamento, solo che per cambiare non bisogna mettere loro paura, ma accompagnarli con un’azione di governo che porti progressivamente ed in modo comprensibile e condivisibile a quella giustizia sociale ed equa dignità che desiderano e che meritano.

Le dimissioni del governo governo Renzi non possono essere solo vittoria o sconfitta per qualcuno, perché non sia stato tutto vano le sue dimissioni dovranno aprire la strada a riforme responsabili, quelle del giorno successivo alle provocazioni ed alla fretta di governare a tutti i costi. Il dopo Renzi sarà compito dell’accozzaglia, quella voluta dai padri fondatori e che deve dare prova di sé dimostrando che all’Italia non servono governi forti, ma governi democratici, non pugni di ferro, ma comprensione ed umanità, quell’umanità che i governi tecnici e gli sbruffoni di provincia e di città non hanno ancora saputo restituirci.

Buongiorno accozzaglia, preparati, tocca a te, tocca a tutti noi.

FASCISTI CONTRO IL FASCISMO

DI PIERLUIGI PENNATI
pierluigi-pennati
Ho scritto di questa riforma costituzionale analizzando il testo autografo di Benito Mussolini “La filosofia del fascismo”, trovando una certa corrispondenza tra l’azione di governo nel modificare il testo costituzionale e la compressione della democrazia nel pensiero del Duce e non sono nemmeno stato il più ardito, qualcuno ha persino usato il testo scritto di pugno da Adolf Hitler, “Mein Kampf”, scoprendo tristi paralleli.
La domanda che ancora non mi ero posto in modo compiuto era perché gli attivisti di Casa Pound Italia ha preso posizione contro una riforma con spirito potenzialmente nazista e/o fascista, invece di esserne soddisfatti.
Ho fatto un’indagine in rete, Casa Pound è nata nel 2003 e non ho trovato alcun riferimento alla posizione assunta all’analogo referendum del 2006, però è certo che il movimento sia stato sdoganato proprio dall’avvento di Berlusconi e di una destra moderata che ha dato la parola anche alla destra meno moderata, Casa Pound, appunto.
Quindi non ho dati, però resta il dubbio, perché?
Nel loro sito si legge: “votare sì significherebbe in primis condividere il programma di governo di Matteo Renzi e accordargli, attraverso la riforma del sistema parlamentare, un maggior potere al fine di realizzare il suo progetto. Questo 2016 ci ha regalato due episodi degni di nota, come la vittoria della Brexit in Gran Bretagna e il trionfo di Trump negli USA, espressioni di un sentimento di revanche da parte del popolo e, come degna conclusione, l’unica soluzione rimane quella di votare NO al referendum del 4 dicembre, anche se non sei o non la pensi come CasaPound”.
Ed ancora: “CasaPound è convintamente per il ‘no’ al referendum, ‘no’ a una riforma varata da un governo nato da manovre di palazzo e da un parlamento che sarebbe già dovuto andare a casa; ‘no’ a una riforma che modifica l’articolo 117 della Costituzione in modo da sancire la fine della sovranità nazionale e rendere definitivamente l’Italia schiava della Ue; ‘no’ a una riforma che invece di cancellare il Senato lo trasforma in un costoso passatempo per sindaci e consiglieri regionali. Chi ama l’Italia vota e per questo invitiamo gli italiani a fare esattamente come hanno detto Renzi e Boschi e a votare come CasaPound”.
Quindi coloro che sono bollati come fascisti hanno paura del possibile potere che vorrebbero e che, invece, prenderebbero altri, confermando il famoso aforisma andreottiano che “il potere logora chi non ce l’ha”.
In ogni caso fascisti contro o meno, nel segreto della cabina elettorale avremo in mano la matita che potrebbe cambiare il volto della nostra nazione, pensiamoci bene prima di usarla.

FASCISTI CONTRO IL FASCISMO

Ho scritto di questa riforma costituzionale analizzando il testo autografo di Benito Mussolini “La filosofia del fascismo”, trovando una certa corrispondenza tra l’azione di governo nel modificare il testo costituzionale e la compressione della democrazia nel pensiero del Duce e non sono nemmeno stato il più ardito, qualcuno ha persino usato il testo scritto di pugno da Adolf Hitler, “Mein Kampf”, scoprendo tristi paralleli.

La domanda che ancora non mi ero posto in modo compiuto era perché gli attivisti di Casa Pound Italia ha preso posizione contro una riforma con spirito potenzialmente nazista e/o fascista, invece di esserne soddisfatti.

Ho fatto un’indagine in rete, Casa Pound è nata nel 2003 e non ho trovato alcun riferimento alla posizione assunta all’analogo referendum del 2006, però è certo che il movimento sia stato sdoganato proprio dall’avvento di Berlusconi e di una destra moderata che ha dato la parola anche alla destra meno moderata, Casa Pound, appunto.

Quindi non ho dati, però resta il dubbio, perché?

Nel loro sito si legge: “votare sì significherebbe in primis condividere il programma di governo di Matteo Renzi e accordargli, attraverso la riforma del sistema parlamentare, un maggior potere al fine di realizzare il suo progetto. Questo 2016 ci ha regalato due episodi degni di nota, come la vittoria della Brexit in Gran Bretagna e il trionfo di Trump negli USA, espressioni di un sentimento di revanche da parte del popolo e, come degna conclusione, l’unica soluzione rimane quella di votare NO al referendum del 4 dicembre, anche se non sei o non la pensi come CasaPound”.

Ed ancora: “CasaPound è convintamente per il ‘no’ al referendum, ‘no’ a una riforma varata da un governo nato da manovre di palazzo e da un parlamento che sarebbe già dovuto andare a casa; ‘no’ a una riforma che modifica l’articolo 117 della Costituzione in modo da sancire la fine della sovranità nazionale e rendere definitivamente l’Italia schiava della Ue; ‘no’ a una riforma che invece di cancellare il Senato lo trasforma in un costoso passatempo per sindaci e consiglieri regionali. Chi ama l’Italia vota e per questo invitiamo gli italiani a fare esattamente come hanno detto Renzi e Boschi e a votare come CasaPound”.

Quindi coloro che sono bollati come fascisti hanno paura del possibile potere che vorrebbero e che, invece, prenderebbero altri, confermando il famoso aforisma andreottiano che “il potere logora chi non ce l’ha”.

In ogni caso fascisti contro o meno, nel segreto della cabina elettorale avremo in mano la matita che potrebbe cambiare il volto della nostra nazione, pensiamoci bene prima di usarla.

FIRME FALSE: E SE AVESSERO RAGIONE LORO?

DI PIERLUIGI PENNATI
pierluigi-pennati
Firme false a Verona: 71 condannati tra PD, FI, Lega e NCD, nessuno si dimette.
L’indagine era nata d un esposto M5S che nel contempo devono affrontare lo stesso problema in varie città e ieri altri 300 casi a Reggio Emilia con un’indagine che abbraccia trasversalmente ben 19 liste passate al setaccio dai magistrati. A Palermo, in un assordante silenzio generale, decine di amministratori da destra a sinistra patteggiano per lo stesso reato, ma commesso nel 2014. Tre sindaci e decine di consiglieri comunali di cui nessuno chiede le dimissioni e con pene inferiori a quelle previste dalla legge Severino.
Migliaia di firme sospette o falsificate a sostegno di liste elettorali raccolte senza la ratifica di un pubblico ufficiale, ma non è la prima volta, nel 2010 le elezioni regionali della Lombardia furono invalidate per lo stesso motivo dal Consiglio di stato, Formigoni fu persino condannato a risarcire i Radicali per le sue smentite diffamatorie.
Sembra una malattia altamente contagiosa che si sta propagando infettando tutti i partiti senza considerarne colore, statuti e programmi, una specie di ebola amministrativa che non risparmia nessun candidato. Ci deve essere una ragione se tutto ciò continua a succedere, non basta un focolaio, si deve trattare di un virus che nasce spontaneo e si mette subito al lavoro con uno scopo preciso: permettere la candidatura ad una qualche elezione.
In un sistema democratico totalmente aperto vi dovrebbe essere la possibilità per chiunque di partecipare alla vita politica del proprio paese in modo relativamente facile ed introducendo potenzialmente confusione, immaginate su tutti potessimo candidarci senza formalità, liste di migliaia di nomi e milioni di candidati, il caos totale. Per ovviare a ciò in qualsiasi sistema elettorale si pongono sempre delle condizioni di base per le candidature, liste aperte o bloccate e sostenute da partiti o movimenti che certifichino questo sostegno attraverso una forma di certificazione quale, per esempio, la raccolta firme. Il proliferare di partitini e correnti e l’apparente ingovernabilità italiana hanno suggerito ai grandi partiti di alzare progressivamente i minimi per la partecipazione alle elezioni e per la possibilità di essere eletti, aumentando il numero delle firme e complicando le modalità di raccolta e presentazione delle stesse ed introducendo soglie di sbarramento al di sotto delle quali non si ottiene comunque un seggio.
Così, se oggi volessimo candidarci, per esempio, all’elezione a sindaco della città di Milano, dovremmo presentare una dichiarazione di presentazione della lista di consiglieri comunali con l’indicazione del Candidato Sindaco, i certificati elettorali attestanti che i presentatori della lista (ovvero i sottoscrittori) siano iscritti nelle liste elettorali del Comune, la dichiarazione di accettazione di candidatura sia per la carica a sindaco che a consigliere comunale, i certificati elettorali che attestino che i candidati siano iscritti nelle liste elettorali di un Comune della repubblica, il modello di contrassegno di lista.
I sottoscrittori dovrebbero essere almeno 1.000 e firmare alla tassativa presenza di un pubblico ufficiale a scelta tra notai, giudici di pace, cancellieri e i collaboratori delle cancellerie delle corti d’appello, dei tribunali e delle sezioni dei tribunali, i segretari delle procure della Repubblica, i presidenti delle province, i sindaci, gli assessori comunali, gli assessori provinciali, i presidenti dei consigli comunali, i presidenti dei consigli provinciali, i consiglieri provinciali che abbiano comunicato in data anteriore la propria disponibilità al presidente della provincia, i consiglieri comunali che abbiano comunicato in data anteriore la propria disponibilità al sindaco del comune, i presidenti e vice presidente dei consigli circoscrizionali, i segretari comunali, i segretari provinciali, i funzionari incaricati dal sindaco, i funzionari incaricati dal presidente della provincia.
Altre a questo dovremmo designare, i vari rappresentanti di lista etc., con modalità del tutto simili. Una “mission impossible”, o quasi, anche per i professionisti della politica essendo necessaria un’organizzazione ben collaudata e ben insediata nelle istituzioni, oppure almeno molti soldi, giustificando così l’evidenza che sopravvivono bene a questo filtro soltanto i grandi partiti od i miliardari.
La vicenda sempre più allargata delle firme false evidenzia proprio questo problema, a furia di limitare la partecipazione democratica sottoponendola a gimcane burocratiche e complicate modalità non si può quasi più interagire con le amministrazioni, che diventano sempre più dei veri e propri feudi, così esclusivi da escludere persino se stessi al minimo cambiamento. Già, perché tutto ciò non è necessario se si è già eletti con un partito e non si cambia. Stabilità di potere al potere.
Quindi, se più o meno tutti i partiti stanno avendo lo stesso problema può dipendere solo da un fatto: le regole sono troppo complicate persino per chi le ha stabilite. Regole decise dai partiti per i partiti, studiate, negoziate ed approvate, senza partecipazione popolare. Tra due giorni, invece, voteremo per modificare la costituzione ed ancora una volta, ma a più alto livello, nel nome di un fantomatico risparmio e riduzione del numero dei parlamentari introdurremo complicazioni per la partecipazione alla vita pubblica.
La progressiva compressione delle partecipazione popolare e democratica dei partiti al governo ha già creato gravi problemi non solo ai cittadini, ma persino ai partiti stessi che, conseguentemente, sono più ingessati nell’amministrazione pubblica e cercano sempre più riforme per se stessi e non per tutti, esempio lampante che questa riforma costituzionale sia la fotocopia di quella presentata da Berlusconi nel 2006 ed allora osteggiata da chi oggi la ripresenta.
Aggiungere limiti alla partecipazione democratica, alzare le soglie di partecipazione e complicare ulteriormente le regole della costituzione ai fini della governabilità per cambiare a tutti i costi non mi pare una buona idea, per nulla.
Per evitare le firme false, ma ancor più per poter continuare ad esercitare la nostra sovranità popolare, non ci servono inchieste sull’autenticità delle candidature e grida alla disonestà di chi chiedeva la testa dei disonesti, servono, invece, buoni amministratori che sappiano governare bene e con il consenso popolare, lasciando i baroni della politica a casa se necessario.
Mi scandalizzo delle liste con firme false, che hanno pur sempre un minimo di firme autentiche, ma domenica 4 dicembre voterò NO al referendum, anche per questo, per evitare che la democrazia possa estinguersi in una lenta agonia fatta di piccole ma costanti limitazioni delle nostre libertà partecipative e fondamentali.

FIRME FALSE: E SE AVESSERO RAGIONE LORO?

Firme false a Verona: 71 condannati tra PD, FI, Lega e NCD, nessuno si dimette.

L’indagine era nata d un esposto M5S che nel contempo devono affrontare lo stesso problema in varie città e ieri altri 300 casi a Reggio Emilia con un’indagine che abbraccia trasversalmente ben 19 liste passate al setaccio dai magistrati. A Palermo, in un assordante silenzio generale, decine di amministratori da destra a sinistra patteggiano per lo stesso reato, ma commesso nel 2014. Tre sindaci e decine di consiglieri comunali di cui nessuno chiede le dimissioni e con pene inferiori a quelle previste dalla legge Severino.

Migliaia di firme sospette o falsificate a sostegno di liste elettorali raccolte senza la ratifica di un pubblico ufficiale, ma non è la prima volta, nel 2010 le elezioni regionali della Lombardia furono invalidate per lo stesso motivo dal Consiglio di stato, Formigoni fu persino condannato a risarcire i Radicali per le sue smentite diffamatorie.

Sembra una malattia altamente contagiosa che si sta propagando infettando tutti i partiti senza considerarne colore, statuti e programmi, una specie di ebola amministrativa che non risparmia nessun candidato. Ci deve essere una ragione se tutto ciò continua a succedere, non basta un focolaio, si deve trattare di un virus che nasce spontaneo e si mette subito al lavoro con uno scopo preciso: permettere la candidatura ad una qualche elezione.

In un sistema democratico totalmente aperto vi dovrebbe essere la possibilità per chiunque di partecipare alla vita politica del proprio paese in modo relativamente facile ed introducendo potenzialmente confusione, immaginate su tutti potessimo candidarci senza formalità, liste di migliaia di nomi e milioni di candidati, il caos totale. Per ovviare a ciò in qualsiasi sistema elettorale si pongono sempre delle condizioni di base per le candidature, liste aperte o bloccate e sostenute da partiti o movimenti che certifichino questo sostegno attraverso una forma di certificazione quale, per esempio, la raccolta firme. Il proliferare di partitini e correnti e l’apparente ingovernabilità italiana hanno suggerito ai grandi partiti di alzare progressivamente i minimi per la partecipazione alle elezioni e per la possibilità di essere eletti, aumentando il numero delle firme e complicando le modalità di raccolta e presentazione delle stesse ed introducendo soglie di sbarramento al di sotto delle quali non si ottiene comunque un seggio.

Così, se oggi volessimo candidarci, per esempio, all’elezione a sindaco della città di Milano, dovremmo presentare una dichiarazione di presentazione della lista di consiglieri comunali con l’indicazione del Candidato Sindaco, i certificati elettorali attestanti che i presentatori della lista (ovvero i sottoscrittori) siano iscritti nelle liste elettorali del Comune, la dichiarazione di accettazione di candidatura sia per la carica a sindaco che a consigliere comunale, i certificati elettorali che attestino che i candidati siano iscritti nelle liste elettorali di un Comune della repubblica, il modello di contrassegno di lista.

I sottoscrittori dovrebbero essere almeno 1.000 e firmare alla tassativa presenza di un pubblico ufficiale a scelta tra notai, giudici di pace, cancellieri e i collaboratori delle cancellerie delle corti d’appello, dei tribunali e delle sezioni dei tribunali, i segretari delle procure della Repubblica, i presidenti delle province, i sindaci, gli assessori comunali, gli assessori provinciali, i presidenti dei consigli comunali, i presidenti dei consigli provinciali, i consiglieri provinciali che abbiano comunicato in data anteriore la propria disponibilità al presidente della provincia, i consiglieri comunali che abbiano comunicato in data anteriore la propria disponibilità al sindaco del comune, i presidenti e vice presidente dei consigli circoscrizionali, i segretari comunali, i segretari provinciali, i funzionari incaricati dal sindaco, i funzionari incaricati dal presidente della provincia.

Altre a questo dovremmo designare, i vari rappresentanti di lista etc., con modalità del tutto simili. Una “mission impossible”, o quasi, anche per i professionisti della politica essendo necessaria un’organizzazione ben collaudata e ben insediata nelle istituzioni, oppure almeno molti soldi, giustificando così l’evidenza che sopravvivono bene a questo filtro soltanto i grandi partiti od i miliardari.

La vicenda sempre più allargata delle firme false evidenzia proprio questo problema, a furia di limitare la partecipazione democratica sottoponendola a gimcane burocratiche e complicate modalità non si può quasi più interagire con le amministrazioni, che diventano sempre più dei veri e propri feudi, così esclusivi da escludere persino se stessi al minimo cambiamento. Già, perché tutto ciò non è necessario se si è già eletti con un partito e non si cambia. Stabilità di potere al potere.

Quindi, se più o meno tutti i partiti stanno avendo lo stesso problema può dipendere solo da un fatto: le regole sono troppo complicate persino per chi le ha stabilite. Regole decise dai partiti per i partiti, studiate, negoziate ed approvate, senza partecipazione popolare. Tra due giorni, invece, voteremo per modificare la costituzione ed ancora una volta, ma a più alto livello, nel nome di un fantomatico risparmio e riduzione del numero dei parlamentari introdurremo complicazioni per la partecipazione alla vita pubblica.

La progressiva compressione delle partecipazione popolare e democratica dei partiti al governo ha già creato gravi problemi non solo ai cittadini, ma persino ai partiti stessi che, conseguentemente, sono più ingessati nell’amministrazione pubblica e cercano sempre più riforme per se stessi e non per tutti, esempio lampante che questa riforma costituzionale sia la fotocopia di quella presentata da Berlusconi nel 2006 ed allora osteggiata da chi oggi la ripresenta.

Aggiungere limiti alla partecipazione democratica, alzare le soglie di partecipazione e complicare ulteriormente le regole della costituzione ai fini della governabilità per cambiare a tutti i costi non mi pare una buona idea, per nulla.

Per evitare le firme false, ma ancor più per poter continuare ad esercitare la nostra sovranità popolare, non ci servono inchieste sull’autenticità delle candidature e grida alla disonestà di chi chiedeva la testa dei disonesti, servono, invece, buoni amministratori che sappiano governare bene e con il consenso popolare, lasciando i baroni della politica a casa se necessario.

Mi scandalizzo delle liste con firme false, che hanno pur sempre un minimo di firme autentiche, ma domenica 4 dicembre voterò NO al referendum, anche per questo, per evitare che la democrazia possa estinguersi in una lenta agonia fatta di piccole ma costanti limitazioni delle nostre libertà partecipative e fondamentali.

UN SERIAL KILLER IN FAMIGLIA

DI PIERLUIGI PENNATI
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“Non sei pronto per uccidere nonna e zia”.
Sono molte le incredibili affermazioni di Laura Taroni, 40 anni, l’infermiera killer di Saronno, che gli investigatori hanno registrato e dalle quali emerge che avrebbe allevato i suoi due figli chiamandoli con nomi in codice, «l’angelo blu» per il maschio di 11 anni e «l’angelo rosso» per la femmina di 8 anni.
Due angeli che non sarebbero a lor volta scampati alla morte se la madre avesse dovuto compiacere il compagno, l’anestesista Leonardo Cazzaniga di 60 anni, che considerava se stesso quell’«angelo della morte» che, come in un film dell’orrore, poteva decidere di togliere la vita alle persone, ai suoi pazienti colpevoli di essere «indegni» di continuare a vivere.
«Se vuoi uccido anche i bambini», dice lei in una delle intercettazioni dei carabinieri, «No, i bambini no», risponde lui, in un freddo delirio di onnipotenza, vita e morte di chiunque gli stesse attorno.
Quarantacinque decessi, avvenuti tra il 2011e il 2014 durante i periodi di turno nel reparto di Pronto soccorso dell’ospedale di Saronno del vice-primario Leonardo Cazzaniga, è il conteggio finale dei casi sotto la lente d’ingrandimento degli investigatori e secondo i quali una ventina, sarebbero già stati “verificati”: cinque omicidi certi, tra cui quelli di Massimo Guerra e Maria Rita Clerici, marito e madre della Taroni, sei sospetti e nove che non hanno evidenziato anomalie riconducibili a sovra dosaggi o mix letali di farmaci.
Tra i restanti 35 casi sospetti, al momento, c’è anche quello del padre di Cazzaniga, anch’egli morto nell’ospedale, oltre la possibilità di allargamento ad altri casi non ancora valutati, ma che sarebbero riconducibili al “protocollo Cazzaniga”, il mix di farmaci applicato dal medico ai pazienti con stato di salute compromesso.
Sette infermieri della struttura hanno già confermato in interrogatorio l’esistenza del “protocollo”, “Siamo sconcertati”, ha dichiarato l’assessore regionale al welfare, Giulio Gallera, istituendo a sua volta una commissione d’inchiesta regionale sul pronto soccorso dell’ospedale di Saronno.
Ma l’aspetto più eclatante riguarda forse proprio la famiglia della Taroni, da lei decimata e che avrebbe allevato i figli per diventare a loro volta dei serial killer.
In particolare il suo «angelo blu», di soli 11 anni a cui dice «Ma poi la nonna Maria la facciamo fuori…», ottenendo dal figlio una risposta agghiacciante: «Non sai quanto le nostre menti omicide messe insieme siano così geniali».
«Tua nonna non è possibile… A tua nonna e a tua zia non è semplice… A meno che non gli fai tagliare i fili dei freni a tua zia… Gli tiri l’olio dei freni… Poi c’è tua zia Gabriella… Non sei abbastanza grande per poter… Non sei abbastanza grande!». Mamma e figlio si scambiano “opinioni” su progetti violenti: «E poi cosa avresti fatto? Le avresti fatte sparire così? Non è così semplice, sono grosse! L’umido da noi passa solo una volta a settimana… Non abbiamo più neanche i maiali».
La mamma in passato gestiva un’azienda agricola ed i “maiali”, quelli veri, sarebbero stati utili per far sparire con loro eventuali cadaveri o forse si tratta solo di farneticazioni, fatto sta che gli assistenti sociali hanno preso in affidamento i bambini ai quali dovrà essere “resettato” il cervello per fargli condurre una vita “normale”, se ancora possibile.
Secondo gli assistenti sociali sarà un percorso lungo, ma che porterà a risultati positivi. Al Giornale uno degli psicologi che hanno effettuato i primi colloqui terapeutici spiega: «Tra i due minori quello che presenta maggiori criticità è il maschio. Il maschio, 11 anni, veniva trattato dalla madre come una sorta di complice, un potenziale baby killer, per ipotetici delitti futuri con vittime in famiglia. E il dramma nel dramma è che il ragazzino probabilmente era convinto della bontà del progetto criminale, sentendosene addirittura gratificato. Immaginare un suo impegno attivo nella presunta soppressione della zia e della nonna (come emerge dalle intercettazioni) era un’opzione considerata praticabile e meritoria».
È come se Laura Taroni volesse allevare un piccolo sicario, pronto ad essere anch’egli sacrificato per quell’“amore” malato ed assoluto verso il Cazzaniga.
Gli psichiatri spiegano il trauma che i bambini potrebbero subire se scoprissero che la loro madre, che avrebbe dovuto amarli e proteggere, in realtà era una omicida fredda e calcolatrice, al punto di sacrificarli senza ripensamenti: «Se il bambino saprà che la mamma non escludeva di ucciderlo, l’ulteriore choc sarà enorme. La consapevolezza che una madre era in realtà disposta ad ammazzarti per compiacere un uomo, è quanto di più traumatico possa accadere a un figlio in età evolutiva».
Un serial killer in ospedale, ma anche, tragedia nella tragedia, in famiglia.

UN SERIAL KILLER IN FAMIGLIA

“Non sei pronto per uccidere nonna e zia”.

Sono molte le incredibili affermazioni di Laura Taroni, 40 anni, l’infermiera killer di Saronno, che gli investigatori hanno registrato e dalle quali emerge che avrebbe allevato i suoi due figli chiamandoli con nomi in codice, «l’angelo blu» per il maschio di 11 anni e «l’angelo rosso» per la femmina di 8 anni.

Due angeli che non sarebbero a lor volta scampati alla morte se la madre avesse dovuto compiacere il compagno, l’anestesista Leonardo Cazzaniga di 60 anni, che considerava se stesso quell’«angelo della morte» che, come in un film dell’orrore, poteva decidere di togliere la vita alle persone, ai suoi pazienti colpevoli di essere «indegni» di continuare a vivere.

«Se vuoi uccido anche i bambini», dice lei in una delle intercettazioni dei carabinieri, «No, i bambini no», risponde lui, in un freddo delirio di onnipotenza, vita e morte di chiunque gli stesse attorno.

Quarantacinque decessi, avvenuti tra il 2011e il 2014 durante i periodi di turno nel reparto di Pronto soccorso dell’ospedale di Saronno del vice-primario Leonardo Cazzaniga, è il conteggio finale dei casi sotto la lente d’ingrandimento degli investigatori e secondo i quali una ventina, sarebbero già stati “verificati”: cinque omicidi certi, tra cui quelli di Massimo Guerra e Maria Rita Clerici, marito e madre della Taroni, sei sospetti e nove che non hanno evidenziato anomalie riconducibili a sovra dosaggi o mix letali di farmaci.

Tra i restanti 35 casi sospetti, al momento, c’è anche quello del padre di Cazzaniga, anch’egli morto nell’ospedale, oltre la possibilità di allargamento ad altri casi non ancora valutati, ma che sarebbero riconducibili al “protocollo Cazzaniga”, il mix di farmaci applicato dal medico ai pazienti con stato di salute compromesso.

Sette infermieri della struttura hanno già confermato in interrogatorio l’esistenza del “protocollo”, “Siamo sconcertati”, ha dichiarato l’assessore regionale al welfare, Giulio Gallera, istituendo a sua volta una commissione d’inchiesta regionale sul pronto soccorso dell’ospedale di Saronno.

Ma l’aspetto più eclatante riguarda forse proprio la famiglia della Taroni, da lei decimata e che avrebbe allevato i figli per diventare a loro volta dei serial killer.

In particolare il suo «angelo blu», di soli 11 anni a cui dice «Ma poi la nonna Maria la facciamo fuori…», ottenendo dal figlio una risposta agghiacciante: «Non sai quanto le nostre menti omicide messe insieme siano così geniali».

«Tua nonna non è possibile… A tua nonna e a tua zia non è semplice… A meno che non gli fai tagliare i fili dei freni a tua zia… Gli tiri l’olio dei freni… Poi c’è tua zia Gabriella… Non sei abbastanza grande per poter… Non sei abbastanza grande!». Mamma e figlio si scambiano “opinioni” su progetti violenti: «E poi cosa avresti fatto? Le avresti fatte sparire così? Non è così semplice, sono grosse! L’umido da noi passa solo una volta a settimana… Non abbiamo più neanche i maiali».

La mamma in passato gestiva un’azienda agricola ed i “maiali”, quelli veri, sarebbero stati utili per far sparire con loro eventuali cadaveri o forse si tratta solo di farneticazioni, fatto sta che gli assistenti sociali hanno preso in affidamento i bambini ai quali dovrà essere “resettato” il cervello per fargli condurre una vita “normale”, se ancora possibile.

Secondo gli assistenti sociali sarà un percorso lungo, ma che porterà a risultati positivi. Al Giornale uno degli psicologi che hanno effettuato i primi colloqui terapeutici spiega: «Tra i due minori quello che presenta maggiori criticità è il maschio. Il maschio, 11 anni, veniva trattato dalla madre come una sorta di complice, un potenziale baby killer, per ipotetici delitti futuri con vittime in famiglia. E il dramma nel dramma è che il ragazzino probabilmente era convinto della bontà del progetto criminale, sentendosene addirittura gratificato. Immaginare un suo impegno attivo nella presunta soppressione della zia e della nonna (come emerge dalle intercettazioni) era un’opzione considerata praticabile e meritoria».

È come se Laura Taroni volesse allevare un piccolo sicario, pronto ad essere anch’egli sacrificato per quell’“amore” malato ed assoluto verso il Cazzaniga.

Gli psichiatri spiegano il trauma che i bambini potrebbero subire se scoprissero che la loro madre, che avrebbe dovuto amarli e proteggere, in realtà era una omicida fredda e calcolatrice, al punto di sacrificarli senza ripensamenti: «Se il bambino saprà che la mamma non escludeva di ucciderlo, l’ulteriore choc sarà enorme. La consapevolezza che una madre era in realtà disposta ad ammazzarti per compiacere un uomo, è quanto di più traumatico possa accadere a un figlio in età evolutiva».

Un serial killer in ospedale, ma anche, tragedia nella tragedia, in famiglia.