FINE LEGISLATURA CON IL BOTTO

DI PIERLUIGI PENNATI

Sta per finire l’anno, con esso anche la legislatura e, forse, per il momento il peggior periodo di crisi della nostra repubblica, persino nel dopoguerra vi era almeno la speranza della ripresa, mentre oggi non sembrano esserci prospettive in vista.

Ormai da anni ci hanno abituato che la politica e gli amministratori pubblici non pianificano più nulla, nulla che vada oltre la propria previsione di permanenza in carica, vale a dire il governo di anno in anno, o di fiducia in fiducia, e gli amministratori locali, come i sindaci, non oltre il proprio mandato, quattro anni al massimo.

Già, perché il problema dell’amministratore pubblico sembra essere più il portare a termine personalmente un progetto che pianificare qualcosa di davvero utile per la società, infatti se una attività dura troppo a lungo sarà inaugurata da qualcun altro, probabilmente dell’opposizione, che prenderà meriti e gloria e nessuno vuole lavorare per regalare qualcosa ad altri realizzando così solo progetti di breve durata, con impatto psicologico e risultati immediati, magari svendendo proprietà pubbliche e i tassando i cittadini: rapido rientro di costi, ma nessuna prospettiva futura.

Dalla parte degli imprenditori, invece, sempre rincorrendo il risultato immediato è stato ormai sdoganato un metodo cruento, ma davvero efficace di operare: usare i dipendenti per i propri scopi capitalistici.

Con questo non voglio parlare di proletariato, rivoluzione comunista o lotta di classe, ma solo di interesse privato a discapito della collettività, ormai persa di vista dai grandi investitori che operano sempre più in ambito internazionale, complice l’allentamento delle barriere di confine tra moltissimi stati, in particolare nell’eurozona, ma non solo.

Mi spiego meglio, perché il problema viene davvero da lontano ed è ormai fissato solo nella storia: nel 1988 Silvio Berlusconi, allora relativamente giovane imprenditore, acquisiva la Standa, l’elemento è importante perché attraverso questa catena di supermercati sdoganava il metodo imprenditoriale moderno per il quale l’imprenditore organizza un’azienda ed i lavoratori, forti del loro impatto sul governo territoriale o nazionale e dell’impatto sull’opinione pubblica, ottengono le necessarie facilitazioni altrimenti negato ed il caso più evidente fu forse la nuova apertura di Mestre.

Questo supermercato venne allestito dalla Standa in un capannone industriale appena fuori città, senza le necessarie licenze ed adeguato allo scopo, dopo averlo riempito di merce ed assunto centinaia di dipendenti, la licenza commerciale fu, ovviamente negata, trattandosi di area precedentemente destinata dal comune ad altri scopi.

I dipendenti, appena assunti, perdevano già il lavoro “per colpa del comune” di Mestre che creava disoccupazione ed impediva lo sviluppo economico del proprio territorio, così gli amministratori, posti sotto accusa dall’opinione pubblica, furono costretti a consentire l’apertura dell’esercizio in tempi record e tutto si concluse con buona pace generale: un nuovo centro commerciale a servizio della città, nuovi posti di lavoro e benessere in arrivo per tutti.

Ma cos’era realmente successo?

Semplice, ignari in cerca di lavoro erano stati usati per ottenere una licenza altrimenti impossibile.

Come è finita la Standa?

Liquidata definitivamente nel 2012 dopo 14 anni di contenzioso giudiziario con i dipendenti.

Chi ci ha guadagnato?

Cercatelo voi in rete, io non voglio farmi querelare…

Da allora la scena si è ripetuta ovunque, con copioni differenti e con sceneggiature di volta in volta adattate, ma sempre lo stesso ritornello con i dipendenti ricattati usati come arma dai sempre più grandi e potenti gruppi industriali, facendoci così oggi chiudere l’anno con i dipendenti di Fiat, Alfa, Alitalia, Ilva, Perugina e Natuzzi che, se andrà bene, sotto il vischio troveranno la cassa integrazione e poi si vedrà.

Per loro, forse, con qualche sacrificio si potrà protrarre l’agonia ancora qualche mese, od addirittura qualche anno: salari sempre più bassi e condizioni sempre peggiori, in un’Italia la cui costituzione farcita di diritti ormai disattesi compie 70 anni proprio il 1° gennaio dell’anno che sta per iniziare.

Il lavoro è citato diciassette volte nel testo costituzionale, il concetto più esteso, più che un diritto, la base e fondamenta della repubblica italiana e forse proprio per questo il più colpito ed utilizzato: ultimo atto la Melegatti.

La vicenda Natale Melegatti 2017 è del tutto simile a quella della Standa 1989, 28 anni dopo i dipendenti sono stati usati dalla dirigenza per salvare l’azienda e con effetto temporaneo e limitato, infatti se è vero che è stato raggiunto l’obiettivo del milione e cinquecentomila panettoni prodotti e venduti, e con questo salvato il natale, pagati i debiti e gli stipendi arretrati, è anche vero che la colomba pasquale non è ancora al sicuro e che l’operazione salvataggio non può replicarsi ad ogni ricorrenza senza una pianificazione seria ed un piano industriale sostenibile.

A pesare sul futuro Melegatti sono quasi gli stessi problemi che affliggono le già citate Fiat, Alfa, Alitalia, Ilva, Perugina, Natuzzi ed altri 160 tavoli di crisi aperti in altrettante aziende italiane, vale a dire una gestione manageriale poco capace e delle pianificazioni industriali inefficienti che nulla hanno spesso a vedere con la crisi generale dei mercati.

Bisogna capire che la “crescita” non è il solo parametro che regge l’economia, esiste anche la stabilità e la decrescita felice, vale a dire un modo di vedere le cose ed il futuro che tenga conto anche del fatto che prima o poi ci si dovrà arrestare nel crescere e forse, ripeto forse, si dovrà persino decrescere in modo sostenibile.

Senza una pianificazione oculata continueremo a lasciar gestire ad industriali miopi, incapaci o, magari, solamente furbi, aziende che sfruttano i dipendenti oltre il consentito dalla dignità umana per poi dover gestire le crisi attraverso strumenti statali che non esistono perché non sorretti dalla stessa economia che si è consentito entrasse in crisi.

Vizi privati e pubbliche virtù ad alto costo sociale.

Tutto ciò non dovrebbe essere consentito dalla legge, pagare un dipendente 33 centesimi all’ora, come è successo in un Call Center siciliano, dovrebbe essere paragonato alla riduzione in schiavitù, deve esistere un limite legale sotto il quale non è possibile impiegare personale n uno stato civile, una paga oraria minima stabilita dalla legge in base alle esigenze di base per poter sopravvivere dignitosamente, non senza polemiche il Canton Ticino ha appena stabilito che per sopravvivere in Svizzera occorrono non meno di tremila franchi al mese, poco più di diciannove franchi all’ora di stipendio sotto il quale nessuno, ripeto nessuno, può essere impiegato in quel paese con pene severe per chi prova a farlo.

Questo perché secondo uno studio commissionato dallo stato ticinese, chi non ha abbastanza denaro in tasca smette di pagare nell’ordine: tasse, abbigliamento, medicinali.

Il risultato è che lo stato perde risorse e si impoverisce, le persone conducono una vita poco dignitosa e la salute generale peggiora proponendo sempre più emergenze sanitarie.

Soluzione semplice, efficace e degna di uno stato moderno ed io che ho sempre considerato gli svizzeri dei sempliciotti di campagna, scopro che invece sono solo semplicemente pratici, come serve essere nelle campagne.

Così alla Melegatti, ormai diventata il simbolo di questo Natale, a causa della nostra miopia generale restano i 15 milioni, pagati in contanti invece di venire finanziati, spesi per acquistare uno stabilimento inutile ed ancora chiuso ed inattivo, i tour estivi e le sponsorizzazioni pagate al cantante Scanu, per il quale si dice la direttrice abbia un debole, invece di corrispondere regolarmente gli stipendi a 70 dipendenti e le scelte pubblicitarie e commerciali sbagliate e dannose che hanno portato l’azienda alla crisi attuale, azienda che, salvata dai dipendenti, non cambierà dirigenza e probabilmente metodi con la prospettiva di chiudere comunque. Staremo a vedere.

Anche Alitalia è ancora lì, i “capitani coraggiosi” tanto celebrati da Berlusconi e poi sponsorizzati da Renzi con il suo “se vola Alitalia vola l’Italia”, hanno fallito catastroficamente e, nonostante i continui “regali” ricevuti dai vari governi, non hanno saputo rilanciare la compagnia, solo comprimerne i costi, oggi in linea con il mercato globale, ma sempre incapaci di riempire gli aeroplani, vera ragione conclamata del fallimento oggi posto di nuovo solo sulle spalle di dipendenti e cittadini.

E gli stipendi dei “capitani”? Nessuno li ha mai toccati, sempre in rialzo, ingiustamente contro la tendenza al ribasso di quelli dei lavoratori.

Questo 2017 sta per finire e con esso anche la legislatura ed il, forse, peggior periodo per la nostra repubblica che mai come prima non vede prospettive valide all’orizzonte: la politica è divisa, la legge elettorale iniqua, i partiti allo sbando, tutti a cercare consenso tra gli estremi sentimenti, razzismo, diritti, emigrazione, speculazione, … tutto ciò che può colpire la sensibilità della popolazione e carpirne il voto, poi si ricomincerà a vivere alla giornata.

L’Italia, ma anche il resto del mondo, ha la necessità di ripartire dalle proprie basi, dalle radici della dignità umana e della giustizia: per moltissimi anni sono esistite leggi che ponevano le persone al riparo dalla crisi dell’uomo prima che del suo denaro, queste regole sono state cancellate per favorire i mercati che sono così cresciuti a discapito delle persone, con il risultato di cancellare la crescita della dignità e dei diritti umani di base, della libertà e del futuro di tutti noi.

Se davvero dobbiamo ripartire si deve ricominciare da quello che già avevamo conquistato con grandi sacrifici: la dignità dell’uomo.

Secondo la Caritas Migrantes dal 2014 in poi vi sono stati più italiani che hanno espatriano per lavorare, migranti economici, che stranieri che sono arrivati in Italia per lo stesso motivo, migranti economici, con un bilancio negativo sulla popolazione complessiva.

Secondo l’Associazione Italiana Residenti Esteri, AIRE, gli italiani che espatriano svolgono all’estero lavori che in patria rifiutano: camerieri, trasportatori, elettricisti, muratori, etc, realizzando di fatto uno scambio di mano d’opera con gli immigrati e la ragione di tutto ciò deve essere trovata nelle condizioni di lavoro, infatti gli italiani che all’estero fanno avori che non accettano in Italia lo fanno dove le condizioni economiche ed i diritti sono ancora considerati a livelli accettabili per una vita dignitosa, cosa ormai quasi impossibile in patria.

Così, in Italia, quei lavori ormai sottopagati e senza più diritti adeguati per i nostri connazionali, sono accettati da coloro che nelle rispettive nazioni di origine spesso non avevano nemmeno un passaporto e nella nostra terra, invece, hanno documenti e, seppur ancora pochi, diritti che non avevano la possibilità nemmeno di immaginare.

Quello che stiamo facendo è così trasformare lentamente la nostra nazione, che partecipa orgogliosamente ai meeting dei “grandi della terra”, in uno stato del terzo mondo, non per la presenza di troppi immigrati, ma per l’assenza di dignità tipica di quegli stati.

Se il nuovo anno deve segnare davvero una svolta, prima di tutto si dovrà tornare indietro, non approvando nuove leggi, ma ripristinando di quelle che già c’erano e tutelavano le persone, cancellando dapprima la legge Amato di riforma degli istituti bancari ed il decreto Biagi, per poi affrontare pensioni, Fornero, Jobs Act e tutte le dannose leggi di riforma degli ultimi governi.

Se non saremo capaci di tornare indietro, difficilmente potremo continuare ad andare avanti.

CONFERENZA STAMPA DI GENTILONI: SIAMO TRA I GIGANTI DELL’EXPORT, ‘NUN CE SE CREDE’

DI VIRGINIA MURRU
“Siamo tra i primi quattro o cinque colossi dell’export” – dichiara Paolo Gentiloni nella conferenza stampa di fine anno, e lo sottolinea con orgoglio; per conferire maggiore enfasi si esprime anche in romanesco: “nun ce se crede, sì, siamo tra i primissimi al mondo per quel che riguarda l’export. Ma non ne siamo abbastanza consapevoli.”
Il premier ricorda che l’export italiano può ora vantare cifre da record: ben 440 miliardi, ossia 50 in più rispetto al 2016; il nostro paese fa dunque parte della cerchia ristretta dei ‘giganti dell’export industriale’.
Paolo Gentiloni non manca in ogni caso di rimarcare che l’Europa ha posto un limite preciso al surplus commerciale, un’indiretta frecciatina alla Germania, dato che da anni supera di gran lunga il limite del 6%, ma non è comunque la sola. L’Italia ha finora dimostrato di non andare oltre gli steccati imposti dalle regole europee.
Il premier sostiene poi che i conti pubblici del Paese hanno le carte in regola. “Il deficit è ‘a norma’ con le richieste dell’Ue, ma abbiamo impiegato ogni sforzo possibile per abbassare anche il debito pubblico, percorso di misure previste per il triennio 2018/20. Se la congiuntura si rivelerà favorevole, il prossimo Governo potrà anche fare di meglio.”
Gentiloni mette poi l’accento sulle strategie della manovra 2018, appena diventa legge, e afferma che vi sono misure atte a contenere il debito, ‘si è aperta una strada, ora è necessario che la prossima legislatura accompagni la crescita, e non aumenti le tasse’. “Ricordo – aggiunge il premier, che il deficit era al 3% nel 2013, e sarà portato a 1,6% il prossimo anno. Un risultato non da poco”.
E’ ottimista sullo stato dell’economia globale, “poiché il mondo viaggia ormai in un contesto economico più che favorevole”. Semmai, secondo il premier, bisogna vigilare sugli eventi di carattere geopolitico, che possono condizionarne il corso. Ma il 2017 resta un anno positivo per l’economia mondiale, e per i paesi della zona euro in particolare.
Nella conferenza stampa di fine anno, il premier non manca di fare qualche riferimento alla crisi bancaria, sottolineando gli interventi risolutivi tramite il decreto ‘salva risparmio’.
“Non abbiamo regalato risorse pubbliche per contenere la crisi del settore – precisa – ogni iniziativa del Governo ha avuto l’obiettivo di salvare il risparmio e insieme l’economia di interi territori, perché solo così si poteva sbloccare il sistema, ed evitare conseguenze peggiori.”
Nel resoconto di fine anno il presidente del Consiglio ha rivendicato anche il milione di posti di lavoro in più, dei quali gran parte a tempo indeterminato, nonché la buona spinta nelle assunzioni dei giovani, in particolare al sud. “Anche se, sottolinea il premier, il tasso di disoccupazione è ancora alto, e in questo senso ‘c’è poco da scherzare’, si può fare di più negli anni a venire.”
Importanti passi avanti sono stati compiuti con ‘l’impresa 4.0’, con ambiziosi obiettivi nell’ambito dell’innovazione, una sfida che si può vincere nell’immediato futuro.
E ha poi proseguito con un’analisi completa degli impegni portati a termine nella legislatura, in ogni ambito:
“Senza fare proclami – ha sottolineato il premier – ma abbiamo lavorato intensamente, non abbiamo tirato a campare. E’ stata portata a compimento la legislatura, interromperne il corso sarebbe stato devastante.”
Il presidente del Consiglio ne attribuisce il merito alle famiglie, ai lavoratori, alle imprese, e a chiunque abbia svolto un ruolo attivo nella società. “Tutti gli italiani insieme, collaborando in sinergia, hanno contribuito a riportare l’Italia in una degna linea di ‘ripartenza’. Adesso è importante non dilapidarne risultati, la prossima legislatura dovrà farsi carico di sviluppare questi sforzi, sarebbe da irresponsabili se non lo facesse, noi comunque vigileremo.”
“L’Italia dunque, afferma Gentiloni, si è rimessa in moto, ricordo che questo Governo è venuto fuori in circostanze piuttosto critiche sul piano politico, viene dalle conseguenze di una sconfitta nel referendum costituzionale, e le dimissioni di Matteo Renzi”.
Nonostante il fiume rovente di polemiche, il premier sostiene che il Governo non si è limitato a procedere per inerzia, ha preso importanti iniziative in ogni settore della vita pubblica e dell’economia, anche perché ha potuto contare su ministre e ministri di ‘elevate qualità e competenza’, che hanno fatto un lavoro straordinario.
E assicura che questa legislatura si concluderà nei tempi e nei modi che il Presidente della Repubblica indicherà, per il passaggio istituzionale e le dovute consegne al prossimo esecutivo. “Ma intanto, assicura, non tireremo i remi in barca”.
Gentiloni riconosce infine il ruolo positivo svolto da chi lo ha preceduto, e afferma al riguardo:
“Matteo Renzi ha lavorato con un dinamismo e una capacità di riforme straordinari, lasciando pacchetti di decreti attuativi piuttosto importanti.”
Ora la parola passerà agli elettori, le prossime elezioni politiche sono state infatti fissate per il 4 marzo prossimo.

UTENZE. IL 2018 NON PROMETTE REGALI: RAFFICA DI RINCARI IN ARRIVO

DI VIRGINIA MURRU

 

In dirittura d’arrivo, da gennaio, una serie d’aumenti nelle bollette riguardanti la fornitura di luce e gas, ma non solo: il repertorio è più ampio e coinvolgerà servizi fondamentali, come trasporti, banche, pedaggi autostradali, assicurazioni.

La manovra 2018, dopo il lungo e faticoso iter parlamentare, è diventata legge, tanti gli emendamenti apportati durante il suo percorso, gli interventi sono frutto di sforzi notevoli per le limitate finanze dello Stato. Si chiedeva tanto a questa Legge di Bilancio, forse troppo considerato il ‘budget’, del resto il ministro Pier Carlo Padoan ha ripetuto spesso che le risorse non erano infinite.

Molti obiettivi si sono raggiunti, ma resta l’amarezza di quel limite che ingabbia, dietro le finanze dello Stato c’è un debito pubblico simile ad un drago insaziabile, che inghiotte risorse senza sosta, e nessuno ha ancora trovato l’arma giusta per bloccarlo.
I grandi sforzi compiuti dalla manovra appena convertita in legge, sono solo la prima fase di un ciclo, che riprende il corso nel nuovo anno con tutte le strategie e misure atte a portare energia all’erario, perché tutto il piano di spese deve essere adeguatamente coperto, anche in previsione del prossimo ‘esercizio’ dell’azienda Italia.

E il cittadino resta sempre sotto mira, il reddito delle famiglie, soprattutto quello che consente di arrivare in affanno a fine mese, torna in trincea, in Italia metà anno si lavora per le tasse (negli Usa solo fino ad aprile). In ogni caso sono i contribuenti a trasformarsi in Atlante e a reggere l’immane peso che la spesa pubblica comporta. Così, ogni anno si ripete, e la speranza di una condizione di vita migliore, affiora appena dal cappello di quel grande illusionista che è poi lo Stato.

Il 2018 sarà il capoverso di un rituale che riprende il suo avvio, anche in termini fiscali; in agguato sempre qualche rincaro, soprattutto sul versante delle utenze, indispensabili al normale svolgimento della vita quotidiana. Il nuovo anno, ormai alle porte, non si presenta come il sacco di una generosa befana, pieno di sconti e condoni, o riduzioni d’imposta, anzi.

Secondo l’Adusbef, sarebbe pronto un potente morso al reddito del cittadino, già ipotecato da troppi impegni fiscali e insidiato da oneri di ogni genere. Sarà quasi di mille euro la spesa in più prevista per ogni famiglia (esattamente 952 euro), a causa degli aumenti in vista sulle utenze, e non solo di luce e gas, anche i servizi delle banche faranno parte del pacchetto di rincari, le polizze, i trasporti.

Aumenta il costo dell’energia, la tendenza dei prezzi va verso l’alto, sembra che solo il tasso d’inflazione sia insensibile.
Nonostante i prezzi delle materie prime siano ancora accettabili, questi giorni quello del greggio ha raggiunto vertici ai quali non eravamo più abituati: oltre 60 euro a barile (oggi il Brent è a 66,72).

L’Adusbef spiega che le fatture sui consumi di energia elettrica aumenteranno per 22 milioni di famiglie già dal prossimo gennaio. Per quel che concerne le bollette della luce, si sa che è già prossima la riforma delle tariffe, le quali penalizzeranno proprio le famiglie che consumano meno, e che appunto riguardano 22 milioni di abitazioni, più o meno il 70%; non si tratta di buona perequazione, anche se non siamo propriamente nell’ambito dei tributi.

Ma nel lungo orizzonte dei rincari ci sono anche le tariffe del gas, i servizi offerti dalle banche, le assicurazioni e i pedaggi stradali. E si va ancora oltre con i trasporti, le utenze dell’acqua e la tassa sui rifiuti (per la quale si aspettava un rimborso, causa errori di calcolo..).

Una vera e propria stazione d’inferno per il cittadino, che non può compensare con salari più congrui, e tanto meno appoggiarsi con sicurezza all’importo percepito con la pensione. Si fa riferimento alle classi sociali meno abbienti, alle fasce intermedie, i cui nuclei familiari rappresentano gran parte della popolazione.

Del resto, il cittadino italiano, e non è una novità, è quello più tartassato in Europa; i rincari annunciati peseranno anche sulle imprese, soprattutto quelle piccole. Tra colpi e contraccolpi, tirando le somme, a pagare di più saranno gli ‘ultimi’, per i quali nessuno garantisce un reale reddito d’inclusione.

La stangata in arrivo, insomma, costerà poco meno di mille euro. Un’autentica sferzata, una raffica non di poco conto. Sarà pertanto il costo della vita in generale ad aumentare in modo pesante, e a ridurre notevolmente la capacità di acquisto delle famiglie; non sarà solo lo Stato, in modo diretto, ad affondare le mani nelle tasche del cittadino, ma tutto il sistema che vi ruota intorno.

NATALE 2017. L’EURO E’ CROLLATO, IN POCHE ORE PERSO IL 3% DEL VALORE CONTRO IL DOLLARO

DI VIRGINIA MURRU

 

Per la divisa europea, la perdita repentina del 3% nel volgere di poche ore, non è stato propriamente un regalo di Natale.
Il mondo della finanza è quanto di più aleatorio possa esistere, nel volgere di 24 ore può accadere di tutto, e spesso gli outlook, le stime delle Agenzie di rating, lo sguardo lungo degli analisti, non sono sufficienti a mettere a tacere il rischio, e prevenire così eventi che possono diventare drammatici.

Lo sanno bene gli operatori dei mercati finanziari, o chiunque conosca da vicino le subdole leggi della finanza.
Una delle belve in agguato può essere la speculazione, ma concorrono anche altri fattori, che non risparmiano le ‘vittime’ neppure il giorno di Natale, appunto. Proprio così: nelle atmosfere soft della festa più attesa dell’anno, che coincide – tanto per coniugare sacro e profano – con la tanto sospirata tredicesima, si possono verificare eventi che nessuno mette in conto, specie quando riguardano una valuta stabile, tra le più forti sul piano globale.

Si allude all’euro, la divisa europea che continua a tenere testa al dollaro, e che all’esordio dell’autunno ha perfino preoccupato per quei balzi in avanti, l’esuberanza e la tendenza a segnare distanze sempre più marcate proprio nei confronti biglietto verde.

Si è pensato a qualche strategia per frenare la smania di schizzare troppo in alto, avrebbe finito col danneggiare l’export. Già, perché nel mondo della finanza vi sono ‘ruoli’ incompatibili, che possono marciare controsenso, in apparente contraddizione con il reale stato dei fatti.

L’euro, comunque, proprio il giorno di Natale, ovvero un giorno fa, ha passato un brutto momento, dato che ha perso in poche ore il 3% del valore, scendendo a 1,15 in rapporto al dollaro. Il 24 dicembre (sempre nei confronti del dollaro), era a 1,18. Un vero e proprio caos per il sistema dei prezzi e la stabilità necessaria a garantirlo.

Un crollo, come si diceva, non previsto, neppure ‘diagnosticato’ anzitempo, dato che la divisa europea, come si sa, è in buona salute. Secondo analisti ed esperti, la perdita è riconducibile ad una sorta di ‘effetto boomerang’ delle vendite computerizzate, e ai loro automatismi, non pertanto a movimenti speculatori.

Tale effetto sarebbe stato stigmatizzato dalla ridotta portata degli scambi in un giorno come il Natale, dove di norma si tira il freno a mano più o meno ovunque, e per ovvie ragioni. L’entità della perdita subita dall’euro sarebbe però del 2% in realtà, secondo i dati diffusi dall’Agenzia Bloomberg, che sono stati poi pubblicati dal Financial Times il 26 dicembre.
Il calo negli scambi non deriverebbe dai fondamentali, ma da vendite automatiche da computer, che si avvalgono di algoritmi.

A conferma di queste analisi, c’è un ‘segnale’ che rivela le ragioni dei movimenti dietro le quinte, chiamato anche in gergo ‘flash crash’; alla caduta è seguito infatti un rapido recupero. Si è trattato dunque delle conseguenze del basso traffico di scambi nei mercati (che a Natale erano chiusi) e dei programmi informatici di trading, che con i loro automatismi possono avere innescato questi ‘crash’, come fossero cortocircuiti dovuti all’attività del trading quando non è guidato dai normali processi posti in essere dagli investitori, e dagli esperti che lavorano normalmente nelle sale operative.

Svelato dunque l’arcano: i responsabili sarebbero gli algoritmi dei robo-advisor, programmi informatici impostati in modo automatico, per garantire un certo flusso di operazioni finanziarie, anche il giorno di Natale. Qui l’euro è stata una sorta di vittima, perché in modo autonomo e automatico sono evidentemente partiti, tramite i ‘comandi’ dei robo-advisor, gli ordini, i quali, in mancanza del normale traffico dei mercati, hanno creato tali risultati. Comunque sia, non si è trattato di un bel regalo di Natale..

E tuttavia, sempre secondo i resoconti degli analisti, la vulnerabilità esisteva già nel ‘sentiment’ degli operatori, un sentire che non era a favore della divisa europea, c’era quindi una certa esposizione al rischio. Sul piano geopolitico non hanno giovato al buon ‘sentiment’ degli investitori, le elezioni in Catalogna, che hanno seminato nuovamente incertezza. I mercati, come si sa, sono spugne che assorbono ogni urto, e lo traducono in codici non criptati, ma certamente in dati che riflettono la super sensibilità verso i più vaghi sospetti di cambiamento, che possano anche da lontano insidiare lo status quo.

Di certo si sa che si arriva al flash-crash quando una valuta è già nel mirino, i mercati registrano i ‘rumors’, ogni eventuale umore che non sia in sintonia con la stabilità. Simili eventi non sono certo agli esordi, l’importante è che il sistema provveda in modo veloce a ristabilire l’equilibrio preesistente, e a neutralizzare il panico, visto che l’effetto più immediato nei mercati è proprio di carattere emotivo.

Ogni tanto queste evenienze, che sono poi il riflesso degli automatismi software, ci riportano al ruolo indispensabile della mente umana, la quale, per quanto sia stata superata in termini di efficienza dai prodotti del suo stesso ingegno, resta indispensabile nella guida e nell’orientamento dei medesimi.

MANOVRA. RITIRATI DUE EMENDAMENTI, SU LAVORO A TERMINE E INDENNITA’ DI LICENZIAMENTO

 

 

DI VIRGINIA MURRU

 

Non ci saranno cambiamenti nella norma che disciplina i contratti a termine, 36 mesi di lavoro continuativo costituiscono il limite, al di là del quale scattano le condizioni per passare ad un contratto a tempo indeterminato.

L’emendamento presentato pochi giorni fa dal Pd, in Commissione Bilancio, alla Camera, era una proposta che piaceva ai sindacati: si chiedeva di portare il limite a 24 mesi di lavoro continuativo, ma poi la proposta è stata ritirata. La durata massima resta pertanto di 36 mesi, nell’ambito di questo periodo, i datori di lavoro potranno prorogarne i termini per 5 volte, con il consenso del lavoratore.

La Cgil considera grave il ritiro dell’emendamento. Così si è espressa la Segretaria Confederale, Tania Sacchetti:
“La nota congiunta di oggi conferma gli effetti disastrosi del Jobs Act. Quanto si sta decidendo in queste ore sui temi del lavoro è grave e conferma l’incapacità dell’Esecutivo a mantenere gli impegni”.

Non sono benevole le critiche della Cgil, il ritiro dei due emendamenti alla manovra, riguardanti l’aumento dell’indennità di licenziamento e la riduzione della durata massima dei contratti a tempo determinato, hanno reso più aspre le divergenze tra sindacato e Governo in merito alle politiche del Lavoro. Secondo la dirigente della Cgil Tania Sacchetti, “entrambi gli emendamenti, nonostante la valenza limitata, potevano costituire l’inizio di un iter volto a mettere in discussione la struttura tutt’altro che solida del Jobs Act”.

E’ noto che i sindacati hanno lottato strenuamente contro l’abolizione dell’art. 18 (tanto per fare un esempio). Susanna Camusso, nel corso di una manifestazione indetta dal sindacato (ottobre 2014), commentò: ‘L’articolo 18 non è totem ideologico ma tutela concreta.’

La Sacchetti stigmatizza e dichiara: “La conseguenze disastrose del Jobs Act sono state confermate da una nota congiunta diffusa da Istat, Inail, Inps, Anpal e Ministero del Lavoro. Anche nel terzo trimestre del 2017 si registra un calo dei contratti a tempo indeterminato, e un aumento di quelli a tempo determinato. Abbiamo sempre sostenuto che è fondamentale puntare su investimenti pubblici e lavoro di qualità, per stimolare la crescita inclusiva e arginare l’emergenza della disoccupazione giovanile.”

Gli emendamenti, tra raffiche di polemiche, non sono stati tuttavia approvati; su indicazione del governo e del relatore alla manovra, Francesco Boccia, Cesare Damiano ha ritirato l’emendamento che stabiliva in 8 mensilità minime (erano 4), da versare al lavoratore, qualora si verificassero casi di licenziamento senza giusta causa. Ma poi, lo stesso Damiano, evidentemente poco convinto, ha commentato al riguardo:

“Si sta commettendo un errore che non è giusto sottovalutare, sarà alla fine la prossima legislatura a farsi carico del problema, dato che nel nostro paese il datore di lavoro che licenzia se la cava con oneri minimi, e questo non si può accettare.”

Si può ancora precisare che, per quel che concerne i contratti a tempo determinato, il decreto Poletti (del marzo 2014), è stato finora poco efficace, dato che non ha realmente affrontato il problema del precariato ‘estremo’, ossia quello che interessa i lavoratori impegnati in contratti di pochi giorni. Secondo i report di Istat, Inail, Inps e Anpal, sono circa 500 mila coloro che nel mondo del lavoro sono impiegati come interinali, per un terzo il rapporto di lavoro ha la durata di un giorno.

Ora il lavoro a chiamata ha preso il posto dei voucher, così tanto ‘incriminati’, e aboliti nei primi mesi dell’anno in corso, semplicemente questo genere di reclutamento ha ripreso forza a causa della tracciabilità dei voucher.

Ci sono cambiamenti anche sul ‘bonus bebé’, ossia l’assegno destinato alle famiglie con un figlio, che sia naturale, adottato o in affido. La Commissione Bilancio ha approvato un emendamento presentato da Alternativa popolare, il quale apporta delle modifiche alle norme già approvate dal Senato, la misura riprende la sua validità per nuovi nati e bambini adottati tra il 1° gennaio e il 31 di dicembre del 2018.

Al compimento del primo anno di vita verrà erogato l’assegno, gli importi relativi sono stati confermati, ossia 960 euro l’anno, con l’Isee che supera i 7 mila euro l’anno, ma non va oltre i 25 mila.

L’erogazione sarà di 1.920 euro l’anno, con un Isee che non sia superiore i 7 mila. E’ passato anche l’emendamento che porta a 4 mila euro la soglia di reddito per i figli lavoratori sotto i 24 anni, i quali resteranno fiscalmente a carico dei genitori. Tra gli 11 emendamenti presentati dal relatore Francesco Boccia (Pd), c’è anche quello che conferma il canone Rai, fissato ancora a 90 euro.

OFFRONO 12.000 EURO L’ANNO E POI PAGANO 92 EURO AL MESE

DI PIERLUIGI PENNATI

L’annuncio via web, 12.000 euro annui di retribuzione per un lavoro in un Call Center, pochi ma di questi tempi meglio che nulla, si devono essere detti quelli che hanno risposto, sede di lavoro a Taranto.

La realtà era però ben differente, un contratto firmato in copia unica, senza possibilità di leggerlo completamente e di rileggerlo con calma per comprenderne i contenuti, così, dopo quasi sessanta giorni l’amara sorpresa: un bonifico di 92 euro per un intero mese di lavoro, circa 33 centesimi l’ora per 1.200 euro l’anno, un decimo delle previsioni.

Secondo l’azienda è tutto regolare, una assenza dal posto di lavoro anche di soli tre minuti fa perdere il diritto al riconoscimento della paga oraria e dei minimi previsti, così gli stipendi, già contenuti, diventano praticamente nulli.

Dopo la dura scoperta, sette persone si sono rivolte ad Andrea Lumino della SLC CGIL Ionica che ha dichiarato di aver interessato i propri legali «che hanno valutato la possibilità di collegare questa situazione alla legge contro il caporalato».

Ma quando la realtà supera l’immaginazione ci si deve chiedere cosa ha permesso tutto ciò, qualche volta curare non è sufficiente, soprattutto se non c’è prevenzione adeguata.

Il problema non è se si tratta o meno di caporalato, il problema è quanto vale oggi il lavoro, indipendentemente da quale sia e da chi lo svolge, deve esistere un limite inferiore oltre il quale non sia lecito andare ed oltre il quale lo sfruttamento della manodopera può essere considerato schiavismo e non può essere tollerato dalla legge.

Secondo il premio nobel per l’economia Joseph E. Stiglitz “I salari pagati ai lavoratori flessibili devono esser più alti e non più bassi, proprio perché più alta è la loro probabilità di licenziamento. In Italia un precario ha una probabilità di esser licenziato 9 volte maggiore di un lavoratore regolare, una probabilità di trovare un nuovo impiego, dopo la fine del contratto, 5 volte minore e fino al 40% dei lavoratori precari è laureato.” Ed aggiunge, “Ma se li mettete a servire patatine fritte o nei call center, perché spendere tanto per istruirli?”.

Se vi sono sbilanciamenti negativi, serve fissare delle regole di base per far crescere l’economia in modo corretto, la precarizzazione del lavoro, secondo il ragionamento di Stiglitz, doveva essere bilanciata con un amento dei salari, invece è avvenuta la cosa opposta: l’aumento della precarietà ha abbassato i salari fino all’assurdo di far pensare qualcuno di poter pagare il lavoro 92 euro al mese.

L’operazione fatta in Italia sui problemi del lavoro a seguito della sua precarizzazione appare paragonabile a quella di un giardiniere che per migliorare la salute di una pianta che ha le radici malate ne pota le foglie, non solo non otterrà nulla, ma ritarderà solo una fine inevitabile con effetti finali catastrofici.

Se non cambiamo passo non ne usciremo e potremo solo peggiorare, ci indigniamo per i maltrattamenti agli animali, ci stupiamo per abusi e ruberie e poi non facciamo nulla per cambiare, ci saranno presto le elezioni e non potremo certo valutare chi non ha mai governato, ma potremo farlo con chi lo ha fatto male, non ha fatto nulla od ha persino peggiorato le cose, costui, o costoro, non dovrebbero essere più rieletti attraverso il voto, unico strumento democratico ancora nella disponibilità del cittadino.

Attendersi di poter ottenere un lavoro in modo clientelare, scambiando il proprio voto per un’aspettativa personale, sembra furbo, ma nella realtà uccide tutti: non possiamo incolpare gli altri per una cosa che dipende da noi, civiltà, coerenza e giustizia devono diventare motori universali e non qualcosa che viene sempre delegato a qualcun altro sconosciuto.

Il cambiamento inizia da noi, aspettarsi un lavoro ben retribuito senza verificare di cosa si tratta, accettare condizioni inferiori al minimo dignitoso, non denunciare e non fare nulla per cambiare, questi sono i veri mali della società.

Spetta alla politica ed agli amministratori pubblici cambiare ma il cambiamento, come sempre, inizia da noi, cambiamo e gli altri cambieranno con noi.

LA NUOVA VERSIONE DELLA WEB TAX

DI VIRGINIA MURRU

Lo prevede uno degli emendamenti del relatore alla manovra, Francesco Boccia (Pd), presidente della Commissione Bilancio, che ha fatto sapere di aver depositato 12 emendamenti, tra i quali un ‘pacchetto digitale’, con un intervento sul FinTech, la modifica alle norme sulla spedizione postale dei pacchi, e nuove regole sulla protezione dei dati digitali.

La web tax in apparenza sembra meno aggressiva verso i suoi bersagli: l’imposta sulle transazioni digitali è stata dimezzata e va al 3%, ma non è stata estesa all’e-commerce. In realtà, secondo uno degli emendamenti presentati dal relatore, portandola al 3% (rispetto al 6% stabilito dal Senato), non ci sarà più il credito d’imposta, ma con una diversa base imponibile si potranno incassare 190 mln, ossia 78 milioni in più, comunque ossigeno per l’erario, dato che era previsto un gettito di 112 milioni.

La nuova versione, dunque, non si applica all’e-commerce e alla cessione di beni, come era già stato espresso in un primo momento dal relatore, ma alla cessione di servizi, con un’aliquota dimezzata (3%).

La web tax troverà applicazione, in veste di ritenuta alla fonte, direttamente sulle transazioni, e riguarderà coloro che effettuano più di tre mila transazioni di servizi nel corso dell’anno. Di fatto non ci saranno più le comunicazioni all’Agenzia delle Entrate, dunque non si potranno tracciare le imprese digitali, e, come si è visto, non ci sarà più il credito d’imposta sulle imprese residenti, utile per evitare doppie tassazioni.

Per quel che concerne il ruolo di sostituti d’imposta svolti dalle banche, si è ugualmente deciso di sospenderne la funzione. L’imposta entrerà in vigore il primo di gennaio del 2019.
Il ‘pacchetto digitale’ prevede interventi di FinTech (ossia Financial Technology, che attraverso le più avanzate tecnologie dell’informazione, fornisce servizi e prodotti finanziari).

Tra gli emendamenti anche diverse agevolazioni per le imprese che si occupano di materia finanziaria, un regime autorizzativo meno pesante, ossia una zona franca nella quale le startup della finanza potranno trattare in sicurezza i loro prodotti per un periodo di 3 anni.

La clientela deve essere limitata, ma intanto potranno esercitare la loro attività con maggiore elasticità e senza le pressioni derivanti dalle regole un po’ contorte, alle quali devono sottostare di norma gli operatori del credito. Si tratta di un primo riconoscimento a livello fiscale del Fintech, vale a dire i nuovi strumenti finanziari, quelli che transitano sulle piattaforme digitali. In Gran Bretagna la chiamano ‘sandbox’.

La regolamentazione del ‘sandbox’ spetterà tuttavia a Bankitalia, Consob e Ministero dell’Economia, con i propri rappresentanti, che potrebbero formare in seguito un Ente permanente. L’istituzione di un nuovo Ente servirebbe a dare indicazioni e orientamenti di carattere innovativo sul versante finanziario.

Tra gli emendamenti, l’obbligo per le Poste Italiane di realizzare un servizio postale di carattere universale, si occuperà infatti dei pacchetti con un peso fino a 5 kg.
E’ vincolante anche per il garante della privacy stabilire le regole di tutela dei dati personali sensibili, in formato digitale. Questo è il pacchetto di emendamenti alla manovra, sul sistema regolatorio digitale, presentato da Francesco Boccia.

La Commissione ha ripreso i lavori e continuerà a mettere al vaglio gli emendamenti che sono stati presentati negli ultimi giorni, in particolare quelli concernenti l’Agricoltura, lo Sport e la famiglia, giudicati già in modo favorevole dal Governo.

ALESSANDRO A 24 ANNI NON È NORMALE E SI LICENZIA

DI PIERLUIGI PENNATI

Alessandro a 24 anni non è normale e si licenzia, o meglio: non è normale che Alessandro a 24 anni si licenzi.

Già sono tempi strani, nei quali il lavoro è soggetto non ad un mercato, ma ad un mercimonio continuo dove l’unico valore in gioco è il profitto e la dignità umana non è più considerata, per questo non è normale licenziarsi, di questi tempi “ti” licenziano e la frase normale, “mi” licenzio equivale ad un suicidio civile che nessuno farebbe.

Eppure Alessandro, a 24 anni, prende questa decisione: “Ho pensato a lungo prima di pronunciare ad alta voce questa parola” – dice ad Invece Concita di Repubblica – “nel 2017. Ho lavorato per quasi un anno come barista”, “Ottimo ambiente, coi datori di lavoro e coi colleghi. Il mio problema era lo stipendio che, per quanto mi permettesse di vivacchiare, non mi consentiva di pensare al futuro“.

Ecco: un lavoro certo, ottimo ambiente e bravi colleghi, ma stipendio inadeguato e quando ti dicono così la prima cosa che ti viene in mente è di chiederti quanto sarà mai stato lo stipendio, dato che oggi se hai un lavoro è già una fortuna.

Ma Alessandro non è un caso isolato, Alessandro è solo uno che ne ha parlato, i nostri baristi e camerieri emigrano, dato che in Italia il loro lavoro non è più adeguatamente pagato, vanno in altre nazioni dove il loro lavoro è ancora valorizzato adeguatamente e con questo la loro dignità di persone.

Secondo il Centro Studi e Ricerche IDOS, della Caritas Migrantes, dal 2014 in poi nel nostro paese sono più gli italiani che emigrano all’estero che i migranti in arrivo, con un impressionante bilancio negativo che fa davvero riflettere: forse dobbiamo cominciare a renderci conto che dall’Italia non fuggono i cervelli, dall’Italia fuggono persone che non sono più disposte ad accettare lavori che non rispettano la loro dignità, mentre accettano gli stessi lavori in altri stati dove la persona è ancora considerata un valore e per questo retribuita in modo da poter “pensare al futuro”.

Alessandro, dopo il bar ci prova con “un noto marchio d’abbigliamento italiano”, viene assunto e “Il primo giorno mi vengono illustrate alcune regole basilari, del tipo: è vietato instaurare rapporti d’amicizia con i colleghi; è vietato perdersi in chiacchiere con i clienti; se non per esigenze eccezionali è vietato andare ai servizi durante le ore di lavoro, ci si va nei 10 minuti di pausa, rigorosamente timbrati, concessi solo con un minimo di 6 ore di lavoro giornaliere. È vietato bere un caffè nella pausa concessa, dato che l’azienda non dispone di macchinette“.

Il suo ruolo è cassiere e commesso, per il quale è anche “vietato lasciare il posto di lavoro entro il turno stabilito senza prima aver svuotato gli appositi carrelli carichi di merce usata durante la giornata, il tutto solamente dopo aver timbrato, evitando così di andare in straordinario.

Non solo, ogni “infrazione” viene catalogata e porta ad un “verbale”, vale a dire una nota negativa che peserà sui successivi rinnovi dell’impiego, in un ricatto continuo, della durata di tutto il periodo di vigenza contrattuale, che considera anche i “centesimi in più perché il cliente non li ha voluti di resto”, la “troppa confidenza” con clienti e conoscenti, costringendoti a non instaurare alcun rapporto umano nemmeno con i clienti abituali, ed il terrore “di aver piegato male una maglietta”, in una continua ed ininterrotta ansia da prestazione di lavoro.

Per Alessandro la domanda è “Perché mi lamento così tanto, direte voi? Quando c’è gente che un lavoro non ce l’ha o deve sottostare a regole peggiori delle mie?

La sua risposta è “Perché ho 24 anni. A queste regole io non ci sto” e se ne va ancora una volta, poi dice: “per fortuna al bar mi riprendono. Guadagnerò molto meno, ma racconterò una barzelletta ogni tanto, rispetterò il prossimo se mi rispetterà. Siamo esseri umani, non siamo macchine. Il lavoro è importante, ma anche la nostra vita. Non dobbiamo sempre subire, non dobbiamo per forza adattarci a tutto. Lavoriamo ma non dimentichiamoci di rispettarci”.

Nell’intervista, Alessandro Paola, 24 anni, ha deciso che non si possono sacrificare diritti in cambio di soldi, ma questo è proprio il problema, da troppi anni si discute di dare impulso all’economia rilanciando il lavoro e per farlo, invece di fissare regole di base che impediscano il suo eccessivo sfruttamento, si favorisce la precarietà e la compressione dei diritti in favore di dati statistici di occupazione che sono solo numeri matematici costruiti ad arte e che non rispettano più l’uomo che li produce.

Con il Decreto Scuola Lavoro, poi, questi numeri si gonfiano ancora chiamando persino gli studenti ad aumentare le statistiche con il loro lavoro, mentre nella realtà sono ancora a scuola, per l’INAIL uno studente assicurato anche un solo giorno perché “studia lavorando” è un occupato in più, per la società è solo uno studente sfruttato mentre sta ancora studiando.

Il tutto in nome di un “mercato del lavoro” i cui numeri devono essere in costante crescita, pena il fallimento del governo di turno che li snocciola, apparentemente numeri falsati solo per garantire una carriera politica, nella quale nel dire mercato del lavoro sembra si pensi invece al solo valore numerico che produce, senza nemmeno più considerare l’uomo che vi sta dietro, la sua dignità, libertà e morale.

Quando si mettono le persone nella necessità di dover rinunciare a queste cose, si sta facendo male alla società intera, il lavoro rende nobili proprio perché dà dignità e rende liberi ed autonomi, prerogativa un tempo riservata solo a regnanti, nobili e “dignitari”, appunto, cioè “meritevoli di dignità”.

Il lavoro che nobilita dovrebbe avere regole incomprimibili, sicurezza e diritti certi, invece oggi si agisce sempre più in nome di un mercato del lavoro, che altri non è che una mera competizione al ribasso di diritti e dignità in cambio di poca moneta.

Un mercimonio dell’umanità e dell’individuo, azzerati in nome del profitto.

Ci dicono da molto tempo che la competizione ed il mercato facciano bene al progresso dell’economia, ma un’economia che accumula beni a costo di uccidere la dignità delle persone non può essere considerata progresso.

Sono servite lotte anche cruente per nobilitare l’uomo attraverso il lavoro ed oggi gli chiediamo di lavorare senza alcuna nobiltà.

La prima frase dell’articolo 1 della nostra Costituzione cita: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” e prosegue con “La sovranità appartiene al popolo”.

Oggi, attraverso un sistema sempre più complicato di regole che rendono quasi impossibile la partecipazione democratica alla vita dello stato, la sovranità ci è già negata, cosa ne sarà del lavoro?

La parola lavoro è ripetuta ben 17 volte nei primi 40 articoli della costituzione, la frequenza maggiore tra gli argomenti in essa trattati e non è chiamata esplicitamente diritto solo perché di essi è il più importante, essendo il lavoro ben più che un “semplice diritto”, ma uno strumento, “lo strumento” per eccellenza, di emancipazione e progresso, quindi chi fa del lavoro un mercato privo di dignità per l’uomo rinnega, nei fatti, anche la nostra costituzione e non dovrebbe meritare la cittadinanza italiana.

Voglio uno stato che pensa alle persone e non persone che pensano ad uno stato, voglio vivere con dignità, voglio che il lavoro nobiliti e non solo debiliti.

Quasi cento anni fa Adriano Olivetti, che non era certo un semplice operaio, anche se fece brevemente l’operaio per imparare il mestiere, ma un industriale figlio di un industriale che poteva benissimo pensare solo al suo profitto, scrisse: “La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica” ed a chi gli chiese se tutto questo non fosse utopia, rispose: “spesso il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia a lavorarci. E allora può diventare qualcosa di infinitamente più grande”.

Caro babbo natale, ti prego, quest’anno non portarmi doni, portami dignità, sicurezza, autonomia, portami la certezza che quando trovo lavoro questo sia un lavoro vero, che possa essere chiamato tale e che soddisfi il famoso aforisma “il lavoro nobilita l’uomo“.

Portami nobiltà nel lavoro, per Alessandro e per tutti noi.

SECONDO I REPORT STATISTICI, L’ITALIA NEL 2016 REGISTRA IL PIU’ ELEVATO NUMERO DI POVERI

DI VIRGINIA MURRU
Le stime relative al 2016 (consideriamo prima i dati relativi all’Ue), diffuse dal report Eurostat sulle popolazioni a rischio povertà o esclusione sociale, stanno creando un certo giustificato allarme. Si tratta di numeri impressionanti: in Europa, 117,5 milioni di persone, ossia il 23,4% della popolazione, sono a rischio povertà.
Il confronto, in ambito Ue, del tenore di vita nei paesi membri, sono solitamente fondati sul prodotto interno lordo, ovvero il Pil pro capite, il quale determina in termini monetari, il grado di ricchezza di un paese in rapporto agli altri del ‘perimetro’ indicato nell’indagine statistica. Si tratta, tuttavia, di un indicatore che non esprime tante informazioni circa la distribuzione dei redditi di un determinato paese, così come sui fattori non monetari che possono risultare incisivi al fine di mettere in rilievo la qualità della vita della popolazione oggetto dell’indagine.
Non di rado emerge che, alle disparità di reddito, sono legati fenomeni di criminalità, povertà ed esclusione sociale. In questi casi si può essere incentivati a trovare soluzioni per il miglioramento della condizione economica, attraverso il lavoro, l’acquisizione di nuove competenze e dunque l’innovazione, ma non è un percorso semplice, né realizzabile nel breve periodo.
Nel 2001, nel corso di una sessione del Consiglio europeo, i Capi di Stato e Governo, fissarono per la prima volta un ventaglio di indicatori statistici comuni in termini di povertà ed esclusione sociale, sottoposti poi ad un processo di revisione e perfezionamento da un sottogruppo di indicatori del Comitato della Protezione Sociale (o CPS). Tali indicatori consentono un monitoraggio sulle misure poste in essere dagli Stati dell’Unione per abbattere le radici che determinano povertà ed esclusione sociale.
Secondo i criteri fissati dalla ‘Strategia Europa 2020’, il Consiglio europeo, nel 2010, ha individuato al riguardo una priorità, ossia l’obiettivo dell’inclusione sociale, con un forte impegno per la riduzione, entro il 2020, appunto, di 20 milioni di persone a rischio povertà, rispetto alle statistiche emerse nel 2008.
Dagli ultimi dati diffusi da Eurostat, sul ‘rischio povertà nell’Eu’, sono in evidenza i più significativi indicatori di povertà, dai quali emergono le difficoltà più critiche delle classi sociali meno abbienti. Circa un terzo (il 31%), della popolazione, non può permettersi una settimana di vacanza annuale (uno degli indicatori), con la più ampia fascia riscontrata in Romania (il 66%), e la più bassa in Svezia (l’8%).
Il 26,5% dei bambini in ambito Eu, nel 2016 è stato a rischio povertà ed esclusione, con un gap che va dal 13,8% in Danimarca al 49,2% della Romania.
L’11,5% della popolazione Eu con diploma di laurea, è stata a rischio povertà – sempre riferimento 2016 – con una differenza che va dal 3,4% di Malta al 21% della Grecia.
Altro indicatore è il tasso di disoccupazione nell’Eu, il 67% delle persone senza un’occupazione sono a rischio povertà. Un’apparente contraddizione: ‘i working poors’ esprimono la percentuale più critica in Germania, con ben l’83,3% d’incidenza, e il ranging più basso in Slovenia, 56%.
Si tratta degli indicatori fondamentali per formulare le statistiche al riguardo, c’è anche da dire che Eurostat definisce a rischio povertà quegli individui o nuclei familiari che non raggiungono il 60% del livello ‘mediano’ di reddito disponibile. Che tale reddito provenga da salari o altre fonti. Il rischio povertà non coinvolge solo i soggetti senza un’occupazione, ma purtroppo interessa anche i lavoratori che non raggiungono un livello di reddito sufficiente.
Il fenomeno dei ‘working poors’, già monitorato da tempo negli Stati Uniti, interessa una fascia di lavoratori che percepiscono livelli di salari minimi, non sufficienti per un dignitoso sostentamento. I dati riguardanti l’Italia sono forse i più drammatici: il nostro paese è in assoluto quello che conta più poveri nell’Unione europea. Secondo Eurostat sarebbero 10,5 milioni nel 2016. Come si è visto, i criteri di classifica tengono conto di una serie di indicatori che mettono in rilievo la consistenza economica e la condizione sociale degli individui. Classifica dei primi 10 paesi con un indice di povertà assoluta:
1 – Italia, 2 – Romania, 3 – Francia, 4 – Regno Unito, 5 – Spagna, 6 – Germania, 7 – Polonia, 8 – Grecia, 9 – Bulgaria, 10 – Ungheria. Singolare che la Germania, l’economia più solida dell’Ue, e una delle più forti a livello globale, abbia più poveri della Grecia, ma tant’è: si tratta di statistiche.
La ‘deprivazione materiale e sociale’ è un indicatore sensibile, e si entra in questa categoria quando non si possono affrontare almeno 5 delle ‘spese’ seguenti:
spese impreviste, una settimana di vacanza annuale, maturazione di arretrati su mutui, affitti o utenze o arretrati di rate varie. La possibilità di acquistare un pasto di carne o pesce, o di tipo vegetariano. Garantire un adeguato riscaldamento per la propria casa. Un’auto o furgone per uso familiare e personale.
Cambio mobili logori, sostituzione di abiti lisi con altri nuovi, almeno due paia di scarpe, per estate/inverno. Avere una piccola somma disponibile settimanale per piccole spese. Potersi permettere attività di svago regolari. Frequentare amici o familiari stretti per un drink o un pasto 1 volta al mese. Possibilità di connessione alla rete Internet.
In Italia, sempre tenendo conto del 2016, come anno di riferimento, è emerso, secondo le statistiche redatte da Eurostat e Istat, un record in termini di persone a ‘rischio di povertà’: il 20,6% – a rischio povertà ed esclusione sociale il 30%. Nettamente peggiorato rispetto ai dati del 2015, che erano del 28,7%. A livello di tassi, sono in ogni caso peggiori rispetto alla media europea: il 17,2% rispetto ad una media europea del 15,7%. Il gap non è elevatissimo, ma certamente preoccupante per l’Italia.
Ci si può confortare con paesi sicuramente in condizioni peggiori, ma questo non significa che sia una realtà che tranquillizzi, o peggio che sia suscettibile d’immobilismo e inerzia. Dovremmo comunque essere in fin dei conti undicesimi in questa poco edificante classifica:
1- Romania, – 2 Bulgaria, 3- Grecia,  4 – Ungheria, 5 – Lituania, 6 – Lettonia, 7 – Cipro, 8 – Portogallo, 9 – Spagna, 10 – Italia. (Primi 10 paesi per numero di poveri rispetto alla popolazione).
Sempre per quel che riguarda l’Italia, le stime relative ai report, si riferiscono a due misure diverse di povertà, ossia quella relativa e quella assoluta, alle quali sono comunque legate quasi 5 milioni di persone. In questo senso, rispetto al 2015 non ci sono state sostanziali variazioni. L’incidenza di povertà assoluta, se si considerano le famiglia, è del 6,3%, il trend è più o meno stabile negli ultimi 4 anni.
Per quel concerne gli individui, invece, la povertà assoluta incide del 7,9%; non significativamente più alta rispetto al 2015 (7,6%).
Anche la ‘povertà relativa’ è sostanzialmente stabile rispetto al 2015. Lo scorso anno era del 10,6% (come abbiamo visto), e nel 2015 era del 10,4%. L’incidenza della povertà relativa si mantiene elevata per categorie di lavoratori come operai e assimilati, il 18,7%, e per famiglie il cui soggetto di riferimento è alla ricerca di un’occupazione (31%).
Intanto, su un altro fronte, per quel che riguarda la produzione industriale, l’occupazione, il movimento del Pil (tutti dati macro piuttosto importanti), l’Italia, nell’Ue, ha registrato delle buone performance, certo i target da raggiungere sono ancora lontani, soprattutto in termini di miglioramento dei conti pubblici, ma tanti passi avanti sono stati fatti. E anche questi dati emergono regolarmente dai report diffusi da Eurostat e Istat.
Intanto, da segnalare, in ambito Ue, l’occupazione record relativa al terzo trimestre 2017: in Eurozona i soggetti che hanno ottenuto un’occupazione è cresciuto dello 0,4%, e dello 0,3% in ambito Ue. Se si raffronta allo stesso periodo del 2016, il dato macro aumenta di ben 1,7% in zona euro e 1,8% in ambito Ue 28. Secondo il report di Eurostat, 236,3 milioni di individui hanno un lavoro nell’Unione europea, dei quali 156,3 milioni in Eurozona. Non è un dato trascurabile, perché riporta il più alto livello mai registrato.

UNICREDIT, ‘PIANO TRANSFORM 2019’, NPL RIDOTTI DI ALTRI 4 MILIARDI

DI VIRGINIA MURRU

 

Lo ‘strategic plan 2016/19’, deciso lo scorso anno da Unicredit, prosegue con il ‘perseguimento degli obiettivi chiave ’, lo ha dichiarato il Ceo Jean Pierre Mustier, confermando anche l’aumento del dividendo.

Il piano di cessione dei crediti deteriorati è una strategia in linea con le direttive europee, e il raggiungimento di questi punti fondamentali è stato inserito nella nota di aggiornamento del Piano industriale, presentato proprio oggi a Londra. Il Ceo di Unicredit afferma con orgoglio che il management ha deciso d’incrementare il dividendo, per l’esercizio 2019, del 30%, sottolineando che il target Cet1 ratio6 andrà a superare il 12,5%. Performance che indicano uno stato patrimoniale di buona salute per l’istituto di credito, e soprattutto buone prospettive nel breve e medio periodo.

Proprio lo scorso dicembre era stato presentato un documento, lo ‘Strategic Plan’, che indica le linee guida nella gestione dell’Istituto:
“Una banca panaeuropea, semplice, con una rete unica in Europa Occidentale, Centrale e Orientale, a disposizione della sua ampia base di clienti.”

In sintesi si delinea una rete di azioni che stanno già tracciando il futuro della banca, la quale trae insegnamento dalle negative eredità del passato, e punta ad eliminare in primis l’ingombrante fardello degli Npl, per acquisire più competitività, anche attraverso una posizione patrimoniale realmente rafforzata, affinché i risultati di questi interventi si riflettano a lungo termine.

Tra gli obiettivi c’è l’attività di de-risking, fondamentale, con un potenziamento dei tassi di copertura, per creare una base più solida rispetto al passato.
Incentivazione della disciplina di gestione del rischio, attraverso erogazioni future più garantite in termini di qualità.
Un programma di misure di efficienza e disciplina dei costi, in grado di ridurre notevolmente il rapporto costi/ricavi, col raggiungimento di un nuovo modello di business. Da sottolineare i ‘risparmi annui ricorrenti netti’ per 1,7 miliardi di euro, a partire dal 2019.

Altro punto importante del Piano: una più efficiente redditività, insieme ad una nuova politica di distribuzione dei dividendi cash, alla quale si sta già dando attuazione.
C’è da dire che questa revisione strategica ha interessato le principali aree dell’istituto, con il solo fine di rinvigorire e ottimizzare la dotazione di capitale del gruppo.

Si tratta di obiettivi pragmatici, target raggiungibili. In primis il miglioramento della qualità dell’attivo, ma non meno importante la trasformazione del modello operativo, che deve focalizzarsi sui clienti, anche attraverso la semplificazione degli standard di prodotti e servizi, affinché siano sensibilmente ridotti i costi delle attività riguardanti i clienti stessi.

Basi di partenza che fanno lezione delle difficoltà del passato, perché solo così è possibile costruire su fondamenta finanziariamente più solide e sicure.
A questo riguardo c’è da sottolineare la megacartolarizzazione da 17,7 miliardi; l’istituto ha firmato accordi per limitare la partecipazione nel portafoglio di Npl, ossia la riduzione della sua posizione nel portafoglio FINO al di sotto del 20%. Tale decisione era stata già annunciata nel comunicato stampa del 17 luglio scorso. Obiettivo comunque reso noto dal Gruppo una prima volta nel corso del ‘Capital Markets Day 2016’.

Il portafoglio Fino in origine era pari a 17,7 mld di euro di crediti in sofferenza lordi (al 30 giugno 2016), e ridotti a circa 16,2 mld di euro esattamente un anno dopo, ossia al 30 giugno scorso.

Unicredit sostiene che il piano di riduzione di Npl è un percorso strategico fondamentale, ‘si tratta di passi cruciali’. Sono state anche chiuse 557 filiali in Europa nel 2017, tagli non semplici, ma processi necessari per la riduzione dei costi. Il piano di riduzione dell’organico è iniziato nel 2015; attraverso ulteriori chiusure di filiali, ha portato a 72% il target previsto. Un piano ambizioso che il management sta portando scrupolosamente a compimento, i risultati sono racchiusi come sempre nei numeri.

INDAGINE SU DEUTSCHE BANK, DALLA PROCURA DI TRANI A QUELLA DI MILANO

DI VIRGINIA MURRU

 

I tedeschi di Deutsche Bank, nel 2011, hanno giocato sullo stato dell’economia italiana, che lottava strenuamente per riuscire ad avere ragione di una crisi aggressiva, che stava intaccando il sistema profondamente: il paese sembrava davvero prossimo al baratro. Certamente era l’anticamera della recessione. La crisi economica globale, aveva del resto risparmiato solo la Cina e l’India, ma non gli States, proprio qui si era scatenata la tempesta, e l’Europa, per ovvie ragioni, non ne fu immune.

La Deutsche Bank, l’istituto di credito più importante della Germania, ma anche uno dei maggiori a livello internazionale, aveva deciso nel 2011 di trarre vantaggio della situazione, dato che deteneva 8 miliardi di euro in titoli del nostro debito (Btp). Giocando le sue carte poteva con un soffio farci scivolare davvero in basso, e infatti lo fece, ma barando, nascondendo, appunto, i suoi assi nella manica.

Ai suoi manager bastava speculare sui titoli di Stato italiani (il debito sovrano era veramente critico), del resto avevano davanti i più potenti mezzi di ‘forecast’ finanziari per intuire che il Paese controllava a fatica i remi di una congiuntura fortemente segnata dalla crisi globale. Crisi partita dagli States nel 2007, legata ai mutui subprime, al quale poi è seguito il crack di Lehman Brothers. Una delle principali banche d’affari americane, caduta in un crocevia di eventi sfavorevoli che la misero in ginocchio; non era invulnerabile alla stregua di una statua di bronzo, era un gigante con i piedi d’argilla. All’inizio del 2016 ha perso il 48% di valore delle sue azioni.

In un mondo globalizzato nessuno è più al sicuro in ambito finanziario, e nemmeno gli accessi di Deutsche Bank sono stati ‘a prova di scasso’, dato che due anni fa ha rischiato il default, poi salvata dal provvidenziale soccorso di Stato, con le mani lunghe di Angela Merkel e il ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble. Non è un mistero né per i tedeschi, naturalmente, né lo è in Europa, anche se il salvataggio è avvenuto in deroga, e in barba ai regolamenti dell’Ue (alle regole del Bank Recovery and Resolution Directive che impedisce un salvataggio di Stato, ossia il bail-out).

Regolamenti che proprio i tedeschi, vigilando come molossi in ambito Eurozona, hanno strenuamente difeso. Hanno puntato i fari, per esempio, su un Istituto di credito italiano, su Monte dei Paschi, che aveva necessità di un intervento pubblico per essere messo in salvo, ma i tedeschi a suo tempo espressero tutto il loro dissenso in ambito Ue, dichiarandosi contrari. Eppure il loro governo non era agli esordi quando ha deciso di salvare Deutsche Bank, ne avevano già fatte di operazioni in deroga alle norme europee sui loro istituti. Del “rischio default” del colosso finanziario, ne ha parlato diffusamente anche il settimanale finanziario tedesco, Handelsblatt.

Una premessa per concludere che questi giganti della finanza, possono diventare dei burattinai, e usare le liane che li legano agli Stati in crisi, tramite appunto i titoli che possiedono del debito sovrano, per realizzare operazioni a loro favore, senza alcuno scrupolo morale, in totale cinismo, anche se lo Stato in questione finisce poi in una scarpata.
E’ quello che stava accadendo all’Italia nel 2011, Deutsche Bank era come un caimano che aveva nelle potenti fauci una parte consistente di titoli di Stato, e di quegli 8 mild, nel primo semestre dell’anno, decise di venderne 7, ma senza fare tanto rumore. Si comportò tuttavia come un ladro che ruba con la luce accesa, anzi, quasi alla luce del sole. Speculò sulle disgrazie di un Paese in affanno, le cui finanze facevano acqua da tutte le parti. La vendita  dei titoli ne portò al tracollo il valore, lo spread fece un balzo terribile, tale da causare la caduta del governo Berlusconi.

Prima un’implosione di cause, e poi con la spinta causata dai manager di DB, l’esplosione, al quale seguirono, come  avvoltoi, i declassamenti delle Agenzie di Rating: un tornado. Uno dei momenti congiunturali più difficili per il Paese.
Ma fino a che punto sono responsabili i tedeschi della Deutsche? Certamente questo colosso conosce bene tutta la potenza esplosiva di certe armi finanziarie, ne fu il detonatore, e premette il fatale ‘pulsante’, per pura speculazione, per i propri interessi, dato che fin da allora, il maggiore istituto bancario tedesco, accusava falle nei suoi sistemi.

Ora, sulla maxi speculazione della Deutsche indaga la Procura di Milano (da ottobre), per ragioni di competenza territoriale (è stata la difesa della banca tedesca a chiederlo), dopo essere passata per quella di Trani. Non si è trattato di avocazione, lo ha deciso la Corte di Cassazione. L’accusa è di manipolazione del mercato, un’operazione finanziaria di circa 10 mld di euro. I magistrati pugliesi avevano chiesto il rinvio a giudizio di 5 manager, i top alla guida del gruppo Deutsche nel 2011 (ora c’è un nuovo management): l’ex presidente Josef Ackermann, e due ex Ad, Jurgen Fitschen e Anshuman Jail, e dello stesso Istituto, in qualità di persona giuridica.

Dall’indagine e dal controllo di documenti sequestrati da agenti della finanza nella sede milanese, è emerso che, dopo la vendita dei titoli di Stato italiani (7 mliardi in Btp), nel primo semestre 2011, Deutsche aveva ricominciato ad acquistare titoli del nostro debito sovrano (nel mese di luglio), i quali, proprio in seguito ai movimenti di mercato causati dalla speculazione, erano stati svalutati parecchio, e pertanto era più che mai conveniente acquistare.

E infatti acquistò di nuovo titoli per un importo di circa 3 miliardi, ma non lo fece sapere in giro, per non destare sospetti. Solo che non sono occorsi droni particolari per venire a capo degli intenti truffaldini del management dell’istituto tedesco. E non era il solo ‘malloppo’: altri quattro miliardi e mezzo di titoli erano in mano ad una società che la Deutsche aveva acquisito nel 2010.

Dagli atti risulta che solo alla fine di luglio del 2011, la banca tedesca annunciò la vendita dei titoli italiani avvenuta entro giugno, ma tenne ben stretto in pugno il segreto sui nuovi acquisti. Strategie, ovviamente, per fare passare in sordina l’operazione, ma i manager erano ben consapevoli del colpo inferto allo Stato italiano, causando la volata dello spread (ossia i rendimenti tra Btp e bund tedeschi), e facendo cadere il governo, il quale fu consegnato ad un ‘Caronte’ esperto in ambito finanziario, Mario Monti.

Certo, in seguito alla travolgente crisi della Grecia, e la forte esposizione al rischio delle banche tedesche, la mega operazione dei titoli di Stato italiani, rappresentava un affare non di poco conto per Deutsche. E intanto l’Italia stava per seguire le sorti della Grecia.. Il Financial Times, tanto per amplificare sul piano internazionale la notizia sul preoccupante stato dell’economia italiana, fece sapere che gli investitori fuggivano dal Paese, terza economia della zona euro. Secondo i magistrati italiani, la decisione dei manager di Deutsche, di ridurre l’esposizione sui titoli di Stato italiani, per importi così rilevanti, è a dir poco eclatante per quel che concerne i reali intenti.

C’era la volontà di lucrare su un momento veramente drammatico per l’Italia; le conseguenze, infatti si ripercossero sul differenziale di rendimento tra Btp decennali e omologhi Bund, uno schizzo che a fine anno superò i 500 punti base.
In Parlamento si chiese l’intervento di una Commissione d’inchiesta, e c’era ben donde. Nel bilancio della Deutsche Bank, tra i documenti, c’è un prospetto che indica l’esposizione al rischio dei paesi più vulnerabili in quel periodo (Grecia in primis, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna), nella colonna riguardante l’Italia si evidenzia, per il primo semestre 2011, un’esposizione di 996 milioni.

E’ pur vero, che in un periodo di buio pesto per l’economia europea, non era inconsueto per le banche, effettuare operazioni di cessione di titoli di Stato a rischio, mentre si attivavano anche ‘derivati di copertura’ (Credit Default Swap, per esempio).
Il management della Deutsche ha pertanto manipolato i mercati, e lo ha fatto con metodi a dir poco illeciti, poiché nei primi mesi del 2011 li rassicurava sulla sostenibilità del debito sovrano italiano, mentre in realtà, stava già pianificando una drastica riduzione dell’esposizione al rischio, attraverso la vendita dei titoli di debito contenuti nel suo portafoglio.

E portò, come si è visto, a compimenti gli obiettivi con una vendita massiccia di ben 7 miliardi di euro, proprio entro giugno di quell’anno.
Ovviamente non era pensabile che i mercati finanziari restassero indifferenti, l’operazione influenzò pesantemente il valore di mercato dei titoli, e non solo. Fu una slavina che tutto travolse all’interno del suo raggio d’azione: lo spread, il rating delle Agenzie internazionali, che peraltro sono state perseguite a loro volta dalla Procura di Trani per i danni che hanno causato all’economia italiana. Il declassamento del rating italiano, un dannosissimo downgrade, secondo le accuse della Procura (da A a BBB+), fu deciso “illegittimamente e dolosamente” da S&P nel 2011 “al solo fine di danneggiare l’Italia”.

Ma non finì così, tante furono le ripercussioni, tra queste anche il versamento di 2,5 miliardi di euro da parte del Ministero del Tesoro alla banca d’affari americana Morgan Stanley. Il pagamento era dovuto perché stabilito da una clausola in un contratto di finanziamento tra il Ministero dell’Economia e la banca Usa. Tale condizione portò all’estinzione di un derivato e il conseguente pagamento dell’importo da parte del Ministero del Tesoro.

Secondo un’indagine della COnsob, poi trasmessa alla Procura di Trani, che già stava indagando su Standard & Poor’s, Morgan Stanley è azionista dell’Agenzia di rating, il che crea le premesse per i fortissimi dubbi sulle mosse seguite alla tempesta scatenata da Deutsche Bank.
Ci si chiede come mai il Mef abbia ceduto alle pressioni di Morgan Stanley e abbia autorizzato il pagamento senza nulla obiettare in merito. Ci fu Brunetta, all’epoca, che espresse sarcasmo per il comportamento ‘impassibile’ del Ministro dell’Economia.

Ma alla Procura di Trani i dubbi sono aumentati quando si è scoperto che, nel periodo in cui il Tesoro ha versato la somma di due miliardi e mezzo, ai vertici della banca d’affari americana c’era Domenico Siniscalco, che aveva ricoperto la carica di Direttore Generale al Tesoro (in Italia, ovvio), e successivamente era anche diventato ministro dell’Economia. Interrogativi che passeranno alla Procura di Milano, che ora ha in mano gli atti.

EZIOPATOGENESI DI UN PIRLA

DI PIERLUIGI PENNATI

Pirla: sostantivo maschile in uso nelle regioni settentrionali italiane il cui significato popolare generale attribuito è di “pene” o per estensione figurativa di “persona stupida, facilmente imbrogliabile”.

Sono di Milano, intendo dire anche di famiglia di origine milanese, e ne ho sentite di tutti i colori circa il significato della parola pirla, il 13 novembre 2002, sul giornale La Repubblica, ne veniva persino pubblicata una dotta spiegazione in occasione della querela ricevuta da Franca Rame per aver dato del “pirla”, ed anche ironicamente del “genio”, all’allora ministro della Giustizia ed esponente della Lega Roberto Castelli.

“Quel pirla del ministro Castelli si spaventa delle manifestazioni davanti alle carceri. Dovrebbe informarsi: le manifestazioni in appoggio allo sciopero della fame dei detenuti avvengono da decenni. Si informi… Le condizioni delle carceri sono tragiche e non sono affatto quelle descritte dal genio di Castelli…”, la frase incriminata.

Ma si può querelare qualcuno per una parola di cui non è chiaro il significato?

Forse, dato che il ministro, bergamasco della Lega Nord, e Franca Rame, milanese, parlano un dialetto affine e quindi dovrebbero comprendersi bene l’un l’altro, ma la giustizia italiana?

100mila euro chiesti alla querelata in sede da avvocati che, secondo quanto riportato dalla giornalista Natalia Aspesi che scrisse l’articolo, “deliziano il tribunale con una colta esegesi della parola pirla, per dimostrare quanto il loro assistito non la meriti. Prima di tutto, è offensivo che verso un ministro sia pure padano e leghista (però di Cisano Bergamasco, non milanese) sia stata usata una parola la cui origine appartiene al dialetto meneghino, “linguaggio storicamente utilizzato dalla popolazione meno colta dell’area milanese, in contrapposizione alla lingua dotta parlata dalla nobiltà e dal clero”. E forse da Castelli. Inoltre, pirla deve essere fatto risalire al latino pilus “che letteralmente significa pestello ma che veniva regolarmente adottato per indicare il membro maschile”. E dare del membro maschile a qualcuno “assume abitualmente il significato di attribuzione di scarsissime qualità intellettuali, accompagnate dall’assenza di presenza di spirito e di avvedutezza”.

Addirittura i capaci avvocati comparano un termine dialettale siciliano “minchione, che sarebbe certamente stato più offensivo, se la Rame l’avesse usato per un padano. Ma sia pirla che minchione “complice anche la maggior facilità di spostamento della popolazione sul territorio, hanno ormai travalicato i confini regionali…“.

Insomma un caso complicato dalla perfetta conoscenza della lingua, che altrimenti l’avrebbe reso semplice, vediamo perché.

Per spiegare cosa significa pirla si deve comprendere il dialetto milanese, pirla è la terza persona singolare del verbo “pirlare”, che a propria volta deriva da una cosa davvero semplice, una antica trottola di legno dalla forma di goccia rovesciata attorno alla quale si avvolgeva una corda per poterla lanciare.

Il gioco consisteva nel farla andare in alcuni posti predefiniti, tra alcuni paletti, contro un punto preciso di un muro o persino farla andare il più lontano possibile alimentando la roteazione con una frusta o la stessa corda utilizzata per il lancio, una cosa da abili giocatori, quindi, ma certamente non piacevole od edificante per la pirla (femminile come trottola) che veniva lanciata in una direzione e per effetto della sua rotazione e delle asperità incontrate, invece, era incontrollabile e … stupida.

Era però la rotazione a farla da padrone, quindi se la pirla si muove e “pirla” a sua volta, pirlare assunse il significato principale di girare: per posizionare una lampadina si deve pirlare nella sua sede, e le estensioni di girare a vuoto od in modo inconcludente.

Ma non è sempre stato un termine negativo, un milanese del passato non vedeva nulla di male nel far pirlare la propria dama danzando in balera, anche se lo stupido che gira senza una meta sicura o dice cose senza capo ne coda è forse il significato che nel tempo è stato più usato.

Sei proprio un pirla!

Significa sia che hai frainteso qualcosa o che sei davvero divertente nelle tue battute.

Ed il pene?

Qui la vicenda si complica e si perde nella fantasia popolare, dato che pirla ha dei sinonimi dialettali, ovvero parole che sono spesso usate con significati simili, tra queste spicca certamente il meno comune “pistola”, colui che le spara grosse, che a Firenze è detto il Bomba (e qui tutti ne conosciamo uno famoso), o anche “pestola” che come per la pistola ha una parte allungata che può essere vista come simbolo fallico.

Parole così usate che diventavano persino soprannomi di persone, in passato quasi una regola per tutti, e che non erano ritenuti così offensivi o vergognosi tanto da apparire persino in alcuni annunci e persino necrologi dove dopo il nome veniva apposto “detto il pestola”.

Anche il sinonimo lombardo, varesino, comasco e persino sconfinante nel piacentino, di “bìgul” o il bergamasco e bresciano “bìgol”, o persino il termine più generale “ciùla”, che nella forma verbale ciulare” assume il significato di avere un rapporto sessuale, sono incriminabili, dato che al pari di pirla assumono significati di stupido o membro maschile.

Il perchè di questa associazione più estesa è generale ed allargato a tutta la nazione, anche in altri luoghi si associa il pene al termine sciocco o stupido, non saprei definire chiaramente il perché, ma forse per la tendenza maschile a seguire le indicazioni provenienti dagli stimoli sessuali senza ragionare troppo, infatti non è infrequente sentire in un qualche dialetto, che qualcuno ragiona “con il pene” o, se particolarmente ottuso, persino “con il deretano”.

Così dal veneto e friulano “móna” (che però è l’organo genitale femminile), il siciliano “minchiuni”, al piemontese “picio”, all’italiano “coglione”, il ligure “belìn”, e chi più ne ha più ne metta, tutti i termini dialettali associati al pene assumo anche il significato di stupido, siano essi usati simpaticamente o meno.

Ma non è tutto, il termine “pirlare” si è trasferito nell’uso corrente italiano quando ci troviamo in cucina, “pirlare un impasto”, cioé arrotondarlo facendolo girare tra le mani o sul piano di lavoro per dargli una forma sferica regolare, è ormai diventato di uso comune e può essere facilmente reperito in rete, anche in questo caso, come nell’originale derivato da trottola, si fa girare, ovvero pirlare, qualcosa, ovvero l’impasto da cucinare.

Inoltre il termine pirla è stato così utilizzato un po’ in tutti i modi ed i significati limitrofi che persino il poeta Eugenio Montale gli ha dedicato una poesia dal titolo “Il pirla”, un cantante italiano chiamato Charlie ottenne un buon successo nel 1988 con la canzone intitolata “Faccia da pirla”, ed il gruppo musicale degli Articolo 31, costituito in periferia di Milano, ha pubblicato nel 2003 la canzone “I consigli di un pirla”.

Tornando per un istante alla vicenda di Franca Rame, che fu poi condannata in primo grado a pagare un risarcimento di 3 mila euro, ed alla legge in generale, va però detto che la giurisprudenza italiana, indipendentemente dalle origini del termine, è oggi concorde nel condannare l’uso della parola pirla, la Corte di Cassazione, con la sentenza 4036 del 2006, lo ha stabilito chiaramente ed inequivocabilmente, quindi attenzione al suo uso, va fatto solo con persone con cui si ha stima e confidenza in modo simpatico, dare del pirla a qualcuno può oggi costare caro.

Concludo con l’osservazione che Pirla è anche una delle 26 frazioni del Comune di Monteggio, nella Canton Ticino della vicina Svizzera, anche se in questo caso le notizie storiche ci dicono con certezza che deriva dal latino pirula, “piccola pietra”.

Insomma, abbiamo capito come un termine semplice, di uso comune ed usato al principio prevalentemente da bambini e ragazzi ha assunto nel tempo un significato molto differente, ai milanesi, però, piace continuare ad usarlo in modo simpatico, dare del pirla in questo contesto non offende nessuno e spesso fa ridere, “sei proprio un pirla se ti offendi per questo” 😉

TENSIONI TRA ISRAELE E PALESTINA: QUANDO LE PAROLE DIVENTANO ORDIGNI

DI VIRGINIA MURRU

 

Era nell’aria, ci si attendeva una reazione ben precisa, ed eccoli i risultati della politica internazionale scellerata, che scansa il buon senso per ragioni che vanno al di là della ponderazione dei propri atti, in un’epoca in cui gli equilibri geopolitici del pianeta, la stessa pace, sono nelle mani di personaggi che hanno manifestato segnali a dir poco pericolosi.

Le tensioni roventi tra Israele e Palestina hanno ripreso la loro escalation di violenze, da fonti palestinesi si apprende che ci sono stati 114 feriti, tanti dei quali con contusioni derivanti dai proiettili rivestiti di gomma lanciati dall’esercito israeliano. Altri palestinesi sono stati soccorsi in seguito ad intossicazione da gas lacrimogeni.

E la mattanza nella linea di Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme est, continua. Il fuoco delle tensioni ardeva certo sotto la cenere, ma era il caso che Trump
istigasse con l’ennesima sfida, se le parole non di rado sono le armi più destabilizzanti e pericolose? Il presidente degli Usa e il suo entourage non potevano ignorare le conseguenze di certe dichiarazioni, e nella striscia di Gaza le sirene hanno di nuovo suonato, mentre la gente si è riversata nei rifugi.

La decisione di trasferire la sede diplomatica americana da Tel Aviv a Gerusalemme, per imporre uno status ben preciso alla città, che non sarà più lo spartiacque fra tre religioni, non poteva suscitare entusiasmo né in Palestina né altrove nel mondo.
Tutto questo mentre il genero di Donald Trump, Jared Kusner era impegnato su un fronte di pace, e stava lavorando proprio per creare le migliori condizioni per riportare i rapporti tra palestinesi e israeliani su un piano di più sensato equilibrio. Non si sa fino a che punto i palestinesi si fidassero, ma si attendevano maggiori sviluppi. Non ci dovevano essere ingerenze, sia pure indirette, in ogni caso, era una partita da risolvere inter partes, secondo gli accordi di Oslo. Una partita infinita, che dura da oltre 60 anni.

Ma Trump è ‘uomo di parola’ e doveva mantenere la promessa fatta in campagna elettorale. E tuttavia, sul trasferimento della sede diplomatica, c’è anche un rimando politico che proviene dal Congresso, il cosiddetto ‘Jerusalem Embassy Act’ che era stato appunto votato nel 1995, ma al quale nessuno dei presidenti che si sono succeduti alla Casa Bianca aveva dato seguito.

Ognuno, vista la delicatezza e i rischi, ha rinunciato regolarmente, di sei mesi in sei mesi con la propria firma. Trump non vuole tradire gli elettori di credo ebraico, a costo di scatenare dissenso ovunque – perfino Theresa May ha espresso il suo disappunto – ma i riflessi peggiori sono stati i disordini, l’amplificazione delle tensioni a Gerusalemme.

Se Trump si ostinerà a portare avanti le sue strategie scellerate, le conseguenze potrebbero essere ben maggiori. Accendere nuovamente le ire dell’Intifada e le reazioni del suo nemico sionista, sempre pronto ad usare la forza per sopprimere le ragioni di un popolo cacciato dalla propria terra, senza alcuna misericordia, serve solo a riaprire i battenti di un incubo nella coscienza dell’umanità.

Gli Usa si sono sempre comportati da gendarmi nel mondo, decidendo il bello e il cattivo tempo, comminando sanzioni agli Stati non in regola con i principi democratici, come Cuba, costretta all’embargo per 50 anni, non sarebbe ora di sanzionare anche loro, per il lungo repertorio di violenze perpetrate a danno di popoli inermi?

UE. MINISTRO DEL TESORO UNICO? IL PRIMO PASSO VERSO GLI STATI UNITI D’EUROPA

DI VIRGINIA MURRU
Lo avevano proposto lo scorso anno Jens Weidmann, e Francois Villeroy De Galhau, rispettivamente Governatori della Bundesbank e della Banca di Francia: l’istituzione di un Ministero unico per il Tesoro nell’Unione europea, avrebbe aiutato a superare tanti scogli e motivi di attrito tra gli stati membri dell’Eurozona. Se ne riparla questi giorni, che sia la volta buona e non la retorica di due tecnocrati?
Un’autorità sovranazionale ‘super partes’, quindi, con l’obiettivo di creare maggiore convergenza, eliminando contese e nazionalismi così tanto dannosi per il raggiungimento del fine ultimo dell’Ue, che dovrebbe mirare, secondo l’intento dei Padri fondatori, alla costituzione degli Stati Uniti d’Europa.
Ovvero un unico Stato Federale, che abbracci gran parte del vecchio Continente: in definitiva un’Unione che si fondi sul principio dello Stato di diritto.
Obiettivo tutt’altro che scontato, nonostante l’interminabile repertorio di trattati, da quelli siglati all’origine, come il Trattato di Roma che ha istituito la CEE (ed Euratom) nel 1957, e prima ancora, nel 1951, il Trattato che istituì la CECA, Comunità Europea per il Carbone e l’Acciaio. E poi, a seguire, tutti gli altri. Certamente i trattati di Schengen e Maastricht restano colonne portanti dell’asse unitaria che ha vincolato i paesi membri, diventati col tempo 28, poi, in seguito alla consultazione referendaria del 2016 (che ha determinato la Brexit), 27.
Paesi che hanno recepito la legislazione Ue, in tutto o in parte, a seconda delle convergenze (la Gran Bretagna è stata la grande assente in Euro zona, per esempio, avendo scelto di non aderire alla divisa unica), ma pur sempre una grande ‘coalizione’ di Stati che decidono, specialmente sul piano economico, norme in difesa di interessi comuni.
Basterebbe ricordare che Maastricht, modificando i precedenti trattati, ha consolidato un’Unione di Stati fondata su tre strutture portanti: le Comunità europee, la cooperazione in termini di Giustizia e affari interni (GAI), la politica estera e sicurezza comune (PESC). E il Trattato di Schengen, o Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen, partito nel 1985 con l’adesione del Benelux, Francia e Germania, si è col tempo ampliato tramite l’integrazione (fine di ogni trattato Ue), di altri paesi.
Attualmente sono 22 i paesi aderenti allo ‘spazio Schengen’, i cui accordi sanciscono la libertà di circolazione di beni e persone, la liberalizzazione di flussi di capitale, non solo in ambito Ue, ma anche all’esterno, dato che il Trattato è stato ratificato anche da Paesi terzi ‘extra Ue’, come Svizzera, Islanda, Liechtenstein, Norvegia.
L’insieme degli accordi parte da una base giuridica che trova riscontro negli Articoli dal 63 al 66 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFU).
Contrariamente alle diffidenze, e al prevalere di pregiudizi di ordine nazionalistico, i rappresentanti delle maggiori economie dell’Ue, vedrebbero con favore l’unione politica, e proprio lo scorso anno sono stati i governatori di due Banche Centrali (zona Euro) a diffondere al riguardo un articolo/documento. Si tratta, come si è già accennato, di Weidmann e Villeroy. Nell’articolo vi si leggono affermazioni davvero incoraggianti su un percorso di Unità che ancora oggi sembra quasi utopico:
“In Francia come in Germania, qualcuno può avere la percezione che la solidarietà europea, su questi due punti, sia carente. Altri arrivano addirittura a rimettere in discussione il progetto europeo, e le tendenze nazionaliste in diversi Stati membri si stanno accentuando. Tuttavia, come cittadini europei impegnati, noi siamo del parere che il futuro dell’Europa non possa poggiare su una rinazionalizzazione, ma al contrario debba passare attraverso un rafforzamento delle sue basi.”
C’è da dire che, nonostante l’apparente ostilità e rudezza nei confronti delle economie più fragili dell’Ue, Weidmann si è più volte espresso a favore dell’istituzione di un Ministro del Tesoro unico, primo passo per conseguire poi l’Unione politica. Il che, sia detto per inciso, porterà sicuramente Weidmann, in un futuro non lontano, a ricoprire anche questo posto chiave nell’Unione.
Così com’è organizzata oggi l’Ue, non è né carne né pesce, è sempre una porta aperta a tutti i venti, una sorta di arena di confronto, dalla quale non emerge quell’Autorità autentica sul piano internazionale, della quale l’Europa ha tanto bisogno. Proprio perché le sfide sul piano della politica economica sono davvero forti – non è l’Europa del Novecento, siamo in piena fase di globalizzazione – e tutti gli scenari hanno prospettive diverse.
I due governatori, il tedesco e il francese, dichiarano di essere pronti a rinunciare alle sovranità nazionali, per lasciare spazio ad una sola Autorità in materia economica e finanziaria, non si tratta di proposte di poco conto, nonostante i media non abbiano dato il dovuto rilievo alle dichiarazioni congiunte di Villeroy e Weidmann. Se ne lamentò lo scorso anno anche Eugenio Scalfari in un editoriale pubblicato su Repubblica (che pubblicò anche il documento in versione integrale).
Affermava Scalfari: “La cosa che mi ha stupito in questi ultimi tre giorni è il silenzio totale delle varie stazioni televisive su questo tema, e così pure quella di quasi tutti i giornali. Siamo stati i primi e i soli a dare la notizia e ad esaminarla. Ci fa piacere ma è comunque stupefacente”.
Non è per finire in retorica, ma le ‘voci’ che contano in ambito europeo restano inascoltate, in questo caso è incomprensibile che una simile istanza non abbia trovato il giusto accoglimento nelle sedi opportune. Si tratta di disponibilità alla cooperazione, di aperture, importantissime per portare a compimento quell’obiettivo di Unità per il quale si versano torrenti di parole, ma poi, alla fine, quando si trovano i passaggi per andare oltre, si resta nell’ingranaggio di un’inerzia che finirà per favorire solo i movimenti politici euroscettici e xenofobi.
All’Europa manca proprio la volontà di una ‘liaision’ che razionalizzi con i fatti ciò che resta di un’unione sospesa, vulnerabile, e con la perenne minaccia della disgregazione, alla mercé dei populismi.
Si leggeva ancora nell’articolo scritto dai due governatori (pubblicato un anno fa):
“Gli europei condividono valori forti, un modello sociale equo e una moneta solida. È questo il patrimonio su cui dobbiamo costruire. Premesso ciò, va detto che la crisi del debito sovrano ha scosso la fiducia nell’Unione economica e monetaria europea. Malgrado le differenti misure in atto per migliorare la stabilità della moneta unica, il quadro strutturale presenta insufficienze gravi. Non solo: la zona euro patisce la debolezza della crescita economica. Se è vero che la politica monetaria ha apportato sostegno all’economia della zona euro, è vero anche che non è in grado di generare una crescita duratura, dunque non costituisce l’argomento principale di questo editoriale. Sono necessarie altre politiche economiche.”
Francia e Germania hanno proposto una sola Autorità per governare l’euro, ma è come se avessero esposto le loro tesi ai mulini a vento. Nulla è seguito, si vive in questa sorta di ‘catalessi’ sul piano dei progressi verso l’Unione politica, e c’è solo spazio per le divergenze, polemiche, evanescenza degli intenti. Mentre la direzione dovrebbe essere quella del riequilibrio fra responsabilità e controllo.
Questa inerzia potrebbe decretare la fine di un sogno.
Domanda legittima: ma perché si temporeggia e si foraggiano i populismi senza avere il coraggio di fare il passo decisivo, nonostante si scopra poi che sono le economie più forti dell’Ue a incoraggiarne il corso?
Risposta: perché, inspiegabilmente, il blocco dei Paesi facenti parte dell’Ue, è ancora arroccato nel suo nazionalismo sterile e inconcludente, dedito a ‘confezionare’ il pane di un inferno che sancirà davvero la fine di tante battaglie, se non si tracceranno le fondamenta per l’Unità.
Se ne parla anche questi giorni del ‘ministro del Tesoro per l’Eurozona’ e se ne parlava agli inizi dell’estate, quando con cautela si pensava che fossero di prossima introduzione gli ‘Eurobond’, insieme ad un sistema unico di garanzia per i depositi bancari, col fine di rendere più solida l’unione monetaria.
Si diceva ormai a voce alta a Bruxelles: “diventa necessario il completamento dell’Unione economica e monetaria, per incentivare l’occupazione e quindi la crescita, per la stabilità finanziaria e convergenza economica.”
Il cronogramma dovrebbe prevedere, entro il 2019, le norme per la garanzia dei depositi bancari, in un sistema unico, ed entro il 2025 si dovrebbe compiere ogni sforzo per l’emissione di un titolo pubblico europeo, garantito dagli Stati, passaggio fondamentale per arrivare verso un nuovo debito comune. Il termine ‘Eurobond’, nel documento proposto da Bruxelles, è sotteso, si accenna piuttosto ad un nuovo strumento finanziario che permetta l’emissione comune di debito, l’”european safe asset”, un tramite fondamentale per l’integrazione finanziaria e la stabilità.
Le ultime notizie su questo delicatissimo tema, di pochi giorni fa, riguardano la trasformazione del fondo ESM (o fondo salva Stati), in Fondo monetario dell’Unione. In programma uno ‘spazio’ finanziario nel bilancio Ue, che ha un fine di copertura per il fondo Esm, e che permette di affrontare le crisi qualora si presentassero choc economici non previsti, in soccorso comunque dei Paesi dell’area Euro.
Ma soprattutto, e finalmente, la nomina di un superministro del Tesoro, con il il Fiscal Compact integrato nella legislazione Ue. Sono le ultime proposte della Commissione europea. Sarà arrivato il tempo di fare aderire le parole ai fatti? Il 2018, ormai alle porte, ci darà queste risposte.

ENTRO IL 2017 FUSIONE TRA IL GRUPPO FERROVIE DELLO STATO E ANAS

DI VIRGINIA MURRU

 

La fusione tra Anas e FS, ossia di due aziende strategiche per gli investimenti infrastrutturali del Paese, è realizzabile entro l’anno, secondo il presidente dell’Anas, Gianni Vittorio Armani. In via di definizioni con il Ministero dei Trasporti, le prescrizioni formulate dalla Corte dei Conti, che ha dato il via libera alla registrazione del nuovo contratto.

La firma sul contratto di programma potrebbe essere apposta già entro questa settimana, secondo una comunicazione dell’Anas, l’integrazione con Fs è pertanto un obiettivo raggiunto.

A darne conferma anche il Mit, tramite il ministro Graziano Delrio, che così si è espresso in merito:
“l’integrazione di Anas con Fs, come già anticipato, sarà attuata entro quest’anno, saranno rispettati i tempi previsti”.
Già lo scorso aprile era nell’aria la conferma, poiché l’operazione aveva avuto l’ok da parte del Consiglio dei ministri, e la norma che autorizza l’integrazione, è stata inserita nel decreto legge sulla manovrina, in seguito all’autorizzazione della Ragioneria generale dello Stato.

Il decreto contiene altre 2 norme, delle quali, la prima è una precondizione, in quanto permette, con una somma di 700 mln provenienti dai risparmi di gare, di trovare una soluzione, in gran parte, per il contenzioso che grava sull’Anas verso gli appaltatori, e che ha un valore di ben 9 mld.

La seconda norma, voluta dal ministro Delrio, permetterà di velocizzare la procedura per il decollo delle opere già inserite nel contratto di programma Anas-governo, allorché giungerà l’ok del Cipe. Nella soluzione trovata dal Ministero dell’Economia e quello dei Trasporti, c’è il passaggio dell’Anas alle Fs, alle condizioni in cui si trova attualmente, con la garanzia di mantenerne l’autonomia.

L’integrazione non avverrà a titolo gratuito, ci sarà un aumento del capitale per Fs effettuato dallo Stato, per via del conferimento Anas. Il saldo complessivo che detiene lo Stato sulle due aziende, resterà invariato, ossia 40 mld (38 di Fs e 2 di Anas), il patrimonio dello Stato pertanto non varierà in termini di saldo complessivo.

In riferimento al contenzioso che riguarda l’Anas, del quale si è accennato, il presidente ha precisato “che è stata effettuata una valutazione in merito, e i fondi disponibili sono congrui.”

La situazione dell’azienda sembra stabile, nel sito ‘Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica’, si legge che lo scorso agosto ,il Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica), ‘ha approvato lo schema di contratto di programma tra il Mit e Anas per il 2016/20. Il Piano pluriennale degli investimenti Anas per il quinquennio prevede circa 23,4 mld di euro, i quali aggiunti a quelli in fase di attivazione e in via di esecuzione, che sono 6,1 mld, raggiunge un valore di quasi 30 mld di euro, 21 dei quali sono già finanziati.

E’ per questo che Armani si dichiara ottimista sulla chiusura dell’esercizio dell’anno in corso, sottolineando che si è data priorità al rilancio degli investimenti, c’è stata una corsa all’aggiudicazione dei bandi, il che va ben oltre i risultati raggiunti nel 2016. Armani auspica che il nuovo contratto di programma possa consentire un autentico rilancio sul piano infrastrutturale, anche perché è il mantra che l’Ue ci propone costantemente in termini di sollecitazioni.

La fusione delle due grandi aziende è una maxi operazione attesa da tempo, finora fallita per cavilli di natura burocratica, ora è diventata una realtà, “si è avverata l’ultima condizione”, come ha dichiarato il Presidente dell’Anas, Gianni Vittorio Armani.

AFERPI-CEVITAL. IL MINISTRO CALENDA: PRONTI ALLA RESCISSIONE DEL CONTRATTO

 DI VIRGINIA MURRU
Polemiche e un fuoco di fila di accuse: tra il Ministero dello Sviluppo Economico e Issad Rebrab, imprenditore algerino che 3 anni fa rilevò le acciaierie di Piombino (ex Lucchini), si profila un contenzioso legale.
Non è stato un polo siderurgico fortunato, Piombino, hanno fallito in tanti, da Lucchini ai russi di Severstal, e ora gli algerini di Cevital. L’acciaieria sul piano produttivo accusa problemi di risorse, 2 mila lavoratori da alcuni anni (osservazione di Matteo Renzi), ‘vivono con la morfina della Cassa integrazione’. Passaggio di mano in mano, e poi il fallimento, ‘stile Alitalia’, ma gli esempi sarebbero tanti.
La società che gestisce lo stabilimento di Piombino, Aferpi, lamenta il pignoramento dei conti correnti e documenti da parte del Commissario straordinario, gli stipendi così sarebbero a rischio. La RSU del sindacato replica che gli stipendi sono coperti al 90% dall’Inps. E smentisce la Fiom (Federazione metalmeccanici), sostenendo che si sta facendo solo del terrorismo mediatico.
Già una decina di giorni fa il ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, dopo un vertice al Mise, aveva dato mandato all’amministratore straordinario di avviare la procedura di risoluzione del contratto Aferpi-Cevital, causa inadempienza.
Il 20 novembre scorso, infatti – secondo una nota pubblicata nel sito del Mise – il ministro Calenda e la viceministro, Teresa Bellanova, hanno incontrato il Ceo algerino Issad Rebrab, “per fare il punto sullo stato di attuazione degli impegni assunti rispetto al complesso industriale di Piombino.
Risale al 30 giugno la firma di un addendum al contratto di compravendita, tra il Commissario straordinario della Lucchini e Rebrab”.
Tale addendum prevedeva una proroga di 2 anni del regime di sorveglianza del Ministero sull’attuazione della vendita, ma anche una revisione temporale degli impegni di Aferpi, in primis la ripresa entro agosto 2017 dei lavori di laminazione per le rotaie, e altre attività di carattere produttivo in autunno.
Infine l’addendum prevedeva, entro ottobre, l’individuazione di una partnership per il piano siderurgico del ‘Progetto Piombino’. In mancanza, si sarebbe dovuto presentare un piano industriale che mettesse in rilievo le fonti di finanziamento.
Il dott. Pietro Nardi (nella funzione di Commissario straordinario), ha fatto rilevare alle società Cevital e Aferpi, le inadempienze degli impegni assunti, ossia gli obblighi di
prosecuzione dell’attività produttiva accettati per contratto sullo stabilimento ex Lucchini. Pertanto si contestano le evidenti inadempienze sui vari punti messi in rilievo. Ne consegue che non ci sono riscontri per quel che concerne l’addendum, ed è per questo che è stata avviata la procedura per la risoluzione del contratto. “Sono stanco d’essere preso in giro” – ha dichiarato il ministro Calenda.
Rebrab, tuttavia, reclamerebbe il doppio dell’importo investito nel gruppo siderurgico di Piombino, per procedere alla risoluzione del contratto e lasciare il campo libero al prossimo acquirente. Dichiarazione che ha suscitato lo sdegno del ministro Calenda, il quale ha fatto sapere che si tratta di una pretesa inaccettabile, abbastanza prossima alla speculazione. Issad Rebrab era subentrato nel gruppo delle acciaierie di Piombino in seguito ad una gara, nel 2014, Renzi aveva appena preso le redini del Governo.
La proposta di Rebrab era risultata la migliore, e vinse la gara. Dopo tre anni comunque non vuole più saperne, e rimanda al mittente le accuse di speculazione. Rebrab, anzi sarebbe disposto, dopo la vendita, a investire parte del ricavo in Italia, ma chiede garanzie, e un intervento del governo italiano, tramite il ministro dello Sviluppo Economico.
“Non possiamo svendere Aferpi a beneficio di chi intende subentrare – afferma Rebrab – non sono condizioni eque per noi”
Lo ribadisce il Ceo di Aferpi (società costituita da Cevital per l’acquisizione delle acciaierie), Said Benikene, il quale afferma che la somma richiesta non è frutto di un azzardo, né il doppio di quanto si è investito, ma il semplice risultato di una perizia. Tante sarebbero le ragioni che hanno portato l’imprenditore algerino a chiudere i conti con le acciaierie, in primis la mancanza di sostegno da parte del governo italiano.
Non è una novità l’interesse della società Jindal per l’ex polo siderurgico di Piombino, si era presentato alla gara anche nel 2014, ma in quell’occasione aveva avuto la meglio Cevital. Ora spunta ancora il suo nome, sembra sia disponibile a subentrare agli algerini, ma anche dal suo punto di osservazione, il prezzo fissato da Aferpi è troppo alto.
A settembre scorso, Jindal, aveva presentato al Governo un piano per rilevare Aferpi, con coordinate tutt’altro che da disprezzare: 400 mln di investimenti, 1800 dipendenti e 4 laminatoi. Jindal intendeva anche integrare ai treni rotaie, barre e vergella, i piani. Potrebbe finalmente essere la carta vincente, ma prima ci sono da districare i nodi nei rapporti con l’algerino Rebrab, che viene peraltro da un ben lontano dalla siderurgia: il settore agro-alimentare.
Ma le polemiche vanno anche oltre questo panorama di tensioni, c’è anche l’attrito sorto tra l’ex premier Matteo Renzi e il governatore della Regione Toscana Enrico Rossi. Negli ultimi giorni è diventato rovente, in seguito alle dichiarazioni di Renzi sulle presunte responsabilità di Landini e Rossi, che avrebbero voluto a tutti i costi favorire Rebrab 3 anni fa nell’acquisizione delle acciaierie.
Il governatore non è disposto ad accettare le insinuazioni, e precisa che gli algerini hanno solo vinto la gara, non ci sarebbero state forzature di alcun genere. Si sta cercando di smorzare i toni, ma non è semplice. Le opposizioni trovano invece terreno fertile sul quale ‘beccare’, e chiedono con insistenza la tutela dei lavoratori dell’indotto ex Lucchini. Il Movimento 5s ha presentato al riguardo una mozione.
Al convegno della Fiom (Federazione impiegati operai metallurgici), che si è svolto alcuni giorni fa a Roma, il ministro Calenda ha messo in rilievo il fatto che la vicenda delle acciaierie di Piombino sia stata oggetto di valutazioni non solo da parte del Governo, ma anche da sindacati e istituzioni, Regione Toscana compresa.
Così si esprime al riguardo:
“Il sindacato ha seguito ogni fase della nuova gestione, tanti sono stati gli incontri al ministero con Rebrab, ma alle promesse non sono seguiti gli esiti sperati, evidentemente la Cevital non ha né risorse disponibili né le competenze necessarie, ora si auspica che la procedura legale, decisa congiuntamente, si concluda in modo ragionevole.”
L’imprenditore algerino era riuscito a convincere tutti alcuni anni fa, allorché andò alla guida dell’ex polo siderurgico, presentando un piano con ottime prospettive per il futuro. “Ma purtroppo, allo stato dei fatti, sostiene il ministro, era solo fumo se i risultati sono quelli di oggi”.
Al convegno romano era presente, tra gli altri, anche il governatore della Toscana, Enrico Rossi e il presidente di Federacciai, Antonio Gozzi. Rossi ha sottolineato la necessità di garanzie sulla prossima gestione, per evitare altri errori, e dunque controlli più severi del piano industriale, considerato che il settore dell’acciaio ha la sua importanza e richiede scelte strategiche a livello politico. Antonio Gozzi ha spiegato che resta sempre dell’opinione che l’unico impianto da portare avanti è il treno rotaie.
Intanto si attendono sviluppi dal processo legale in atto, si spera che il contenzioso tuttavia non sia avviato e si possa bypassare con una trattativa che soddisfi entrambe le parti. Dietro l’angolo c’è sempre Jindal, dagli esiti degli accordi dipenderà la sua entrata in scena e l’avvicendamento nella gestione di Aferpi.
La vendita della società è quasi scontata, dato che Rebrab ha più volte sottolineato di non essere in condizioni di andare oltre senza il supporto del Governo.

DOPO I PANAMA PAPERS E’ ARRIVATA L’INCHIESTA SUI ‘PARADISE PAPERS’

DI VIRGINIA MURRU

L’ennesima inchiesta da parte del Consorzio Internazionale dei giornalisti investigativi (CIGI), i paradisi fiscali hanno ora accessi ancora più trasparenti. Il 5 novembre scorso, questa rete internazionale di giornalisti – che ha sede a Washington,  e conta sull’attività di 165 giornalisti investigativi, operanti in 65 paesi – con la pubblicazione di un articolo, ha reso noto la diffusione di nuovi files che contengono documenti su conti off-shore di persone fisiche e multinazionali.

Il CIGI (o in inglese ICIJ, International Consortium of Investigative Journalists), si occupa in particolar modo di reati transnazionali e di corruzione, e proprio  quest’anno ha vinto  il Premio Pulitzer (Sezione giornalismo di divulgazione), per avere pubblicato e rivelato, tramite lunghe inchieste, i Panama Papers. Di questo staff di giornalisti – che collaborano in sinergia su tanti temi di carattere internazionale, comuni ai loro paesi di appartenenza, non di rado inerenti traffici illeciti – fa parte anche il settimanale italiano ‘l’Espresso’, che ha condiviso con gli altri il prestigioso riconoscimento. Questa la motivazione del Premio, categoria ‘giornalismo divulgativo, attribuito dalla Columbia University di New York:

“Per aver svelato la struttura nascosta e la scala globale dei paradisi fiscali”.

I  giornalisti del ‘Consorzio’ hanno investigato e pubblicato documenti importanti sui Panama Papers, legati allo studio legale Mossak Fonseca, dimostrando nel contempo che esiste una fitta rete di società offshore, usate purtroppo dagli stessi governi e dai potenti di turno (banchieri finanzieri, politici etc.) per eludere tasse celando al fisco profitti illeciti.

L’inchiesta ha coinvolto in tutto circa 300 giornalisti, che hanno messo in moto, attraverso controlli e indagini incrociate, qualcosa come 10 milioni di files e documenti, portando alla luce i traffici di 200 mila società, e centinaia di capi di stato. Naturalmente l’Italia non è stata esente da questa black-list: sono un migliaio le persone coinvolte.

I nuovi files  mettono in luce altri paradisi fiscali (tax haven), tra i quali le isole Cayman e Bermuda; si tratta di nuove inchieste, che portano più in profondità lo scandaglio sui conti off-shore. L’inchiesta condotta nel 2016, che ha avuto per oggetto i Panama Papers, riguardava un network imponente di oltre 200 mila società off-shore, con sede a Panama.

Una slavina che tutto ha travolto nel suo percorso d’inchiesta, leader politici e personaggi in vista, noti nell’ambito dello sport o dello spettacolo, certamente individui facoltosi, interessati a portare il loro ingombrante portafogli fuori confine. Lo scorso anno, i giornalisti investigativi, avevano un archivio di oltre 11 milioni di files, riguardanti un arco temporale che va dagli anni ’70 al 2016.

Persone fisiche e imprese (non di rado un intrico di società fantasma), avrebbero sottratto al fisco e dunque all’Erario, imposte per un valore che si conta in milioni di dollari, e ha coinvolto studi legali e banche, i quali hanno assistito i propri clienti senza rispettare la normativa antiriciclaggio, e senza svolgere gli opportuni controlli.

E’ stata poi una reazione a catena: in questa deflagrazione sono finiti anche istituti di credito che operano in circuiti internazionali,  risultati responsabili della costituzione di società a Panama e nelle Isole Vergini. Paesi che hanno una normativa ‘compiacente’ e accomodante, dove il denaro (soprattutto se proviene da fonte illecita), segue una rete contorta, non facile da individuare.

Ma i tax haven hanno strade accessibili anche per i finanziamenti al terrorismo, per il traffico di armi, per tutte quelle attività sommerse che non possono servirsi dei circuiti convenzionali. La garanzia del segreto e della massima discrezione è il lasciapassare di queste risorse, e investire diventa veramente un business. E’ in definitiva il segreto la maggiore attrattiva, e proprio la protezione sulla tracciabilità delle transazioni consente questi traffici, che vanno dal riciclaggio di denaro sporco, alle immense risorse derivanti dalla vendita di stupefacenti.

I governi possono agevolare l’elusione fiscale, favorendo per esempio le multinazionali con norme precise,  dopo accordi non propriamente alla luce del sole. Il governo italiano è uno di questi.

L’Unione europea ha di recente contestato la riforma fiscale varata da Renzi nel 2015, che consentiva troppi sconti sulle tasse che avrebbero dovuto versare le multinazionali.  Il premier Paolo Gentiloni ha quindi provveduto ad abolire, o a modificare, nel mese di aprile di quest’anno, le norme riguardanti il ‘patent box’ (ossia tassazione agevolata sui redditi derivanti da opere d’ingegno), le quali, appunto, stabilivano importanti riduzioni d’imposta per le società titolari di brevetti, marchi e licenze. In ambito Ue è stata la Germania, insieme ad alcuni altri paesi membri, a contestare all’Italia tale procedura fiscale in favore delle big del web, anche se, il ‘dossier’ al riguardo, è rimasto piuttosto riservato.

E’ stato comunque il settimanale l’Espresso a pubblicare i verbali riservati che vedono l’Italia sotto accusa. Sono proprio le cosiddette ‘Carte di Bruxelles’  a mettere in rilievo i vantaggi fiscali concessi alle big company, i cui traffici commerciali si svolgono tramite il web.

E’ un’inchiesta giornalistica che ha rivelato le valutazioni dello staff tecnico dell’Ue,  circa il rispetto, in termini di compliance, delle regole europee; quindi sull’applicazione delle norme fiscali da parte degli Stati membri. Regole che sanciscono la trasparenza e la lotta all’elusione già indicate peraltro dall’Ocse.

E’ vero che l’Ocse ha fornito disposizioni ai singoli stati per favorire, con opportuni incentivi fiscali, brevetti e studi volti a migliorare l’innovazione (che rientrano poi nel ‘patent box’), ma ha nondimeno precisato che tali agevolazioni fiscali devono corrispondere a spese effettive sostenute per ragioni di ricerca e sviluppo.

L’Italia, che in ambito Ue, aveva i suoi ‘detrattori’ alle spalle, Germania in testa, è stata in definitiva accusata di avere contravvenuto a queste norme, le quali, come si è accennato, riguardano la riforma fiscale del 2015. Si tratta poi di benefici che davvero l’Italia non si poteva permettere, visto che prevedono un consistente sconto del 50% delle tasse per una durata di 5 anni. Non solo: il beneficio era possibile prorogarlo per altri 5 anni.

L’attuale Governo ha certo provveduto a modificare o a cancellare le norme al riguardo, ma in un certo senso è stato come ‘chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati’. L’Italia non è mai stata chiara nel fornire i nomi delle aziende che hanno beneficiato di queste agevolazioni, e i tecnici tedeschi, i più riottosi verso l’Italia – questa volta veramente a ragione – hanno sottolineato  il fatto che, nonostante il governo Gentiloni abbia cercato di rimediare cancellando le norme sotto accusa, le multinazionali che hanno beneficiato finora delle agevolazioni, dopo avere siglato accordi con il Governo, potranno continuare a goderne fino al 2021..

Inutile perdersi in retorica e piangere ‘sul latte versato’, tanto per dirla con un luogo comune, di certo è stato un grande errore del governo Renzi. Se poi l’Ue ogni tanto ci dà una strigliata, non bisogna sempre atteggiarsi a vittime, perché di errori ce ne sono stati.

Su questo punto c’è da dire, secondo l’inchiesta condotta da l’Espresso, che possiamo consolarci col fatto che non siamo gli unici disobbedienti: discordanza con le norme fiscali sancite dall’Unione europea, ne sono state trovate anche nel ‘patent box’ della Spagna e della Francia.

 

 

 

ALLA RICERCA DELLA DIGNITÀ PERDUTA

DI PIERLUIGI PENNATI

“Forse sta venendo meno il valore della dignità umana. Io e tutti i lavoratori non siamo numeri, siamo persone, con una dignità che dovrebbe essere rispettata”.

È Marica Ricutti a parlare, la mamma licenziata da Ikea perché non poteva iniziare alle 7 del mattino il mercoledì a causa di una terapia per il figlio disabile, licenziata per un paio d’ore di impossibilità a recarsi al lavoro, nonostante non avesse mai chiesto alcun altro privilegio.

Sarebbe pleonastico e stucchevole ripetere la sua situazione, anche perché questo, in Italia, non conta più nulla, il valore dei cittadini in genere è quanto possono produrre in termini di valore economico, vale a dire che più vali se più lavori gratis, senza tutele e facendo debiti.

Da quando, a dicembre 2016, alla “giusta causa” di licenziamento la Cassazione ha aggiunto la motivazione di “mero profitto aziendale” il fondo è stato toccato: l’uomo è scomparso dall’orizzonte del lavoro ed è rimasto solo il suo codice fiscale.

Siamo nella “Repubblica democratica fondata sul lavoro” e non sappiamo difendere e valorizzare i lavoratori.

Ikea in Svezia tutela i lavoratori e costruisce asili per le loro famiglie, in Italia licenzia chi per la famiglia non riesce ad iniziare alle 7 del mattino un giorno solo alla settimana.

Qualcosa non quadra, se il problema non è l’azienda, evidentemente deve essere lo stato nella quale si trova, poi, facciamo sempre in tempo a lamentarci degli immigrati africani, unici che ancora accettano le condizioni di lavoro nel nostro stato, per loro che sono abituati a vedersi negata la dignità di umani è sufficiente un lavoro, per noi che siamo cresciuti nella convinzione di possederla, invece, non basta, per questo i nostri figli cercano lavoro all’estero, non fuggono i nostri cervelli, fuggono le nostre anime in cerca della dignità che meritano.

FINANZIARIA 2018. TROPPE RICHIESTE, LE RISORSE NON SONO UN POZZO SENZA FONDO

DI VIRGINIA MURRU

 

Si è cercato di tendere le braccia in tutte le direzioni, accogliendo più emendamenti possibili ed effettuando correttivi anche al di là forse dei limiti, ma la finanziaria 2018 non è un cappello per illusionisti, né un pozzo senza fondo, oltre non si può andare. Il piano di spesa deve essere contenuto in un ‘portafoglio’ alla portata dell’azienda Italia, impegnata più che mai a fare quadrare i conti secondo le regole imposte dai trattati dell’Unione europea.

Troppi gli emendamenti presentati, non ci poteva essere attenzione per arrivare a tutto; avranno spazio (oltre ai ritocchi riguardanti le materie più dibattute, ad esempio le pensioni, e l’esenzione da ‘quota 67’ delle 15 categorie di lavori gravosi) anche i fondi per rivedere il superticket e il rifinanziamento dei cosiddetti ‘bonus bebé’, un incentivo ‘salva librerie’, che non siano parte di una catena facente capo allo stesso editore. E ancora sostegno per giovani e donne, e perfino un fondo (di 2 milioni) per i festeggiamenti del carnevale.

Ok alla web tax, anche se entrerà in vigore dopo un anno (approvata il 26 novembre), ossia il 1° gennaio 2019. Partirà quindi una flat tax pari al 6%, che sarà applicata a tutte le transazioni on line (ad eccezione di agricoltori e aziende agricole). L’emendamento relativo alla web tax è stato presentato da Massimo Mucchetti, il quale sottolinea che ‘una volta a regime le entrate che ne deriveranno saranno prossime al miliardo di euro, sicuramente ossigeno per l’Erario’.

Secondo la relazione tecnica di Massimo Mucchetti, senatore Pd e presidente della Commissione Industria, una prima stima del gettito però sarà di 114 milioni di euro. L’iniziativa sulla web tax è solo italiana, al momento, ma in ambito europeo se ne discute già da mesi con altri paesi, Germania in primis. Tutti concordano sulla necessità di mettere un argine ai lauti profitti delle multinazionali, le quali, fino ad ora, hanno solo cercato di eludere il fisco dei paesi nei quali avvengono effettivamente le transazioni.

L’iniziativa è solo italiana, si diceva, perché se si aspetta la locomotiva dei paesi Ue interessati a regolamentare i traffici commerciali della rete, si finisce come ‘Godot’, per dirla come il senatore Mucchetti.

E infatti a settembre, nel corso del summit dei Ministri delle Finanze europei a Tallinn, si è parlato dei giganti del web e del loro agire illecito nei confronti del fisco, tanti buoni propositi, convergenza di vedute, sdegno, oltre che da parte del rappresentante italiano, anche di quello francese, tedesco e spagnolo. Ma poi di nuovo silenzio, attese estenuanti per un intervento che dovrebbe avere priorità d’agenda in ambito europeo.

La tassa sul fatturato delle multinazionali che operano nell’ambito della digital economy, non ha trovato concreta applicazione, né un accordo definitivo. Dietro le incertezze i timori delle ‘ritorsioni’ degli stessi giganti che operano con i loro traffici commerciali sul web, i quali potrebbero decidere di fare le valigie e ‘migrare’ in altri lidi più accoglienti.

Importante per la Finanziaria anche il fondo istituito in favore dei caregiver, che sostiene un’ampia platea di familiari impegnati non di rado notte e giorno ad assistere familiari affetti da gravi patologie, e dunque non autosufficienti.

Il senatore Pd Giorgio Tonini, presidente della Commissione Bilancio, è preoccupato, il dibattito non segue una procedura spedita, slitta di qualche giorno il voto finale, è un iter simile ad una corda piena di nodi, probabilmente entro il 29 novembre si dovrebbe avere una visione più chiara degli interventi. Il problema è anche una maggioranza risicata, a svolgere un ruolo di discrimine sono due senatori di Ala (Alleanza Liberalpopolare-autonomie), i loro voti sono stati determinanti per la Commissione Bilancio del Senato.

Si è discusso forse troppo sul sovraprezzo imposto dalle regioni per le prestazioni specialistiche di carattere sanitario, anche perché ognuna ha parametri di applicazione diversi e non è facile districarsi in questa giungla. Il Governo ha arginato gli ostacoli con un fondo di 60 milioni, ma non tutto è stato definito, questo punto si è rivelato uno dei più difficili da superare in termini di accordi.

Un occhio alla spia rossa delle risorse disponibili, e uno alle raccomandazioni della Commissione europea, che ha sospeso il giudizio sui conti italiani fino alla prossima primavera, in attesa di prospettive più certe.
In seguito alla lunga serie di intoppi, di stop and go, la finanziaria arriverà in Aula a Montecitorio quasi sicuramente mercoledì.

MANOVRA 2018. TRA GLI EMENDAMENTI ANCHE L’ISTITUZIONE DI UN FONDO PER I CAREGIVERS

DI VIRGINIA MURRU
In Commissione Bilancio al Senato, c’è stato un bel da fare negli ultimi giorni, tanti gli emendamenti apportati alla Legge di Bilancio 2018, in primis quello riguardante le 15 categorie di lavori usuranti, che saranno esentati dall’adeguamento automatico alle aspettative di vita (‘quota 67’). C’è anche l’istituzione di un Fondo per i cosiddetti ‘caregivers’, ossia quei soggetti che si prendono cura di familiari affetti da patologie fortemente invalidanti.
Al Fondo verrà destinato un finanziamento di 20 milioni l’anno (60 mln in 3 anni), per il triennio 2018/20, e avrà una funzione di copertura per gli interventi a beneficio di questi ‘assistenti familiari’, ma soprattutto se ne riconoscerà l’importante ruolo sociale. Si tratta di interventi e battaglie portati avanti dal Pd negli ultimi anni, anche con specifici disegni di legge volti al riconoscimento di questa particolare ‘figura sociale’, culminati ora con l’accoglimento degli emendamenti da inserire nella manovra, che prevedono, appunto, l’istituzione di un Fondo ad hoc.
Secondo la definizione dell’esponente del Pd in Commissione Lavoro, Annamaria Parente (capogruppo), “i ‘caregiver’ sono coloro che assistono persone con uno stato di salute seriamente compromesso”, nella gran parte dei casi si tratta di donne, che si prendono cura del proprio coniuge, ma riguarda anche le unioni civili tra persone dello stesso sesso, nonché conviventi di fatto o familiari affini entro il terzo grado, soggetti, in ogni caso, che non siano in grado di provvedere a se stessi, a causa di affezioni gravi (ad esempio demenza senile o disabilità).
Tra le tante battaglie di carattere sociale, rivendicate dal Pd, c’è anche quella sul rifinanziamento del Fondo per il ‘Dopo di noi” , (istituito con la legge n.112 del 2016 ), rivolto all’intervento assistenziale permanente di persone con disabilità grave e permanente, che non possono contare sul sostegno familiare.
Per quel che concerne il Fondo destinato ai caregivers, si prevede che la gestione sarà affidata al Ministero del Lavoro; come già accennato, avrà una funzione di copertura per gli interventi di carattere legislativo che porteranno al riconoscimento del ruolo, tramite un adeguato sostegno economico, anche secondo personali situazioni lavorative e di vita.
Tra le altre proposte di correttivo al ddl Bilancio, c’è anche la riserva di una ‘dote’ mirata, da individuare nel Fondo per il contrasto delle povertà con fine d’inclusione, destinata all’assistenza e al supporto dei giovani ‘fuori famiglia’. L’istituzione di questa risorsa finanziaria sarà attribuita per ora in via sperimentale, e avrà una consistenza di 5 milioni l’anno, sempre di competenza del triennio 2018/20.
Nello specifico, tale sostegno sarà riservato ai giovani che, al momento del compimento dei 18 anni di età, vivessero fuori dal contesto familiare di origine, per via di provvedimenti di carattere giudiziario. L’assistenza potrà avere una durata di 3 anni.
Nella pioggia di correttivi vi sono i pensionamenti anticipati riguardanti i direttori sanitari, emendamento promosso da un esponente di Ala (Alleanza Liberalpopolare-Autonomie), Antonio Milo, che è il risultato di un compromesso raggiunto con il Pd, per una questione di maggioranza in Commissione Bilancio. L’intervento è a favore dei dirigenti medici dipendenti da strutture sanitarie che presentassero entro il prossimo anno, domanda di pensionamento anticipato, e che abbiano compiuto i 64 anni e sei mesi di età.
E’ necessaria però, una maturità contributiva di 40 anni e 8 mesi. Ci sono ovviamente delle condizioni per l’anticipo pensionistico: il dirigente medico deve dimostrare di essere parte dell’organico dell’azienda sanitaria nella quale svolge la sua attività, fino al 31 dicembre 2017, e deve essere stato collocato fuori dal reparto o dal servizio medico da almeno due anni.
All’esame anche gli emendamenti relativi ai Premi di produttività in azioni, che rimandano ai lavoratori dipendenti; una proposta che tiene conto del calcolo delle plusvalenze derivanti dalla cessione, e nella fattispecie dalla differenza tra ciò che percepisce il dipendente e il valore delle azioni nel momento in cui queste sono state assegnate. Anche questo ‘ritocco’ deriva da un esponente Pd (Giorgio Santini).
Tanti altri sono i ritocchi, vista la mole non indifferente degli emendamenti sulla manovra (700), c’è anche l’emendamento che trasferisce competenze concernenti il ciclo dei rifiuti all’Autorità per l’energia elettrica, che potrebbe assumere, nell’ambito di questo circuito integrato, il nome di ‘Arera’, ossia Autorità di regolazione per l’energia, reti e ambiente.
I rappresentanti saranno sempre 5, su nomina e proposta del ministero dello Sviluppo economico, in sinergia con quello dell’Ambiente.
E’ ancora Ala a presentare in Commissione l’emendamento che istituirà il Registro Nazionale degli Agenti Sportivi presso il Coni, c’è già stato al riguardo l’ok della Commissione. Riguarderà quei soggetti che, dopo avere redatto in forma scritta un incarico che crea una relazione tra due persone attive nell’ambito di una disciplina sportiva – riconosciuta dal Coni affinché il ‘contratto’ concernente la prestazione sportiva di carattere professionistico risulti valido – possano accedere al tesseramento presso una federazione sportiva professionistica.
La registrazione avviene dopo il versamento di un’imposta di bollo dell’importo di 250 euro, annuale.
Via libera della Commissione Bilancio anche per la detassazione della Previdenza integrativa che interessa i dipendenti pubblici, più o meno in linea di simmetria con ciò che è previsto con i privati; l’intervento dovrebbe moltiplicare le adesioni degli statali alle cosiddette forme complementari. Sono previste Commissioni tecnico-scientifiche.
Il dibattito in materia di pensioni comincia ora a Montecitorio, è già previsto un emendamento da parte del Governo, per allargare la platea dell’Ape Social alle 4 attività considerate usuranti, ed esenti da ‘quota 67’. Si tratta di pescatori, marittimi, siderurgici, e braccianti. E con queste nuove mansioni incluse (oltre le 11 già previste), si arriva alle 15 categorie che saranno esentate dagli scatti automatici in termini di maturità pensionistica.
Particolari agevolazioni sono previste per le donne, punto di forza della trattativa con la Cgil.
Si pensa che proprio nel dibattito alla Camera, si potrebbe trovare un accordo tra maggioranza e opposizione per prorogare l’Ape social, con le agevolazioni anche per le donne, fino al 31 dicembre 2019.

SAPETE COS'È IL BLACK FRIDAY?

DI PIERLUIGI PENNATI

Certamente: quando tutti fanno sconti incredibili e si compra bene…

Sembra assurdo, ma una giornata storica che è anche un monito è diventata una festa del consumismo.

Il black friday è stato il 24 ottobre del 1929 negli USA, fu forse il più grande crack della storia, le banche fecero tutte bancarotta a causa della speculazione e della bolla finanziaria che si era creata, le persone assaltarono gli istituti per tentare di riavere gli spiccioli rimasti in cassa, perché si tempi le banconote avevano una copertura in oro, cosa che oggi non è più.

La crisi generale che ne seguì fece approvare al congresso nel 1933 il Glass Stegal Act, contenente due semplici norme, l’istituzione di un fondo di garanzia per i depositi bancari ed il divieto di speculare col denaro del risparmio, separando nettamente banche d’affari e banche commerciali.

Il sistema ha protetto l’economia mondiale fino al, se ricordo bene, 1993, quando Giuliano Amato, allora ministro delle finanze, introdusse di nuovo in Italia per primo la commistione tra i due tipi di istituti.

A dicembre 1999, Bill Clinton ad un mese dal terminare il suo ultimo mandato, con un atto votato da entrambi i rami del congresso quasi all’unanimità, diede il colpo di grazia cancellando la legge promulgata da Roosevelt nel ’33.

Il resto del mondo seguì, le banche d’affari comprarono le banche commerciali e la borsa diventò l’unico elemento di mercato trasformando il lavoro umano in mero calcolo economico senza dignità.

Per questo oggi siamo numeri, per questo quando le banche falliscono chiedono a noi i soldi, perché controllano il risparmio ed il nostro denaro, anche quando non siamo d’accordo.

Se esistesse ancora la separazione netta tra le banche, l’economia si reggerebbe sul lavoro e non sullla speculazione e la dignità umana avrebbe un valore, invece le banche non producono più nulla, promettono interessi in denaro su investimenti in denaro, vale a dire puro calcolo economico su numeri che producono numeri.

Il venerdì nero è come l’olocausto e noi, da masochisti, invece di temerlo lo celebriamo come fosse una festa.

TRIBUNALE DI FIRENZE: L’IMMAGINE DEL DAVID DI MICHELANGELO NON E’ COMMERCIABILE

DI VIRGINIA MURRU

 

Solo con un’ordinanza si poteva mettere fine al ‘bagarinaggio’, ossia alla vendita di biglietti a prezzo maggiorato (esattamente il doppio di quelli venduti dai canali ufficiali del Mibact) da parte di una società privata, la Visit Today, che agiva dunque fuori dai circuiti della Galleria dell’Accademia. Il divieto di usare l’immagine del David è rivolto non solo al territorio italiano, ma anche a quello europeo. Niente immagine sui biglietti, su volantini o materiale pubblicitario.

E’ stata l’Avvocatura dello Stato a presentare regolare istanza al tribunale di Firenze, il quale l’ha accolta emanando poi l’ordinanza che vieta lo sfruttamento dell’immagine del David in qualsiasi modo, soprattutto per fini di carattere commerciale. Il rigore di questo veto avrà sicuramente impressionato tutti coloro che, proprio per fini commerciali, utilizzano l’immagine del mito scolpito superbamente da Michelangelo, e si pensa dunque a chi vive della vendita di souvenir.

Per la direttrice dell’Accademia di Firenze, Cecilie Hollberg, è una decisione importante da parte della magistratura, finalmente si porrà fine al traffico illecito di biglietti fin troppo maggiorati, e si auspica che altri musei ne seguano l’esempio. Si tratta, secondo la Hollberg, di una misura importante. Della stessa opinione il sindaco di Firenze, Dario Nardella.

LETTERA UE ALL’ITALIA: ATTENZIONE, TRA I 5 PAESI A RISCHIO INADEMPIENZA

DI VIRGINIA MURRU

 

Il pungolo è quello dello scorso anno, sembra anzi un tamburo battente, che per la verità suona un po’ troppo fuori dal coro, considerati gli ottimi giudizi espressi dalle Organizzazioni internazionali che monitorano l’economia globale.

Strigliate continue ad un Governo che ha compiuto ogni sforzo possibile per arrivare a un dignitoso risultato di fine legislatura, senza dimenticare che ha preso le redini quando il Paese, nel 2014, aveva imboccato il sentiero della recessione.

Tutto questo mentre è appena arrivato l’ennesimo risultato positivo da parte dell’istat, con il Pil in crescita all’1,5% (stima rivista da +1%), ossia al top dal 2010 a questa parte. A spingerlo in avanti è la domanda interna, ma a questo dato seguono altre positive performance dei dati macro, come il calo del tasso di disoccupazione, e l’aumento dell’occupazione, sempre provenienti da calcoli statistici.

Basterebbe del resto riflettere al dissesto dei conti pubblici che ha ereditato il Governo, e agli strettissimi margini di manovra che purtroppo hanno permesso, per osservare i fatti su prospettive migliori.

Le raccomandazioni della Commissione europea, tramite il vicepresidente Valdis Dombrovskis e il commissario agli Affari economici Pierre Moscovici, danno una lettura della realtà che non lascia spazio, se non con un trascurabile inciso (‘riconosciamo l’impegno del Governo..’), che fa sentire il Paese sempre sul limite del baratro.

E sempre a rischio procedura d’infrazione, comunque a rischio di ‘non rispetto del Patto di Stabilità e Crescita’ sancito dal Trattato di Mastricht.
Ancora in agguato resta dunque la procedura per il debito pubblico ben oltre il limite, ai sensi dell’art. 126/3 dei Trattati.

Anche se la Commissione si riserva un altro rapporto a febbraio sugli scompensi macroeconomici rilevati, e dunque c’è sempre da vigilare, siamo in buona compagnia, dato che insieme a noi c’è Francia, Irlanda, Germania, Svezia, Bulgaria, Portogallo, Olanda, Cipro, Croazia e Slovenia.
Ma i paesi effettivamente ‘disobbedienti’ in materia di compliance sono 5: Italia, Belgio, Austria, Portogallo e Slovenia. In particolare il Belgio naviga più o meno nelle stesse acque dell’Italia quanto a debito pubblico.

Sulla bozza della legge di Bilancio inviata di recente dal Governo alla Commissione, si sottolinea in chiaro che “The Plan is at risk of non-compliance with the provisions of the Stability and Grouth Pact” (Il Piano è a rischio inadempienza con le disposizioni del Patto di Stabilità e Crescita).

Tutto questo è francamente umiliante, se facciamo parte del G7, qualche ragione pure l’avrà l’economia italiana. Nel mirino il debito pubblico, sempre sul banco degli imputati, e qui purtroppo non si possono fare grandi passi avanti, se quando lo si è preso in mano era già quasi ‘intrattabile’, un mezzo mostro.

Nella lettera inviata dalla Commissione, si legge tra l’altro:
“La persistenza del debito pubblico è motivo di preoccupazione, la Commissione si riserva di effettuare altri controlli sui parametri e il rispetto delle regole nei primi mesi del 2018. E ancora:

“Sappiamo che l’Italia ha compiuto tanti sforzi per favorire la crescita, ma nel 2018 è fondamentale che la manovra presentata sia attuata con rigore in tutte le sue disposizioni, affinché diventi possibile raggiungere in termini strutturali lo 0,3% del Pil. Per questo è importante non ‘annacquare’ le ultime riforme in ambito welfare, non è consentita nessuna retromarcia sulle pensioni, dalle quali dipende la sostenibilità nel lungo periodo”.

Moniti che non suonano come ‘sedativi’ per la recente vertenza tra Governo e sindacati, nella quale è emersa la contrapposizione della Cgil, che non intende accettare la trattativa e ha già dichiarato che la mobilitazione sarà inevitabile. Un Governo che deve mediare tra due fuochi: da un lato i sindacati, dall’altro la Commissione europea, che non lascia scampo.

La Commissione infine si raccomanda in ambito Eurozona sul completamento dell’unione bancaria, invita a favorire quanto più possibile l’inclusione sociale, l’uso di strategie volte a migliorare la produttività e la crescita potenziale, rendendo in tal modo più solida anche l’Eurozona.

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ORIO CENTER APERTO ANCHE A NATALE MA I LAVORATORI PROTESTANO

DI PIERLUIGI PENNATI

Era già accaduto a Serravalle ad inizio anno, quando alla notizia che avrebbero dovuto lavorare anche a pasqua i lavoratori del centro outlet si erano ribellati ottenendo solo un maggiore interesse della insensibile clientela, attirata in maggior numero proprio dalla protesta.

Adesso si replica, a Bergamo si lavora anche a Natale e Capodanno, giornate nelle quali tradizionalmente si dovrebbe stare con famiglia ed amici ed invece sembra ormai diventato più interessante poter andare al centro commerciale a passeggiare.

Il grido populista che richiama le nostre tradizioni e sacralità festive sembra dimenticato, qui non ci sono mussulmani da cacciare o migranti da rimandare a casa, qui ci sono le luci che accendono la fantasia delle persone: “offerta speciale”, “ribassi”, “vendita straordinaria”, “fuori tutto” e, più importante ancora “OUTLET”!

Tutti contenti, quindi, tutti meno loro: i dipendenti dei 280 esercizi che sono costretti dalla proprietà dei centri commerciali a rinunciare alle ferie per aprire i negozi destinati al piacere dei nostri occhi e delle tasche della direzione.

Già, ogni medaglia ha un suo rovescio e questa, come ormai tutte le “medaglie” nella nostra nazione, ha un rovescio davvero amaro per chi ci lavora, se ancora il lavoro nel commercio si può chiamare così.

Mentre l’attenzione generale è ormai da molti anni puntata solo sulle grandi aziende dove si lotta per tentare di salvare posti di lavoro destinati comunque ad essere persi per effetto dell’ampliarsi delle regole volute dai vari governi che hanno finito solo per favorire la precarietà nell’industria, nel dimenticato settore del commercio i risicati numeri di dipendenti medi pro impresa, rendono la precarietà una realtà non nuova, ma endemica e radicata che, piano piano, con la complicità dei dati sulla disoccupazione, si sta però trasformando in reale schiavitù.

Negli outlet, ovvero quei posti dove le grandi case di moda scaricano gli invenduti delle stagioni precedenti per potersi ancora sostenere e continuare a vendere nei negozi di punta senza perdere l’immagine del loro prodotto, la situazione è ancora più evidente, infatti questi enormi centri sono per definizione un luogo dove gli orari devono essere più elastici perché si trovano tipicamente fuori mano si deve dare modo agli acquirenti di poterli raggiungere quando hanno più tempo a disposizione, la sera, domenica ed i festivi.

Così, a poco a poco, gli orari si sono allargati, giorni di apertura ampliati e le chiusure ridotte, tanto che all’inizio del 2017 erano mediamente solo 4 in tutto l’anno: Pasqua, Sant’Angelo, Natale e Capodanno.

Così proprio per la riduzione da 4 giorni di chiusura a soli 2 si era scatenata la protesta a Serravalle ed i dipendenti, già esasperati dagli orari dei turni a loro volta “elastici” e dai ricatti delle proprietà, non ce la facevano più, risultato: uno sciopero proclamato il giorno di Pasqua un tempo festivo.

Ma al suono di “se non vieni a Pasqua puoi anche non tornare più al lavoro” solo 4 esercizi sul totale rimasero allora chiusi, facendo fallire miseramente lo sciopero in un tripudio di clienti curiosi attirati proprio dall’evento e terminato con un successo straordinario di vendite.

Alla fine il grido di aiuto dei dipendenti commerciali, sfruttati con contratti precari a mille euro al mese ed anche meno era diventato un boomerang e si era riversato si di loro stessi, come in un circo dove si torturano animali per il piacere degli astanti.

L’episodio, però, era solo il preludio al cambiamento permanente, con il passare dei mesi, e nell’indifferenza generale dei sindacati tradizionali, i due soli giorni di chiusura all’anno diventano la normalità dappertutto, tranne ad Orio al Serio, dove la proprietà comunica ai negozi che, pena la rescissione dei contratti, dovranno aprire anche a Natale e Capodanno, portando a zero in un anno i giorni di chiusura del centro.

Ovviamente i primi a reagire sono stati i dipendenti, ma la cosa curiosa è che a non starci, questa volta, non sono solo loro, ma addirittura i titolari degli esercizi, a loro volta ricattati dalla proprietà che non farebbe mancare velate minacce di aumenti di canoni di locazione o rescissioni dei contratti.

In una circolare datata 17 novembre la proprietà del centro scrive:

Egregi Signori, alla luce delle notizie che sono apparse in questi giorni su diversi organi di stampa locale e nazionale riteniamo importante intervenire in ordine alle prossime imminenti aperture.

In Oriocenter, come tutti sappiamo, svolgono la propria attività ben 280 operatori. Abbiamo appreso che alcuni vostri dipendenti e collaboratori avrebbero aderito ad una raccolta firme di protesta promossa dal sindacato USB.

Per quanto il malcontento ci risulti molto più circoscritto rispetto alle oltre mille adesioni dichiarate dalle organizzazioni sindacali, ci sembra doveroso richiamare la vostra attenzione affinché, per quanto vi compete, provvediate ad attivarvi tempestivamente per gestire al meglio le criticità che potrebbero emergere”.

Secondo il sindacato di base USB, unico sindacato che si sta occupando attivamente del problema, questa lettera sarebbe la traduzione in parole cortesi di quanto affermato verbalmente, vale a dire che alla direzione non importerebbe come si dovranno organizzare i commercianti che dovrebbero, a questo punto, allontanare i dipendenti che si rifiutano di lavorare a Natale per assumerne altri più “flessibili” negli orari.

Per sensibilizzare la clientela al problema, USB ha avviato da un mese una campagna di informazione con un presidio stabile in prossimità dell’ingresso del centro spiegando ai clienti che anche i dipendenti commerciali hanno una loro vita, una famiglia e delle relazioni personali e non è giusto che siano costretti sotto ricatto a lavorare anche a Natale e Capodanno, da sempre festività intoccabili.

È proprio durante il presidio che sarebbe nata la raccolta di firme quale risposta dei dipendenti alla situazione, più di mille i consensi raccolti spontaneamente e già consegnati al prefetto ed alle autorità cittadine con la richiesta di non concedere l’apertura straordinaria del centro almeno in quei due giorni.

Che la battaglia sia importante lo certifica il fatto che vi sono già stati tentativi ben riusciti di distrazione, il giornale locale, l’Eco di Bergamo, che pubblica stabilmente la pubblicità del centro, ha più volte dichiarato che tutte le iniziative erano in capo ad altri sindacati, citando Fisascat Cisl, Filcams Cgil e Uiltucs Uil come promotori delle proteste, cosicchè si è da subito creata non poca confusione su quali fossero gli interlocutori che non hanno portato ad alcun incontro costruttivo fino ad ora, dato che quei sindacati, a detta degli attivisti USB, non sono ne presenti ne attivi presso il centro e nonostante i trafiletti di precisazione pubblicati a seguito delle loro proteste, nessuno sarebbe ancora riuscito a trovare una interlocuzione effettiva con la proprietà che dallo stesso giornale pubblicizza e conferma le nuove aperture.

Così, un’altra volta, una vicenda triste che affligge i lavoratori si sta trasformando un nuovo affare per la proprietà dello stabile che sfruttando la pubblicità che il caso sta creando e cercando di porre in conflitto tra loro le sigle sindacali, unite alla confusione informativa, si aspetta un grande successo di pubblico a discapito della vita delle persone che ci lavorano e dei titolari di negozi che dovrebbero decidere se tiranneggiare i dipendenti per poter continuare la loro attività in un centro commerciale che, comunque, riceve milioni di visitatori all’anno.

Proprietà che ricatterebbe i negozianti, che sarebbero a loro volta costretti a ricattare i dipendenti per non rinunciare alla posizione all’interno del centro e dipendenti costretti a rinunciare agli ultimi giorni di libertà festiva per mantenere un posto di lavoro precario e spesso mal pagato in un clima generale di disoccupazione, impoverimento e disinteresse generale ai problemi del lavoro.

Certamente non una bella prospettiva, nonostante le dichiarazioni di crescita citate costantemente dal governo.

Ma l’Orio Center, che ha inoltre appena raddoppiato la sua dimensione con un nuovo edificio, non è che un esempio della situazione generale, se consideriamo che ogni “innovazione” in termini di negazione di diritti viene immediatamente mutuata dappertutto, mentre gli esempi di ampliamento, quando ci sono, restano casi isolati, facendo si che anche le apertura, ora effettuate “solo” dalle 8 del mattino all’una di notte, potrebbero ampliarsi per effetto di un nuovo tunnel sotterraneo che collegandolo direttamente all’aeroporto di Bergamo, che si trova proprio di fronte a soli 100 metri, potrebbe persino aprire sulle 24 ore diventando il centro commerciale dell’aerostazione con zero ore di chiusura all’anno.

La soluzione, già ventilata, costringerebbe tutti gli esercizi ad organizzarsi in turni, piccoli o grandi che siano, e persino le catene di supermercati che altrove, invece, effettuano almeno le chiusure notturne dovrebbero adeguarsi sdoganando una volta per sempre l’orario continuato anche nei centri commerciali.

Purtroppo con la lentezza e la leggerezza dell’indifferenza sociale, queste modalità di lavoro stanno piano piano diventando la norma ovunque spostando i centri tradizionali di aggregazione sociale, coincidenti con i centri cittadini, nelle periferie dove i caroselli della domenica negli Outlet Village e nei centri commerciali sempre aperti, stanno facendo chiudere tutti piccoli esercizi uccidendo artigianato, commercio ed attività una volta stabili.

Anche il conteggio dei posti di lavoro non sembra essere favorevole, dato che a migliaia di posti di lavoro nei grandi centri si contrappongono altrettanto perdite di posti negli esercizi cittadini, spostando così solo le condizioni contrattuali che a favore delle nuove modalità vanno riducendo salari e diritti in una sorta di spirale perversa che non è mai stato chiarito se davvero faccia bene all’economia, ma che è certamente chiaro stia danneggiando le persone che lavorano.

Un’analisi che è volutamente superficiale ed approssimativa, è sufficiente uscire di casa ed anche senza essere un economista capace si realizza immediatamente che le lamentele delle persone sono generali e precarietà e vessazioni sembrano senza soluzione di continuità e senza prospettiva futura.

Cambiare, come sempre, è possibile, ma, come sempre, dipende da tutti noi, pubblicità e slogan ubriacano oggi più di ieri come una droga che, terminato l’effetto, ci fa ricadere nei problemi quotidiani irrisolti e persino peggiorati nel frattempo facendoci diventare obiettivo a nostra volta delle vessazioni cui ci eravamo disinteressati.

Dal canto mio darò, come sempre, solidarietà ai lavoratori della domenica e festivi NON andando a fare la spesa in quei giorni, basta un po’ di organizzazione, a Natale trascorrere la giornata con i parenti a casa non è una novità, si fa da migliaia di anni, quando i centri commerciali non esistevano nemmeno e se cominceranno a restare deserti spero non apriranno più in quei giorni.

In Italia ci sono migliaia di associazioni che difendono i diritti degli animali con passione e tenacia, possibile che con i lavoratori non si riesca a fare la stessa cosa?

Non abbandoniamo i lavoratori del commercio, ma nemmeno gli altri, come si fa con i cani sull’autostrada, adottare a distanza un commesso od una commessa si può, basta fare a Natale, Capodanno, Pasqua e tutte le domeniche quello che si è sempre fatto prima, dedicarle alla famiglia, gli amici, a passeggiare al mare, lago, montagna od ovunque si voglia, è più salutare per noi stessi, per la società e persino per le nostre tasche.

Pensare che quello che fanno oggi ad un altro lo faranno domani a certamente a noi è ormai diventato l’unico modo di poter fare ancora del bene a noi stessi, quando politica e mondo sindacale tradizionale sono distratti in altre faccende siamo costretti ad aiutare ad aiutarci.

Al contrario, continuare a voler credere che queste situazioni siano destinate ad “altri”, senza considerare che piano piano toccheranno anche noi, è miope e sbagliato, nel corso degli ultimi venti anni sono stati tolti o ridotti moltissimi dei diritti che avevamo negli anni ’70, ma un diritto è un diritto e non dovrebbe scadere mai in favore del mercato, per evitare che il mercato arricchisca impoverendo le persone.

VERTENZA PENSIONI: LA CGIL PROCLAMA LA MOBILITAZIONE, “INSUFFICIENTI” LE PROPOSTE DEL GOVERNO

DI  VIRGINIA MURRU
La leader della Cgil, Susanna Camusso, ha ritenuto insufficiente la proposta del premier sulle pensioni, proclamando così, come già ventilato (nel caso in cui le istanze del sindacato non fossero state accolte), la mobilitazione generale territoriale per il prossimo 2 dicembre, in alcune grandi città.
Dopo l’incontro col Governo, la Segretaria della Cgil ha dichiarato:
“Per noi vertenza aperta, lo sosterremo con grande forza.” E’ stato chiesto un incontro urgente ad alcuni gruppi parlamentari per trovare una soluzione comune, e a questo punto si spera che sia finalmente la strada giusta.
Respinto dunque il nuovo testo, presentato oggi dal Governo nel corso dell’incontro con i rappresentanti dei sindacati. In sintesi, la Camusso ha confermato, durante la conferenza stampa, le perplessità già espresse nel precedente incontro, ossia ‘l’esiguità delle risorse inserite nella Legge di Bilancio’.
“Si tratta di scelte politiche – ha ripetuto la Segretaria – e pertanto la vertenza resta aperta. Ci sarà una prima mobilitazione generale il 2 dicembre, per affermare i cambiamenti universali del sistema previdenziale, esigiamo attenzione verso i temi del lavoro.”
E ha proseguito:
“Ora le proposte fatte durante il confronto di oggi saranno portate davanti al Parlamento, il quale potrebbe ancora intervenire per rendere efficaci le tante dichiarazioni delle ultime settimane. C’è una notevole differenza tra le proposte formulate durante gli ultimi incontri e quelle espresse nel documento del 2016.
Il divario riguarda le risposte sulla pensione dei giovani, sulle donne e il sistema previdenziale impostato sull’aspettativa di vita. Troppe lacune in termini di attenzione verso i fondamentali temi del lavoro. Per questo la Cgil non ci sta, non possiamo accontentarci.”
Nel documento presentato dal governo c’è l’estensione dei requisiti per l’Ape Social, proposta già messa sul tavolo nella trattativa, ma il Governo ritiene di avere fatto anche sforzi non di poco conto per sostenere i giovani e le donne. Afferma Gentiloni al riguardo: “E’ a tutti gli effetti un pacchetto importante e sostenibile..”
Ora queste nuove ‘aperture’ del Governo saranno inserite nella legge di Bilancio come emendamento, pur senza un’intesa unitaria con le rappresentanze sindacali. C’è un lungo e travagliato percorso dietro il tentativo di un’intesa comune sulle problematiche del lavoro.
Era stato avviato lo scorso febbraio al Ministero del Lavoro, e poi è passato il 2 novembre a Palazzo Chigi. L’epilogo non è certo quello che si sperava. Mentre per la Cisl di Annamaria Furlan le proposte del premier Gentiloni sono accettabili, ‘è stato fatto un buon lavoro’, non lo sono altrettanto per Susanna Camusso. Carmelo Barbagallo, rappresentante della Uil, non si ritiene pienamente soddisfatto, ma in definitiva si è ottenuto almeno gran parte rispetto alle aspettative.
Il premier Paolo Gentiloni ha impiegato ogni strategia possibile per convincere la Camusso che il Governo ha fatto ogni sforzo possibile per rispondere con sensibilità alle istanze presentate, e che le misure previdenziali messe in campo sono ‘alquanto rilevanti’, ma la Camusso ritiene queste proposte ancora insufficienti.
La Segretaria della Cisl, Furlan, forse la più conciliante tra i rappresentanti dei sindacati, sostiene che non si può chiedere altro a questo governo, ‘a Babbo Natale non ci crediamo più’. Nonostante la volontà di non ostacolare la trattativa, sia Annamaria Furlan che Barbagallo, concordano sulla necessità di vigilare affinché i 300 milioni messi a disposizione del governo, non si dissolvano o prendano altre direzioni.
“In fin dei conti – ha affermato Barbagallo – si è aperto un varco importante in quel muro intransigente che la legge Fornero rappresenta.”
Miglioramenti ce ne sono stati dopo le proposte e l’emendamento inserito nella legge di Bilancio:
15 categorie di lavori usuranti e gravosi saranno tutelati con l’esenzione dall’innalzamento dell’età pensionabile, secondo il sistema automatico basato sulle aspettative di vita.
Maggiore attenzione alle pensioni dei giovani e delle donne, garanzia di ampliamento della platea Ape Social alle categorie di lavori gravosi. Le risorse stanziate per onorare questi impegni.
La Cgil ritiene che su tanti punti il Governo abbia offerto dei vantaggi, ma poi in realtà se li sia ripresi con altri ‘espedienti’, procedendo per deroghe, ma senza portare significativi miglioramenti al sistema previdenziale e al mondo del lavoro. Si vedrà nelle prossime settimane se il Parlamento riuscirà a trovare una soluzione accettabile per colmare il divario e portare la Cgil sulla via di un accordo.

OTTO ORE AL GIORNO SONO POCHE, LA GERMANIA VUOLE ABOLIRLE

DI PIERLUIGI PENNATI

Il nuovo mondo digitale incalza dappertutto, email e messaggistica ci seguono sempre e limitare la giornata lavorativa a sole otto ore di lavoro al giorno non è più attuale.

È il presidente del consiglio consultivo del governo federale, Christoph Schmidt, ad affermarlo al “Welt am Sonntag”, letteralmente “il mondo di domenica”, il più diffuso giornale tedesco del fine settimana, secondo il quale le aziende che vogliono continuare ad esistere nel nuovo mondo digitale dovrebbero essere agili e poter contattare il loro personale in fretta: “L’idea che una giornata inizi alla mattina in ufficio e finisca quando si lasciare l’azienda non è attuale” e suggerisce un allentamento allentamento delle ore di lavoro.

“Orari di lavoro più flessibili sono importanti per la competitività delle aziende tedesche”, continua, “Che ne dite se il tempo massimo di lavoro fosse determinato in futuro solo in una settimana invece che di un giorno?”

Le tutele dei lavoratori in Germania hanno dimostrato di essere efficaci, ma non sono più adatte per alcune aree del mondo digitale, “Quindi,”, secondo Schmidt, “le aziende hanno bisogno di avere la sicurezza di non aver agito illegalmente quando alla sera i dipendenti prendono ancora parte alle chiamate in teleconferenza e la mattina leggono la posta a colazione.”, questo non solo aiuta l’azienda, ma anche il personale, che con la tecnologia digitale potrebbe lavorare in modo più flessibile, anche se una maggiore flessibilità non significa necessariamente un prolungamento occulto delle ore di lavoro.

Una riforma delle legge sull’orario di lavoro è anche uno dei temi dei colloqui esplorativi della coalizione “Giamaica” tra CDU, FDP e Verdi a Berlino, i datori di lavoro hanno evidenziato già da tempo che limitare la giornata lavorativa ad otto ore non è più attuale, proponendo di lasciare solo il limite delle ore settimanali massime esistenti, nelle attuali 48, e riducendo il periodo di riposo tra due giorni lavorativi da undici a nove ore.

Questo favorirebbe la produttività a parità di impegno, ma i sindacati non sono d’accordo, ritengono che questo sia un primo passo verso un prolungamento nascosto delle ore di lavoro complessive: come contabilizzare l’attività che non si svolge in ufficio?

La flessibilità finirebbe per rendere disponibili le persone ad ogni ora del giorno e della notte, mentre in Germania ancora resiste il principio del Feierabend e Feiertag, vale a dire della “sera festiva” e “giornata festiva”, quasi in modo sacrale alla sera ed alla domenica non si lavora, tanto meno durante i giorni festivi repubblicani e religiosi.

Questo tempo è dedicato alla famiglia, agli amici, al divertimento, al riposo, al punto che da alcuni anni grandi aziende, come la Daimler, avevano persino introdotto il divieto di leggere le mail aziendali nel fine settimana, ora, nel nome del progresso e della connettività, si vuole cambiare abitudini, finendo per stravolgere la vita delle persone.

Visto da noi sembra assurdo e ridicolo, tanto siamo abituati ad andare al centro commerciale la domenica ed a rispondere alle email la sera ed persino a Natale, in Germania, invece, sanno che le consuetudini sbagliate sono dannose, alla fine le aziende ottengono la disponibilità 24 ore su 24 del proprio personale senza costi aggiuntivi e, in alcuni casi, persino riducendone i costi, come nei casi di produzioni senza interruzione o distribuite su turni di lavoro, che ottengono la disponibilità dei lavoratori senza corresponsione di indennità di reperibilità, per esempio, costringendo le persone a nascondersi dall’azienda per non essere richiamati, dovendo persino inventare scuse se non sono stati disponibili gratuitamente durante il loro tempo libero.

La globalizzazione ha consegnato nelle mani degli analisti i dati sulle abitudini delle persone, questi stessi dati sono mutuati di nazione in nazione, non per rispettare la libertà e la dignità umana, ma per carpirla a favore di un progresso che finirà per distruggere l’uomo a favore dell’economia.

Quando l’attenzione per la persona non è più al centro del processo di lavoro, ma ne diventa solo un elemento da sfruttare il più possibile, l’uomo perde la sua dignità e non ha più alcun valore, riducendo la propria esistenza al nulla.

Seguendo questo principio in Svezia stanno già da tempo praticando le 6 ore di lavoro al giorno in moltissime aziende, perché, secondo i datori di lavoro che applicano questa riduzione, lavorando di meno si produce di più e meglio, si hanno impiegati ed operai più motivati, meno stressati e che commettono meno errori produttivi, dato che le persone sono prima “esseri umani” che semplici “lavoratori”.

Il limite di otto ore al giorno fu una delle grandi conquiste seguite agli anni bui della rivoluzione industriale, quando gli orari di lavoro degli operai erano mediamente da 13 a 15 ore giornaliere, giungendo alla prima convenzione approvata dall’International Labour Organization nel 1919.

La convenzione, sottoscritta nel 1921 e mai emendata, è tuttora vigente e prevede che ad eccezione delle posizioni manageriali e di supervisione, sia nel settore pubblico che in quello privato vi sia un doppio limite massimo alle ore lavorate, tassativo e inderogabile, di 8 ore giornaliere e 48 ore settimanali.

Accordi sindacali, possono però derogare ai limiti con un massimo di un’ora giornaliera “a recupero” e, in ogni caso, la media di ore rilevata nell’arco di 3 settimane consecutive di lavoro deve essere pari a 8 ore/giorno e 48 ore/settimana, con il vincolo di un massimo di 9 ore/giorno.

Distratti dalla tecnologia, l’informazione spazzatura e le continue emergenze in tutti i campi sociali siamo oggi così abituati a deridere quello che ci succede di male da non ricordare il nostro passato, il perché esistono alcuni limiti e diritti e non riusciamo più a vedere il nostro futuro con la mente libera.

Speriamo che almeno in Germania il riposo, sia esso della sera che dei giorni festivi, possa restare sacro, come lo è sempre stato, per molto tempo ancora: non sempre il “progresso”, specie quello tecnologico, fa bene alla salute, alla libertà ed alla dignità dell’uomo.

WELFARE. CONFRONTO TRA CGIL E GOVERNO RINVIATO

DI VIRGINIA MURRU

 

La Cgil aspetta con cautela l’incontro di domani, 21 novembre, ma la Segretaria, Susanna Camusso, avverte che, in considerazione dei risultati insoddisfacenti, scaturiti dai confronti avvenuti nelle ultime settimane, esiste uno stato di fibrillazione che potrebbe condurre alla mobilitazione, qualora non si accettassero le proposte del sindacato sulle pensioni.
Dichiara al riguardo Susanna Camusso:

“non siamo di fronte ad un quadro che risponde alle nostre richieste e agli impegni che erano stati assunti, e confermiamo pertanto la necessità che si risponda a questa indisponibilità ad affrontare l’ingiustizia esistente nel sistema, e soprattutto l’assenza di prospettiva per i giovani”.

E per le donne, un tema più volte messo in campo nel corso degli ultimi incontri, che il sindacato mette in primo piano per giungere ad un accordo più equilibrato.

Il Governo sostiene di avere compiuto ogni sforzo possibile, considerato ‘il sentiero stretto’ della finanza pubblica (più volte ribadito dal ministro dell’Economia, Padoan), per giungere ad un’intesa con la Cgil. Si tratta di estendere l’esenzione dall’aumento dell’età lavorativa, oltre che alle 15 categorie di lavori ritenuti usuranti, anche alle pensioni di anzianità, nonché a quelle di vecchiaia. A queste proposte il Governo aggiunge la disponibilità a rendere attivo un Fondo per stabilizzare l’Ape Social.

Tuttavia, secondo la Camusso, si può andare oltre, la posta in gioco riguarda i giovani e le donne, ‘categorie’ sociali sensibili, che hanno necessità di una maggiore tutela; non ritiene che su questi temi si possa transigere e di conseguenza l’ultima istanza resta la mobilitazione generale, come prova di forza per spingere il Governo a riaprire la trattativa.

Secondo le dichiarazioni del premier non sembra ci sia spazio per ulteriori compromessi, l’incontro di domani, ha già precisato Gentiloni, non porterà sul tavolo altre concessioni, ci si aspetta semmai una riflessione da parte della Cgil, eloquente.

Ma sul welfare, il sindacato non ha alcuna intenzione di arrivare ad un compromesso.
Eloquente il tweet appena pubblicato:

CGIL Nazionale @cgilnazionale
#Pensioni Età, giovani, donne: i conti non tornano. L’intervista del segr.gen. Cgil Susanna Camusso a RadioArticolo1

La Segretaria, Susanna Camusso, tornerà domani davanti ai rappresentanti del Governo, per un chiarimento sulle proposte che gli stessi hanno avanzato, e sui mezzi che s’intendono impiegare. Il sindacato si accinge a valutare la portata di questi mezzi, ed eventualmente decidere se siano sufficientemente consistenti, a garanzia degli impegni presi.

In realtà è già chiaro che il Governo metterebbe a disposizione 300 milioni di euro, che tuttavia garantirebbero, secondo la leader Camusso, una platea di lavoratori pari al 2%, nell’arco di dieci anni, ‘quota’ inferiore agli impegni presi nell’autunno del 2016. A questo si aggiungono lacune di attenzione nei confronti di giovani e donne, manca a questo riguardo, per esempio, una proposta di ‘pensione garanzia’ per i giovani.

“Oggi – sostiene Susanna Camusso – coloro che hanno la fortuna di avere un lavoro che garantisce carriera e buon trattamento economico, possono andare in pensione 3 anni prima, perché nel contributivo si matura un assegno che è maggiore di 2,8 volte il minimo. Cosa che invece non avviene per le categorie meno ‘remunerative’ in termini di salario, soprattutto se il lavoro è discontinuo, pertanto noi esigiamo maggiore equità sul contributivo.”

Sulle aspettative dei giovani nel corso dei colloqui non si è dunque transatto: è necessario, secondo la Camusso, garantire il loro avvenire, anche perché le nostre richieste oggi non aggiungerebbero oneri ai conti dello Stato, se ne riparlerebbe in questo senso tra 15 anni.

In una trasmissione televisiva, ieri, ha dichiarato che il governo dimentica gli impegni presi, dato che durante un incontro al Ministero del Lavoro di qualche mese fa, aveva proposto interventi importanti sui giovani, dei quali poi non si è più parlato.

Meglio sarebbe, secondo la Cgil, rimandare a giugno la decisione di far scattare i cinque mesi di lavoro; sulla base dei nuovi ‘target’ di aspettativa di vita, si avrebbe più tempo per una discussione più obiettiva e una definizione più equa su questi temi delicati.

Non ci si può ‘accontentare’ della volontà che ha dimostrato il Governo, secondo la Confederazione sindacale rappresentata dalla Camusso, perché lo stop dei cinque mesi in favore delle categorie di lavori gravosi, non è in realtà né utile né incisiva per la tutela, in quanto è difficile raggiungere per questi lavoratori i 42 anni e 10 mesi di contributi. Mentre per quel che attiene alle pensioni di vecchiaia, non basta l’intento di esentarle dallo scatto degli ulteriori cinque mesi, se si fissa un limite di contributi di 30 anni, invece di lasciare invariati i 20 anni.

La Cgil considera queste proposte un po’ farlocche, espresse senza tenere conto delle reali ripercussioni e dell’efficacia.

“Così – afferma Camusso in un’intervista al Corriere della Sera – si riduce la platea ai minimi termini.”

Lo sciopero è pertanto sospeso, vincolato agli esiti dell’incontro di domani, martedì 21 novembre. Qualora il Governo non tornasse indietro e si mostrasse intransigente, lo sciopero generale previsto per il 2 dicembre, sarebbe inevitabile.

NELLA POLITICA TEDESCA IL POSSIBILE FUTURO DI QUELLA ITALIANA

DI PIERLUIGI PENNATI

Il fallimento delle trattative in Germania per la formazione del nuovo governo spaventa la nazione, la possibilità di nuove elezioni e dell’ingovernabilità del paese non è mai stata sperimentata e certamente non è una modalità che piace ai tedeschi, sempre previdenti e sobri nelle loro scelte.

I negoziati tra la CDU, CSU, FDP e Verdi avevano come traguardo le 18:00 di ieri 19 novembre 2017, i liberali, però, a seguito delle difficili trattative per mediare tutte le differenti posizioni politiche, hanno deciso di ritirarsi dai colloqui: “È meglio non governare, che governare in modo sbagliato”, ha detto il leader FDP Christian Lindner.

Il blocco delle trattative allontana così per il momento il quarto mandato per Angela Merkel che si trova incastrata nella crisi politica più grave dei suoi ultimi dodici anni e che ha mandato in confusione la situazione politica tedesca dopo solo otto settimane dalle elezioni generali.

Gli analisti tedeschi sostengono che Angela Merkel potrebbe anche formare un governo di minoranza, ad esempio con FDP e Verdi, ma anche la cancelliera ammette che sarebbe difficilmente governabile.

Una situazione che nella nostra nazione non poteva essere generata quando le forze di destra e sinistra si tenevano tradizionalmente a distanza tra loro, in Germania, invece, la separazione non è mai stata così netta consentendo alle Grossekoalition del passato di godere di un clima di relativa collaborazione dove solo i forti estremismi restavano davvero all’opposizione, mentre il resto della politica pensava al progresso della nazione.

Ora, in uno scenario internazionale sempre più confuso nel quale le differenti anime sociali un po’ dappertutto non sono più così nettamente suddivise tra loro e l’incalzare generale di reazioni populiste dell’elettorato, esasperato anche dalle scelte economiche dei governi che fanno sembrare il rischio impoverimento generale sempre più vicino, le differenze di opinione si sono accentuate e non è più sufficiente una politica generalizzata, servono interventi mirati e riforme strutturali precise, per le quali i partiti politici sempre meno disposti alla mediazione, così anche nella ultra-stabile Germania la crisi della politica si fa sentire.

In Italia, dopo l’approvazione del Rosatellum sul quale pendono già due ricorsi alla Corte Costituzionale e che potrebbe fare anch’esso la fine del Porcellum, è già altrettanto chiaro che il dopo elezioni potrebbe essere altrettanto confuso, infatti nel misto maggioritario-proporzionale, ma più proporzionale che maggioritario, previsto dalla legge, sarà possibile per gli eletti muoversi in modo indipendente dai presupposti pre-elettorali, se necessario, tradendo persino le promesse della campagna e permettendo, per assurdo, la formazione di un governo di bugiardi pinocchi.

Alla fine la legge elettorale italiana finisce solo per favorire le coalizioni, cosicché i partiti che si riuniscono in coalizioni sanno già che dopo il voto, se eletti, dovranno comunque ridiscutere gli eventuali programmi ed accordi di governo pre-elettorali perché nessuno di loro otterrà la maggioranza assoluta in parlamento e quindi quando discusso e detto in campagna elettorale dovrà comunque essere rivisto alla luce dei nuovi possibili partner.

Tanto valeva ritornare al proporzionale secco previsto dalla prima versione della nostra Costituzione.

Quindi, il risultato elettorale sarà probabilmente che, come in Germania, per governare si dovranno trovare mediazioni che concedano ad ogni partecipante al governo di perseguire il proprio programma, almeno in parte, in altre parole potrebbe aprirsi una stagione di ricatti e forzature come mai prima.

Mentre da noi sembra che si continui a gestire il solo presente con la memoria del pesciolino rosso che si resetta ad ogni giravolta, il tradizionalmente pragmatico popolo tedesco è spaventato da elezioni anticipate che potrebbero gettare la nazione nel caos ancora maggiore.

Siamo stati abituati al “governare a qualunque prezzo”, facendone pagare i costi alle classi sociali più deboli, ora nella grande Germania c’è un problema serio e non così distante da noi, sarà interessante vedere come sarà risolto, se sarà risolto, perché quello potrebbe essere anche il nostro destino, sempre che i parlamentari italiani sappiano essere altrettanto pragmatici.

PARADISI FISCALI. NON C’E’ TREGUA PER I COLOSSI DEL WEB, ORA NEL MIRINO DELL’UE

DI VIRGINIA MURRU

 

Sono proprio le multinazionali più in vista a fare la parte del leone e a defilarsi, come mani lunghe che rubano con la luce accesa, ma tant’è: finora non se ne sono curate più di tanto, forti delle protezioni e della legislazione dei paesi che hanno una pressione fiscale davvero minima.

Sta di fatto che nel giro di 5 anni, i cosiddetti giganti del web, senza fare tanto rumore, hanno eluso 46 miliardi di euro. ma vanno anche oltre, fino a 69, se al vasto repertorio dei ‘fedifraghi’ si aggiunge Apple, il gigante dell’hardware che presenta il fatturato più consistente (e che non è però una internet company).

Sono le risultanze delle recenti indagini condotte da ‘Ricerche e Studi di Mediobanca’.
Inutile domandarsi in che modo si può essere volpi, se la consuetudine di spostare grandi capitali off-shore non è nata nel terzo millennio, ma viene da lontano, e le autostrade dell’evasione sono quelle che portano ancora verso i paradisi fiscali, dove lo Stato, sul versante delle tasse, mangia a piccoli morsi.

Per questo il denaro qui soffre molto meno che nei luoghi dai quali proviene. E non è un mistero che in Europa, il Lussemburgo, l’Irlanda e l’Olanda, abbiano tetti più sicuri per multinazionali come Facebook, Amazon, Google, Microsoft ed Apple, tanto per citare le più note.

I loro utili vengono portati sistematicamente fuori dai paesi in cui si sono generati, per una semplice questione di pressione fiscale, certamente più forte rispetto ai paesi in cui questi capitali vengono ‘traslati’.

In Cina le multinazionali non fanno eccezione, e non sono meno scaltre di quelle citate, operanti tra Stati Uniti ed Europa: Tencent ed Alibaba, tanto per non scomodare il fisco ed eventuali strali della giustizia, hanno stabilito la sede proprio nelle isole Cayman, notoriamente meno aggressive in materia fiscale.

Le web company hanno versato all’Agenzia delle Entrate veramente inezie rispetto ai ricavi generati nel nostro paese: 12 milioni (si tratta di Amazon, Apple, Tripadvisor, Twitter, Facebook e Airbnb), esponendosi così all’indignazione delle grandi e medie aziende che operano offline, e che in termini di compliance con il fisco sono sicuramente più virtuose. Il Governo in Italia sta prendendo atto finalmente delle grandi perdite per l’Erario, e chiede con forza l’introduzione di una tassa Ue. Troppi utili sottratti alle imposte, dato che, come si è visto, al fisco lasciano solo ‘bruscolini’.

Non è servito a molto fino ad ora ricorrere al patteggiamento, perché poi questi giganti riprendono il vecchio sentiero con la segnaletica più conveniente, che porta nei paesi compiacenti in termini di aliquote fiscali, così i ricavi delle transazioni digitali mettono le ali senza alcuno scrupolo.

La Procura di Milano era riuscita pochi mesi fa a indurre Apple e Google al patteggiamento, chiedendo 600 milioni (in due), come saldo di pendenze arretrate col fisco, ma poi la lezione è evidentemente troppo difficile per essere assimilata, quando gli interessi in gioco sono alti.

Le residenze legali restano laddove si campa meglio, senza eccessiva ‘oppressione’ fiscale. E così continua ad agire Facebook, per esempio.
Inutile che in Italia le autorità competenti abbiano accertato un utile per la vendita di servizi (pubblicità), pari a 225 mln, perché questi ricavi si sono subito messi in viaggio alla volta dell’Irlanda, luogo più ‘salutare’ per gli utili, e l’Agenzia delle Entrate in Italia non ha visto che briciole. Si capisce che sono situazioni ormai inammissibili, come si è visto non si tratta solo di Facebook, anche le altre big fanno saltare i soldi dal cilindro altrove.

Per anni e anni di evasione, Google Italia ha registrato in bilancio tasse che incidono per 42 mln, ma la quota di competenza relativa al 2016 è solo una piccola parte, il resto riguarda anni e anni di inadempienze. Per forza poi i conti non tornano, e a questo punto, obbligare le potenti multinazionali a versare tutte le imposte sui profitti generati in Italia, è il minimo.
L’evasione riscontrata nelle web companies non riguarda solo l’Italia, ma anche altri paesi europei, fortemente danneggiati dal loro operato. Si cercano strategie normative per mettere con le spalle al muro le multinazionali, finora ci sono stati solo ultimatum di cause legali (la Procura di Miano ha aperto un fascicolo su Amazon, accusata di avere evaso 130 mln), ma il problema, nonostante qualche riflessione, non è stato risolto.

L’Ue ha perseguito l’Irlanda (deferita alla Corte di Giustizia), uno dei paesi più ‘accoglienti’ per i profitti, obbligandola a versare 13 miliardi di euro, per avere concesso agevolazioni fiscali non dovute, ma non è certo che questo Paese membro dimostrerà fedeltà alla normativa Ue. Diffidata anche Amazon, ha forti pendenze fiscali con il Lussemburgo.

Intanto, da qualche mese, si avverte aria di grande insofferenza, e così Italia, Germania, Francia e Spagna, che poi corrispondono alle economie più solide dell’Ue, hanno deciso di reagire e di chiedere un regime fiscale comune, con tassazione digitale, per obbligare le multinazionali a non portare altrove i ricavi originati nei paesi di competenza (fiscale), dove il valore si crea. Neanche a dirlo, i paesi di appartenenza delle multinazionali (le più grandi sono degli States), fanno scudo e tentano di difenderle in tutti i modi dai possibili fulmini in arrivo dall’Ue.

La sfida ha tutta l’aria di non essere a portata di mano.
Secondo gli studi portati avanti da Mediobanca, le grandi del web hanno eluso imposte per oltre 11 mld di euro, tra queste c’è Microsoft che ha messo in salvo 3,6 mld, e Apple 5,3 mld, a seguire le altre, che pure hanno ‘risparmiato’ parecchio.

Ossia circa due terzi degli utili (prima d’essere stato tassato), è finito nei paesi dei quali si è detto, perché molto più soft in termini di pressione fiscale, rispetto alla sede delle web companies. La pressione fiscale negli Usa è pari al 35%..
Ormai questi colossi sono sorvegliati dall’Ue, e Google, bontà sua, ha dichiarato che resterà in Europa, a condizione che le imposte siano ‘semplificate’.

Pretendono davvero troppo, dato che, a giudicare dai profitti, non rischiano certo il tracollo. E’ Amazon la numero uno dell’e-commerce – già per 3 anni di seguito – con un ricavo, nel 2016, di 129 miliardi di euro.

Alle grandi dell’e-commerce cinese va anche meglio, ma del resto c’è dietro un grande mercato, solo la Cina ha quasi un terzo degli abitanti del pianeta. I loro guadagni sono enormi.
Della web tax, in Italia, che mira a regolamentare, nell’era della digital economy la tassazione sugli utili delle multinazionali, si è fatto promotore il deputato Pd Francesco Boccia, il quale ha di recente ribadito che si tratta “di una battaglia di equità”.

Aggiungendo che “parlare di web tax non significa tassare il mondo, ma trattare in termini di tassazione il mondo online come quello offline, non consentendo ai grandi gruppi del web di farla franca, cosa che nemmeno i piccoli commercianti possono fare. Pertanto le multinazionali devono pagare le imposte indirette nei Paesi in cui i profitti si originano”.

Il 17 novembre, dopo l’approvazione alla Camera della fiducia sul decreto fiscale collegato alla manovra, (nell’ambito della discussione sulla legge di Bilancio in Senato), dal Pd è arrivato l’emendamento già annunciato, sulla web tax. L’emendamento è frutto dell’attività di un anno nelle Commissioni di Industria e Finanza del Senato.

Il Governo non aveva introdotto la tassa nel testo base, lasciando al Parlamento la libertà d’intervenire. L’emendamento rafforzerà la regolamentazione transitoria (sulla digital tax), inserita nella manovrina di aprile. Secondo il primo firmatario, Massimo Mucchetti, senatore Pd bresciano, nonché presidente Commissione Industria:

“ai soggetti non residenti, che comunque avessero stabile organizzazione nel nostro paese, sarà tassata, al pari di tutte le società, la base imponibile dichiarata e verificata dall’Agenzia delle Entrate. L’emendamento introdotto sulla legge di Bilancio, ha il fine di regolare la tassazione dei profitti o ricavi originati in Italia da queste grandi aziende che operano nel web. Auspichiamo che la nuova norma sia approvata, poiché prevede una tassazione del 6% dei ricavi (o transazioni digitali) per la cessioni di servizi provenienti da soggetti non residenti a soggetti residenti in Italia.”

La preoccupazione, semmai, secondo il promotore della digital tax, Boccia, è che la nuova tassa possa colpire le aziende italiane in regola, poiché essa è rivolta esclusivamente alle multinazionali del web, che fino ad ora hanno evaso somme ingenti sfuggendo al fisco.

PADOAN: INSOPPORTABILI ILLAZIONI SUI CONTI PUBBLICI, NULLA NASCONDIAMO ALLA GENTE

DI VIRGINIA MURRU
Così pieno di sdegno, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, non lo si era mai visto, altre volte ha mostrato i denti verso allusioni tendenziose, ma in questa circostanza ha ritenuto che il veleno in circolo fosse veramente troppo.
Le illazioni, così come egli le ha definite, riguardano la finanza pubblica, la quale non avrebbe affatto abbandonato il girone infernale in cui da decenni ‘brucia’. Padoan non accetta queste considerazioni, e dichiara:
“Sta diventando insopportabile la confusioni tra fatti e allusioni, che serve solo a disorientare la gente, alla quale nulla abbiamo nascosto circa i conti pubblici, che sono migliorati, e il riflesso nell’economia, al di là dei numeri, è ben evidente”.
Così si è espresso nel corso dell’Assemblea degli industriali che si è tenuta a Salerno, e ha aggiunto:
“sta per chiudersi una legislatura che metterà nelle mani della successiva un quadro oggettivamente migliore, non vogliamo nascondere nulla, è un dato di fatto che la situazione congiunturale sia nettamente migliore.”
I venti contrari, per la verità, sono giunti nei giorni scorsi dagli ambienti più scettici dell’Unione europea, che  esprimono riserve nei confronti delle finanze dello stato italiano, che non sarebbero ancora ‘a norma’, secondo i requisiti del Patto di Stabilità e Crescita di Maastricht, stipulato e sottoscritto nel 1997 dai paesi membri dell’Ue.

Nel corso del meeting di Strasburgo di alcuni giorni fa, infatti, la Commissione ha deciso di chiedere al Governo ulteriori chiarimenti sulla manovra 2018 (bozza di legge di Bilancio) e sulle risultanze dei conti relativi al 2017.

La lettera sarà quasi certamente formalizzata e trasmessa il 22 novembre prossimo, secondo alcune Agenzie di stampa, allorché diventerà ufficiale il parere sulla legge di Bilancio 2018- E tuttavia, secondo la Commissione, è opportuno attendere le verifiche di Eurostat ad aprile, con numeri più chiari, per accertare se ci sia effettivamente stato uno scostamento dai parametri europei nel 2017. Si dovrà attendere dunque fino a maggio prossimo, mese in cui, solitamente, la Commissione, rende note le proprie previsioni.

Il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, ha già risposto alla missiva di fine ottobre (prima della pubblicazione delle previsioni autunnali), circa le perplessità espresse sullo scostamento dei conti italiani rispetto a quelli redatti dai tecnici dell’Ue. Il riferimento è evidentemente alla riduzione programmata del deficit, rivisto secondo gli effetti del ciclo economico, e al ‘netto’ delle una tantum.

Padoan aveva concordato tre decimi di punto di Pil con il Commissario Pierre Moscovici (accordo politico), ma si sarebbe andati tuttavia anche oltre, secondo la Commissione, rispetto a quelli concordati. In termini numerici,  la deviazione sarebbe pari a 3,5 mld di euro, e pertanto il Governo dovrà provvedere con una manovra correttiva, così come è già accaduto per la precedente Legge di Bilancio presentata dall’ex premier Matteo Renzi.

Il più riottoso sembra essere Jyrki Katainen, nel suo ruolo di vicepresidente della Commissione, il quale sostiene che l’Italia non stia migliorando in termini di finanza pubblica. E queste sarebbero ‘le illazioni’ che hanno poi suscitato lo sdegno di Padoan.

Ricordiamo che la Commissione europea ha il potere di respingere la Legge di Bilancio dei Paesi che non risultassero virtuosi in termini di compliance, rispetto alla normativa fiscale dell’Unione. All’Italia comunque, si è chiesto un ‘aggiustamento’ strutturale che slitterà al 2018. A ottobre, il Governo ha preso un impegno per un aggiustamento dello 0,3%, un braccio di ferro che dura da più di un anno, e che Padoan ha più volte motivato con la lunga serie di emergenze che l’Italia ha dovuto affrontare, come gli eventi sismici e la gestione dei flussi di migranti.

Il ministro dell’Economia rimanda indietro le frecciate, i suoi bersagli (alla Commissione europea) hanno sicuramente raccolto il messaggio, nonostante le loro obiezioni sulla presunta mancata correzione del deficit strutturale.
All’assemblea degli industriali tenutasi ieri a Palermo, era presente anche il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, il quale ha interpretato in modo meno aggressivo le ‘illazioni’ della Commissione europea. E infatti dichiara:
“Per quel che riguarda gli impegni presi dal Governo sul controllo e riduzione del deficit, il riferimento che proviene dall’Ue è rivolto più verosimilmente ai partiti politici, che sono già scesi in campo nella campagna elettorale per le prossime elezioni politiche”.
E ha proseguito con un monito:
“Bisogna fare davvero attenzione alle politiche economiche che favoriscono l’aumento del deficit, e di conseguenza anche il debito”.
Boccia concorda poi con il ministro Padoan, sul fatto che negli ultimi anni sono stati compiuti sforzi notevoli per contenere il dramma del debito pubblico, che ha pesato come piombo nelle scelte concernenti la politica economica. Un limite che non è mai stato sottovalutato, Padoan del resto ha sempre messo le mani avanti su questo vortice che inghiotte e macina risorse, sostenendo che purtroppo ‘il sentiero è stretto’.
Prendere atto dei limiti, di cinquant’anni di errori, non significa, secondo gli intendimenti di Padoan, che la situazione sia irreversibile e che non si possano fare dei passi avanti, così come ritiene si sia fatto nel corso della presente legislatura. Egli si definisce peraltro un ministro atipico in termini di ottimismo: ‘sono stranamente ottimista’.
“Si può guardare avanti, facendo tutto ciò che è possibile in termini di strategie per migliorare, allo stesso tempo restando con i piedi per terra, senza ‘compiacersi’ eccessivamente dei risultati, che pure sono arrivati, e sono sotto gli occhi di tutti”.
Conclusioni che il ministro ha ribadito in tante occasioni, mette in rilievo i risultati ottenuti, nonostante il ‘sentiero stretto’, che ‘tuttavia si sta allargando’, i miracoli, del resto, non sono il target di un governo serio, si opera secondo scelte adeguate, e i frutti arrivano, gradualmente, ma la crescita apre nuovi orizzonti, così com’è accaduto in Italia negli ultimi anni.
Il problema è che la gente si aspetta forse l’uso di una bacchetta magica che nessun governo può adottare.
E sottolinea infatti Padoan:
“Il Paese può fare ulteriori progressi, noi abbiamo creato delle buone fondamenta per aprire la strada alla speranza di un futuro più solido, dipenderà dalla prossima legislatura, dalla capacità di proseguire su un percorso già tracciato. Noi abbiamo compiuto ogni sforzo per migliorare la finanza pubblica e nel contempo favorire la crescita.”

GLI SCIOPERI PORTANO PROGRESSO SOCIALE. VIETATO VIETARLI

DI PIERLUIGI PENNATI

Lo sciopero è la più antica forma di lotta dei poveri conosciuta al mondo: chi non ha nulla può solo smettere di lavorare.

Lo sciopero non è divertente, chi sciopera ci rimette dei soldi, quindi fa una rinuncia certa che, unita allo stato di necessità, inquadra precisamente il problema.

Negli ultimi anni, invece, i poteri forti, quelli dei cosiddetti “padroni”, gli industriali e le banche, ci hanno abituato a pensare che chi sciopera si diverte a torturare i cittadini, soprattutto nei trasporti, dove ricchi lavoratori scioperano per ottenere benefici ancora più grandi ed ingiusti.

Beh, non è così: chi sciopera fa un sacrificio per uno scopo sociale preciso.

Il primo sciopero della storia di cui si abbia notizia si verificò intorno al 1150 a.C., alcune fonti dicono 1165, altre 1152, comunque oltre tremila anni fa, quando, nell’antico Egitto durante il regno di Ramses III, gli operai del villaggio di Deir el-Medinet, addetti alla costruzione dei templi di Tebe, incrociarono le braccia, al grido di “Siamo già al 18 del mese e abbiamo fame!”, a causa del ritardo nel pagamento della paga, ai tempi effettuata in derrate alimentari, grano, pesci, legumi e per la mancata consegna di unguenti necessari a proteggersi dal sole e dal clima secco del deserto.

Lo sciopero durò alcuni giorni, terminando solo quando il dovuto fu interamente consegnato ed ottenendo la creazione di organi di controllo per assicurare la paga in futuro.

Un grande successo, dunque, a costo di sacrifici che hanno portato ad un beneficio collettivo.

Oggi le cose non sono cambiate e lo sciopero continua ad essere l’unica arma disponibile in possesso dei disperati, che hanno solo l’alternativa della rivoluzione armata, come avvenne in Russia nel 1917 a seguito  dei primi scioperi a febbraio nelle Officine Putilov che portarono in qualche mese alla rivoluzione di ottobre, esattamente 100 anni fa.

Combattere o limitare lo sciopero, quindi, significa togliere l’unica arma nelle mani dei poveri, lo sanno bene i potenti ed governi, per questo fanno di tutto per evitarlo o renderlo inefficace.

Il primo sciopero generale in Italia è stato nel settembre 1904, ed anche in epoca fascista, dopo la salita al potere nell’ottobre del 1922 di Benito Mussolini, il più giovane caso di governo dopo Matteo Renzi nella storia dell’Italia unita, ci sono stati degli scioperi così importanti che il Duce sentì la necessità, il 3 aprile 1926, di promulgare una legge, la numero 563, per impedire una nuova insorgenza di fenomeni di ribellione sociale al suo regime.

Questa legge, contenente in modo più ampio la “Disciplina Giuridica Dei Rapporti Collettivi Del Lavoro”, proibì lo sciopero e la serrata commerciale e stabilì che soltanto i sindacati “legalmente riconosciuti”, vale a dire quelli fascisti che già detenevano praticamente il monopolio della rappresentanza sindacale dopo la conclusione del Patto di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925 fra la Confindustria e le corporazioni fasciste, potevano stipulare contratti collettivi ed indire controversie collettive, non senza, però aver cercato prima un tentativo di conciliazione, riducendo i conflitti ad un fatto meramente amministrativo e giuridico.

Situazione non tanto distante da quanto si sta tentando di ristabilire progressivamente oggi a suon di leggi restrittive, tanto è vero che il giornalismo disinformato parla spesso di “sindacatini non rappresentativi” e la giurisprudenza, nonostante la Costituzione Italiana citi all’articolo 39 “L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge”,   ha ormai consolidato la condizione che per poter operare il sindacato deve avere iscritti pari ad almeno il 5% dei lavoratori del comparto o dell’azienda cui si riferisce. La legge voluta da Mussolini prevedeva il 10%.

Inoltre, nonostante lo sciopero fosse vietato, Mussolini aveva previsto che anche eventuali azioni sindacali alternative dovessero prima aver visto un tentativo di “risoluzione amichevole della controversia, e che il tentativo non sia riuscito”, vale a dire esattamente la “procedura di raffreddamento dei conflitti” che oggi viene imposta obbligatoriamente ed in ben due distinte fasi che fanno perdere a chi protesta almeno un mese dall’apertura formale della vertenza, rendendo comunque inefficace almeno la sua tempestività.

Quindi: riconoscimento giuridico, conciliazione preventiva e limitazione, o persino divieto, di sciopero, sono da sempre il fondamento della repressione sui lavoratori, specie i meno abbienti che non altro altri strumenti.

Evidentemente deve essere questa la ragione per cui ci si accanisce ancora oggi contro chi sciopera, spiegando tramite i media disinformati, come avvenuto il 10 novembre per lo sciopero generale del sindacato USB, che chi sciopera è sempre “qualcuno dei trasporti” che infastidisce chi “lavora onestamente”, che chi proclama sono sindacati “non rappresentativi” dal nome impronunciabile e con “motivazioni non comprensibili”, futili o marginali creando disagio strumentalmente.

La verità, invece, era che lo sciopero era generale, gli scioperanti non erano disonesti, che la rappresentatività sindacale è un parametro oggettivo che proprio i sindacati considerati “rappresentativi” non vogliono svelare per non sfigurare, che i nomi dei sindacati non devono necessariamente seguire slogan o regole accattivanti di mercato e che le erano il dannoso Jobs Act, la manovra economica che chiede altri sacrifici, gli interventi di ulteriore riduzione sulle pensioni e la continua precarizzazione dei contratti di lavoro.

Propaganda e/o disinformazione che vanno a braccetto e/o si coalizzano in una sorta di moderno Istituto per l’Unione Cinematografica Educativa, detto anche LUCE in epoca fascista, che dice solo quello che piace al regime o al popolo.

Ma in anni in cui le code agli Apple Store per i nuovi modelli sono interminabili mentre ai seggi elettorali si registra il deserto degli elettori non ci si può aspettare di meno: la storia ci dice che proprio miseria, rabbia e frustrazione, unite all’assenteismo al voto, hanno favorito l’ascesa al potere di Adolf Hitler in Germania dopo la Prima Guerra Mondiale, non siamo in quelle condizioni, spero, ma certamente non possiamo trascurare lo stato sociale in favore di un’economia che ci sta schiacciando e se oggi togliamo ai poveri l’unico strumento di lotta che possiedono, stiamo facendo male non solo a noi stessi ma anche ai nostri figli, condannandoli ad una vita futura di schiavitù sociale, come quella prevista con un realismo sorprendente da Orwell nel 1948.

La stampa dovrebbe informare correttamente e se non lo fa possiamo difenderci solo cercando altre notizie e verificarne le fonti, costa fatica, ma è necessario: gli scioperi hanno portato progresso e benessere negli anni della crisi del dopoguerra, istituendo diritti dove non ve n’erano ed introducendo benefici sociali e welfare state, oggi il processo innescato è esattamente l’opposto, si comprime il diritto di sciopero per poter mantenere i tagli ai diritti ed allo stato sociale.

Non cadiamo in questa trappola, non lasciamoci influenzare da poteri economici che non considerano più la dignità e le persone, diamo forza al diritto di sciopero e diamo solidarietà a chi, in tempi di crisi e precarietà, rinuncia ad una parte del già sempre più magro salario e rischia il posto di lavoro per poter sopravvivere ancora e dare un futuro ai propri figli.

“Ribaltiamo il tavolo”, “riprendiamoci tutto”, erano i temi dei due ultimi congressi del criticato sindacato USB passati in totale silenzio stampa, ma sono, purtroppo, parole d’ordine sempre più attuali e necessarie.

SALARIO MINIMO IN SVIZZERA CONTRO GLI IMPRENDITORI SENZA SCRUPOLI

DI PIERLUIGI PENNATI

Imprenditoria senza scrupoli e continua compressione dei salari che rende difficile e poco dignitosa la vita ai lavoratori ed alle loro famiglie, sembra di parlare della nostra nazione, invece siamo in Svizzera dove per combattere la situazione di “dumping salariale” i cittadini hanno deciso di affidarsi alla legge e fissare un salario minimo.

Il problema esiste in tutte le nazioni: si tratta della soglia di reddito al di sotto della quale non si riesce a vivere dignitosamente o, addirittura, si può essere considerati poveri.

Per risolvere il problema, normalmente, non si fa nulla, la soglia di povertà ed il valore del lavoro sono quasi sempre semplici dati statistici, se non guadagni abbastanza sei in una o nell’altra fascia, in Svizzera, invece, per combattere la svalutazione del mercato del lavoro umano si sono posti il problema per tempo ed i Verdi, con un’iniziativa appoggiata dai Socialisti e dalla Lega, nel 2015 hanno ottenuto il 54% dei consensi dell’elettorato ticinese in un referendum popolare da loro promosso ed ora il governo si è mosso di conseguenza.

L’obiettivo dichiarato dai promotori era “salvare il lavoro in Ticino e lottare contro il dumping salariale” e per questo avevano lanciato il referendum propositivo, impossibile in Italia dove le leggi le fa solo il Parlamento e con i referendum si possono solo abrogare norme esistenti, immediatamente capito dalla popolazione e vinto con un margine positivo ritenuto ampiamente soddisfacente.

Il leader dei Verdi, Sergio Savoia, aveva esultato affermando “Per la prima volta inseriamo, nella Costituzione, il diritto al salario dignitoso”, raggiungendo lo scopo sociale di porre un limite minimo al mercato del lavoro ticinese nei settori in cui mancano i contratti collettivi o questi non sono applicati.

Il fenomeno originava dalla disponibilità di mano d’opera, frontalieri italiani per lo più, approfittando della quale imprenditori con meno scrupoli proponevano salari inaccettabili, per il costo della vita dei residenti, tra questi un caso limite portato in campagna referendaria quello di un’azienda di trasporti di Stabio, cittadina sul confine con la nostra nazione, che pagava gli autisti frontalieri be 500 euro in meno di quelli residenti in Svizzera.

Forse, da noi si sarebbe accolto il fenomeno come concorrenza che fa bene al mercato, in Svizzera, invece, si sono chiesti come le persone possano sopravvivere dignitosamente con salari inadeguati e sono corsi ai ripari, così oggi è stato stabilito dal governo ticinese che per una vita dignitosa pagando le tasse, in Svizzera occorre possedere un salario minimo di poco superiore ai 19 franchi all’ora, che su base mensile fanno all’incirca 3.000 euro.

In effetti il problema è molto serio, il continuo accettare salari sempre più bassi, da parte di lavoratori in competizione per la propria sopravvivenza, ha già portato molte famiglie in Italia sotto la cosiddetta “soglia di povertà”, rendendo quasi impossibile mantenersi con una sola entrata e sempre più spesso nemmeno lavorando in due.

Il salario minimo diventa quindi un parametro di civiltà, che rende inaccettabile per uno stato tollerare offerte di lavoro a valori inferiori alla soglia che trasforma il lavoro in sfruttamento.

In Ticino, però, anche il salario minimo per legge scontenta comunque molte categorie, dato che la contrattazione collettiva già si attesta intorno ai valori oggi fissati per legge ed in quella nazione 3000 franchi non sono poi così tanti per vivere, con il risultato di non spostare di molto il problema nell’immediato, in Italia, invece, la discesa dei salari ha già superato in molti settori la soglia minima di dignità, incentivando datori di lavoro con sempre meno scrupoli ad assumere a personale a prezzi sempre più bassi e costringendo i nostri figli ad emigrare in nazioni dove il lavoro garantisce ancora una propria vita dignitosa.

Secondo i rappresentanti del mondo economico svizzero, il salario minimo riguarderà solo 9100 persone, di cui 6500 frontalieri, mentre metterà in difficoltà “aziende, commerci, piccole attività artigianali che hanno margini di guadagno sensibilmente inferiori e che sono sottoposte a forte competitività”, Verdi e Socialisti, promotori dell’iniziativa, ritengono invece che la cifra decisa dell’esecutivo sia ancora troppo bassa sottolineando che il Ticino è “il Cantone con il più alto tasso di povertà della Svizzera”.

Il salario minimo sarebbe quindi un baluardo contro la povertà che forse, se istituito anche da noi, potrebbe evitare il costoso ed improduttivo “reddito di cittadinanza”, chiesto dai cinque stelle, e gli altri fino ad ora infruttuosi provvedimenti per contrastare povertà e disoccupazione, riavviando e riqualificando quello che ormai sembra somigliare sempre più ad un mercato degli schiavi che al quello del lavoro.

UE. L’ECONOMIA ITALIANA HA ESPRESSO OTTIME PERFORMANCE, MA E’ ANCORA IN CODA

DI VIRGINIA MURRU
La Commissione Europea riconosce il movimento in positivo dell’economia italiana, sottolinea i progressi compiuti in termini di finanze pubbliche, in particolare del deficit, che nell’anno in corso si è sostanzialmente contratto, sia pure di poco (2,1%), ma nel contesto degli altri paesi membri è ancora tra gli ultimi ‘della classe’.
Un giudizio che conta quello della Commissione, un outlook sull’Italia che certamente suona come un riscatto, dopo gli anni di buio pesto, durati dal 2008 al 2014. Ma sono anche ‘istantanee ad alta risoluzione’ che non trascurano il ‘contesto’, ossia il panorama economico dell’Unione nel suo insieme, e dell’Eurozona – della quale facciamo parte – in particolare.
In questa prospettiva il passo diventa breve, l’espansione in termini macroeconomici contenuta, poiché si confronta con una crescita media europea del Pil pari al 2,3% nel 2017, a fronte di quello italiano, che ha raggiunto l’1,5% (sempre nell’anno in corso).
Certamente si tratta di progressi riconosciuti sul piano internazionale, anche al di là dei cancelli dell’Ue: dalle Agenzie di rating, all’Ocse, al Fmi, un po’ ovunque dalle Organizzazioni che monitorano l’economia sul piano globale. Promossi, dunque, ma con gli opportuni distinguo, e con la riserva dell’inevitabile, impietoso confronto con i paesi, la maggior parte, che hanno compiuto passi più lunghi.
La Spagna è un esempio davvero eloquente. Il suo Pil nel 2017 si è rivelato quasi dirompente, con +3,1%.
Il paese che ha espresso la crescita più consistente è Malta: +5,6% nel 2017 (quasi al ritmo del dragone cinese), certamente mette in rilievo un’espansione veramente eccezionale, destinata, secondo i forecast dell’esecutivo europeo, a contrarsi negli anni a venire, con un calo già a partire dal 2018, il Pil assumerà infatti un valore pari al 4,9%, e 4,1% nel 2019.
Ma siamo in un gap di valori che superano in ogni caso la crescita media Ue, che è attualmente al 2,3%.
L’Italia potrebbe trarre ‘conforto’ dall’andamento dell’economia del Regno Unito, che soffre già da più di un anno del sintomo Brexit, ma sono tuttavia, proprio per questa ragione, stime estrapolate del contesto dei 27, essendo in corso la trattativa per l’uscita dall’Ue.
Secondo le analisi della Commissione europea, la ripresa economica in Italia è da attribuire al positivo riscontro nell’export e alla domanda interna; le previsioni restano stabili nel breve periodo, ma nel medio e nel lungo sono destinate a subire un rallentamento, fino al 2019. Per l’anno di pertinenza, ossia il 2017, la Commissione ha dovuto rivedere le previsioni di crescita del Pil espresse a maggio (0,9%), adeguandole agli ultimi riscontri, che hanno rivelato un’accelerazione dell’ordine dell’1,5%. La fase di contrazione del Pil in Italia raggiungerà l’1% nel 2019.
Dal ministero dell’Economia sottolineano che “la Commissione conferma la ripresa sostenuta e il miglioramento dello stato della finanza pubblica, deficit compreso, dati già comunicati dal Governo italiano, anche con il documento relativo alla legge di Bilancio 2018. Il ministro Pier Carlo Padoan non concorda con le previsioni del Pil relative al 2018, secondo il Governo, le stime sul Pil il prossimo anno, confermeranno quelle del 2017, ossia l’1,5%.
Una ‘sfida’ in termini percentuali che ha visto prevalere, negli ultimi anni, i dati espressi dal Governo italiano, in opposizione a quelli più prudenti della Commissione europea.
Contrasto, se vogliamo, sostanziale, anche per quel che attiene alle finanze pubbliche. Il ministro mette in rilievo il fatto che la Commissione riconosce il calo del deficit per il corrente anno, a 2,1%, ma non concorda sulle previsioni relative al 2018, il cui calo arriverebbe all’1,8%, mentre secondo le prospettive del Governo il calo del deficit sarebbe più marcato, ossia l’1,6%. Vi sono poi discordanze sulle stime del debito. Secondo il ministero dell’Economia è dovuto alla differenza nella valutazione della crescita del Pil reale e dalle divergenze di stima dell’inflazione.
L’Ue riconosce anche la riduzione della disoccupazione, che nel 2017 si attesta all’11,3%, rivisti anche in questo caso i valori definiti a maggio (era attesa all’11,5%), si prevede poi che nei prossimi anni sarà ulteriormente ridotta, nel 2018 e 2019, rispettivamente andranno al 10,9% e 10,5%.
I dati sull’occupazione invece, dopo gli effetti positivi degli sgravi sulle assunzioni, subiranno una contrazione dell’ordine dell’1% nell’anno in corso, con una fase intermedia (di rallentamento) nel prossimo, fino ad attestarsi allo 0,5% nel 2019. Certamente, l’andamento dei dati macro, risente dell’ interdipendenza dei valori, che, per quel che riguarda l’Italia, sono destinati a contrarsi nel breve periodo, secondo le stime attuali.
La Commissione Ue riconosce gli interventi incisivi volti a ridurre i rischi di default degli istituti bancari più vulnerabili, interventi che contribuiranno a controllare i rischi e a sbloccare il credito. L’accento cade anche sulle riforme strutturali, importantissime, secondo il parere della Commissione, per incentivare la crescita potenziale.
Per quel che riguarda la zona euro, la disoccupazione ha assunto i valori più bassi dal 2009, con ‘picchi record’ di occupati, e un rilievo in positivo di crescita pari all’1,5%. Dati che miglioreranno nei prossimi due anni, fino ad attestarsi, nel 2019, al 7%.
Il Commissario agli Affari Economici, Pierre Moscovici, dichiara nelle ‘previsioni d’autunno’:
“Ci sono buone prospettive, molto positivi i rilievi sull’occupazione, indubbiamente l’economia europea è in grado di creare più occasioni di lavoro, buoni i dati sugli investimenti, i parametri relativi alle finanze pubbliche migliorano. Ma a fronte di queste ottime premesse, resta ancora da fare sul piano dei conti pubblici, sul grado d’indebitamento in particolare, e sull’aumento dei salari, che stenta a decollare.
Aggiunge Moscovici:
“Rafforzare la zona euro è fondamentale, in sintonia con la convergenza strutturale, affinché l’area dimostri maggiore resilienza verso i possibili shock futuri. L’Ue deve essere un autentico centro propulsore di prosperità condivisa. C’è stata una forte riscossa nel volgere di un anno nell’Eurozona, si tratta del più alto tasso di crescita riscontrato da 10 anni a questa parte”.
E non si tratta di inezie.

PENSIONI. PER 15 CATEGORIE DI LAVORI GRAVOSI STOP AUMENTO ETA’ PENSIONABILE

DI VIRGINIA MURRU
Il confronto sulla previdenza che si è svolto a Palazzo Chigi il 6/7 novembre, è stato relativamente soddisfacente, secondo i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil. Intorno al tavolo tecnico, in rappresentanza del Governo, erano presenti il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, i ministri Poletti, Madia e Padoan.
Per ora si è stabilito che per 15 categorie di lavori cosiddetti ‘gravosi’, scatterà il blocco sull’aumento dell’età pensionabile. L’iter dell’accordo passa su strade piene di chiodi, l’intesa è stata piuttosto travagliata, e i sindacati dichiarano che non c’è da esultare.
All’ordine del giorno i temi più scottanti concernenti le rigide norme sull’innalzamento della soglia relativa all’età pensionabile a 67 anni, a partire dal 2019, in adeguamento automatico (previsto dalla riforma previdenziale, legge Fornero) all’aspettativa di vita, pertanto non più a 66 anni e 7 mesi, com’è attualmente. Secondo gli ultimi dati Istat, l’aspettativa di vita, a 67 anni, si allunga di 5 mesi, arrivando a 20,7 anni.
Già a luglio scorso, Cesare Damiano e Maurizio Sacconi, rispettivamente presidenti della Commissione Lavoro di Camera e Senato, avevano indetto una conferenza stampa congiunta dichiarando che innalzare la soglia dell’età pensionabile sarebbe stato a dir poco iniquo. Ovviamente avevano immediatamente fatto coro i sindacati. Ne è scaturita una vertenza non semplice da affrontare:
da una parte ci sono le ragioni del Governo che si trova continuamente a fare i conti con un debito pubblico che crea urti come cortocircuiti con le esigenze delle riforme strutturali, del quale lo Stato ha un gran bisogno, e poi con un piano di spesa legato a doppio filo proprio allo stato dei conti pubblici.
E dall’altra ci sono le rappresentanze sindacali che difendono i lavoratori, stanchi di aspettare il meritato riposo dopo una vita durissima di lavoro.
Non è facile rassegnarsi, e vedersi spostare l’asticella sempre più in alto non può che creare disappunto. La vita non cambia di molto, e i sacrifici richiesti sono ritenuti davvero eccessivi. L’alternativa è l’uscita anticipata, ma c’è dietro un tale ginepraio di ostacoli, disorientamento e costi non indifferenti per l’accesso all’anticipo pensionistico, da scoraggiare seriamente chi si accinge a inoltrare richiesta.
Intanto, per ora, si è ottenuto il blocco dell’aumento dell’età di pensione, che sarebbe dovuto partire dal 2019, per 15 categorie di lavori ritenuti ‘gravosi’: 11 già individuate da Ape social, nelle quali rientrano, infermieri turnisti, macchinisti, edili e maestre; le altre 4 che interessano lavoratori siderurgici, agricoli, pescatori e marittimi.
E’ la proposta del Governo presentata al tavolo tecnico, nell’incontro con i sindacati a Palazzo Chigi. Il numero di lavoratori che rientrano in queste categorie dovrebbero essere 20 mila, e rappresenterebbero il 10% circa dei pensionamenti previsti per il 2019.
Il tema scottante dell’adeguamento automatico alle aspettative di vita, è stato anche oggetto di discussione in sede di Commissione Bilancio (di Camera e Senato sulla legge di Bilancio). Sia la Corte dei Conti che la Banca d’Italia, si sono espresse a favore dell’esigenza di non modificare le riforme al riguardo, è un momento delicato, sostengono, e non si possono fare passi indietro. Ha fatto eco Tito Boeri, Presidente Inps, che non concorda sullo stop dell’aumento relativo all’età pensionabile.
“Al massimo – ha dichiarato – meglio procedere con ‘adeguamenti annuali’.”
Il Governo indica requisiti precisi, tra i quali sono fondamentali il raggiungimento dei 36 anni di contributi, e avere svolto attività considerate ‘gravose’ per almeno 6 anni, in modo continuativo nel volgere degli ultimi 7.
E tuttavia, nel corso dell’incontro a Palazzo Chigi, il Governo si è reso disponibile ad aprire un confronto più ampio e aperto. In termini di blocco dell’età pensionabile, secondo gli intendimenti del Governo, si può cedere sull’adeguamento dell’età di vecchiaia, non per quel che concerne gli scatti sull’anzianità contributiva.
Nella proposta del Governo c’è anche una Commissione formata da Istat, Inps e Inail, oltre ai ministeri della Salute, del Lavoro e dell’Economia, e rappresentanze sindacali, affinché un adeguato studio scientifico porti il migliore risultato, secondo le differenze legate alle aspettative di vita, e sulla base dell’attività lavorativa svolta.
I sindacati, tuttavia, non si ritengono soddisfatti e non esultano. “Non è sufficiente – dichiara Domenico Proietti della Uil – la proposta del governo di bloccare l’età pensionabile.”
Gli altri rappresentanti sono sulla stessa linea, si spera che, finché il tavolo della trattativa è aperto, ci siano ragioni per arrivare ad un accordo più vicino alle esigenze dei lavoratori.
Nel tavolo tecnico in cui si sono confrontati Governo e sindacati, lunedì e martedì, c’erano appunto le questioni irrisolte riguardanti l’aspettativa di vita, la previdenza complementare e il Fis (Fondi d’integrazione salariale).
Questi fondi di solidarietà rimandano al decreto lgs del 14 settembre 2015, n.148, sono disciplinati dagli articoli 26 e seguenti, e sono mezzi di sostegno al reddito qualora si verifichino casi di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa. Interessano lavoratori dipendenti di imprese facenti parte di settori non tutelati dalla normativa in materia d’integrazione salariale.
Vi sono fondi addetti all’erogazione di prestazioni integrative, complementari a quelle pubbliche, nel caso in cui si verifichi la conclusione di un rapporto di lavoro, e per questo sono anche definite ‘prestazioni emergenziali’. I fondi svolgono anche altre funzioni di assistenza in questo ambito.
Nel corso dell’incontro col Governo, i sindacati hanno chiesto d’inserire nella vertenza i punti principali della cosiddetta ‘Fase due’, soprattutto quelli concernenti la pensione dei giovani e delle donne, ma non c’è ancora un’intesa su questi aspetti della trattativa, ci sono state anzi delle riserve al riguardo.
Oggi, 9 novembre, si discuterà ancora tra sindacati e Governo, che ha lanciato la sua proposta in merito, e molti nodi saranno comunque sciolti il 13 novembre prossimo, allorché si terrà il vertice decisivo, al quale parteciperanno il Segretario della Cgil, Cisl e Uil, e rappresentanti dell’esecutivo.
Sarà l’ultima occasione per conoscere i reali intenti del Governo, intanto, per ora, c’è stata un’intesa sullo stop all’aumento a 67 anni dell’età pensionabile a partire dal 2019, per 15 categorie di lavori gravosi, ed è già una conquista, si prende atto che le scelte del governo (sulla base di riforme già approvate), non sono rigide ma flessibili, a fare la differenza, come sempre, è il confronto e il dialogo.

DOMANI INAUGURAZIONE DEL LOUVRE DI ABU DHABI, PRESENTE EMMANUEL MACRON

DI VIRGINIA MURRU
 Immaginare un altro Louvre non è semplicissimo, anche per chi sa viaggiare con il pensiero ad alta velocità, ma constatare che un museo ‘gemello’ della grande parata parigina, è sorto ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi, lascia veramente poco spazio alle parole, figuriamoci alla retorica.
E’ stato realizzato davvero, però, se ne parla ormai da anni. L’enorme edificio si apre a perdita d’occhio sull’isola di Saadyat, già definita l’isola della Cultura, poiché si ergono altre strutture espositive, edifici dedicati esclusivamente all’Arte e alla Cultura.
Il “Louvre di Abu Dhabi”, prima di essere progettato e realizzato, ha percorso vie diplomatiche e politiche, che hanno portato, nel 2007, alla firma di un accordo tra Francia ed Emirati. L’accordo avrà la durata di 30 anni, e non è a titolo di concessione, vale un miliardo di euro. Vi sono poi clausole vincolanti per gli Emirati: la Francia ha chiesto che siano le autorità museali francesi a gestire il nuovo museo, a controllare le competenze del personale che sarà impiegato, l’assistenza e soprattutto le opere in prestito provenienti da 13 strutture espositive francesi.
Sono state già spedite, alla volta della nuova ‘succursale’ del Louvre, 300 opere (in prestito), mentre circa 600 faranno parte della collezione permanente. Intanto alcune centinaia sono già pronte per l’inaugurazione ufficiale, che si terrà l’11 novembre prossimo, ma sono previsti eventi già a partire dall’8, ossia domani, con presenze di primo piano del panorama politico dei due paesi.
Ci sarà il presidente Emmanuel Macron, in rappresentanza della Francia, e Mohammed Ben Zayed, principe ereditario degli Emirati e ministro della Difesa. Gli eventi di carattere artistico, musicale e culturale andranno avanti fino al 14 novembre.
Il Louvre di Abu Dhabi sorprende per la struttura imponente, spettacolare, e viene dall’estro di un architetto francese, Jean Nouvel, che ha inteso coniugare Arte con Arte, anche attraverso la bellezza esterna del faraonico edificio, la cui cupola ha una dimensione di 180 metri, e dall’alto si presenta come un’isola fluttuante, che emana luce propria e diventa un richiamo irresistibile.
Non un miraggio, ma un complesso architettonico che viene da un design esclusivo, studiato per erigere un ponte tra culture diverse, tra atmosfere surreali che rendono l’Arte Universale. Il rimando è anche alla cultura araba, oltre a quella Occidentale, e il Mediterraneo diventa pertanto un semplice spartiacque, qual è sempre stato del resto, tra culture lontane. Nella grande cupola sono state incastonate 8 mila stelle in metallo, e non a caso, perché riflettono naturalmente la luce e creano effetti policromi veramente suggestivi.
Il Louvre d’Oriente non viene dalla lampada magica di Aladino, ha un costo vicino ad 1 miliardo di euro, ed è frutto della lungimiranza dei paesi arabi, ai quali tanto dobbiamo in termini di Scienza e Cultura. La vocazione all’Arte di questi paesi non si è smarrita nei secoli, forse per ragioni storiche e sociali ha subito una stasi, dovuta in gran parte alla mancanza di mezzi finanziari, ma a partire dal novecento la riscossa del petrolio ha rimesso in moto il desiderio di rivolgere alla Cultura le dovute attenzioni.
Il Museo esporrà, anche con il contributo del Louvre di Parigi (300 opere), importanti opere d’arte e reperti, si andrà dai prestigiosi ‘pezzi’ preistorici alle opere d’arte contemporanea, che abbracciano la Cultura e la Civiltà Umana nelle sue fasi più essenziali di progresso e di crescita.
Nel perimetro espositivo del Museo, che sembra galleggiare sull’acqua, ci sono 23 gallerie permanenti, dove, come si è accennato, il percorso artistico delle opere rifletterà l’evoluzione della civiltà umana, dalle sue origini a quella contemporanea, anche se lo spazio che occuperà quest’ultima sarà solo il 5% del totale.
Troveranno posto pezzi di grande pregio nell’esposizione, come un Corano risalente al VI secolo, un Testo della Torah (ebraica), giunto dallo Yemen, e una Bibbia gotica. E tantissimi altri; saranno in tutto 600 quelli provenienti dalla cultura dei paesi arabi.
L’assetto architettonico esterno è di ispirazione araba, richiama le medine, e comprende 55 edifici e una promenade sul mare.
L’isola di Saadiyat accoglie anche altre strutture destinate all’Arte e alla Cultura, alcune già inaugurate e altre da ultimare. Il Guggnheim, per esempio, è un progetto firmato da Frank Gehry, mentre lo Zayed National Museum porta quella di Norman Foster.
La lungimiranza e il desiderio di spezzare le barriere culturali, che non di rado creano urti nei rapporti tra i popoli, viene dal ministro del Turismo e della Cultura di Abu Dhabi, Mohamed Khalifa Al Moubarak, aperto alle diversità e al rispetto di ogni cultura, nella stessa linea di vedute del principe ereditario dell’Arabia Saudita, Mohammed Bin Salman.
Potrebbe essere considerato normale per noi dell’Occidente, non lo è per queste civiltà chiuse, che stentano a trovare la chiave di un’alleanza basata sulla tolleranza, soprattutto in ambito religioso.
Un vecchio adagio dice che ‘la Cultura è l’unico bene dell’Umanità che diviso tra tutti, anziché diminuire aumenta sempre di più’: è forse questa consapevolezza che manca in piena epoca di globalizzazione. Ci sono tuttavia queste persone illuminate nei regni dell’Islam a fare la differenza, le quali stanno portando avanti riforme e iniziative che cambieranno i ‘connotati’ del nostro tempo. Non si torna indietro: si tratta delle prime pietre miliari di un cambiamento storico già in atto.
E’ il miracolo del dio petrolio e del dio denaro? Certamente stanno dando una buona mano. Le grandi, colossali opere sorte in Arabia e negli Emirati, e non solo, vengono dalla miniera di risorse che il petrolio ha contribuito a creare. Non sarebbero state altrimenti possibili. Inutile negarlo.
Come sostiene l’ex ministro della Cultura francese, Jack Lang, in primo piano nella supervisione del Louvre di Abu Dhabi:
“il Museo degli Emirati è più Universale di quello di Parigi, paradossalmente, perché è il simbolo, il trait-d’union di culture diverse”.
Nel complesso della struttura sono previste mostre anche per il mondo dell’infanzia, vi sono sale per ogni esigenza, per meeting di carattere culturale, convegni; e poi ristoranti e ogni locale commerciale utile ai visitatori.
L’atrio del Louvre di Abu Dhabi è una direzione di segnali che indicano ai visitatori del museo i temi delle gallerie, le quali sono sia tematiche che cronologiche, quanto a datazione. Si prevedono infatti opere risalenti alla civiltà dei primi imperi del Mediterraneo, e non solo. Ci sarà un’esposizione a tema religioso di carattere universale, per mantenere vivo l’impegno verso il rispetto di ogni cultura e religione.
Trattandosi di una grande struttura a stretto contatto con il mare, l’acqua è protagonista del progetto, e la si scorge alla base di questa città museo, dove è stata sfruttata per la realizzazione di piscine e altri parchi acquatici che hanno lo scopo d’intrattenere i visitatori.
L’architettura si porta dietro anni di studi, anche sul versante dei consumi, in primo piano nella stesura del progetto. Alla fine si è riusciti ad adeguare l’esigenza dei più bassi consumi energetici alle prerogative estetiche degli edifici, che sono stati resi luminosissimi attraverso la naturale infiltrazione di luce, che arriva ovunque, consentendo l’energy free per lunghe ore durante le visite.
La cupola è stata studiata e realizzata secondo le tecniche più moderne, con l’uso di materiali idonei a mantenere costanti le temperature, evitando le radiazioni solari e dunque proteggendo gli interni. Ma anche i materiali di rivestimento utilizzati per i volumi dell’edificio sono frutto di ricerche avanzate, che consentono la creazione di un microclima controllato, non dannoso per i visitatori e tanto meno per le opere esposte.

ALITALIA. I CONTATTI CON IL FONDO CERBERUS SI FANNO PIU’ STRETTI

DI VIRGINIA MURRU

L’interesse dei tre Commissari straordinari di Alitalia nei confronti del fondo di private equity Cerberus, va al di là delle offerte vincolanti presentate entro il 16 ottobre scorso. Del resto non hanno mai fatto mistero dell’inclinazione a favorire le proposte che implicassero la vendita integrale dell’ex compagnia di bandiera italiana, e non quella separata degli asset aviation e handling. Com’è noto, gli acquirenti extra europei, non potranno superare la quota del 49%, secondo una legge dell’Ue.

Luigi Gubitosi, nel ruolo di coordinatore dei commissari, è in partenza alla volta di New York con l’obiettivo d’incontrare il management del fondo Cerberus; prima però sarà presente ad Atlanta per il meeting annuale con Sky Team, dell’alleanza aerea. Rinegoziare la joint venture transatlantica, della quale fanno parte Delta e Air France-Klm, è importante, in quanto l’accordo stabilisce dei limiti per le rotte che dall’Europa raggiungono il Nord Atlantico.

Alitalia mira ad incrementare i voli verso gli Stati Uniti per la prossima stagione estiva, ma prima occorre trovare un accordo con i partner.
L’incontro a New York tra il Fondo Usa Cerberus Capital Management e Luigi Gubitosi, servirà ad approfondire i termini di un’eventuale trattativa. La volontà del fondo di rilevare l’intera compagnia sta facendo passare in secondo piano l’offerta, pure allettante, di Lufthansa, interessata all’aviation, che intenderebbe imporre comunque delle precise condizioni, in primis gli esuberi, e la ‘subalternità’ degli aeroporti di Milano. Interessata allo stesso asset ‘aviation’, c’è anche Easyjet. Di certo c’è che Cerberus conferma l’interesse verso Alitalia, e mira alla cloche di comando.

Come si sa, Cerberus figura tra i più rilevanti investitori speculativi di Wall Street. Attualmente, il Fondo americano, gestisce un patrimonio intorno ai 30 mld di dollari, dietro ai quali ci sono 150 manager espertissimi (nonché scaltri). Sono specializzati in cure drastiche di imprese che rischiano il default, si occupano del settore immobiliare, e di Npl, ossia di sofferenze bancarie. Si sono occupati anche della ristrutturazione di Air Canada. Cerberus, come il cane della mitologia, ha un fiuto infallibile, e Alitalia si presenta un buon boccone in questo momento.

In Italia è interessato ai prestiti in sofferenza, come si è accennato, attività in cui certamente è un’eccellenza. Ambisce, sempre in Italia, a rilevare i 10,3 mld di mutui e rate non riscosse delle Rev, le 4 banche italiane in default (Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Cariferrara), finite in amministrazione straordinaria. Ma avendo vista acuta ha già puntato la mira verso le sofferenze di Intesa Sanpaolo, Carige e Bpm.

Dopo la manifestazione d’interesse presentata nei confronti della compagnia italiana, Cerberus è rimasta a osservare ‘da lontano’, in una sorta di stand by, dato che, secondo le dichiarazioni dei vertici, ‘le condizioni erano troppo restrittive’.
L’interesse dei Commissari verso il fondo americano, potrebbe celare l’intento strategico di rilanciare il tavolo negoziale anche nei confronti delle compagnie che hanno presentato un’offerta vincolante, come le due maggiori interessate al lotto aviation, ossia Lufthansa e Easy-Jet.

Tirando di più la corda si potrebbero strappare condizioni più vantaggiose qualora il confronto riprendesse con entrambe. Intanto non c’è tanta fretta, fino al 30 aprile tante cose potrebbero cambiare in questi scenari che si stanno delineando sul versante della cessione di Alitalia, i negoziati sono aperti comunque, il governo ha autorizzato ancora diversi mesi per le trattative, affinché non si decida senza valutare al meglio le condizioni di vendita, questa volta.

Gli interventi volti a ridurre al minimo i costi hanno espresso buoni risultati, e infatti in cassa ci sono ancora 850 milioni, ben poco si è attinto dal prestito di 600 milioni + 300 (prestito ponte), concesso dal governo, da restituire entro settembre del prossimo anno.

Intanto, il Chief Communications Officer di Cerberus, Jason Ghassemi, ha confidato al Sole 24 Ore:

“Noi puntiamo a svolgere un ruolo costruttivo, collaborando col governo italiano e i sindacati, affinché si creino le premesse per un’intesa a lungo termine, affinché Alitalia resti integra, più competitiva e indipendente. Noi siamo convinti che debba restare la compagnia aerea nazionale italiana.
L’obiettivo di Cerberus è il controllo della compagnia italiana, non mira a partecipazioni di minoranza.”

IL SINDACALISTA È UN CRIMINALE DA ARRESTARE

DI PIERLUIGI PENNATI

Perlomeno questa sembra la tesi che ha portato l’azienda GLS di Piacenza a denunciare tre sindacalisti del sindacato di base USB per i reati di cui agli artt. 56, 110, 629 del Codice Penale, vale a dire tentativo di estorsione in concorso tra di loro, come si legge nell’invito ad apparire per un interrogatorio della Procura delle Repubblica, “al fine di conseguire un ingiusto profitto patrimoniale, quali rappresentanti della sigla sindacale USB, nonostante fossero in corso trattative con funzionari della società General Logistic System Entrerprise S.r.l. aventi oggetto richieste di assunzione di personale precedentemente dipendente della Cooperativa Falco, mettevano in atto azioni di sciopero incidenti sulla regolare attività lavorativa non riuscendo comunque nel loro intento per la resistenza della società”.

L’azienda ed il luogo sono gli stessi dove un anno fa veniva ucciso, schiacciato da un TIR, durante un picchetto l’attivista sindacale Abd El Salam, la vertenza ancora una volta per la stabilizzazione di lavoratori precari che attraverso il sistema dei subappalti vengono vessati, sfruttati e sottopagati per contenere i costi senza la minima considerazione per la sicurezza e la dignità dei lavoratori, costretti ad accettare condizioni sempre più difficili per poter continuare a lavorare.

Una vertenza come ormai ce ne sono tante in Italia e tutte con le stesse ragioni di fondo: la lotta alla precarietà ed alla negazione dei diritti della persona sul posto di lavoro, situazione ormai diventata insopportabile in molti ambienti, soprattutto quelli della logistica e dei lavori dove la componente umana è la parte principale, come quelli di fatica e manutenzione.

Per contrastare la situazione e sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema della dignità e dei diritti del  lavoro negati, il sindacato USB ha proclamato da tempo uno sciopero generale per venerdì 10 novembre ed una manifestazione nazionale per sabato 11 novembre, ma questo atto di denuncia di un’azienda nei confronti di sindacalisti scesi in campo non per interesse personale, ma per difendere i diritti degli iscritti è davvero sconcertante ed inaudito.

In una nazione moderna e civile, un simile atto dovrebbe essere deriso ed abbandonato tramite archiviazione, al contrario una magistratura sempre zelante in queste occasioni prende molto sul serio una denuncia di estorsione per aver organizzato uno sciopero ed un picchetto che avrebbero inciso “sulla regolare attività lavorativa” dell’azienda, elemento che pare oggi più importante e considerato persino della vita umana.

Contro l’azienda che vessa e sfrutta i lavoratori nulla.

Già, nulla si può fare legalmente contro chi, per il profitto, comprime diritti e libertà delle persone abusando dello stato di necessità ormai generale, mentre, al contrario, chi tenta di difendere i diritti negati della persona e del lavoro è oggi diventato un criminale da perseguire.

I tre sindacalisti, M.R., R.Z. e I.A., saranno quindi sentiti il 15 novembre da un magistrato che spero voglia non solo archiviare il procedimento nei confronti dei funzionari, ma avviare una procedura di verifica per il comportamento di una azienda che, facendo perdere tempo e denaro all’apparato dello stato, denuncia senza ragione e fondamento apparente tre persone la cui grave colpa è solo quella di cercare di ripristinare un equilibrio di civiltà nel nostro paese.

Se lo sciopero non incidesse “sulla regolare attività lavorativa” delle aziende non sarebbe uno sciopero e se oggi scioperare non è più nemmeno un diritto, come indicato nell’articolo 40 della nostra costituzione, perché “le leggi che lo regolamentano” sono diventate così restrittive da impedirne l’esercizio, dovremmo almeno combattere affinché perlomeno non diventi un reato, come sembra essere nelle intenzioni della GLS di Piacenza ed al vaglio delle indagini dei magistrati.

Forza M.R., R.Z. e I.A., una vostra incriminazione sarebbe davvero uno scandalo e spero sarete scagionati in fretta: confido nella giustizia quando sa essere umana, di una giustizia disumana non so che farmene.

UNA SCELTA DI PRUDENZA LA NOMINA DI JEROME POWELL AL TIMONE DELLA FED

DI VIRGINIA MURRU
La Federal Reserve System ha un nuovo Governatore, Jerome Powell, fresco di nomina (2 novembre), in seguito all’investitura da parte di del Presidente Donald Trump, ora si attende la conferma del Senato.
Era nell’aria che Janet Yellen sarebbe finita fuori scacchiera, l’ha spuntata Powell, che ha sostenuto la sua politica monetaria e la prudenza nella gestione dei tassi, contrariamente ai criteri dinamici dell’altro candidato, John Taylor, che ha sempre ritenuto troppo ‘legata’ la monetary policy della Fed.
Taylor è un accademico molto noto negli ambienti finanziari di tutto il mondo, ma non ha offerto garanzie e idoneità che corrispondessero alle esigenze del momento.
Il nuovo Presidente, già nominato alla Banca Centrale Americana da Obama nel 2012, sostituirà dunque Janet Yellen il prossimo febbraio, data di scadenza del mandato. Trump gli ha dato la fiducia perché lo ritiene ‘intelligente e talentuoso’, in grado di guidare la Fed e le sfide che attendono l’economia Usa nei prossimi anni.
Vicino alle scelte della Yellen, certamente, ma Powell non concorda  sulla questione della ‘deregulation’ finanziaria. Janet Yellen ha sempre messo le mani avanti, sostenendo che la regolamentazione imposta da Barak Obama, tramite le riforme di Wall Street nel 2010, è una garanzia per la stabilità.
L’abolizione delle riforme era però uno dei bersagli di Donald Trump, e infatti alcuni mesi fa, molte delle restrizioni volute dall’ex presidente Usa, sono state eliminate. Ne consegue che soprattutto i grandi istituti di credito saranno meno sottoposti a controlli, avranno così meno pastoie ai piedi. Bank of America, infatti, insieme a Goldman Sachs, a giugno scorso avevano esultato, e non erano le sole. Era in atto una grande crociata dell’alta finanza per agire più liberamente nei loro circuiti.
Yellen ha espresso in più circostanze il dissenso sulla deregulation – che ritiene poco meno di una deriva – anche nel corso del meeting dei banchieri centrali che si è svolto alcuni mesi fa a Jackson Hole, in Wyoming:
“non c’è abbastanza solidità per andare incontro al rischio, non si può essere certi, né escludere altre crisi, in ogni caso le emergenze alle quali ci ha obbligati l’ultima, quella del 2008, dovrebbe essere sufficiente per indurci alla prudenza e alla riflessione, la regolamentazione non si dovrebbe sfiorare..”
Ma negli intendimenti del presidente Usa c’è una Wall Street con poche regole.
Il contrario della politica di regolamentazione in atto in Cina, dove invece, memori delle pessime esperienze nei mercati lo scorso anno, l’establishment sta mettendo in atto una serie di riforme proprio per regolamentarli, insieme al comparto bancario. Anche Mario Draghi, in sintonia con la Yellen, ha messo in guardia Donald Trump dalla deregulation.
Powell è più aperto su alcune misure di controllo, ritiene inoltre che sia venuto il momento di esercitare meno pressioni sugli stress test ai quali la Fed sottopone le banche regolarmente.
Tra le dichiarazioni di Donald Trump, in merito al cambio di guardia alla Banca Centrale, ci sono anche i dovuti riconoscimenti per l’attività svolta dal Presidente uscente:
“Janet Yellen ha svolto un fantastico ruolo all’interno della Fed, i risultati le danno ragione, dato che gli Usa hanno superato la crisi finanziaria, e fatto notevoli passi avanti. C’è più solidità, anche rispetto agli anni che hanno preceduto la grande crisi del 2008.”
Powell è considerato un emblema della continuità, un investimento sul futuro, una sorta di ‘colomba’, in contrapposizione a John Taylor, visto come un falco, per via delle sue strategie finanziarie, non propriamente rivolte alla ponderazione.
Il nuovo inquilino della Fed, originario di Washington, con laurea in Scienze Politiche e in Giurisprudenza, milita nelle fila dei repubblicani moderati, ha 64 anni, e, come si è detto, è già nel board della Fed.
Non ha un dottorato di ricerca in Economia, e questo è forse il solo punto a suo sfavore, visto che gli altri che lo hanno preceduto avevano questo percorso di studi nel loro background. Il nuovo Governatore ha comunque ottime credenziali alle spalle, oltre all’attività di legale, ha fatto parte del gruppo Carlyle (dal 1997 al 2005), uno dei più importanti Fondi d’investimento a livello mondiale. Ha svolto funzioni di sottosegretario al Tesoro durante il mandato di Bush (padre).
E’ in fin dei conti un moderato, e di questi tempi sembra ce ne sia un gran bisogno, i mercati ieri hanno apprezzato la nomina, e ‘ringraziato’ con indici positivi un po’ ovunque.
La riconferma di Powell da parte del Senato non sarà un’incognita, dato che la candidatura era piuttosto gradita ai suoi membri.
Powell rappresenta la continuità della politica monetaria della Federal Reserve, con lui al timone si proseguirà con gli interventi di rialzo (graduale) dei tassi, senza trascurare la riduzione del bilancio, già in corso dal mese di ottobre.

FRATELLI D’ITALIA IN AFFITTO A 13 EURO AL MESE

DI PIERLUIGI PENNATI

«La concessione è scaduta dal 1972, non pagavano l’affitto», questo quanto annunciato su Facebook da Virginia Raggi dopo che, qualche ora prima, verso le 5 del mattino di sabato scorso, i vigili urbani avevano cambiato la serratura e messo i sigilli alla storica sede del Movimento sociale di Colle Oppio.

Il locale, secondo il comune occupato oggi abusivamente da Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, sarebbe angusto e poco più di un magazzino senza finestre, più un luogo simbolico per il movimento che una vera sede e per il quale, nonostante il contratto scaduto da 45 anni, veniva comunque autonomamente versato nelle casse comunali un canone mensile di 13 euro al mese.

In una corrispondenza di qualche tempo fa con il comune di Roma, si stimava in 990 euro la cifra idonea per la sottoscrizione di un nuovo contratto, ma Fratelli d’Italia, facendo notare la situazione di degrado dell’immobile, l’aveva contestata proponendo al suo posto un massimo di 250 euro.

I dirigenti di Fratelli d’Italia Federico Mollicone, Marco Marsilio, Andrea De Priamo e Massimo Milani, che si erano riuniti in protesta davanti alla storica sede del Movimento Sociale dopo la scoperta dei sigilli, hanno esibito i bollettini dei canoni versati e lamentato la mancata risposta del Comune, per loro non sarebbe un caso se la Raggi «tra tutte le occupazioni presenti a Roma, proprio qualche giorno prima delle elezioni di Ostia, dove la sua candidata sta perdendo, manda i vigili urbani nella sede di Fratelli d’Italia. Avrebbe potuto farlo tre mesi prima o tre mesi dopo, invece ha scelto il periodo elettorale».

«Denunciamo Virginia Raggi per diffamazione e abuso di ufficio. Se abbiamo resistito alle bombe e alle Brigate rosse, resisteremo anche a questi cialtroni», hanno affermato, ma, su Facebook, Rosalba Castiglione, assessore al Bilancio M5S, difende il provvedimento: «Siamo determinati ad andare avanti per porre fine allo scempio gestionale di cui il patrimonio immobiliare romano è stato vittima. Una situazione incancrenita che, come questo caso testimonia, affonda le sue radici anche in  tempi altro che recenti. La strada è lunga, ma siamo decisi ad andare fino in fondo per ridare dignità e trasparenza all’utilizzo della proprietà pubblica dei cittadini romani».

Anche Giorgia Meloni usa Facebook per rispondere e pensando ad una manovra di propaganda della sindaca di Roma, scrive: «Chi, a differenza di Virginia Raggi, conosce Roma e il parco del Colle Oppio sa bene che quei locali sono dei semplici ruderi, senza alcuna possibilità di utilizzo a uso commerciale o abitativo e che la presenza della sezione è l’unico argine a un desolante degrado fatto di sporcizia, violenza e criminalità che affligge tutta la zona. Problemi seri e reali come quelli che vive gran parte di Roma e che il Movimento 5 Stelle non è in grado di affrontare».

Anche Fabio Rampelli, capogruppo FdI alla Camera, scende in campo, affermando che questa particolare sede avrebbe una valenza storica cittadina e non solo per la destra, dato che proprio qui si svolse una importante iniziativa anti razzista alla quale partecipò anche monsignor Di Liegro e che a questi luoghi sono legati alcuni dei giovani di destra uccisi negli anni di piombo, come Paolo Di Nella e Stefano Recchioni.

Contro la Raggi parole durissime: «ora gli uomini liberi scendano in campo per fermare il sindaco più cialtrone che abbia mai avuto Roma. Colpire la sede simbolo della destra italiana, a quattro giorni dal voto, è un atto di violenza inqualificabile che meriterebbe l’interdizione per incapacità e malafede. Nessuno lo avrebbe mai fatto, segno evidente che sta alla canna del gas».

Quindi per il comune FdI occuperebbe praticamente in modo clandestino la storica sede da ben 45 anni, mentre per Federico Mollicone, presidente del circolo di FdI-AN Istria e Dalmazia di Colle Oppio, «La sindaca Raggi non sa neppure comunicare con i suoi uffici. La morosità per la locazione dei locali di via Terme di Traiano, una sede strappata all’incuria da un manipolo di esuli giuliano dalmati nel 1946 quando era solo un rudere e sempre rimasta una bandiera per tutta la destra italiana, non esiste e siamo anzi nella fase di sottoscrizione di un nuovo contratto, come richiesto ufficialmente con lettera senza risposta mesi fa».

«Si colpisce la storica sede di Colle oppio», continua, «luogo di aggregazione sociale e culturale che ha visto la presenza di tanti avversari rispettosi e personalità di altissimo profilo, su tutti il compianto direttore della Caritas Monsignor Lui Di Liegro, per colpire FDI AN e Giorgia Meloni, facendo un uso vergognoso e delinquenziale del potere. Si tollerano centinaia di occupazioni illegali da parte dei centri sociali, centinaia di moschee abusive e si colpisce Colle Oppio, la prima sede del MSI in Italia».

Una guerra senza esclusione di colpi, tra clandestini o pseudo tali, dove ad ogni provvedimento si trova una ragione per combattere senza per questo trovare soluzioni comuni e condivise e che valgano per tutti, se non volgiamo avere clandestini è nostro dovere uscire a nostra volta dalla clandestinità, è quindi auspicabile che la vicenda possa concludersi con un provvedimento generale e non con una soluzione “Ad hoc” come spesso accade.

NEOM, PROGETTO FARAONICO, CITTA’ DELLA SFIDA, IL FUTURO DIETRO LA PORTA

DI VIRGINIA MURRU

 

L’Arabia Saudita intende stupire il mondo accingendosi a costruire ‘la città del futuro’, impiegando avanzatissimi livelli di tecnologia, e ovviamente investendo miliardi e miliardi in questo faraonico progetto.

Ma l’aspetto finanziario per gli arabi, si sa, non costituisce un problema, le risorse sono abbondanti, del resto è il paese leader dell’Opec, e produce un terzo dell’oro nero del pianeta, esattamente 7,5 milioni di barili al giorno, dunque primo paese esportatore al mondo.

Per questo non baderanno a spese, pur di realizzare questa autentica meraviglia, che sarà alimentata con energie rinnovabili, sfruttando fonti naturali ed inesauribili: quella solare ed eolica, senza trascurare nulla, neppure la filiera alimentare, per la quale è previsto il meglio nel campo della ricerca. Ma anche uno stile di vita basato sul lusso.

Si direbbe che la ricchezza aguzzi l’ingegno, già si sapeva che muove la creatività, in questo caso è proprio così: solo uno Stato che dispone di mezzi garantiti da fonte sicura, con alti margini di profitto, come il petrolio, può fare simili azzardi. Diventa pertanto più semplice investire in prestigio internazionale e affermare il proprio spazio di potere economico e finanziario.

Gli arabi hanno dimostrato di saper sognare, e lo fanno in grande stile, anche attraverso l’ambizione e l’intraprendenza del principe saudita Mohammed Bin Salman, figlio eletto del re Salman, già designato erede al trono, e attualmente titolare del Ministero della Difesa, considerato per la verità un po’ spregiudicato, soprattutto all’estero.

L’annuncio, da parte del principe Mohammed, dell’ immenso progetto ‘Neom’, ha avuto luogo una settimana fa, il 24 ottobre, nel corso del Forum ‘Future investment initiative’, al quale hanno partecipato politici e uomini d’affari provenienti da 88 paesi del mondo. Una grande risonanza, ma tant’è: doveva fare rumore. Presente anche il ministro dell’Economia italiano, Pier Carlo Padoan.

Gli investimenti previsti per la costruzione di questo modernissimo polo industriale, saranno di circa 500 mld di euro, individuato anche il sito, tra il deserto e il Mar Rosso, in una località vicina al Golfo di Aqaba. Tanto per dare l’idea della vastità del territorio che sarà impiegato per questa gigantesca start-up, si può immaginare la più estesa regione italiana, dove ci sarà spazio per l’utilizzo delle più moderne tecniche di costruzione.

I migliori architetti, ingegneri e tecnici, avranno il compito di seguire i più innovativi e avanzati processi in ogni ambito, che prevedono peraltro l’impiego di bio-tecnologie e ogni sorta di servizio automatizzato. Standard di vita irrealizzabili nelle metropoli più moderne, anche a Ryhad, dove i magnati arabi hanno introdotto automazione e robotica ai massimi livelli. Il progetto Neom, è stato ovviamente lanciato dai media arabi ed è rimbalzato ovunque nel mondo, tramite meeting televisivi che hanno riunito i massimi esperti mondiali in campo scientifico-tecnologico-digitale. Sembra roba da fantascienza, ma è un disegno che, nel volgere di pochi anni, si concretizzerà in una città animata, viva, immensa.

Gli arabi, del resto, non amano perdersi in chiacchiere o in retorica, realizzano gli obiettivi non trascurando il fattore tempo. L’area destinata a Neom è sterminata, ossia circa 26mila km quadrati, con sistemi di collegamenti via terra ‘high speed rail’, e non da meno saranno quelli aerei, tutto insomma sarà ai limiti dell’avanguardia.

Il principe saudita mira ad attirare investitori internazionali con ingenti capitali al seguito, perché sta spalancando le porte al futuro, sta precorrendo i tempi: Neom diventerà un cantiere di proporzioni mai viste, un’arena nella quale si misurerà il meglio dell’innovazione. Ma soprattutto la libertà circolerà senza veti sulle sue strade, avrà un volto aperto alla tolleranza religiosa: si realizzeranno strutture per ogni credo.
Un’autentica sfida, un Islam in versione avveniristica che nessuno avrebbe mai creduto possibile. Il miracolo del dio denaro? Forse, anzi quasi certamente sì.

Ma Mohammed Bin Salman ha solo 31 anni, già di per sé rappresenta la staffetta generazionale che non potrà ignorare le istanze di un mondo globalizzato, non solo nel versante commerciale, ma anche in quello culturale.

Neom sarà una città all’avanguardia in ogni aspetto della vita sociale, il principe Mohammed sottolinea che il progetto è davvero proiettato nel futuro, dove il progresso che rifletterà non sarà solamente tecnologico, ma anche sociale, perché è rivolto ad una società ‘emancipata’, in grado di gestire se stessa, e dunque pronta a confrontarsi con le più avanzate dell’Occidente.

Il principe, infatti, ha già rivolto la sua attenzione alla società dell’Arabia Saudita, alle donne in particolare, dimostrando che è possibile andare oltre il radicalismo dell’Islam, e cominciare ad allontanarsi dal rigore che impone in termini di diritti umani. Un segnale eloquente, un chiaro tentativo di modernizzare proprio sul piano sociale la nazione araba. E dopo la concessione della libertà di guida alle donne, ora arriva il permesso di frequentare i luoghi dello sport, come gli stadi, la libertà di organizzare concerti.. Una rivoluzione silenziosa?

Cose dell’altro mondo per gli arabi.. Domanda: ‘come mai gli ‘Imam’ (Sunniti) non si rivoltano alle ‘follie’ del principe saudita?’ – Risposta: perché la società è pronta per il cambiamento, e non si possono mettere in eterno le catene al denaro.. Solo pochi anni fa, riforme di questo tipo, sarebbero state comunque inconcepibili.

E’ un importantissimo, epocale, processo di cambiamento in atto che il principe intende portare avanti, una rivoluzione quasi silenziosa, che paradossalmente non viene dal popolo, ma per iniziativa di chi lo governa. Una sorta di governo ‘illuminato’, che trasformerà radicalmente l’assetto interno dell’Arabia Saudita, tra i più conservatori Paesi islamici.

Una seconda ‘primavera’ araba, che cambierà volto e immagine della nazione, soprattutto sul piano internazionale. Il giovane principe ha già intuito che, senza rivolgimenti interni, senza il coraggio di voltare pagina, non si può essere veramente credibili. Per questo vuole emancipare la società ed eliminare in modo graduale, i veti che impediscono alle donne l’integrazione: solo con un grado di evoluzione sociale veramente significativa ci si può confrontare.

Neom, la città del futuro, secondo gli intendimenti del principe, avrà una società ‘modello’, dove al progresso più avanzato corrisponderà una società in grado di gestire tutto questo, e l’impiego delle donne in ogni settore, è fondamentale perché si possa definire città moderna. Sarà una zona franca, con l’adozione di particolari franchigie fiscali, crocevia di tre Paesi, tramite un grande ponte che collegherà Neom all’Egitto, e quindi alla Giordania. E non solo, perché diventerà un hub all’avanguardia sul versante economico e finanziario per tre continenti, Africa, Asia, Europa.

Il principe Mohammed Bin Salman potrebbe diventare l’Ataturk dell’Arabia, certamente si preserveranno i principi religiosi più cari all’Islam, ma il cambiamento in atto non si potrà più fermare.

Il principe ereditario è anche al timone di Vision 2030, altro progetto ambizioso a lungo termine, dietro il quale c’è una serie di riforme strutturali, tra gli obiettivi anche lo svincolo per affrancarsi dalla dipendenza dal petrolio.

Si vuole non solo riformare, ma anche rendere più dinamica l’amministrazione statale e l’economia del Paese, passando attraverso la privatizzazione di tanti settori dell’economia, e non solo. Si punta all’inclusione sociale delle donne, ‘allargando’ il mercato del lavoro; l’attenzione ai giovani sarà massima. S’intende incoraggiare gli investimenti e l’iniziativa privata, puntare ad aprire nuovi fronti nell’ambito delle scienze tecnologiche e digitali, della produzione industriale, diversificandola, innovandola anche sul piano digitale: una sorta di Industria A 4 pronta a qualunque sfida.

Il principe ha anche un altro obiettivo colossale, una vera ‘challenge’: ossia quotare in Borsa una parte di Saudi Aramco, ora a capitale pubblico, una società simile alla nostra ‘Eni’ di alcuni decenni fa, che riunisce nella sua gestione i giacimenti più produttivi al mondo. Mohammed Bin Salman conta di realizzare questo obiettivo nel 2018, creando le premesse per l’Ipo più importante mai transitato nei mercati finanziari.
Il principe pensa di quotare il 5% di Aramco, e di realizzare così 100 mld di dollari da investire tramite un fondo sovrano nel faraonico progetto ‘Vision 2030’.

Ci sarà posto solo per gli investitori e società che hanno il meglio da proporre in termini d’innovazione, in tutti i settori. Nel versante italiano, ci sono alcune grandi imprese favorite, come il gruppo Salini Impregilo, che gode già della fiducia di Ryadh da decenni, per avere realizzato importanti impianti idraulici in alcuni centri, e la Linea 3 della Metro.

Il gruppo Salini opererà nei cantieri di Neom in collaborazione con Ansaldo, ma ci sarà anche il prestigioso gruppo Italferr-Ferrovie dello Stato Italiane, società d’ingegneria, che si occuperà della supervisione tecnica della metro. Molti aspetti tuttavia sono ancora da definire, le opportunità non mancheranno, è necessario essere competitivi e pronti a coglierle.

IGNAZIO VISCO. LA RICONFERMA DEL MANDATO E L’AUDIZIONE ALLA COMMISSIONE BANCHE

DI VIRGINIA MURRU

E’ arrivata nei giorni scorsi la fumata bianca del Consiglio dei Ministri per la riconferma dell’incarico di Ignazio Visco a Governatore di Bankitalia, il cui primo mandato è in scadenza il 31 ottobre.

Nonostante l’’ostruzionismo’ esercitato dall’ex premier Matteo Renzi, e i quattro ministri assenti alla riunione di Governo, il Consiglio ha approvato la delibera all’unanimità, riproponendo, tra uno sciame di polemiche, il Governatore uscente.

Si è trattato di una ‘seduta lampo’, durata una ventina di minuti.
Ma i rumors, in questo gioco di veti incrociati, non sono mancati, la riconferma di Visco si è portata dietro un’autentica bufera, la scadenza del mandato peraltro coincide con le imminenti prossime elezioni politiche, non c’era molto tempo per il Governo, si è trattato in primis di considerazioni che mettono al centro la ‘continuità per garantire la stabilità’, in un momento in cui il premier Paolo Gentiloni, è impegnato su diversi fronti, non ultimo i rapporti con le Istituzioni europee, che hanno già chiesto spiegazioni sulla Legge di bilancio 2018.

E poi c’è il giro di boa che attende l’esecutivo con la scadenza della legislatura, ormai alle porte, il clima di campagna elettorale è già iniziato, fervono ‘i preparativi’ per il cambio di guardia a Palazzo Chigi, e ovviamente del Parlamento.
Non c’erano poi molti candidati che presentassero credenziali migliori di Ignazio Visco per ricoprire un ruolo certamente prestigioso, ma piuttosto delicato, ed esposto a tutti i venti della polemica in ambito politico.

Renzi proprio aveva ‘in uggia’ il Governatore, e non ne ha fatto mistero, ha espresso in modo chiaro la sua posizione e le riserve sulla riconferma alla guida di Palazzo Koch.
Alla riunione del Cdm, che doveva esprimersi sulla ricandidatura di Visco, mancava, e non a caso, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi, oltre al ministro della Salute Beatrice Lorenzin, alle Politiche Agricole Maurizio Martina, allo Sport Luca Lotti. Un drappello che, con motivazioni varie, ha giustificato la sua assenza nella particolare circostanza.

Dopo la delibera del Governo, sul candidato idoneo a diventare il prossimo Governatore della Banca d’italia, i dubbi sulla riconferma di Visco sono stati praticamente spazzati via. C’era anche il parere favorevole del Consiglio Superiore della Banca d’Italia, a questo punto Renzi stesso ha capito di non avere alcuna chance sul veto alla nomina, sarebbe stato del resto come giocare con i mulini a vento.

Gentiloni ha esitato a lungo prima di risolversi ad esprimere parere favorevole, ha certamente ascoltato le ragioni di Renzi e dei ministri che hanno optato per una defezione celata da impegni vari, ma poi ha scelto la linea del buon senso. Sull’assenza dei 4 ministri è arrivata puntuale la disapprovazione di Franceschini, Roberta Pinotti, Marco Minniti, Andrea Orlando.

Disappunto seguito al vespaio di reazioni suscitate dalla mozione parlamentare, dove Matteo Renzi non si è esposto, ma la fonte era evidente, visto che esprimeva riserve sull’operato di Visco, sul modo in cui ha gestito le emergenze del sistema bancario, che Renzi, in più di un’occasione, ha definito “gestione disastrosa”.

Chi forse non ha dubitato sulla riconferma del Governatore di Bankitalia, è Mario Draghi, Presidente in carica della Bce, e sponsor convinto di Visco. Sembrava chiaro già il 31 maggio scorso, quando, nel corso della lettura delle ‘Considerazioni finali’ (da parte di Visco), Draghi era seduto in prima fila a Palazzo Coch, tra Mario Monti e Rosy Bindi; non lo si era più visto circolare in Via Nazionale, da quando aveva lasciato la Banca d’italia per la presidenza dell’Eurotower.

In quelle considerazioni finali, del resto c’erano temi scottanti, come i dossier sulle banche venete, il dialogo difficile con le istituzioni europee, Monte dei Paschi di Siena da salvare con intervento pubblico, la Commissione parlamentare d’inchiesta sul credito, il settore bancario in crisi, nonostante Ignazio Visco si ostinasse a definirlo ‘solido’.

I giudizi poco lusinghieri su Visco sono stati tanti, non è stata denigratoria solo la critica mossagli dall’ex premier Renzi, anche Vittorio Feltri è stato drastico e irriverente: ‘Visco piace ai politici perché è un inetto..’

E’ indubbio che una nebbia fitta abbia circondato il comparto bancario italiano, uno dei più colpiti dalla crisi in ambito europeo. Bankitalia non è stata immune da critiche negli ultimi anni, i politici hanno espresso sospetti soprattutto sulla vigilanza che la Banca Centrale avrebbe dovuto esercitare nei confronti degli istituti che sono finiti in default.

Non sono esattamente cieli tersi quelli che attendono Ignazio Visco; tra alcune settimane dovrà affrontare la Commissione d’inchiesta sulle banche, gli esponenti politici che ne fanno parte gli chiederanno conto del suo operato negli ultimi anni, in particolare del ruolo che ha avuto nel crack delle banche venete, di Monte dei Paschi..

Di certo, per ora, c’è che Ignazio Visco, economista, ricoprirà il ruolo di Governatore di Bankitalia per altri 6 anni, era in carica dal 1° novembre del 2011.
Con il decreto di nomina firmato dal Presidente Sergio Mattarella, il rinnovo dell’incarico a Visco è ormai ufficiale. Lo aspettano impegni ‘roventi’, Bankitalia dovrà mostrarsi più convincente davanti al mondo politico, risolvere l’annoso problema dei Npl, emergenza tutt’altro che alle spalle, e il Fondo speculativo americano Cerberus, lo sa bene.

Bankitalia ha sempre rassicurato al riguardo, ma ora ci saranno più obiettivi puntati su Palazzo Koch, e se tutti i mali non vengono per nuocere, scuoterne le fondamenta, con qualche benevolo siluro, non sarà stato propriamente un male, se servirà a portare maggiore efficienza e ad esercitare una più accorta vigilanza sugli istituti di credito. Ignazio Visco, naturalmente, difenderà nelle sedi opportune i suoi 6 anni di mandato, portando davanti alla Commissione banche, quando sarà chiesta la sua audizione, tutta la documentazione necessaria.

Non mancherà di sottolineare i meriti, la riforma delle Popolari, per esempio, scritta proprio tra le mura di Palazzo Koch, oltre al nuovo assetto che assumeranno le Bcc (Banche di Credito Cooperativo), tutte iniziative, comunque, da condividere con l’ex premier Matteo Renzi, che peraltro ne rivendica la ‘paternità’.

Se la strategia di Renzi, in un clima pre-elettorale, era rivolta all’incasso di consensi, il tiro al bersaglio su Bankitalia potrebbe rivelarsi un mezzo boomerang, Ignazio Visco non è personaggio facile da incastrare, troverà il modo di disimpegnarsi dai sospetti e le accuse davanti alla Commissione.

Intanto ci sono buone nuove per i dipendenti della Banca d’Italia, che sono circa 7 mila. Pochi giorni fa il dipartimento risorse umane- divisione e avanzamenti, ha inviato una circolare ad una parte del personale (che svolge ruoli di responsabilità), dove si comunicano i ‘passaggi di livello economico 2017’.
L’avanzamento di livello (nonché trattamento economico), riguarda circa 1.700 dipendenti.

CONFERENZA STAMPA DI MARIO DRAGHI A FRANCOFORTE: DICHIARAZIONI IN LINEA CON LE ASPETTATIVE

DI VIRGINIA MURRU
Nessuna dichiarazione a sorpresa nella conferenza stampa del presidente della Bce, Mario Draghi, ha comunicato quello che il mondo dell’Economia e della Finanza si aspettava, in linea anche con le previsioni espresse da un gruppo di analisti consultato in un sondaggio da Bloomberg una decina di giorni fa.
Draghi, con la consueta espressione calma, ha confermato le attese, ossia che le misure di politica monetaria subiranno delle variazioni a partire da gennaio 2018, con una riduzione di acquisti di asset pari alla metà di quello attualmente in corso: 30 mld di euro al mese fino a settembre prossimo.
Non sono le economie dell’area euro che si adeguano alle strategie di politica monetaria decise dal board della Bce, ma al contrario, è la Banca Centrale Europea che prende le sue risoluzioni secondo gli assetti e le esigenze dell’Eurosistema.
E’ naturale che le risposte, in un clima d’interdipendenza, debbano essere quelle più affini alle necessità del sistema, e chi sta al timone di una struttura complessa come la Bce, può scegliere rotte di breve e medio termine, considerate le variabili, i condizionamenti e i riflessi di un fenomeno come la globalizzazione, che rende il contesto internazionale piuttosto volatile, e per questo non si può prescindere.
Ed è una delle ragioni della cautela del Governatore dell’Eurotower, il ruolo della Banca centrale è quello di camminare a fianco delle economie che tutela, come un’ombra discreta, seguirne gli orientamenti, le ascese e soprattutto le scivolate. Draghi ha affermato, nella conferenza tenutasi in data odierna, che l’accomodamento monetario è ancora necessario,  nessuno del resto dubitava del fatto che un intervento d’interruzione drastico non facesse parte della programmazione e delle scelte del board.
Uno dei giornalisti presenti in aula ha chiesto al Presidente se le delibere del Consiglio Direttivo sono state approvate in modo unanime, e Mario Draghi ha risposto che su alcuni temi ‘il consensus’ è stato pieno, su altri l’intesa è avventa a grande maggioranza. Il Consiglio ha concordato sulla necessità di allentare il Qe e di allungare il programma di stimolo monetario, anche in vista di un maggiore controllo sul tasso d’inflazione.
“Il programma di accomodamento monetario – ha spiegato il Presidente della Bce – si rende ancora necessario, sarà portato a 30 mld al mese a partire da gennaio prossimo fino a settembre, ma potrebbe andare oltre ed è suscettibile di variazioni, anche d’essere incrementato qualora il caso ricorresse.”
Si sta dunque in un clima d’attesa, la politica monetaria non convenzionale, ossia quella relativa ai tassi, sarà invariata, i tassi dunque resteranno a 0, mentre un ulteriore rallentamento del Qe, è comunque un buon segno, significa che l’economia europea si è allontanata dai semafori rossi della crisi esplosa nel 2007, una delle più grandi e difficili che siano state affrontate da un secolo a questa parte. Le conferme vengono dai numeri e da tutte le analisi degli specialisti che monitorano l’andamento dell’economia dei singoli Stati e in generale dell’Unione europea.
Draghi ha precisato che le scelte della Bce non possono essere messe in una linea di simmetria con quelle di altre Banche centrali, dato che gli scenari sono diversi, e di conseguenza anche le strategie adottate.
I mercati finanziari intanto hanno espresso ‘apprezzamento’ verso le scelte dell’Eurotower, sì dunque alla stretta del Qe, ma in modo graduale, non traumatico, i mercati del resto reagiscono negativamente alle virate d’impulso che non risultino ponderate per il sistema.
Per questo le Borse europee hanno chiuso in positivo, sono messaggi chiari, risposte senza urti. Invece pare ne abbia risentito il confronto euro/dollaro, sceso, a un’ora di distanza dal discorso di Draghi, a 1,175. Il mese scorso il rapporto più marcato a favore dell’euro, si era superato l’1,20. Lo spread tra Btp e bund tedeschi è sceso a 152 punti base.
“I tassi – ha precisato Mario Draghi – saranno mantenuti bassi anche oltre il programma di acquisto di attività nel mercato”. E ha aggiunto: “Le riforme strutturali devono essere incentivate, per la tenuta del sistema, sono stati creati 7 milioni di posti di lavoro in 4 anni, e questo è dovuto alla ‘forza e tenuta dell’economia’, ma è necessario un consolidamento che offra più sicurezza.”
Uno degli obiettivi del Consiglio Direttivo della Bce, è quello di agganciare il target relativo al tasso d’inflazione, ancora distante da quel sospirato 2% al quale si mira.
Nel suo intervento, Vitor Constancio, il vicepresidente, ha spiegato che sono previsti degli accantonamenti per i Npl, ossia i crediti deteriorati, questo consentirà agli istituti di credito di migliorare la gestione dei finanziamenti, e di bypassare il problema delle sofferenze bancarie.
Terminato il discorso di Mario Draghi, si è dato spazio alle domande dei giornalisti presenti a Francoforte per assistere alla Conferenza stampa.

IL TRENO (DEL) BOMBA

DI PIERLUIGI PENNATI

C’è un treno che circola da qualche giorno con “Destinazione Italia”, si tratta di un treno a bordo del quale Matteo Renzi, detto da giovanissimo il Bomba, ha pianificato un giro d’Italia per sostenere la sua campagna elettorale.

Dopo pullman, roulotte, motorini ed altri mezzi, cosa ci sarà mai di strano nell’usare un treno?

Nulla, la stranezza risiede nel fatto che si tratti di un treno fantasma, o quasi, infatti nessun organo di stampa ufficiale o sovvenzionato dallo stato ne parla, se non liquidando la cosa con frasi di repertorio, le “grandi” ed affidabili testate si limitano ad informazioni su come è dipinto il treno e la data di partenza da Roma, il 17 ottobre, nessun programma, nessuna data di arrivo e località toccate, nessuna informazione precisa, nulla.

Solo ANSA, in modo davvero ardito, parlando della tappa di Reggio Calabria del 24 ottobre, si spinge ad un “Fuori dalla stazione c’erano ad attenderlo sostenitori, ma anche un gruppetto di contestatori di Fratelli d’Italia e vigili del fuoco precari”.

Sono invece i blog personali e la piccola stampa indipendente che riportano numerosi video e notizie di contestazioni accese, Imola Oggi, sulla stessa notizia di ANSA titola: “Matteo Renzi in fuga dalla stazione di Reggio Calabria. Non ha salutato neanche gli amici del Pd che lo stavano aspettando”; YouReporter, il giornale fatto dagli utenti, mostra video con insulti e risse all’arrivo del convoglio sia a Reggio che in altre stazioni, persone apparentemente normali, non gruppi organizzati, cittadini sparsi che accorrono alla stazione solo per poter insultare Renzi al suo arrivo in treno.

Anche Libero non è tenero e titola “Matteo Renzi, Destinazione Italia: a ogni tappa del suo tour in treno piovono insulti”, nell’articolo si sostiene che sia stata una “Pessima scelta, quella del tour su rotaia. Già, perché come detto, ogni volta che mette piede giù dal convoglio si scatena una gazzarra disumana: l’ex premier, non lo vuole nessuno.”

Ma questa è solo la realtà della cronaca, in verità non si tratta solo della scelta del mezzo, il treno, si tratta di troppe promesse già non mantenute e di troppi provvedimenti assunti dal governo in antitesi con quella “giustizia sociale” proprio dallo stesso Renzi invocata durante le primarie del suo partito e poi dimenticata in fretta una volta preso il potere.

Il Fatto Quotidiano, più accanito, scopre persino che nessuno sa bene dove il treno andrà e si fermerà: “Pd, il treno di Renzi viaggia in incognito: per evitare proteste e insulti a ogni fermata si cancellano programma e date”, “insulti e proteste nelle stazioni lo staff cambia programma e decide di non divulgare più le tappe, sottraendo il segretario alle imboscate di chi non gradisce la sua passerella lungo i binari. Neppure l’organizzazione del Pd sa dove e quando ferma il treno. E passa la palla alle Fs, che a sua volta la ripassano al partito”.

Un flop enorme, dettato dalle politiche del primo governo Renzi e del secondo Gentiloni che, fingendo indipendenza, cerca di limitare i danni fatti fino ad ora e lavare la faccia di un partito che, dopo la colonizzazione di chi è stato “educato alla passione per la politica nel nome di Zaccagnini”, ex Deputato Costituente e segretario DC, e la fuoriuscita degli esponenti storici del partito quando era ancora di sinistra, nella sua sigla ha ancora PD, ma più che Partito Democratico sembra indicare Poltrone e Divani, quelle poltrone e divani che nonostante il sempre più ampio dissenso si vorrebbero ora mantenere superando le prossime elezioni.

Ma che sia con il Rosatellum od un’altra legge elettorale, andremo finalmente al voto, un giorno, ed in quel momento il voto utile degli italiani sarà il voto espresso.

L’astensionismo degli ultimi decenni ha portato all’attuale situazione, quindi se davvero in Italia vogliamo cambiare facciamo una cosa utile, andiamo tutti a votare.

Qualunque esso sia è solo con un voto ampio e partecipato che si potranno stabilire di nuovo delle vere maggioranze in grado di cambiare in meglio il nostro paese: l’astensione è amica dei regimi totalitari, la partecipazione della democrazia e della libertà.

ALITALIA. IL FONDO USA CERBERUS FA UN’OFFERTA FUORI TEMPO, IL NO DEI COMMISSARI

DI VIRGINIA MURRU

 

La manifestazione d’interesse espressa alcuni mesi fa dal Fondo Cerberus Capital Management verso il vettore italiano non è sufficiente se non si è poi concretizzato l’intento attraverso un’offerta vincolante nei termini stabiliti (16 ottobre).

Ne parla anche il Financial Times con un articolo circostanziato, il Fondo Usa (operante fondi di investimento, ossia private equity), rileverebbe tutta la compagnia italiana, non in parti o lotti, come invece hanno proposto le due blasonate compagnie europee, Lufthansa e Easy-Jet.

Peccato però che le pretese di Cerberus, di aggiudicarsi l’acquisto in toto del gruppo italiano, siano quelle di scavalcare le regole, e anche i vettori che hanno presentato un’offerta secondo i termini e i criteri stabiliti dal bando di gara.
Si legge sul quotidiano di Finanza britannico:

“Cerberus opted not to submit its own binding offer because it considered the terms of the public tender too restrictive”. (Cerberus ha deciso di non trasmettere la propria offerta vincolante perché ha ritenuto che i termini relativi all’asta fossero troppo restrittivi).

E’ vero che il Fondo Usa avrebbe avuto dei contatti con i commissari poco dopo la chiusura del bando ufficiale, e che li abbia informati circa l’intenzione di acquistare in blocco sia le attività di ‘aviation’ (di volo), che quelle di ‘handling’ (di terra), a condizione che la compagnia italiana fosse adeguatamente ristrutturata.

Ma ormai era fuori tempo, anche considerando il fatto che, il termine di scadenza per la presentazione delle offerte vincolanti, era stato prorogato di due settimane, ossia dal 2 di ottobre al 16. Niente da fare, il Fondo speculativo statunitense non può cambiare le carte in tavola, questa sembra sia stata la risposta per ovvie ragioni da parte dei commissari.

E’ verosimile che Cerberus abbia giocato d’azzardo considerando l’offerta di acquisto ‘relativa’ delle altre compagnie in gara, le quali, com’è noto, intendono rilevare solo gli asset più allettanti della compagnia tricolore.

Quand’anche fosse stato possibile accettare la proposta del Fondo speculativo americano, resta il fatto che, secondo la normativa europea, avrebbe potuto acquisire al massimo il 49%, non il controllo del vettore, trattandosi di un gruppo d’affari extra-europeo, norma ben nota alla compagnia di Abu Dhabi, Etihad, che aveva acquistato proprio una quota pari al 49% di Alitalia nel 2014.

Secondo l’articolo pubblicato dal Financial Times, le intenzioni del gruppo Cerberus sarebbero quelle di investire dai 100 ai 400 mln di euro per acquisire il controllo del business della compagni italiana, e sarebbe interessata anche a coinvolgere il Governo tramite una partecipazione azionaria, e perfino i sindacati (così sarebbero fuori dalle scatole.. Etihad si è spesso lamentata degli eccessivi scioperi), con i quali si potrebbero condividere gli utili.

I 150 manager di Cerberus si presentano ad Alitalia come dei salvatori, e fanno leva sull’orgoglio italiano, che vorrebbe evitare di ‘svendere’ la compagnia a ‘pezzi’, e infatti i tre Commissari straordinari hanno sempre sottolineato che avrebbero privilegiato le offerte che avessero mirato all’acquisto per intero di Alitalia.

Ma sono dei salvatori o dei corvi?

Di certo Cerberus figura tra i più rilevanti investitori speculativi di Wall Street. Attualmente, il Fondo americano, gestisce un patrimonio intorno ai 30 mld di dollari, dietro ai quali ci sono 150 manager espertissimi (nonché scaltri). Sono specializzati in cure drastiche di imprese che rischiano il default, si occupano del settore immobiliare, e di Npl, ossia di sofferenze bancarie. Si sono occupati anche della ristrutturazione di Air Canada.

In Italia è interessato ai prestiti in sofferenza, come si è accennato, attività in cui certamente è un’eccellenza. Ambisce, sempre in Italia, a rilevare i 10,3 mld di mutui e rate non riscosse delle Rev, le 4 banche italiane in default (Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Cariferrara), finite in amministrazione straordinaria. Ma avendo vista acuta ha già puntato la mira verso le sofferenze di Intesa Sanpaolo, Carige e Bpm.

DISORIENTAMENTO SU APE VOLONTARIA, RIESAME DELLE DOMANDE PER APE SOCIAL

DI VIRGINIA MURRU

 

Il 16 ottobre, l’Inps ha comunicato che le operazioni di verifica sull’idoneità delle domande di ‘riconoscimento delle condizioni di accesso ai benefici dell’Ape social’, o pensione anticipata per lavoratori precoci (la cui prima esperienza di lavoro è avvenuta prima dei 19 anni), si sono concluse regolarmente il 15 ottobre.

L’Ape Social riguarda categorie di lavoratori che hanno diritto a tutele specifiche prima del raggiungimento dei requisiti concernenti il pensionamento.
Tali diritti sono stati introdotti con la legge 11 dicembre 2016, n. 232, Legge di bilancio 2017.

L’Ente di previdenza precisa comunque che, secondo i “nuovi indirizzi interpretativi” espressi dal Ministero del Lavoro su alcune categorie di lavoratori, si ‘procederà al riesame delle istruttorie, e, nei casi in cui l’esito sarà ritenuto positivo, il risultato sarà trasmesso d’ufficio ai beneficiari interessati al provvedimento, la cui domanda, dopo il riesame, è stata accolta.”
Priorità e attenzione verso i lavoratori che sono più vicini alla pensione di vecchiaia.

Si legge nel comunicato stampa diffuso dall’Inps:

“L’Istituto ha provveduto all’invio agli interessati delle comunicazioni di avvenuta certificazione del diritto alle prestazioni in parola sulla base della maggiore prossimità al requisito anagrafico per l’accesso alla pensione di vecchiaia.

Si comunica, inoltre, che il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha inviato nuovi indirizzi interpretativi in merito alle istruttorie inerenti all’accesso ai benefici da parte dei richiedenti che si trovano in stato di disoccupazione a seguito di cessazione del rapporto di lavoro per licenziamento, anche collettivo, dimissioni per giusta causa o risoluzione, e da parte dei lavoratori dipendenti addetti ai lavori particolarmente difficoltosi e rischiosi.”

L’Ape social è un anticipo pensionistico che viene riconosciuto prima che sia maturata l’età pensionistica (di vecchiaia), ai soggetti che hanno presentato una regolare richiesta all’Inps.
Hanno presentato richiesta circa 66 mila persone, ma due su tre sono state respinte per cause diverse.

Eccesso di reiezioni per scarsità di risorse o per incompatibilità con i requisiti richiesti?

L’esame delle domande è stato rigorosissimo, tanto che il Direttore Generale dell’Istituto di Previdenza, Gabriella Di Michele, e il Ministro del Lavoro Giuliano Poletti, hanno pensato di riesaminare le domande per l’accesso all’Ape Social, le quali, con varie motivazioni, sono state respinte.

Una parte non è stata accettata a causa del particolare tipo di contratto che il richiedente aveva nel momento in cui è cessato il rapporto di lavoro. In questo ambito si sono riscontrate la maggior parte dei ‘vizi’ che hanno indotto i funzionari addetti all’esame delle domande, a respingerle.

Tante sono le istanze Ape Social ritenute non idonee, in quanto, pur essendo i soggetti richiedenti in regola con il requisito anagrafico e contributivo, l’ultima attività lavorativa riguarda un contratto a termine, a tempo determinato, oppure retribuito tramite voucher.

Le condizioni ritenute non compatibili con i requisiti, paradossalmente, hanno indotto l’Inps e il Ministero del Lavoro a richiedere più elasticità nei criteri di valutazione, il rigore è risultato veramente eccessivo. Già si sapeva che la Legge di bilancio è passata su sentieri stretti in termini di risorse, ma quando le richieste risultate in regola, e quindi accettate, sono anche inferiori alle somme stanziate, allora è necessario riprendere in mano le domande e analizzarle secondo criteri più flessibili.

E questo si sta tentando di fare, intervenendo sulla Legge di Bilancio. I sindacati sono già sul piede di guerra. Ma basterebbe dare uno sguardo ai risultati relativi all’esame delle pratiche, per capire che la procedura ha necessità d’essere formulata in maniera tale che risulti più ‘inclusiva’.
Sono state in definitiva respinte il 64,89% delle domande su Ape Social, ovvero 7 su dieci, perché non idonee. Secondo i dati pubblicati dall’Inps risulta che sono state presentate in tutto 39.700 domande, ne sono state accolte 13.600, e bocciate 25.890.

L’Inps stesso trova severa la procedura d’esame delle domande, e chiede pertanto che la valutazione per il riconoscimento del diritto all’Ape social, riguardi tutti i casi di cessazione del rapporto di lavoro, che si tratti di licenziamento o di rapporti a tempo determinato.

Intanto, nei giorni scorsi (il 19 ottobre), il Ministero del lavoro ha comunicato che la platea dei beneficiari di Ape Social o precoci, sarà allargata, con interventi sulla Legge di Bilancio, quest’ultima del resto è stata varata ‘salvo intese’. Il ministero ha altresì informato l’Inps della decisione di rivedere la normativa e di renderla più duttile, affinché sia possibile una più ampia inclusione di domande.

Nel testo del comunicato si legge:

“I dati resi noti oggi dall’INPS riguardo i risultati dell’esame delle domande di accesso all’Ape sociale e al pensionamento anticipato per i lavoratori precoci (ossia i soggetti che hanno iniziato a lavorare prima del compimento del diciannovesimo anno di età), sono riferiti all’esame effettuato dall’Istituto prima delle nuove indicazioni fornite dal Ministero del Lavoro, in risposta alla richiesta di chiarimenti avanzata dall’Inps.

In quella risposta, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha confermato la volontà del Governo di favorire una piena utilizzazione delle due misure, fornendo indicazioni che permetteranno all’Istituto di applicarle in maniera pienamente coerente con le volontà espresse dal legislatore, anche rivedendo in autotutela le decisioni già assunte.”

Terminata la seconda valutazione, sarà il Ministero stesso ad effettuare un controllo obiettivo sui risultati, al fine di accertare che siano stati rispettati i nuovi requisiti di coerenza. Nella legge di bilancio, che ora prevede una più ampia platea di beneficiari, figurano lavoratrici con figli a carico e lavoratori disoccupati a causa della cessazione del rapporto di lavoro, dovuto a contratti a tempo determinato.

Secondo il Patronato Inca Cgil, si è partiti con una linea rigida di off limits da parte dell’Ente previdenziale, in netta divergenza con le intenzioni del legislatore, quando non in contrasto con la legge stessa. Ancora prima che gli esiti sull’esame Ape Social fossero diffusi, il Patronato ha messo in rilievo i motivi per cui, tante, troppe domande, sono state respinte.

Il requisito riguardante lo stato di disoccupazione, come già si è detto, è uno dei più penalizzanti, perché secondo questa logica, basta un solo giorno di lavoro retribuito con voucher, seguito ad un periodo di disoccupazione, per perdere il diritto all’Ape Social.

Perdono il diritto anche i lavoratori che sono stati licenziati senza ammortizzatori sociali privi dei requisiti, oppure perché non hanno inoltrato richiesta entro il termine stabilito. Infine i lavoratori che hanno svolto attività all’estero, con relativi contributi (l’Inps ritiene invece di avere esteso il diritto all’Ape a questa categoria di lavoratori).

Per il Patronato si tratta di una discriminazione che non può essere accettata. L’Inps si è ritrovata a mantenere un atteggiamento controverso: ha respinto le accuse dei sindacati, e allo stesso tempo ha ammesso, in sintonia col Ministero del Lavoro, che la selezione delle domande è stata troppo severa. Lo sdegno, peraltro legittimo di lavoratori e sindacati, un risultato lo ha raggiunto: un intervento al riguardo nella Legge di bilancio c’è stato, la platea degli aventi diritto è stata ampliata.

Non c’è molta chiarezza nemmeno nel versante degli anticipi pensionistici, su Ape volontaria si è dovuto attendere a lungo prima che il decreto attuativo fosse firmato. In ogni caso i lavoratori prossimi al raggiungimento dei requisiti, non possono accedere all’anticipo pensionistico, dopo mesi di attesa per la firma del decreto, perché non ci sono ancora le convenzioni con l’Abi, nel settore bancario, e Ania, su quello assicurativo, con entrambe le Associazioni il governo non ha ancora fissato un accordo per le relative convenzioni.

Non sono stati determinati dunque i costi per avere accesso ai prestiti tramite banca, né quelli assicurativi tramite polizza, che prevedono la copertura dei rimborsi nel caso in cui il pensionato muoia prima di avere estinto il prestito.

La conseguenza più diretta di questo clima sospeso, è il disorientamento, non si conoscono le condizioni, i tassi, sul prestito, che avrebbe una durata ventennale con l’istituto di credito che finanzia l’anticipo pensionistico. Come del resto quelle riguardanti la polizza assicurativa, che coprirebbe i rimborsi nei casi estremi di scomparsa del pensionato.

Neppure l’Inps ha fornito istruzioni adeguate per la presentazione della regolare richiesta. C’è però la scadenza del 17 novembre, in quanto il decreto ha previsto che le convenzioni tra Abi, Ania e Ministero del Lavoro, siano fissate entro 30 giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta.

Per ora il Governo ne ha preso atto nella Legge di bilancio 2018, prorogando di un anno i termini entro i quali sarà possibile inoltrare richiesta. Dunque non sarà più il 31 dicembre 2018, ma slitterà di un anno.

VOGLIO UN’ITALIA SOLA

DI PIERLUIGI PENNATI

Subisco passivamente un fiume di idiozie sui referendum della lega, possibile che esistano così tanti disinformati?

Luoghi comuni, battute, sciocchezze di ogni genere, nessuno che ammetta che per una volta la Lega, che non avrà comunque il mio voto, è riuscita a puntare il dito esattamente e legalmente sul problema.

Persino l’Europa lo ha scritto nel rapporto sull’Italia approvato settimana scorsa: alla nostra nazione servono più autonomie.

Ma già, “lo chiede l’Europa” vale solo quando fa comodo…

Comunque il problema lo conoscono tutti e tutti lo lamentano, dove finiscono i nostri soldi?

Gestioni più oculate permetterebbero maggior controllo, le autonomie, previste dalla nostra costituzione, sono un metodo, se ne esistono altri fatevi avanti, io sono per l’abolizione di tutte le autonomie o per l’istituzione di tutte quelle mancanti, perche la Sicilia si e la Lombardia no?

Siamo tutti italiani, voglio un’Italia sola e non tante italiette, uno stato, una legge.

IN ITALIA NON SI MUORE ABBASTANZA

DI PIERLUIGI PENNATI

Questa la frase attribuita al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e poi da lui smentita: “Gli italiani muoiono troppo tardi e ciò incide negativamente sui conti dell’Inps”.

La battuta sarebbe stata infelice e per molti verosimile, dato che mostra un ministro insensibile e cinico come sembrano essere gli amministratori negli ultimi tempi, ma la realtà è, se possibile, ancora più dura, infatti l’amministratore pubblico che fa quadrare i conti in modo coerente oggi è visto come colui che non tiene più conto di altri fattori, persino la vita umana.

È per questo che non ci stupiamo, la matematica non è un’opinione e non ammette errori, i numeri sono da sempre asettici e fini a se stessi, un ministro che dicesse questo, quindi non commetterebbe nessun errore e nessuna caduta di stile: avrebbe solo evidenziato quale sia il posto reale riservato alla vita ed alla dignità umana dal sistema economico dal mero punto di vista matematico, cioè nessuno.

Reduci dal conflitto mondiale e dal fascismo i padri della nostra patria hanno scritto un documento, la nostra Costituzione, che conteneva i principi fondamentali per la vita e la dignità delle persone nella nostra repubblica, diritti del singolo e doveri reciproci, tutti valori imprescindibili, tra questi i più importanti ed articolati nel testo sono forse il diritto al lavoro (artt. 4, 35, 36, 37, 38, 39 e 40), alla famiglia (artt. 29, 30 e 31), alla salute (art. 32, all’istruzione ed alle arti (art. 9, 33 e 34), all’informazione (art. 21) e, nel senso più generale, alla pari dignità sociale (art. 3).

Tutti diritti che, attraverso leggi che considerano solo i numeri, possono essere definiti oggi come ampiamente negati o difficili da conseguire, basti pensare ai provvedimenti che li riguardano, il “Jobs Act”, la “buona scuola” e le continue riforme sanitarie che privilegiano i manager ed aumentano i costi per i singoli, riducendo per tutti questi argomenti le possibilità di accesso ai servizi dei cittadini.

Tutto è “privato”, vale a dire demandato alla libera imprenditoria personale, con la conseguenza che tutto diventa “privato”, vale a dire assente.

Rispetto al 1970 il cittadino di oggi è privato di molti dei diritti e dei servizi che possedeva, tra questi un libero accesso alle cure, le analisi e le terapie costano ed i tempi per ottenerle sono spesso biblici, con l’effetto che moltissimi rinunciano, il “posto fisso”, sogno di quegli anni è oggi diventato un’utopia, il Jobs Act, con le sue “tutele crescenti” che non crescono mai, ha reso la sopravvivenza dei singoli e delle famiglie precaria, l’istruzione è resa più complicata da una “buona scuola” che non tiene in adeguato conto le necessità di alunni ed insegnati e le pensioni sono oggi minate persino dall’incremento della salute generale che, nonostante tutto, migliora.

Dovrebbe essere ovvio, per ogni servizio erogato vi sono sempre almeno tre elementi in concorrenza tra loro: la richiesta, i costi e la capacità di erogazione, lo squilibrio tra di essi genera vuoti di lavoro o, al contrario, paralisi e per questa ragione i tre valori dovrebbero essere in grado di modificarsi nel tempo per potersi adattare l’uno all’altro.

Negli ultimi venti anni, invece, per ragioni di bilancio ed indipendentemente dagli altri due fattori, vengono continuamente ridotti i budget, ragione per cui dopo grandi riduzioni e tagli ai settori a parità o persino aumento della richiesta, per evitare le paralisi, si deve oggi eliminare quest’ultima.

Proprio questa sembra essere la filosofia che chi ha travisato le parole del ministro dell’Economia vuole far apparire e proprio questa sembra essere la modalità realmente adottata in tutti i settori dello Stato per risolvere i suoi problemi gestionali: eliminare la clientela eliminandone così i relativi costi.

Ecco che se i tribunali sono pieni si fa in modo che qualche reato non lo sia più e che l’accesso alla giustizia sia più difficoltoso, aumentandone i costi preventivi e complicandone le modalità di attivazione.

Se la sanità non ce la fa più si impongono ticket sempre più costosi, fino all’assurdo che alcuni medicinali, gli antibiotici per esempio, ed alcune prestazioni, le piccole radiografie, spesso costano meno a pagamento che di ticket SSN e le visite specialistiche, a parità di costi, si fanno “privatamente”, alleggerendo il Servizio Sanitario Nazionale ed impedendo alla fine a molti di potersi curare.

Infine, se i numeri dell’occupazione non aumentano si creano i posti precari, così ogni anno si avranno migliaia di nuovi posti di lavoro da sbandierare, ma con l’effetto di avere complessivamente meno occupati e con loro minori diritti dei lavoratori, contribuzione sociale e dignità della persona.

La conclusione di un bilancio puramente matematico della vita di uno stato, il nostro, evidenza che qualche volta persino vivere diventa una colpa: l’essere umano, per la società dei numeri bancari, non è un valore, ma un elemento da sfruttare a piacimento per incrementare il profitto in una corsa senza obiettivi, perché l’aumento del profitto non ha un tetto, ma tende sempre al rialzo a discapito degli altri fattori in gioco.

La direzione presa è certamente pericolosa, quando si raggiungerà il limite e si dovrà dire stop all’incremento del profitto per poter rispettare i diritti ed i valori fondamentali dell’uomo?

Personalmente credo che questo limite sia stato già raggiunto e, per quella che è la mia formazione, ampiamente superato, facendomi ritenere che per proseguire si dovrebbe tornare indietro, almeno un po’, rimettendo i valori umani, perlomeno quelli scritti nella nostra costituzione, prima di tutto il resto.

Un giorno, forse, le banche saranno ricchissime, ma non esisteranno più i risparmiatori: progresso e civiltà non sono solo un aumento di indici economici, progresso e civiltà sono soprattutto il rispetto per le persone, la capacità di convivenza, mutuo aiuto e collaborazione, la rincorsa del mero profitto, invece, prima o poi ucciderà l’umanità, intesa come popolazione, dato che quella intesa come sentimento sembra essere già più che agonizzante.

In tristitia hilaris, in hilaritate tristis, grazie Giordano Bruno per avercelo fatto notare, quelle che sembrano battute divertenti o scandalose nascondono spesso una grande tristezza che ci da modo di capire quale potrebbe essere il nostro destino se non cambieremo direzione ricominciando dall’uomo e non più dal denaro.

SONDAGGIO SU UN CAMPIONE DI ANALISTI: LA BCE DIMEZZEREBBE GLI ACQUISTI DI ASSET

DI VIRGINIA MURRU

 

 

Secondo il sondaggio condotto da Bloomberg, le misure di tapering sarebbero orientate verso una riduzione dell’importo di acquisto di titoli da parte dell’Eurotower, che verranno presumibilmente ridotti fino a metà degli attuali 60 miliardi al mese.
Le misure di tapering che la Bce dovrebbe annunciare giovedì prossimo, in occasione della riunione del Consiglio direttivo, sono particolarmente attese, nel mondo della finanza c’è anzi un gran fermento per queste importanti decisioni.

Il Qe rispetterà le esigenze del sistema economico, e non renderà traumatica l’interruzione degli acquisti, anche perché, il presidente della Bce, Mario Draghi, ha continuato a ripetere, nel corso delle conferenze stampa mensili, che nonostante la ripresa si stia consolidando, è necessario sostenerne la crescita anche attraverso la politica monetaria espansiva.

Draghi ha sempre ritenuto fondamentale il supporto che lo stimolo monetario ha garantito, e nonostante le pressioni e l’avversione dei più importanti esponenti della finanza tedesca, non si è mai lasciato travolgere da teorie contrarie: le risposte del sistema sono state positive, e pertanto non si può considerare una ‘terapia d’urto’ priva di ponderazione o eccessiva.

Intanto fervono ‘i preparativi’, non mancano supposizioni e ipotesi sull’effettiva entità della prossima manovra della Bce, secondo il sondaggio portato avanti da Bloomberg, le misure di tapering sarebbero ormai dietro la porta, è solo questione di giorni. I tempi sembrano maturi per scalare la ‘terapia’, e rendere il sistema meno dipendente dallo stimolo monetario. In breve, l’intento è quello di portare l’economia dell’area euro ad essere nuovamente autonoma, gradualmente, fino a quando potrà muoversi con le proprie gambe.

Gli acquisti, secondo il parere degli analisti, non dovrebbero comunque essere interrotti fino a settembre del 2018, Draghi ha più volte fatto cenno a questa possibile ‘scadenza’, ma non ha mai neppure escluso il fatto che potrebbe protrarsi anche oltre, qualora il caso ricorresse e se ne riscontrasse la necessità. Insomma, il tempo sarà maestro, le previsioni, in un clima globale di cambiamenti continui, non esprimono certezze.

E’ tuttavia convinzione comune, tra gli analisti interpellati, che il primo rialzo dei tassi avrà luogo nel 2019, non prima. Questi sono i rumors più attendibili, ma ovviamente si dovrà attendere il meeting di metà settimana per conoscere le risoluzioni del direttorio (25/26 ottobre).
In ogni caso i dubbi sulla riduzione degli acquisti di titoli, sono davvero minimi, resta semmai da capire in che modo queste misure saranno portate avanti nei confronti dei paesi dell’Eurozona.

Negli ultimi 5 mesi, la Bce pare abbia acquistato meno bund tedeschi (tra lo 0,5 e l’1% rispetto alla quota), mentre verso altri paesi, come Francia e Italia, ci sarebbero state ‘deroghe’ circa la quantità dei titoli acquistati, che sarebbero maggiori rispetto al piano stabilito dall’Eurotower.

Un’elasticità negli acquisti non propriamente nota a livello ufficiale, ma frutto di un adeguamento alla realtà dei mercati, ossia alla disponibilità di bond. Decisioni non molto gradite ai tedeschi, il confronto su questi temi nell’ambito del board Bce, non è stato certamente facile.

INPS. OSSERVATORIO SUL PRECARIATO AGOSTO 2017

 

DI VIRGINIA MURRU

 

Sono stati pubblicati dall’Inps i dati riguardanti l’Osservatorio sul precariato agosto 2017, certamente in rilievo la notevole crescita dei contratti a chiamata, un autentico boom da gennaio ad agosto: + 129,5%, rapportato al 2016 (sempre i primi 8 mesi dell’anno).

Il mercato del lavoro è in netto miglioramento, lo dicono in modo evidente i numeri.
Dai rilevamenti risulta che il turn-over cresce, in lieve calo i posti di lavoro stabili. Dall’analisi dei dati emerge infatti che solo 24 contratti aperti su 100 sono da considerarsi stabili. La causa va ricercata nella riduzione degli sgravi per l’inserimento fiss, quando questi erano più consistenti il rapporto era 38 su 100.
Gli sgravi tuttavia rientreranno con la nuova legge di bilancio 2018, misura adottata proprio per favorire l’occupazione nel triennio 2018/20, i lavoratori assunti, secondo le stime, aumenteranno di 1 milione.

Il report periodico dell’Istituto previdenziale sul precariato, mette in evidenza il saldo attivo tra nuove assunzioni e cessazioni di rapporti di lavoro nel settore privato, in relazione al periodo gennaio-agosto del corrente anno: + 944mila. Il dato, che rispecchia l’andamento positivo dei dati macro dell’economia italiana, supera i rilevamenti del 2016: +704mila – e del 2015: +805mila.

Per quel che riguarda il lavoro subordinato, l’Inps precisa che il campo di osservazione considera i lavoratori dipendenti del settore privato, pertanto sono esclusi i lavoratori domestici e gli operai agricoli.
Sulla Pubblica Amministrazione, il riferimento è esclusivamente ai lavoratori degli Enti pubblici economici. Le rilevazioni hanno per oggetto i flussi, ossia i movimenti effettivi dei rapporti di lavoro, che comprendono le assunzioni, le cessazioni e trasformazioni intervenute nel corso del periodo di riferimento.

L’Ente di previdenza fa anche osservare che la contabilità dei flussi non può coincidere con quella dei lavoratori in quanto lo stesso lavoratore può risultare, nel medesimo periodo, interessato da una pluralità di movimenti.

Se si considerano i contratti ‘a chiamata’ o ‘intermittenti’, l’aumento che va dai 121mila del 2016, ai 278mila del corrente anno, è dovuto alla necessità delle imprese di fare ricorso a mezzi di contratto flessibili, che sostituiscano i voucher, com’è noto eliminati a marzo in seguito al referendum fortemente voluto dalla CGIL, e a partire da luglio, per le imprese con meno di 6 dipendenti, sostituiti da contratti di prestazione occasionale.

Si possono tenere in considerazione i dati relativi al saldo per la misurazione della variazione tendenziale concernente le posizioni di lavoro. Negli ultimi 12 mesi, secondo l’Osservatorio sul precariato, il saldo su base annua, che indica la differenza tra nuove assunzioni e cessazioni, ad agosto 2017, è positivo, ossia pari a +565mila, lievemente contenuto se rapportato ai dati rilevati a luglio: +586mila.

Questi risultati, secondo l’Osservatorio Inps, “cumulano la crescita tendenziale dei contratti a tempo indeterminato (+17mila), dei contratti di apprendistato (+53mila) e, soprattutto, dei contratti a tempo determinato (+494mila, inclusi i contratti stagionali).

Tali tendenze, in linea con le dinamiche osservate nei mesi precedenti, attestano il proseguimento della fase di ripresa occupazionale.”
Le assunzioni che si riferiscono solo al settore privato, nel periodo di riferimento gennaio-agosto 2017, sono state 4.598.000, le quali esprimono un aumento del 19,2%, rispetto allo stesso periodo del 2016.

Le più consistenti vengono dal lavoro a tempo determinato, pari a +26,3% e dall’apprendistato, +25,9%, mentre risultano in calo quelle a tempo indeterminato: -3,5%, rispetto allo scorso anno, la causa è da attribuire alle assunzioni part time.
In aumento anche le cessazioni: +15,9%, sempre rapportato allo stesso periodo del 2016, ma il dato cresce in maniera inferiore rispetto alle assunzioni.

L’Osservatorio sottolinea infine l’incentivazione di 36.236 rapporti di lavoro, quale effetto del programma ‘Garanzia giovani’, e 75.957 attraverso le misure adottate per favorire l’”Occupazione al Sud”.

RITORNANO LE PROVINCE, CE LO CHIEDE L’EUROPA

DI PIERLUIGI PENNATI

È il Congresso dei poteri locali e regionali del Consiglio d’Europa a dirlo e lo fa tramite alcune raccomandazione contenute nel rapporto di monitoraggio che ha messo ai voti nella sessione plenaria dei lavori, secondo gli esperti dell’unione l’Italia deve “rivedere la politica di progressiva riduzione e di abolizione delle province, ristabilendone le competenze, e dotandole delle risorse finanziarie necessarie per l’esercizio delle loro responsabilità”.

Stop all’abolizione delle province, quindi, ma non solo, sempre nella relazione si dice che è necessario “rafforzare autonomia di bilancio delle Regioni” e persino che debba essere ristabilita “l’elezione diretta per gli organi di governo delle province e delle città metropolitane”, oltre che “fissare un sistema di retribuzione ragionevole e adeguata dei loro amministratori”.

Insomma l’Europa ci dice non solo cosa fare, ma anche che tutto quello che abbiamo fatto è sbagliato e si deve tornare indietro.

“Ce lo chiede l’Europa” è stato il motto che ha portato ad approvazione di leggi, ma anche a modifiche costituzionali, introducendo il pareggio di bilancio, per esempio, ed a desso cosa succederà?

Ascolteremo questa volta il consiglio oppure l’Europa è uno strumento utile solo quando fa comodo a qualche governo?

Il Congresso ha effettuato visite ispettive nella nostra nazione, delle quali l’ultima si è tenuta lo scorso marzo, realizzando una sezioni di osservazioni e raccomandazioni che chiedono un pieno ripristino delle province “il cui futuro, dopo la bocciatura del referendum sulla riforma costituzionale lo scorso dicembre, è incerto”.

Nella relazione, ampia ed articolata, si fa riferimento all’intera vita economica ed amministrativa di provincie e regioni italiane entrando nel dettaglio persino dei sistemi di governo, delle procedure interne e nelle relazioni tra gli enti, arrivando a chiedere che venga introdotta “la possibilità di votare una mozione di revoca o di censura all’interno dei consigli provinciali e metropolitani nei confronti dei loro presidenti o sindaci, per rafforzarne la responsabilità politica”.

Per le regioni, invece,  andrebbero riviste “le norme e i principi finanziari di quelle a statuto ordinario, per rafforzare la loro autonomia di bilancio e aumentare l’aliquota delle loro entrate proprie” riformando nel contempo il sistema perequativo al fine di compensare i divari tra le risorse finanziarie a disposizione delle differenti Regioni, che il Congresso ritiene “inefficace”.

Insomma, più che un rapporto un vero e proprio manuale da applicare al nostro sistema amministrativo generosamente fornito dall’Europa per risolvere i nostri conflitti interni ed i nostri problemi, vedremo ora come reagirà chi da sempre professa il “ce lo chiede l’Europa”.