ALITALIA, UN KIT DA COSTRUIRE INSIEME

DI PIERLUIGI PENNATI
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È bastato un NO secco ad un accordo sbagliato che i lavoratori sono subito diventati dei “furbetti del cartellino”, equiparati a coloro che, nella pubblica amministrazione, si fanno i fatti loro invece di lavorare: fortunati dipendenti di una compagnia che li strapaga per non fare nulla, o quasi, e che oggi non vogliono rinunciare a nessuno dei loro “privilegi”.
Ieri Il Giornale titolava “I piloti kamikaze fanno saltare Alitalia”, gli altri quotidiani non erano più teneri ed il Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda ha detto “La cosa più plausibile è che si vada verso un breve periodo di amministrazione straordinaria che si potrà concludere nel giro di 6 mesi o con una vendita parziale o totale degli asset di Alitalia oppure con la liquidazione”.
Tutti contro la scelta del 67% dei lavoratori che hanno respinto un accordo siglato da tutti i sindacati tranne USB, 10.000 lavoratori su circa 12.000 del totale sono andati alle urne esprimendo un voto che è comunque della maggioranza assoluta dei dipendenti, tutti ad affossare un piano capestro che vede lo stato ancora una volta grande assente ed oggi, se possibile, ricattatore.
Nell’era della disinformazione e delle facili cattiverie via social network, però, la realtà è ancora una volta molto differente da come viene dipinta e non si tratta né di dipendenti privilegiati né di guerre tra sindacati di base e “tradizionali”, quello che sta dietro la vicenda è molto più semplice e per certi versi più complesso, tanto da sembrare sfuggire alle normali regole economiche e di mercato.
Già, perché se un’azienda perde denaro ci saranno troppi costi, o troppi sprechi, od ancora pochi clienti, prezzi troppo alti, mercato saturo, … in Alitalia nulla di tutto ciò, se guardiamo i dati comparati tra le compagnie aeree nel mondo ed il costo del loro lavoro, verifichiamo facilmente che  in Alitalia questo non è superiore alla media, anzi, è andato calando negli anni collocandosi oggi tra i più bassi ed anche i costi di esercizio non sono superiori alle media, gli scali hanno costi uguali per tutti e le manutenzioni si fanno nello stesso modo su tutti i velivoli che sono sempre degli stessi modelli per tutte le compagnie. Allora, dov’è il problema, perché Alitalia è in perdita?
Gli economisti ci dicono che principalmente è perché viaggia con aerei troppo vuoti e tutti gli sforzi per contenere i costi e migliorare il servizio sono così vanificati. Io ci credo: da anni non prendo un volo Alitalia, non è competitiva, non certo per il prezzo del biglietto, quello è in linea con gli altri, ma per tutto il resto, dato che da Alitalia non sono disposto ad accettare quello che reputo “normale” per le altre compagnie aeree.
Così, se con Ryanair accetto di essere trattato come una merce qualsiasi, ammassato per ore in anticipo davanti ai cancelli di uscita per poi correre a prendere un posto prima degli altri, litigare per posizionare il mio trolley nella cappelliera, viaggiare scomodo e senza bibita e pagare come extra qualsiasi cosa, compreso il bagaglio in stiva, con Alitalia no: Alitalia “DEVE” farmi sedere comodo, accettare trolley, computer e borsa o borsello, servirmi una bibita molto buona ed avere personale paziente e gentile. Alitalia è una “compagnia di bandiera”, mica una “low cost”!
Proprio così, nell’era in cui ormai tutte le compagnie sono più o meno low cost e la distinzione tra i due servizi non è più così netta, Alitalia DEVE continuare a perdere denaro per mantenere un’immagine ormai non più necessaria e volare con mezzi vuoti perdendo denaro, tutto fa parte del gioco, immagine innanzi tutto.
Alitalia ha bisogno di cambiare, è rimasta troppo indietro, Alitalia non ha mai avuto necessità di “capitani coraggiosi” incompetenti ed antichi, commissari straordinari e nemmeno di ridurre ancora gli stipendi, Alitalia ha bisogno di un sistema di management vero che sappia cambiare con i tempi ed insieme ai lavoratori: Alitalia ha bisogno di se stessa, i nobiluomini e gli affaristi hanno fallito, appartengono ad un passato trapassato da molto tempo.
Oggi Alitalia può ripartire senza fermarsi, servono politiche di sviluppo condivise e compartecipate, con modelli gestionali nuovi per la compagnia ma collaudati altrove: cogestione e supporto pubblico.
La cogestione è possibile, dà i suoi frutti da sempre in Germania: sindacati che partecipano alla gestione aziendale condividendone benefici e responsabilità attraverso una democrazia interna molto stretta.
Il supporto pubblico, pensato almeno per le rotte “necessarie” al mantenimento della continuità del territorio nazionale, come avviene in Francia per i territori d’oltremare che sono collegati con contributi dello stato, è a conti fatti un risparmio, dato che molte città italiane “pagano” le compagnie aeree low cost, in termini di sconti e strutture, per avere un aeroporto vicino, determinando un costo sociale a carico di tutti ed usando, nei fatti, soldi pubblici per sostenere compagnie private. Anche questo è un aiuto di stato, perché non potrebbe essere usato per Alitalia?
Il mercato è ricco ed in espansione, i costi sono nella norma ed il personale ha competenze elevate, i mezzi ci sono tutti, ora serve solo buon senso, buona volontà e grande coesione, insieme ce la si può fare: io sto con i lavoratori Alitalia.

LAVORARE PER VIVERE, NON MORIRE PER LAVORARE

DI PIERLUIGI PENNATI
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L’occasione è la Giornata Mondiale sulla Sicurezza nei luoghi di lavoro, che si commemora il 28 aprile, la notizia è che il numero dei morti sul lavoro non solo non cala, ma se possibile è persino in aumento percentuale rispetto al numero degli occupati.
A denunciarlo sono tutti i sindacati, che nei giorni scorsi hanno anche sfilato in manifestazioni per la sicurezza in tutta Italia, e le cifre sono davvero impietose: secondo l’INAIL, ogni anno ci sono circa 1.200 vittime del lavoro nel nostro paese. Dato approssimativo, poiché il monitoraggio si riferisce esclusivamente agli assicurati dell’ENTE e non alla totalità dei lavoratori, considerato che per chi lavora in nero non avremo mai una statistica certa.
Agricoltori anziani, lavoratori in nero, sfruttati dal caporalato, stagisti, etc, tutti coloro che per qualche ragione sono invisibili all’INAIL, ma che in qualche modo sbarcano il lunario, sfuggono ad ogni controllo ed il più delle volte i loro infortuni vengono coperti con altre ragioni per evitare il peggio, si lavora per vivere, anzi, per sopravvivere e se si può essere scoperti per non perdere il proprio lavoro.
Di tutti questi soggetti, che non sono pochi, non si sa quasi nulla, ma anche degli assicurati si parla poco, le morti sul lavoro non fanno grande notizia da sole, presi come siamo dalla valanga mediatica che privilegia le notizie stupide, ma incredibili, piuttosto che le informazioni utili, ma noiose, così che ci accorgiamo delle morti sul lavoro solo quando gli incidenti assumono il valore di una tragedia collettiva.
Tra ricatti di licenziamento, precariato, taglio dei fondi per la sicurezza e la tutela della salute, intensificazione di ritmi, aumenti di carichi di lavoro e politiche di profitto sempre più spinte, le misure di protezione per la salvaguardia della vita dei lavoratori, così come le tutele del posto di lavoro, diventano un lusso che pochi si possono permettere e le percentuali di incidenti mortali si incrementano ogni anno di cifre con valore delle decine di percentuale in un sistema sociale quasi indifferente ed ormai diventato disumano del quale ci si ricorda solo quando si celebra una ricorrenza.
Siamo stati tutti Charlie Hebdo per un giorno, possiamo essere disgustati dalle morti sul lavoro per un altro, domani si ricomincia, come sempre.
Così la strage è ormai quasi quotidiana, originata all’interno di un sistema sociale ormai non più retto da regole sociali ma solo da politiche di profitto, che considerano le persone numeri e sacrificano le vite alla redditività del capitale trasformando, in quest’ottica, gli incidenti in veri e propri veri e propri omicidi del capitalismo killer.
Le prove stanno nel dato più eclatante dell’intera statistica, cioè che circa il 95% dei soggetti deceduti sul lavoro era persone che operavano in aziende senza la copertura dell’articolo 18, vulnerabili quindi al licenziamento in caso di rifiuto anche parziale di prestazioni per ragioni di sicurezza, e che nel restante 5% delle morti avvenute all’interno di aziende con l’articolo 18, molti erano comunque lavoratori esterni ad esse che eseguivano lavori al loro interno: artigiani o lavoratori di piccole aziende comunque senza articolo 18.
In quest’ottica diminuire le tutele del posto di lavoro, come per esempio con il Jobs Act, diventa un comportamento potenzialmente killer da parte dello stato che dovrebbe, al contrario, tutelare i lavoratori, ed in questo le strutture sindacali hanno una grande responsabilità e dovrebbero mobilitarsi in modo permanente, e non solo per un giorno, trasformando la loro azione di “concertazione”, che ha caratterizzato almeno l’ultimo ventennio, in azione di “lotta” per tornare a quelle tutele e quei diritti abbandonati da troppo tempo in cambio di valori salariali asettici: non si vende e tantomeno svende la sicurezza e la dignità dei lavoratori.
Da sempre si lavora per vivere, ma se si deve morire per lavorare è tempo di cominciare a fare qualche riflessione.

COLPEVOLE DI ESSERE MALATO

DI PIERLUIGI PENNATI
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Succede a Cuorgnè, un piccolo centro del Canavese tra Torino ed Ivrea, ma se fossimo stati altrove non sarebbe cambiato nulla, un’operazione al fegato, al cuore, una malattia che limita anche di poco le nostre capacità e si è subito fuori.
Questa volta è toccato a Franco Minutiello, sessanta anni, da tre anni ufficialmente malato di Parkinson ed ora senza lavoro a due anni dalla pensione.
L’azienda rifiuta ogni addebito: «Conosciamo bene la situazione di questo signore e ci dispiace molto per la sua malattia. Ma questa è un’azienda, non un istituto di carità» dice Alberto Garbarini, dirigente Tekonservice dove Franco Minutiello faceva il netturbino, «per noi lavorano già quasi trenta persone inabili. Per un dipendente malato in più non c’erano altre mansioni idonee da svolgere» ed a febbraio lo dichiara inidoneo nonostante avesse chiesto di poter accedere alla legge 104, che prevede una parte dello stipendio versato direttamente dall’Inps, e al part time, «questo per non gravare troppo sul mio datore di lavoro» dice, ma non è stato ascoltato.
Era stato assunto dieci anni fa dalla ditta che raccoglie i rifiuti nel Canavese come operaio e autotrasportatore e tre anni fa ha cominciato ad accusare i primi sintomi della malattia, quando la mano destra ha iniziato a tremare in modo insolito: «Ci spiace, lei ha il Parkinson» gli hanno detto i medici.
«Quell’occupazione non era il massimo, ma almeno mi dava da mangiare» dice l’operaio, ma il 17 marzo, dopo la lunga trafila vissuta tra ospedali, ambulatori, studi medici, arriva il telegramma della Teckonservice: «Inidoneo al lavoro».
«Ho sentito la terra franarmi sotto i piedi, è stata una mazzata», già nel 2015 è stato un continuo entrare e uscire dagli ospedali, «Mi sono dovuto assentare parecchio per le cure, non stavo bene e non potevo più svolgere la mia attività di netturbino come volevo e come pretendeva l’azienda da me» dice rattristato, «non hanno avuto alcun rispetto della mia vicenda e della mia persona».
Il suo avvocato, Silvia Ingegneri, dichiara che impugneranno il licenziamento davanti al giudice del lavoro del Tribunale a Ivrea, «Stiamo studiando il caso, ma c’è da dire che Minutiello è stato particolarmente sfortunato».
Il conflitto è con l’azienda, ma è lo stato il primo colpevole ad abbandonare i cittadini a se stessi: in nome di sprechi e mercato si riformano gli istituti sociali e si abbandonano le persone ai loro destini.
Ancora due anni e qualche mese e Minutiello avrebbe potuto accedere allo scivolo della pensione anticipata, ora la sua battaglia si trasferirà in Tribunale, circoscritta tra un’azienda che impiega altri disabili ed un altro colpevole di essere malato.
Una guerra tra poveri mentre lo stato resta a guardare.