PARADISI FISCALI. NON C’E’ TREGUA PER I COLOSSI DEL WEB, ORA NEL MIRINO DELL’UE

DI VIRGINIA MURRU

 

Sono proprio le multinazionali più in vista a fare la parte del leone e a defilarsi, come mani lunghe che rubano con la luce accesa, ma tant’è: finora non se ne sono curate più di tanto, forti delle protezioni e della legislazione dei paesi che hanno una pressione fiscale davvero minima.

Sta di fatto che nel giro di 5 anni, i cosiddetti giganti del web, senza fare tanto rumore, hanno eluso 46 miliardi di euro. ma vanno anche oltre, fino a 69, se al vasto repertorio dei ‘fedifraghi’ si aggiunge Apple, il gigante dell’hardware che presenta il fatturato più consistente (e che non è però una internet company).

Sono le risultanze delle recenti indagini condotte da ‘Ricerche e Studi di Mediobanca’.
Inutile domandarsi in che modo si può essere volpi, se la consuetudine di spostare grandi capitali off-shore non è nata nel terzo millennio, ma viene da lontano, e le autostrade dell’evasione sono quelle che portano ancora verso i paradisi fiscali, dove lo Stato, sul versante delle tasse, mangia a piccoli morsi.

Per questo il denaro qui soffre molto meno che nei luoghi dai quali proviene. E non è un mistero che in Europa, il Lussemburgo, l’Irlanda e l’Olanda, abbiano tetti più sicuri per multinazionali come Facebook, Amazon, Google, Microsoft ed Apple, tanto per citare le più note.

I loro utili vengono portati sistematicamente fuori dai paesi in cui si sono generati, per una semplice questione di pressione fiscale, certamente più forte rispetto ai paesi in cui questi capitali vengono ‘traslati’.

In Cina le multinazionali non fanno eccezione, e non sono meno scaltre di quelle citate, operanti tra Stati Uniti ed Europa: Tencent ed Alibaba, tanto per non scomodare il fisco ed eventuali strali della giustizia, hanno stabilito la sede proprio nelle isole Cayman, notoriamente meno aggressive in materia fiscale.

Le web company hanno versato all’Agenzia delle Entrate veramente inezie rispetto ai ricavi generati nel nostro paese: 12 milioni (si tratta di Amazon, Apple, Tripadvisor, Twitter, Facebook e Airbnb), esponendosi così all’indignazione delle grandi e medie aziende che operano offline, e che in termini di compliance con il fisco sono sicuramente più virtuose. Il Governo in Italia sta prendendo atto finalmente delle grandi perdite per l’Erario, e chiede con forza l’introduzione di una tassa Ue. Troppi utili sottratti alle imposte, dato che, come si è visto, al fisco lasciano solo ‘bruscolini’.

Non è servito a molto fino ad ora ricorrere al patteggiamento, perché poi questi giganti riprendono il vecchio sentiero con la segnaletica più conveniente, che porta nei paesi compiacenti in termini di aliquote fiscali, così i ricavi delle transazioni digitali mettono le ali senza alcuno scrupolo.

La Procura di Milano era riuscita pochi mesi fa a indurre Apple e Google al patteggiamento, chiedendo 600 milioni (in due), come saldo di pendenze arretrate col fisco, ma poi la lezione è evidentemente troppo difficile per essere assimilata, quando gli interessi in gioco sono alti.

Le residenze legali restano laddove si campa meglio, senza eccessiva ‘oppressione’ fiscale. E così continua ad agire Facebook, per esempio.
Inutile che in Italia le autorità competenti abbiano accertato un utile per la vendita di servizi (pubblicità), pari a 225 mln, perché questi ricavi si sono subito messi in viaggio alla volta dell’Irlanda, luogo più ‘salutare’ per gli utili, e l’Agenzia delle Entrate in Italia non ha visto che briciole. Si capisce che sono situazioni ormai inammissibili, come si è visto non si tratta solo di Facebook, anche le altre big fanno saltare i soldi dal cilindro altrove.

Per anni e anni di evasione, Google Italia ha registrato in bilancio tasse che incidono per 42 mln, ma la quota di competenza relativa al 2016 è solo una piccola parte, il resto riguarda anni e anni di inadempienze. Per forza poi i conti non tornano, e a questo punto, obbligare le potenti multinazionali a versare tutte le imposte sui profitti generati in Italia, è il minimo.
L’evasione riscontrata nelle web companies non riguarda solo l’Italia, ma anche altri paesi europei, fortemente danneggiati dal loro operato. Si cercano strategie normative per mettere con le spalle al muro le multinazionali, finora ci sono stati solo ultimatum di cause legali (la Procura di Miano ha aperto un fascicolo su Amazon, accusata di avere evaso 130 mln), ma il problema, nonostante qualche riflessione, non è stato risolto.

L’Ue ha perseguito l’Irlanda (deferita alla Corte di Giustizia), uno dei paesi più ‘accoglienti’ per i profitti, obbligandola a versare 13 miliardi di euro, per avere concesso agevolazioni fiscali non dovute, ma non è certo che questo Paese membro dimostrerà fedeltà alla normativa Ue. Diffidata anche Amazon, ha forti pendenze fiscali con il Lussemburgo.

Intanto, da qualche mese, si avverte aria di grande insofferenza, e così Italia, Germania, Francia e Spagna, che poi corrispondono alle economie più solide dell’Ue, hanno deciso di reagire e di chiedere un regime fiscale comune, con tassazione digitale, per obbligare le multinazionali a non portare altrove i ricavi originati nei paesi di competenza (fiscale), dove il valore si crea. Neanche a dirlo, i paesi di appartenenza delle multinazionali (le più grandi sono degli States), fanno scudo e tentano di difenderle in tutti i modi dai possibili fulmini in arrivo dall’Ue.

La sfida ha tutta l’aria di non essere a portata di mano.
Secondo gli studi portati avanti da Mediobanca, le grandi del web hanno eluso imposte per oltre 11 mld di euro, tra queste c’è Microsoft che ha messo in salvo 3,6 mld, e Apple 5,3 mld, a seguire le altre, che pure hanno ‘risparmiato’ parecchio.

Ossia circa due terzi degli utili (prima d’essere stato tassato), è finito nei paesi dei quali si è detto, perché molto più soft in termini di pressione fiscale, rispetto alla sede delle web companies. La pressione fiscale negli Usa è pari al 35%..
Ormai questi colossi sono sorvegliati dall’Ue, e Google, bontà sua, ha dichiarato che resterà in Europa, a condizione che le imposte siano ‘semplificate’.

Pretendono davvero troppo, dato che, a giudicare dai profitti, non rischiano certo il tracollo. E’ Amazon la numero uno dell’e-commerce – già per 3 anni di seguito – con un ricavo, nel 2016, di 129 miliardi di euro.

Alle grandi dell’e-commerce cinese va anche meglio, ma del resto c’è dietro un grande mercato, solo la Cina ha quasi un terzo degli abitanti del pianeta. I loro guadagni sono enormi.
Della web tax, in Italia, che mira a regolamentare, nell’era della digital economy la tassazione sugli utili delle multinazionali, si è fatto promotore il deputato Pd Francesco Boccia, il quale ha di recente ribadito che si tratta “di una battaglia di equità”.

Aggiungendo che “parlare di web tax non significa tassare il mondo, ma trattare in termini di tassazione il mondo online come quello offline, non consentendo ai grandi gruppi del web di farla franca, cosa che nemmeno i piccoli commercianti possono fare. Pertanto le multinazionali devono pagare le imposte indirette nei Paesi in cui i profitti si originano”.

Il 17 novembre, dopo l’approvazione alla Camera della fiducia sul decreto fiscale collegato alla manovra, (nell’ambito della discussione sulla legge di Bilancio in Senato), dal Pd è arrivato l’emendamento già annunciato, sulla web tax. L’emendamento è frutto dell’attività di un anno nelle Commissioni di Industria e Finanza del Senato.

Il Governo non aveva introdotto la tassa nel testo base, lasciando al Parlamento la libertà d’intervenire. L’emendamento rafforzerà la regolamentazione transitoria (sulla digital tax), inserita nella manovrina di aprile. Secondo il primo firmatario, Massimo Mucchetti, senatore Pd bresciano, nonché presidente Commissione Industria:

“ai soggetti non residenti, che comunque avessero stabile organizzazione nel nostro paese, sarà tassata, al pari di tutte le società, la base imponibile dichiarata e verificata dall’Agenzia delle Entrate. L’emendamento introdotto sulla legge di Bilancio, ha il fine di regolare la tassazione dei profitti o ricavi originati in Italia da queste grandi aziende che operano nel web. Auspichiamo che la nuova norma sia approvata, poiché prevede una tassazione del 6% dei ricavi (o transazioni digitali) per la cessioni di servizi provenienti da soggetti non residenti a soggetti residenti in Italia.”

La preoccupazione, semmai, secondo il promotore della digital tax, Boccia, è che la nuova tassa possa colpire le aziende italiane in regola, poiché essa è rivolta esclusivamente alle multinazionali del web, che fino ad ora hanno evaso somme ingenti sfuggendo al fisco.