IL 2018: UN ANNO QUASI HORRIBILIS PER I MERCATI FINANZIARI

DI VIRGINIA MURRU

 

Il 2018 è stato un anno di grandi rivolgimenti, in alcuni periodi da ‘cardiopalmo’, se si considerano le cause e gli effetti che hanno determinato crolli o forti stimoli nelle contrattazioni. La reattività dei mercati è nota, allorché si verificano eventi importanti di carattere geopolitico che rischiano di compromettere la stabilità, o scelte di politica economica che incidono fortemente negli equilibri del sistema globale. Tante sono state nel corso del 2018 le vicissitudini che hanno portato terremoti in borsa, da Wall Street alle piazze europee, a quelle asiatiche, i ‘veicoli’ di contagio in un’epoca caratterizzata dalla globalizzazione, sono scontati.

Insomma, un anno pessimo per i mercati finanziari, secondo Finanza online, quasi tutti gli asset sono in rosso,  il 2018 potrebbe entrare negli annali come annus horribilis:

tutte le principali asset class di investimento a livello globale (azioni, obbligazioni, oro e petrolio) sono avviate a chiudere l’anno in rosso.” Una situazione così nera non si vedeva da 20 anni.

Resoconto confermato da Il Sole 24 Ore:

“Le curve dei principali indici globali evidenziano un corale passivo da inizio anno: le azioni (indice Msci world) perdono il 5%, le obbligazioni (indice Jp morgan gbi global) il 3 per cento. Il petrolio (qualità Brent) è in calo del 10 per cento. E anche il bene rifugio per eccellenza, l’oro, quello che dovrebbe compensare gli investitori dai ribassi dei titoli più rischiosi, ha perso terreno da inizio anno (-5%)”.

L’ottimismo tra gli operatori dei mercati si è alternato al pessimismo, ossia alla massima cautela verso il rischio. Tra le cause che hanno creato un deterrente tra gli investitori,  ci sono state le iniziative aggressive dell’establishment Usa volte a colpire l’export della Cina, una politica economica rivolta al protezionismo, al di là di ogni considerazione sulle relazioni internazionali, un equilibrio più che mai delicato, che necessita della distensione, non di erigere  barriere, piuttosto anacronistiche nel terzo millennio. Eppure la politica mondiale già da anni ha virato a destra, e l’Europa ne è l’esempio più eclatante.

Cambiamenti di rotta che in diverse circostanze, dopo le consultazioni elettorali che hanno sancito la  vittoria dei movimenti politici di destra, hanno destabilizzato i mercati, creando ondate di panico, perché la tendenza verso i populismi, quando non xenofobia, non viene recepita come fenomeno che determina stabilità, elemento del quale i mercati necessitano per operare con serenità, al di fuori dell’orbita del rischio.

La degenerazione della politica protezionistica messa in atto dall’amministrazione Trump, è stata la guerra commerciale, ancora in atto, che non ha risparmiato neppure i parenti più stretti, ossia l’Europa, minacciata dai dazi, non solo su alluminio e acciaio, ma anche sul settore degli autoveicoli, proprio per colpire forte, e per dire chiaro che non c’è nessuno, oltre le frontiere, degno di essere risparmiato.

Questa escalation d’incertezza e tensione, soprattutto tra le due grandi superpotenze , Cina e Usa, hanno fatto vibrare tutte le corde del rischio, e sia Wall Street che le piazze asiatiche, nonché quelle europee, hanno reagito con crolli memorabili. Gli Usa si possono permettere comunque i ‘ruggiti’ di Wall Street, e anche di ignorarli quando ci sono in gioco interessi così grandi.

Le scosse nei mercati hanno origine anche nei timori causati dal rallentamento della crescita globale, nella mancanza di un accordo sul bilancio da parte dell’amministrazione Usa. Negli ultimi giorni ci sono state oscillazioni notevoli tra gli estremi registrati a Wall Street lunedì 24 dicembre (seduta chiusa in negativo, la peggiore vigilia di Natale di sempre, con crolli che hanno superato il 2,5%), e il rally del 26, con picchi che non si verificavano dal 2009 ( il  Dow Jones ha messo a segno il 4,9%, il Nasdaq il 5,84%), migliore seduta, appunto da dieci anni a questa parte. La Borsa americana ha chiuso lunedì 26 con il Dow Jones in rialzo di oltre mille punti.

A cambiare rotta verso l’ottimismo ha contribuito l’allentarsi della tensione tra Usa e Cina in ambito commerciale, ma soprattutto la schiarita nei rapporti tra Donald Trump e la Fed. Nei giorni scorsi il presidente Usa aveva fatto infatti trapelare l’ipotesi di un licenziamento di Powell, alla guida della Banca centrale americana da neppure un anno.

Poiché queste mine vaganti avevano destato non pochi allarmi negli ambienti finanziari, e incentivato la diffidenza sugli azzardi di Trump, la Casa Bianca ha pensato di rimediare con un comunicato di Kevin Hasset (Presidente del Consiglio degli advisor economici della Casa Bianca), il quale ha spiegato che il ruolo del presidente della Fed, Jerome Powell, non è in discussione, così come quello di Steven Mnuchin, segretario al Tesoro, verso il quale ci sono stati nei mesi scorsi dichiarazioni poco rassicuranti.

Secondo gli analisti, il quarto trimestre del 2018 è stato horribilis per i mercati finanziari, c’è la tendenza verso una fase ribassista, per sei sedute di seguito l’indice cinese a maggiore capitalizzazione (il CSI 300), ha chiuso in calo, e dal mese di febbraio il riscontro per le Borse mondiali non è lusinghiero, è anzi deludente. In particolare le perdite degli indici più importanti vedono un Dow Jones a -14,7%, S&P 500 a -15,6%, Nasdaq a -18,4%, FTSE 100 -9,6%, DAX -13,6%, Cac -14,1%, Hang Seng -5,4%, Shanghai -11,3%, Nikkei -16,9%.

Un panorama che non promette grandi cambiamenti in positivo nel prossimo anno, ormai alle porte. La Borsa di Tokio chiude l’anno in corso in negativo, per la prima volta da sei anni a questa parte. L’indice Nikkei chiude le contrattazioni con un calo pari allo 0,31%. Da gennaio a dicembre l’indice ha perso il 12,1%. Lo yen acquista energia sul dollaro perché gli investitori sono alla ricerca di beni rifugio.

La volatilità nei mercati è aumentata, come già è stato accennato, a causa della mancanza di propensione al rischio degli investitori, per alcuni analisti, oltre alle ragioni che rimandano alla guerra commerciale e alle tensioni di carattere geopolitico, c’è anche la linea della politica monetaria seguita dalle Banche Centrali, che hanno ridotto la liquidità e aumentato i tassi (come sta facendo da circa un anno la Fed).

Anche il bilancio delle Borse cinesi è in rosso, a causa delle tensioni commerciale tra i due colossi economici, Cina e Usa, e anche per ragioni da ricercare nel rallentamento della crescita nell’economia del drago.

Le previsioni per il 2019 non sono orientate al rialzo, i mercati finanziari continueranno a soffrire, soprattutto per il rallentamento della crescita a livello globale, oltre alle altre incognite delle quali si è trattato.

L’economia italiana, secondo il 65% degli operatori  per il 2019 non ha davanti il campo dei miracoli, continuerà anzi il trend negativo iniziato negli ultimi trimestri del corrente anno, e la crescita subirà una brusca frenata;  lo scenario europeo non sarà di stimolo, dato che il rallentamento riguarda anche l’Unione europea. La politica monetaria della BCE, inoltre, che a partire dal prossimo gennaio sospenderà del tutto le misure d’intervento attraverso l’acquisto di asset, non contribuirà a stimolare il sistema.

 

 

 

 

 

L’AUMENTO DELL’IVA E’ STATO SOLO RIMANDATO

DI VIRGINIA MURRU

 

Rinvio sull’aumento dell’Iva, il governo è intervenuto con un maxi emendamento alla manovra,  la stangata è stata accantonata per il 2019, ma sono previsti aumenti per gli anni successivi, e allora se l’esecutivop non sarà in grado di affrontare i problemi con risorse adeguate, il mezzo gaudio di oggi potrebbe trasformarsi in un’autentica slavina per i cittadini.

La manovra economica si accinge intanto a compiere i suoi primi passi, il benestare del Parlamento è stato ottenuto a colpi di fiducia, e le autorità di Bruxelles sono state convinte con più di un compromesso, anche se i tagli sugli investimenti faranno sentire il loro peso.

Il documento programmatico di bilancio, nonostante le prove durissime che ha dovuto superare, non è passato indenne, la scure ha operato tagli dolorosi, e comunque si trova ancora sul ‘banco degli imputati’, non convince le parti sociali, né Confindustria né i sindacati. Questi ultimi hanno già in programma manifestazioni di protesta; insomma, la manovra, così com’è strutturata, non presenta buone prospettive per l’occupazione.

La Pubblica amministrazione, secondo i tagli previsti, presenterà limiti non di poco conto su nuove assunzioni e investimenti. Un avvio del programma di politica economica che non convince, troppi sono gli interrogativi, e la strada dei conti pubblici è già di per sé dissestata.

La Bce ricorda questi giorni il grave problema della deviazione dal Patto di stabilità, il disavanzo delle Amministrazioni pubbliche, che riguarda anche  altri paesi dell’area euro, ma in particolare l’Italia.

Nel suo ultimo bollettino, la Banca centrale ammonisce sui rischi dell’aumento del debito in Eurozona: “bisogna continuare con gli sforzi di risanamento delle finanze pubbliche, rispettando il Patto di Stabilità e Crescita, in questo ambito significativo e preoccupante è il riscontro sull’Italia, il cui rapporto debito/Pil è troppo elevato, e questo espone tutta l’area ad una maggiore vulnerabilità.”

Ma intanto il Paese è alle prese con le tante incognite che presenta la manovra, e potrebbe non essere l’aumento delle tasse sulle scommesse e la webtax, insieme ad altri interventi non risolutivi, a fare la differenza.

Le clausole di salvaguardia dell’Iva sono un autentico rompicapo, e la scelta di congelare gli aumenti lascia comunque nell’incertezza i contribuenti. Bruxelles ha necessità di garanzie in questo ambito, e non è detto che il governo riesca a mantenere le promesse, le conseguenze in questo caso si ritorcerebbero sulle famiglie. Altro dilemma della manovra economica.

Le clausole di salvaguardia, sulle quali tanto si raccomanda l’Ue, sono misure precauzionali adottate per garantire i vincoli in materia di spesa e bilancio. Il fine delle clausole è la tutela della finanza pubblica. Scattano qualora non si rispettino i vincoli con l’Europa, se queste risorse non si rendono disponibili, al governo non resta che operare tagli sulle agevolazioni fiscali, aumentare le imposte indirette, e interventi simili volti a recuperare risorse per l’erario.

Al momento è già una conquista avere evitato la procedura d’infrazione, che Bruxelles era pronta ad applicare sull’Italia, se il premier Giuseppe Conte, e il ministro dell’Economia Giovanni Tria, non avessero introdotto misure idonee a salvaguardare almeno un precario equilibrio dei conti.

Com’è noto, le clausole sono scattate già nel 2011, in seguito alla grave crisi che portò poi alla caduta del governo Berlusconi. Nel decreto salva-Italia introdotto da Monti, le clausole di salvaguardia furono blindate, ma in seguito diventarono l’incubo degli altri governi che si sono succeduti, i quali hanno fatto di tutto per evitare che scattassero, come del resto ha fatto anche quello attuale.

Il governo Lega-Movimento 5S, le ha congelate per il prossimo anno, ma con il maxi emendamento alla manovra sono previste al rialzo nel 2020/21, cosa che potrebbe portare ad un aumento di diversi punti percentuali già nel 2020, sia per l’aliquota ridotta (10%), che per quella ordinaria (22%).

Gli aumenti scatterebbero qualora l’Italia non dovesse essere fedele ai parametri stabiliti dall’Unione europea, nel rapporto deficit/Pil, oggetto del contendere con Bruxelles negli ultimi mesi. In questo caso, così come ha previsto anche Codacons, nessuno ci salverebbe dalla mazzata, che potrebbe costare intorno alle 1.200 euro annui a famiglia, in termini di costi diretti, che scaturirebbero dalla maggiore imposta. Ma sarebbe l’economia italiana nel suo complesso, già provata da troppe scosse, a risentirne, per via degli effetti domino nei vari settori, tali da bloccare in modo ancora più deleterio la crescita.

In breve, se l’attuale governo manterrà gli impegni nel corso della legislatura, le clausole potranno essere disinnescate agevolmente, se la manovra non dovesse raggiungere gli obiettivi, sarebbe difficile salvarsi dalla mannaia che incombe.

In termini di cifre, gli aumenti previsti per il 2020 potrebbero raggiungere i 23 mld di euro, e negli anni successivi l’importo dovrebbe aumentare, con lo scatto dell’aliquota ordinaria (oltre all’aumento dell’aliquota ridotta..), che passerebbe dal 22% attuale al 26,5% nel 2021/22.

 

SARDEGNA. GLI AMBIENTALISTI HANNO ACQUISTATO LE DUNE E LA SPIAGGIA DI CHIA

DI VIRGINIA MURRU

 

L’acquisto delle dune e spiagge di Chia, in territorio comunale di Domus de Maria, è ormai una certezza, il Gruppo d’intervento giuridico di Cagliari ha versato una caparra, e da ieri 18 dicembre, un meraviglioso tratto di costa sarà protetto e destinato alla comunità. In tutto saranno vincolati 40mila mq,  il fine è quello di salvaguardarlo da un eventuale scempio edilizio in futuro, che potrebbe pregiudicarne il delicato ecosistema, e alterare le caratteristiche ambientali e paesaggistiche del territorio.

Il sud della Sardegna è caratterizzato da decine di km di dune bianche, che nella stagione estiva, da Chia a Porto Pino (ma  anche oltre) rimanda a i paesaggi caraibici, con il bianco abbagliante della sabbia finissima, modellata con eclettico estro dal maestrale. Un paradiso di bellezze naturali che richiama migliaia di turisti, li stordisce con visioni che non si dimenticano. L’insidia del cemento è stata finora scongiurata, forse anche per i  vincoli legati alle servitù militari. Is Arenas Biancas, nella punta a sud-ovest dell’isola, è ubicata infatti nei dintorni di Capo Teulada, dove da decenni la costa è retaggio del poligono militare. Qui dagli anni cinquanta è sempre stato vietato  l’accesso ai bagnanti.

Per fortuna si parla di passato recente, dato che, in seguito ad un accordo siglato lo scorso anno fra la regione Sardegna e il Ministero della Difesa, i tratti di costa interdetti ai turisti e alla gente del posto, sono stati ‘liberati’, e dall’estate 2018, sono fruibili da tutti, sia nel periodo estivo che in quello pasquale.

Insieme al litorale di Is Arenas Biancas è stato ‘affrancata’ anche la spiaggia di Porto Tramatzu, in giurisdizione di Teulada. Diversi tuttavia sono i tratti di costa liberati dalle servitù, siti occupati da militari Nato, che della Sardegna ne aveva fatto un polo strategico militare contro l’ex Unione Sovietica.

Tanto per dirla in numeri, 35mila ettari sono sotto vincolo militare, con presidi anche internazionali; la Sardegna in termini di servitù militari contribuisce per oltre il 60% del totale nazionale. Vergognoso. E infatti, quando un anno fa fu siglato l’accordo tra la regione Sardegna e il ministro della Difesa, il presidente della Giunta, Francesco Pigliaru, commentò: Sì, certo una giornata storica per l’isola, attesa da quarant’anni, ma anche una pagine imbarazzante per questa legislatura..”

I sardi si sono ripresi i diritti di accesso al proprio territorio, e insieme a queste conquiste si esulta ora per la sorte delle dune e litorale di Chia, autentici gioielli incastonati nel sud dell’isola, una garanzia e insieme una vittoria per gli ambientalisti, che hanno condotto fino in fondo questa battaglia e hanno vinto.

La sfida era quella di sottrarre il territorio alle mire di acquisto da parte di privati, soggetti immobiliari con capitale arabo, secondo il Gruppo d’intervento giuridico, che avrebbero  impostato una strategia di rastrellamento di terreni adiacenti le dune.

Il pericolo pertanto riguarda la privatizzazione delle spiagge, ma c’è anche il rischio di possibili integrazioni normative che diano il ‘là’ a volumetrie edilizie a ridosso delle dune, assolutamente da scongiurare. Si tratterebbe di violare un paradiso sul piano naturalistico ed ecologico, un ‘paradiso perduto’, se non si intervenisse con strumenti in grado di sottrarlo alla bramosia della forza finanziaria dell’edilizia internazionale.

C’è da sottolineare che al momento è stata versata una caparra da parte del “Gruppo d’intervento giuridico” (gruppo Onlus), il resto sarà versato al termine della sottoscrizione che è stata già  lanciata, e che conta di recuperare i fondi necessari alla conclusione dell’acquisto. Per chi deciderà di donare il proprio contributo, precisa il Gruppo d’intervento giuridico,  è prevista la detrazione del 19% degli importi donati fino a un massimo di 2.065,83 euro (art. 15,comma 1°, lettera i – quater, del D.P.R. n. 917/1986 e s.m.i., testo unico delle imposte sui redditi – T.U.I.R.).

Si legge nel sito:

“Per concludere questo ambizioso progetto abbiamo bisogno dell’aiuto di tutte le persone che tengono al proprio ambiente, alla propria identità, al futuro della propria Terra.

Contribuisci all’acquisto delle dune e della spiaggia di Chia con un  versamento su un conto intestato all’Associazione. A chi contribuirà verrà inviato Attestato di benemerenza e tessera associativa, per almeno 30 euro di contributo”

E per dare enfasi alle proprie convinzioni, il Gruppo precisa che ci si deve scordare un intervento di salvaguardia da parte dell’Agenzia per la Conservatoria delle coste, voluta e istituita alcuni anni fa proprio dall’Associazione, ma di fatto inattiva, responsabile d’inerzia davanti ad urgenti problematiche ambientali come queste.

Non ci saranno più ‘location’ riservate ad eventi esclusivi, destinati al turismo d’élite, la priorità prima di tutto ai sardi, ai quali in vario modo è stato interdetto l’accesso alle meraviglie di diversi tratti di  costa.

L’acquisto riguarderà una parte delle dune e spiaggia di Chia, di fronte all’isolotto Su Giudeu. Il fine è ovvio, ossia proteggere l’ecosistema di queste bellezze naturali ancora integre, e consentirne la fruizione ai comuni mortali dell’isola, al pubblico. Uno slogan ne sottolinea gli intenti:

“Il nostro ambiente e la nostra identità non sono in vendita, insieme possiamo dimostrarlo concretamente”.

 

STUDI BANKITALIA: ISTRUZIONE E STATUS CONDIZIONATI DALLE PROPRIE ORIGINI

DI VIRGINIA MURRU

 

Il terzo millennio, in termini di ‘passaggi’ generazionali, non è propriamente un fenomeno che riflette la tendenza sempre più marcata all’autonomia dei millennials, ossia una dinamica di scelte che siano indipendenti da correlazioni nei confronti delle proprie origini, per quel che concerne l’istruzione, il reddito e la ricchezza, ossia l’affermazione economica e professionale del proprio futuro.

Per quel che riguarda l’Italia, secondo uno studio portato avanti da due ricercatori del Dipartimento di Economia e Statistica della Banca d’Italia, Luigi Cannari e Giovanni D’Alessio, i risultati metterebbero in rilievo “un’alta persistenza intergenerazionale delle condizioni economiche”, ossia un’interdipendenza legata alla base di partenza, con correlazioni dirette allo status dei propri genitori, più rilevante rispetto al passato.

La ‘serie’ di studi attinenti alle “Questioni di Economia e Finanza”, si propone di presentare documentazione e risultati su aspetti rilevanti concernenti i compiti istituzionali della Banca d’Italia ed Eurosistema. Il fine è quello di fornire ‘contributi originali’ nell’ambito della ricerca economica. Questi lavori sono talvolta portati avanti all’interno della Banca d’Italia, non di rado in collaborazione con l’Eurosistema e Istituzioni varie. In questi studi si sottolinea che i risultati provengono “esclusivamente” dalle opinioni degli autori, disimpegnando così la responsabilità delle Istituzioni di riferimento.

Si tratta di una ricerca che in qualche modo sorprende, ci si attenderebbe un’analisi che evidenzia la tendenza all’indipendenza delle scelte, sia nell’ambito dell’istruzione che nella realizzazione delle ambizioni in termini economici, proprio in virtù del fatto che i diritti sanciti dalla Costituzione (Art. 3), mirano all’uguaglianza in termini di opportunità per le giovani generazioni, ma non è esattamente così. Non bastano gli  interventi fondamentali di uno Stato di diritto, pienamente integrato nelle fondamenta di una democrazia.

All’art. 3 della Costituzione fanno cenno anche i due ricercatori, nello studio sulla persistenza tra generazioni in Italia; è dunque ovvio che rientri tra i doveri della Repubblica “rimuovere gli ostacoli che, limitando l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. A precludere il successo economico di un individuo, o a favorirlo, secondo la ricerca di D’Alessio e Cannari, potrebbero essere  fattori non dipendenti dal soggetto, come la familiarità e stato economico di origine, il sesso, luogo di nascita, etnia, istruzione.

E’ pertanto necessario portare alla luce le cause che costituiscono ostacolo per chi non nasce ‘con la camicia’, e si ritrova in una condizione di svantaggio, rispetto a chi invece ha davanti una strada più agevole, una porta aperta sul futuro, per via di uno status solido sul piano economico dei genitori. Lo studio si prefigge l’obiettivo di analizzare le cause della disuguaglianza di opportunità, e di operare in termini di scelte politiche adeguate, affinché la realizzazione dell’individuo corrisponda a criteri sociali ed economici inclusivi. Tutto questo attraverso la rimozione delle barriere intergenerazionali, che potrebbero essere poco favorevoli all’”omologazione” dei diritti e al progresso stesso del singolo e della società.

In Italia, dunque, i legami con le precedenti generazioni, per quel che riguarda istruzione, ricchezza e reddito, sono ancora forti, e il successo degli individui che vengono dalle classi sociali più abbienti, è più garantita. Facciamo parte di quei paesi che hanno ancora dei riferimenti intergenerazionali, e nell’ultimo decennio la tendenza è in aumento, secondo i dati  di analisi comparative messi a confronto. L’analisi tuttavia mette in rilievo il fatto che l’istruzione incide meno, in termini di condizioni economiche delle giovani generazioni rispetto ai genitori, mentre crescono le prerogative del ruolo relativo al contesto familiare e sociale.

Il lavoro dei due ricercatori esamina sia la persistenza intergenerazionale, in relazione allo status economico della famiglia di origine, sia l’importanza delle condizioni di partenza, per motivare il successo e la realizzazione degli italiani. Come si è accennato, l’Italia rientra tra i paesi con una persistenza piuttosto alta sul piano generazionale, e la tendenza è in costante aumento. Per i più fortunati è una strada pronta al transito, che non è stata oggetto di scelte, perché indipendente da altri orientamenti, e spiegano comunque il successo di questa fascia di individui in maniera più marcata rispetto al passato.

Sembrerebbe il risultato di un ciclo generazionale che vive “di rendita” in termini di opportunità, con ridotta mobilità dunque tra generazioni per quel che riguarda l’aspetto delle condizioni economiche. La mobilità è quel fattore dinamico che offre la possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita, sul piano sociale è un potente incentivo – sempre secondo lo studio dei due ricercatori della Banca d’italia – allo sviluppo delle proprie capacità, proiettandosi così nel più ampio spettro dell’innovazione. Si tratta di un impegno nel versante del lavoro che non ricade positivamente solo sul singolo, ma a trarne vantaggio è tutta la collettività, perché diventa mezzo di propulsione di crescita economica.

La mobilità intergenerazionale applica in modo diretto l’uguaglianza di opportunità tra le giovani generazioni, contribuendo ad allontanare il rischio della disuguaglianza (Unfair inequality), che non sono poi credenziali degne di una democrazia in Occidente. A lungo andare determina scontento nelle classi sociali svantaggiate, e conseguenti tensioni sociali.

Questi studi mettono in rilievo la necessità d’intervento per facilitare l’inclusione delle fasce sociali le cui opportunità non sono favorite dalle origini solide della famiglia, che invece risulta non di rado una carta vincente per il successo occupazionale dei figli, quando le condizioni economiche sono solide.

Si legge tra le pagine di questi studi: “l’Italia è tra i paesi in cui la distribuzione del reddito si discosta maggiormente da quella che risponde a criteri di uguaglianza di opportunità e di libertà dalla povertà” (gli autori si riferiscono in particolare a ricerche in questo ambito di Ballarino e Schizzerotto, l’ultima del 2016).

In Italia il diritto all’istruzione esteso a tutti, ha certamente offerto maggiori possibilità di realizzazione, ma lo studio dimostra che, a parità d’istruzione, i soggetti provenienti da classi sociali che dispongono di un alto status nelle condizioni economiche, hanno maggiori probabilità d’inserimento nel mondo del lavoro, con posizioni elevate nella struttura occupazionale di riferimento.

Le analisi si sono avvalse di indagini campionarie, ma anche a dati tratti dagli archivi riguardanti le dichiarazioni dei redditi, ed Enti previdenziali (Inps); dalla comparazione dei dati emerge la forte propensione all’ereditarietà di reddito e ricchezza nel nostro Paese.

L’analisi dei dati scaturiti dalle indagini sui bilanci delle famiglia, in un periodo che comprende due decenni (dal 1993 al 2016), mette in evidenza i canali di trasmissione dello status di benessere economico dei familiari d’origine, in riferimento al grado d’istruzione; da questi rilevamenti emerge una elevata persistenza intergenerazionale nei livelli d’istruzione.

Il diritto allo studio esteso a tutti, non è dunque una garanzia, è solo un elemento di omologazione nell’ambito del diritto, che non evita le disuguaglianze nella base di partenza degli individui, in questo senso svantaggiati. Emerge la tendenza a compiere scelte in sintonia con l’istruzione dei genitori e relativa professione. E’ abbastanza consueto, tanto per fare un esempio, entrare in una farmacia, e ritrovare accanto al titolare il figlio col distintivo sul camice, così come avviene in uno studio legale, e casi analoghi su diverse professioni. Un’impostazione di vita, per le nuove generazioni, che evidenzia la tendenza a scegliere percorsi di studio sul piano formativo di base – come gli istituti di scuola superiore – in sintonia con quello che sarà poi lo sbocco professionale, tale da garantire la realizzazione in ambito familiare. A seconda dei casi e delle circostanze, gli studenti potranno anche abbandonare il corso di studi secondario o universitario, qualora la famiglia d’origine abbia loro già riservato un ruolo in un’attività economica.

Gli studi confermano la tendenza intergenerazionale ad ereditare istruzione e status dai genitori, realtà che sul piano sociale, resta un fenomeno con connotazioni ed elementi quasi aberranti, rispetto ad un secolo che, in termini di progresso tecnologico, potrebbe presentare un quadro diverso, più dinamico. Eppure la realtà non è quella delle giovani generazioni prive di vincoli nelle scelte, con una propensione verso la mobilità, in simmetria con le prerogative e i dinamismi di una società  proiettata sulle capacità del singolo, a prescindere dallo status di origine. Così non è, sembra anzi in atto un andamento “involutivo” in tal senso: la staffetta generazionale è fortemente ancorata al passato.

PACE FATTA CON BRUXELLES? PER MOSCOVICI NON BASTA

DI VIRGINIA MURRU
La soluzione sembrava a portata di mano, o almeno si stava percorrendo la strada del compromesso, con cedimenti da entrambe le parti in causa. Le ultime dichiarazioni di Pierre Moscovici, Commissario agli Affari monetari dell’Ue, non sono purtroppo ‘liberatorie’ per l’Italia, proprio stamani ha infatti affermato che la valutazione sulle proposte del Governo italiano, non sono propriamente positive: “non bastano gli sforzi compiuti sul rapporto deficit/Pil, è necessario intervenire ancora.”
Una doccia fredda, e l’ennesima umiliazione per questa manovra che ha seguito un percorso tormentato come non mai.
Il premier Giuseppe Conte, da Bruxelles, dichiarava ieri che il rapporto deficit/Pil sarebbe sceso dal fatidico 2,4% a 2,04%, e non si sarebbero tradite le aspettative degli italiani, ossia quei ‘capitoli’ di spesa che costituivano la premessa per portare avanti il programma di politica economica del governo.
Promesse elettorali alle quali non s’intendeva venire meno, a costo di affrontare le sanzioni che l’Ue avrebbe potuto infliggere all’Italia, le cui finanze sono già alquanto dissestate. I due vicepremier, Matteo Salvini e Luigi Di Maio sono sempre stati inflessibili al riguardo.
Reddito e pensioni di cittadinanza, pensioni “quota 100”, dovevano  pertanto essere salvi, anche se, com’è noto, i tempi dell’entrata in vigore slitteranno slitteranno comunque di qualche mese, se si riuscisse a tenere integri i due provvedimenti. Intanto, il dialogo ha prodotto certo buone prospettive di base, ma Bruxelles non si accontenta di questa disponibilità a cambiare i cardini della manovra, occorrono interventi sostanziali.
Con la nuova frustata del Commissario Moscovici, la manovra dovrà  passare ancora sotto i cingoli di altre revisioni, questa volta veramente dolorose, se s’intende evitare la procedura d’infrazione. Non è detto insomma che le garanzie sul reddito di cittadinanza e ‘quota cento’, restino tali.
Peccato perché i mercati avevano recepito le condizioni della svolta nei rapporti tra il Governo italiano e Bruxelles come  una soluzione dietro l’angolo, e il differenziale è sceso quindi di quasi 100 punti base rispetto a due/tre settimane fa.
La Commissione europea si  era riservata di esaminare le proposte italiane, il confronto proseguirà comunque nei prossimi giorni. All’incontro con i rappresentanti della Commisione: Jean-Claude Juncker, Pierre Moscovici e il vicepresidente Dombrovskis, era presente insieme al premier Conte anche il ministro dell’Economia Giovanni Tria.
Sull’esito del confronto, dichiarava  il premier:
“Abbiamo portato davanti alla Commissione proposte ragionevoli sulla legge di Bilancio, e illustrato in dettaglio il nostro programma. Non tradiremo la fiducia degli italiani, gli impegni saranno rispettati, sia per quel che riguarda ‘quota 100’ che il reddito di cittadinanza, con relativa platea. Il saldo finale è stato modificato a 2,04%”.
“Sul tavolo abbiamo lasciato proposte serie – prosegue il premier – ora speriamo che i negoziati si concludano il più presto possibile e in modo positivo, vogliamo rispettare i tempi delle riforme che presentano il maggiore impatto sociale. Andremo avanti con maggiore determinazione.”
La strada sembrava dunque più agevole, Conte e Tria del resto, con la propensione alla distensione e al dialogo, erano le persone più idonee a condurre la trattativa. Conte ha anche affermato nelle sue dichiarazioni, che la Commissione ha ritenuto significative la proposte del Governo italiano. Ma a quanto pare non basta
Il premier aveva anche confermato  i buoni risultati dell’incontro in un tweet:
“Abbiamo anticipato la nostra proposta a Bruxelles: il rapporto deficit/PIL a 2.04. Non tradiamo la fiducia degli italiani e rispettiamo gli impegni presi: quota 100 e reddito di cittadinanza non si toccano. La trattativa con la UE prosegue, andiamo avanti con forte determinazione.”
Ancora una strada piena di chiodi sul percorso di questa manovra, in attesa di ulteriori sviluppi, che si spera mettano la parola fine a questo iter accidentato, che altro non ha fatto se non creare instabilità e incertezze.

GROTTE DELLA SARDEGNA, MONDI SOTTERRANEI AMATI DAGLI SPELEOLOGI DI TUTTO IL MONDO

DI VIRGINIA MURRU

 

Il fascino della Sardegna non si ferma nella linea di costa, certo piena di suggestione, ma prosegue nell’entroterra, dove le attrattive naturalistiche e paesaggistiche fanno parte dell’eclettismo di una natura ancora in parte misteriosa, nella quale, non di rado, la storia ha lasciato le sue pietre miliari.

Ce ne parla l’autore di “Fra mondi sotterranei e trekking d’avventura”, Elio Aste, che ha percorso da speleologo e trekker ogni angolo, ogni pertugio delle grotte immerse nei meandri più selvaggi ed esclusivi del centro dell’isola. Sicuramente un esperto, dato che per tutta la sua vita ha attraversato gli altopiani e ne conosce le caratteristiche naturalistiche, come pochi. Un libro che illumina a giorno gli ambienti ipogei di questi ‘santuari’ ubicati nel cuore delle montagne, interessate dal fenomeno carsico, regno del calcare, e di tanti segreti celati nei loro ambulacri.

Se l’intento dell’autore era quello di sorprendere, conducendo l’immaginario del lettore nella magnificenza di una natura integra, in gran parte selvaggia, attraverso la descrizione minuziosa e accurata di percorsi riservati a chi conosce i segreti riposti della Sardegna più esclusiva, bisogna dire che è riuscito nell’intento. E’ una semplice deduzione, non c’è smania di scivolare in retorica, questo libro non ne ha bisogno, e neppure Elio Aste, che ha all’attivo numerose pubblicazioni di carattere naturalistico-esplorativo nel territorio dell’isola, e ha riscosso il successo che davvero merita, sia in termini di competenza che di esperienza in questo ambito.

Dopo avere chiuso il libro, restano impresse le atmosfere nelle quali chi legge viene guidato, perché l’autore, oltre che speleologo, naturalista, fotografo ed esperto di archeologia, è anche uno scrittore di rara maestria ed efficacia espressiva. Lo stile della narrazione, acuto e attento al dettaglio, le descrizioni vivissime di ogni passo percorso, coinvolgono ed avvincono: nessuno può restare indifferente davanti agli spettacoli che si prospettano in questi scenari di natura così esuberanti.

Attraversando campi solcati, o percorrendo i salienti più impegnativi – anche per coloro che sono avvezzi ad avventurarsi in luoghi impervi, e a spendere le proprie energie nei sentieri più ostici ed accidentati – si può comprendere meglio il senso dell’essere e dell’esistere, si può riflettere all’immenso valore di questo patrimonio naturale, e concludere che la vita altro non è che il soffio d’ingegno di un grande Regista, che sa dell’ordine e dell’equilibrio nella Creazione.

L’uomo ha il dovere di rispettarne le leggi, non di sconvolgerle per fini che non rientrano in questo grandioso disegno, dove anche il senso di un filo d’erba va al di là di noi.

Ci parla di bellezza e di perfetto equilibrio biologico, Aste, ci sconvolge con prospettive che sospendono il respiro, ci porta dentro anfratti e grotte nelle quali il mondo con il suo caos, sembra solo un lontano ricordo, un’aberrazione.

Ci racconta egregiamente le immagini, piccoli microcosmi sospesi nella magnificenza di questo territorio barbaricino, circondato dalle propaggini calcareo- dolomitiche del Monte Corrasi. Questi sono santuari naturali in cui anche il silenzio produce la sua eco e diventa catarsi; sono spazi in cui non esiste nulla che non venga da una sapienza che sfugge allo sguardo di chi osserva con stupore.

C’è un ordine primordiale che coniuga perfettamente gli elementi, non si può scorgere una ‘nota’ stonata tra le meraviglie delle concrezioni sospese nelle sale scintillanti delle grotte: è una bellezza che frastorna, e poiché non abbiamo la fortuna di percorrere questi itinerari, e ammirare dal vivo un simile splendore, questo libro ce ne propone le emozioni, attraverso le sensazioni di chi ha già percorso, con le gambe e lo sguardo, questi orizzonti.

Ci sono immagini folgoranti, e sottolineo che non si tratta di esaltazione, chi ama la natura non può che ritrovarsi in questo transfert, immedesimarsi e sognare di stare al passo di chi racconta le straordinarie avventure in luoghi quasi ‘immuni’ dal tempo; certamente integri sul piano ambientale. Poco conosciuti perché non tutti sono disposti a marciare dalle prime ore dell’alba fino al tramonto, a dormire in ripari sotto roccia, fra silenzi interrotti da rumori furtivi nei cespugli, versi di animali notturni, campanacci lontani.

Occorre spirito di sacrificio per essere ripagati poi dalla magnificenza di visioni che penso l’autore, nonostante l’abilità espressiva evidente nell’opera, abbia faticato a descrivere, perché davanti a tanta bellezza qualcosa sfugge anche all’occhio più esperto, allo sguardo di chi per passione e amore verso la natura, è portato ad andare oltre la superficie. A trovare quindi la verità e i segreti più nascosti dei tesori che si presentano con una semplicità pura e disarmante, e proprio per questo incantevoli.

Elio Aste, dopo decenni di esplorazioni nelle aree più remote della Sardegna, tra i meandri dei Supramontes, continua a farsi sorprendere dalla natura più ‘riservata’ e splendida dei paesaggi montani, specie quelli che ruotano intorno al massiccio del Gennargentu. Accompagna il lettore passo dopo passo nelle sue straordinarie esperienze di trekker, come un inedito Caronte, che evita i gironi infernali della vita e conduce tra le sponde di autentici paradisi.

E, se nella magniloquenza di quei silenzi si sentisse il sussurro del divino Poeta, con le sue impeccabili terzine di endecassillabi:

“Ed elli a me, come persona accorta: /Qui si convien lasciare ogne sospetto;/ ogne viltà convien che qui sia morta..”,

bisognerebbe allora convincersi che qui si parla di luoghi in cui la vita diventa leggera, evanescente, senza le contaminazioni della fallacia umana; non una voce che arriva dai luoghi della pena. Perché in questi versanti, tra il Supramonte di Oliena e Dorgali, Orgosolo e Urzulei, si avverte un senso di pace assoluta, non vi sono violazioni che provengono dal mondo asservito al progresso.

L’acqua è sempre limpida nelle sorgenti de “Su Cologone”, e purissima è quella dei laghetti e corsi sotterranei delle grotte, le cui immagini, riportate in questa bellissima opera, sono il riflesso fedele delle visioni di quel mondo sommerso; quasi inverosimili nella loro integra bellezza. L’opera è stata suddivisa in itinerari, studiati per raggiungere gli obiettivi più interessanti sul piano naturalistico e paesaggistico, nonché archeologico, storico, speleologico, botanico..

Gli itinerari, nel sommario, sono evidenziati con colori diversi, come già fa notare la Casa Editrice ‘Italian Edition’: il verde per indicare che in quel percorso si possono trovare luoghi di ristoro; in blù gli itinerari in cui si trovano sorgenti sicure per dissetarsi; in rosso quelle in cui è possibile pernottare; infine sono segnati in giallo i siti consigliati solo a persone particolarmente esperte, in grado di utilizzare l’idonea attrezzatura per spostarsi con agilità, impossibili da percorrere senza, dunque riservati a speleologi in particolare.

Suggestivi e affascinanti gli itinerari che descrivono i collegamenti sotterranei delle grotte “Sa Oche” e “Su Bentu”, comunicanti tramite un grande sifone, situate sul fondo della vallata di Lanaittu. Le due grotte, che presentano scenari maestosi, ambienti attraversati da soffi di vento – da qui il nome ‘Su Bentu’ – che turbinano all’interno di quegli spazi ipogei (soprattutto dopo lunghe tempeste, in seguito alle quali l’aria viene spinta all’interno e produce boati), segnati dal fenomeno carsico. Il carsismo è la nota dominante della roccia calcarea, è il processo chimico esercitato dalle acque meteoriche che sono filtrate nel corso dei millenni nelle fessure del calcare, e hanno creato il mondo meraviglioso, a volte sconvolgente delle grotte.

Dopo lunghi temporali, seguiti da ondate di piena, l’acqua scorre alla base di questo complesso montuoso, portando in superficie un corso d’acqua impetuoso che emerge all’esterno con tutta la sua forza.

Spiega l’autore a proposito delle origini della grotta ‘Su Bentu’: “la grotta Su Bèntu è impostata prevalentemente su immani fenditure, che s’estendono nel sottosuolo per decine di chilometri e che assolvono a funzioni di drenaggio e di veicolazione delle acque, provenienti dal sovrastante Monte Corràsi e, in parte, anche dai Supramonti di Orgosolo e di Urzulei”.

Le due grotte (Sa Oche e Su Bentu) sono spesso meta di esplorazioni da parte di speleologi provenienti da ogni parte del mondo, per via dell’assetto interno particolare, e soprattutto perché in qualche modo sono ‘gemelle’, in quanto legate tra loro da un tracciato sommerso invaso dall’acqua. Le sale di entrambe le grotte, erano frequentate, secondo vari ritrovamenti di reperti (tra i quali ossa umane, scheletri, avanzi di pasti), fin da epoche remote. La passione verso questi mondi nascosti e talvolta ostili, ha causato qualche vittima tra gli speleologi, dei quali uno straniero, giovanissimo.

Di notevole interesse la descrizione della grotta ‘Crobeddu’, che ne mette in rilievo il valore scientifico, ma anche storico e culturale, dovuto alle ‘frequentazioni’ di questo straordinario ambiente ipogeo, eletto a dimora nel XIX secolo dall’omonimo bandito, che ha dato il nome alla grotta. Qui si sono commessi anche delitti, con sommari processi ‘per direttissima’ da parte del bandito, il quale era spietato verso chi lo tradiva.

Ma queste cavità naturali erano quasi certamente considerate anche luoghi sacri per le popolazioni di epoca pre-nuragica e nuragica, siti idonei al culto delle acque, che si svolgeva secondo rituali legati al fervore verso le divinità. La valle del Lanaittu in epoca nuragica doveva essere un territorio piuttosto antropizzato, anche perché l’approvvigionamento idrico era assicurato da numerosi corsi d’acqua e sorgenti.

“Mondi sotterranei e trekking d’avventura” è un libro da leggere, i temi trattati suscitano un grande interesse, si è attratti da questi luoghi circondati dal mistero.

Purtroppo, la conoscenza sui ritmi di vita delle popolazioni che vi abitarono in epoca remota è limitata, forse per questo calamitano l’attenzione, affascinano. Anche le legioni romane, comunque vi transitarono, col fine di indurre alla resa i sardi più riottosi, irriducibili, che non ne volevano sapere di essere colonizzati: per questo i territori barbaricini si erano meritati l’appellativo “Barbaria”, toponimo che come un timbro a cartiglio si portano ancora dietro (da qui deriva appunto ‘Barbagia).

L’ultimo capitolo è riservato ai versi dell’autore, il quale ha scritto componimenti poetici molto suggestivi, la cui forza espressiva deriva dal continuo contatto con la natura e gli ambienti montani che ha esplorato, amato e rispettato. Versi che sono in simbiosi dunque con il racconto dettagliato degli itinerari percorsi, ne riflettono le sensazioni, i colori, l’aria respirata nelle altitudini più esclusive e selvagge delle montagne sarde; in quest’opera protagonista è il Monte Corrasi che sovrasta il centro abitato di Oliena, comune ubicato a poca distanza da Nuoro.

Elio Aste ha collaborato con report di carattere naturalistico e speleologico, tra gli anni ’70 e ’90, con i due maggiori quotidiani sardi, ‘La Nuova Sardegna e l’’Unione Sarda’. Diverse sono le opere pubblicate, tra cui “Sardegna nascosta”, “Sardegna selvaggia”, “Tiscali” (tanto per citare le pù conosciute). Le prime due a tiratura limitata, tanto che è quasi impossibile trovarli in libreria. L’autore ha una straordinaria conoscenza in ambito naturalistico e ambientale, per questo le sue pubblicazioni hanno il valore di manuali, proprio perché i suoi interessi e le descrizioni spaziano su ogni fronte della scienza.

 

 

 

 

 

 

 

 

FORNITURA ENERGIA: IL 2018 E’ COSTATO 100 EURO IN PIU’ A FAMIGLIA

DI VIRGINIA MURRU

 

L’incremento del costo sulle forniture di luce e gas era stato già ventilato alla fine del 2017 da Codacons, Adusbef e altre Associazioni di tutela dei consumatori, era stata prevista una stangata, dell’ordine di circa mille euro a famiglia in un anno (costo totale fattura luce e gas, in media): il 2018 ha mantenuto in pieno le promesse, ogni utente ha speso circa 98 euro in più).

E’ stato davvero un anno piuttosto duro sul versante delle utenze, già definito l’”anno delle stangate”, in particolare per quel che concerne elettricità e gas. Secondo un resoconto di Codacons, vi sarebbe stata una variazione tariffaria, da gennaio a dicembre, di 93 euro a famiglia. Non poco per quei nuclei familiari che hanno budget talmente ristretti da faticare ad arrivare in ordine a fine mese.

In termini nazionali si è trattato di una maxi stangata, che è costata agli italiani ben 1,32 miliardi (sempre secondo i dati Codacons), ossia un incremento in bolletta dell’11% per quel che riguarda l’utenza luce, e del 14% in media a famiglia per gli aumenti del gas. Si sono spesi  quasi 100 euro in più a famiglia, rispetto al 2017. Che l’Italia raggiunga primati poco lusinghieri quando si tratta di costi e imposte, già era noto, e infatti risulta essere i Paesi che sostengono i costi più alti nell’ambito dell’energia, a parità di consumi con gli altri paesi europei.

Il Codacons mette in rilievo il fatto che, sulle fatture relative alla fornitura, c’è una forte incidenza delle imposte; le bollette riguardanti ciascuna utenza devono infatti tenere conto che, sul gas, il 38,60% è costituito da imposte e oneri; mentre sul versante dell’elettricità l’incidenza è del 27%. In un anno, pertanto, una famiglia versa tramite le fatture relative a queste utenze, circa 400 euro. Da sottolineare che, in proporzione, ha colpito le famiglie che consumano meno, non si tratta di buona ‘perequazione’, anche se non siamo propriamente nell’ambito dei tributi.

La Codacons ha lanciato la campagna “Stop rincari energia”, si dovrebbero seguire le indicazioni dell’Associazione a disposizione dei consumatori nel sito internet.

Il 2018 non se ne andrà sbattendo la porta sui rincari, sono previsti altri aumenti tariffari per le utenze che incidono di più sui consumi di una famiglia; in dirittura d’arrivo l’aggiornamento ARERA (Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente), sul tariffario trimestrale concernente gas naturale ed elettricità. A quanto pare sembra confermato l’arrivo di una nuova raffica di rincari. Tutto questo nonostante il ruolo di calmiere che svolge in questa direzione, in termini di tutela dei consumatori. Fino ad ora, e proprio durante il corso dell’anno che sta per terminare, ha bloccato per 6 mesi l’aggiornamento degli oneri di sistema, al fine di contrastare l’aumento eccessivo delle tariffe, ma non potrà opporsi al nuovo flusso di aumenti previsto nel prossimo anno.

Purtroppo questi incrementi di prezzo interesseranno soprattutto gli ‘utenti in tutela’, i più colpiti. Codacons per questo consiglia le famiglie di tutelarsi scegliendo sul mercato le tariffe che prevedono prezzi bloccati (1 o due anni), così che si possa evitare la bolgia dei rincari nel corso dell’anno.

Ma nel lungo orizzonte dei rincari ci potrebbero essere anche i servizi offerti dalle banche, le assicurazioni, i pedaggi stradali. E in un clima d’instabilità dei prezzi,  i trasporti, le utenze dell’acqua e la tassa sui rifiuti, difficilmente resteranno invariati.

Una vera e propria stazione d’inferno per il cittadino, che non può compensare con salari più congrui, e tanto meno appoggiarsi con sicurezza all’importo percepito con la pensione. Si fa riferimento alle classi sociali meno abbienti, alle fasce intermedie, i cui nuclei familiari rappresentano gran parte della popolazione.

Del resto, il cittadino italiano, e non è una novità, è fra i più tartassati in Europa; i rincari annunciati peseranno anche sulle imprese, soprattutto quelle piccole. Tra colpi e contraccolpi, tirando le somme, a pagare di più saranno ancora gli ‘ultimi’, per i quali nessuno garantisce un reale reddito d’inclusione.

Sarà il costo della vita in generale ad aumentare in modo pesante, e a ridurre notevolmente la capacità di acquisto delle famiglie; non sarà solo lo Stato, in modo diretto, ad affondare le mani nelle tasche del cittadino, ma tutto il sistema che vi ruota intorno.

 

MANOVRA. LA CAMERA APPROVA, IL TORMENTATO ‘VIAGGIO’ PROSEGUE ORA IN SENATO

 

DI VIRGINIA MURRU

 

 La manovra ha così superato la prima corsa ad ostacoli in Parlamento, passando indenne all’esame della Camera, con 330 voti a favore e 219 contrari. L’iter ora prosegue al Senato con la sessione di bilancio, ma è già chiaro che il testo sarà riscritto, prima però avrà luogo un vertice di maggioranza per un resoconto sommario, seguito dal confronto con i sindacati, previsto intorno a metà mattinata. Una manovra da ‘riscrivere’, esito già previsto del resto a fine novembre dal ministro per gli Affari europei, Paolo Savona.

Questi appuntamenti  precederanno le ‘comunicazioni ‘ del premier Giuseppe Conte di martedì 11 dicembre, anticipate dallo stesso premier. Le idee dovranno essere chiare prima del confronto con Jean-Claude Juncker, fissato per il 12 dicembre prossimo (martedì).

Ora resta da capire quale sarà la ‘percentuale’ definitiva sul rapporto deficit/Pil, che la Ue ha messo in discussione e resa oggetto di possibile procedura d’infrazione. Si è parlato di passare dall’attuale 2,4% – che sembrava limite intoccabile per la coalizione di governo, e per questo ha lottato e sfidato a lungo le autorità di Bruxelles – al 2%, ma la modifica è ancora da fissare. I due vicepremier concordano sul 2,1%. L’accordo dovrà essere definito su una linea di Governo che oscilla tra le posizioni del premier e il ministro Tria da una parte, e i due vicepremier dall’altra.

L’enigma dovrà essere risolto entro il 19 dicembre, deadline previsto da Bruxelles.

Irriducibili, nonostante l’apertura al dialogo, sono ancora le Istituzioni Ue, che hanno in più circostanze sottolineato di non transigere, l’Italia ha goduto di troppa ‘indulgenza’ fino ad ora e di tutta la flessibilità possibile. Ora, dunque, se il Governo intende andare avanti – evitando ulteriori danni derivanti da uno spread che ha sostenuto l’intransigenza della Commissione europea (e costretto in definitiva Roma alla resa) – deve rivedere i cardini della manovra. E apportare modifiche significative.

Si dovranno rimettere sotto l’incudine le due misure di spesa concernenti  il reddito di cittadinanza e la riforma delle pensioni, con al seguito la quota 100. Messe insieme hanno un valore di circa 16 miliardi, quasi la metà di quelli previsti dalla manovra. Il Governo, tramite il vicepremier Matteo Salvini, precisa che, per quel che riguarda ‘quota 100’, non tutta la platea delle uscite previste nel 2019 (circa 600mila lavoratori aventi diritto), sceglieranno di abbandonare l’attività lavorativa con 38 anni di contributi , o a 62 anni. Si auspica una riduzione di adesioni, dovute anche alle condizioni che prevedono i meccanismi per l’accesso al diritto, ossia divieto di cumulo, penalizzazioni e possibili incompatibilità.

Tale riduzione potrebbe portare un risparmio di circa 2 miliardi, che sarebbero più o meno un terzo rispetto alla cifra stanziata (6,7 mld per il prossimo anno). In tema di risparmio sui due cavalli di battaglia del documento programmatico di bilancio, c’è anche quello di 1 miliardo circa proveniente dal reddito di cittadinanza, la cui fase di partenza è slittata, da gennaio 2019, ad inizio aprile. A questa riduzione di spesa, che in tutto permette di salvare 3,5 mld, ci sarebbe un altro miliardo e mezzo derivante dagli investimenti ritenuti eccezionali, ossia al di fuori dei conteggi  relativi al deficit strutturale, e che rappresentano lo 0,3% di Pil.

Certo si tratta di interventi di rilievo, ma c’è da considerare la richiesta di Bruxelles, che esige modifiche sostanziali, non una semplice buona volontà che lascia ancora forti riserve sull’efficacia delle misure previste, soprattutto in termini di ricaduta occupazionale. Le opposizioni continuano a contestare il reddito di cittadinanza, come misura di compliance elettorale, assistenziale, ma senza importanza circa i riflessi economici, in quanto non incentiverebbero la crescita. Spetta al premier Giuseppe Conte l’onere di convincere la Commissione europea; l’incontro con Juncker è previsto tra due giorni. I margini di trattativa, in termini di tempo, potrebbero essere lunghi, specie si si considera che a breve partirà la campagna elettorale per le elezioni europee, il cui svolgimento è previsto a maggio. Se si decidesse per la procedura d’infrazione, che comunque si spera di evitare, vista anche la mano tesa di Bruxelles al dialogo, si spera di ottenere condizioni tali da non causare forti impatti sul programma di politica economica previsto per il 2019, importantissimo test per il Governo in carica.

Resta da capire quale sarà la riduzione da applicare sul rapporto deficit/Pil, vero nodo stretto della questione che divide il Governo dalle direttive della Commissione. Una cosa è certa: il documento programmatico di bilancio dovrà essere modificato per passare la frontiera dei controlli da parte di Bruxelles.

Molto dibattuta la questione delle cosiddette ‘pensioni d’oro’, per le quali sono previsti tagli fino al 40% per le più alte. Il Movimento 5S afferma che il provvedimento riguarderà quelle di importo che superano i 4.500 euro mensili netti (comprese quelle percepite dai sindacalisti..), un abbassamento della soglia non è stato preso in considerazione. Ma i sindacati in coro sostengono che non si tratta di misure ‘una tantum’, ma di diritti acquisiti, che non possono essere smantellati, altrimenti si rischia l’incostituzionalità della misura.

Tito Boeri, presidente Inps, sostiene che il risparmio che ne deriverebbe non ha una grande rilevanza, in quanto si tratterebbe di importi inferiori ai 150 milioni di euro, riguardando una platea di circa 30mila individui. Tiziano Treu, presidente Cnel, conferma al pari dei sindacati l’illegittimità, in quanto si tratterebbe “di proposte d’intervento retroattivo” sugli assegni pensionistici.

Giorgio Mulé, di Forza Italia, definisce il taglio sulle pensioni, ‘la più grande rapina messa a punto a danno dei pensionati’.

In mattinata l’esame della manovra andrà alla Commissione Bilancio, in Senato, qui giungerà il maxi emendamento del Governo con le modifiche sulle misure chiave, dalle quali si auspica la benedizione dell’Unione europea, al fine di bypassare la procedura d’infrazione che incombe sulle scelte del Governo. Attesi anche i calcoli di Ragioneria e Inps.

La Camera ha approvato le modifiche relative al controllo sui criteri di applicazione della Flat tax, l’ecotassa prevista sui veicoli inquinanti, le modifiche per la maternità, la card famiglia che esclude dalla platea di beneficiari gli extracomunitari, mentre riguarda i cittadini italiani ed europei. Qui di seguito alcuni dei provvedimenti previsti dalla manovra:

Sull’ecotassa, per chi acquistasse autoveicoli nuovi, sono previsti sconti sul prezzo, se il grado di emissione di co2 è basso (inferiore alla soglia).

Quanto alla Flat tax, onde evitare abusi, l’aliquota è stata ridotta al 15% per le partite Iva inferiori ai 65mila euro, si fissano limiti per l’accesso all’aliquota agevolata.

I centri impiego prevedono l’autorizzazione alle regioni di assumere, a partire dal prossimo anno, fino a 4mila persone destinate ai centri d’impiego. La previsione di spesa è di 120 mln per il 2019, e 160 dal 2020.

Previsto un  taglio sulla “Carta Giovani”, di 60 milioni, riguardante l’assegnazione Card Cultura. Si passerà dai 290 milioni a 230, riguarderà i residenti che compiranno i 18 anni nel 2019.

Sulla Maternità è stabilito che le donne, su autorizzazione medica, potranno continuare a lavorare anche fino al termine della gravidanza, facendo confluire così il diritto sul congedo al periodo successivo alla nascita (rendendo in tal modo flessibile la gestione dei cinque mesi di diritto al congedo).

Sugli Asili Nido, è previsto un aumento del bonus da 1000 euro a 1500 annui, che sarà garantito fino al 2021, al fine di consentire l’iscrizione agli asili nido pubblici o privati. Dall’anno successivo, il bonus sarà fissato sulla base di un limite di spesa programmatico, in ogni caso non dovrebbe essere inferiore ai 1000 euro annui.

Per quel che riguarda il Congedo Papà, il prossimo anno gli aventi diritto, potranno usufruire di 5 giorni di congedo in occasione della nascita di un figlio. L’emendamento sul ddl è stato approvato dalla Commissione bilancio della Camera, che ha anche prorogato per la misura per il 2019, con un giorno di congedo in più.

Per le imprese, sono previste agevolazioni sulle imposte riguardanti gli utili reinvestiti, riguardanti l’acquisto di beni materiali strumentali e l’aumento di assunzioni , con taglio dell’ires  al 15%. Per il prossimo anno è stato inoltre prorogato il credito d’imposta 4.0, che prevede la formazione professionale e misure atte a favorire l’internalizzazione.

TENSIONE CINA USA. IL CAPPELLO DEL COWBOY E IL DRAGO DEI CINESI

DI VIRGINIA MURRU

 

Altro che ‘pax’ sul conflitto commerciale in atto tra Cina e Usa. Il veleno delle ritorsioni sta seguendo altre direttive, ma l’origine degli attriti è sempre il medesimo, ossia il protezionismo, allo scopo di preservare il “made in Usa”, ma più verosimilmente per l’affermazione della supremazia economica. L’ostilità verso l’ex impero sovietico non ha più ragione d’essere, ora gli scenari sono cambiati, la supposta minaccia deriva da un’economia a torto definita ‘emergente’, la Cina, appunto, che contende il primato economico sul piano globale agli States.

Nel 2004 la Cina ha superato il Pil degli Usa; ha in mano buona parte del suo debito pubblico, e la crescita congiunturale è il doppio di quella americana.

Ma sono stati gli Usa a dare il ‘là’ e aprire un’ostilità degna di guerra fredda, attraverso l’imposizione di dazi su acciaio e alluminio, che hanno colpito l’export della Cina in modo non indifferente.

E così  si provoca l’orgoglio del ‘dragone’, che ha dimostrato, negli ultimi dieci anni, di sapere aggirare in modo sopraffino le regole delle democrazie occidentali, concedendo al tanto demonizzato capitalismo di entrare dalla finestra, per pure ragioni d’impulso e convenienza interna, ma di lasciare libero l’ingresso principale al PCC. Nonostante il consistente pacchetto di riforme attuato tra gli anni ‘80 e ’90, che ha permesso in fin dei conti l’introduzione del libero mercato, favorendo l’iniziativa privata, e svincolando l’industria dagli artigli dello Stato, i conti ancora non tornano per le credenziali della democrazia. Si è seguita soprattutto una strategia di politica economica che favorisse gli investimenti dall’estero, non di difficile attuazione, considerata l’alta competitività dei costi nel mercato del lavoro.

Il partito comunista al Governo tuttavia svolge ancora un ruolo di ‘supervisione’ politica ed economica, nonché finanziaria, non di poco conto. Tutto questo nonostante i progressi voluti di Deng Xiaoping, che hanno spianato la strada ad un Paese a due sistemi, ma ancora lontano dai progressi sul piano delle riforme democratiche esatte dall’Occidente.

I cinesi chiedono comunque a gran voce di sospendere la quarantena di penalizzazioni nella circolazione di quel flusso impressionante di merci con il quale invade i paesi occidentali. Il Paese però non sarebbe pronto ad essere riconosciuto ‘idoneo’, quale ‘Economia di mercato’, a godere degli stessi diritti delle democrazie occidentali che ne fanno parte, perché alle loro spalle c’è una storia di progresso nei diritti fondamentali che dovrebbe costituire una garanzia nelle relazioni internazionali. La Cina è ancora lontana dal traguardo, nonostante il lungo percorso volto ad affrancarsi dal ‘timbro a cartiglio’ di nazione fondata su un regime totalitario, le ‘carte’ non sarebbero in regola. In realtà né gli Usa né l’Ue vorrebbero riconoscere alla Cina lo status di Economia di mercato per ragioni di competitività (‘eccessiva’) sui costi del lavoro, e dunque sul prezzo dei prodotti. La competitività è tale che, se le si concedesse questo lasciapassare, si rischierebbe di mettere sul lastrico l’industria in Occidente.

In sostanza, i cinesi sanno bene che non è questione di regole anti-dumping, e non violano nemmeno, secondo il governo cinese, le disposizioni del Wto (Organizzazione mondiale del Commercio). Il fatto è che né gli Usa né l’Ue, la vogliono quale ‘terzo incomodo’, proprio per i rischi che incombono sulle imprese e sul settore dell’industria in generale.

Hanno già dimostrato, i cinesi, che non vi è  alcun articolo del Wto in contrasto con l’acquisizione dello status di economia di mercato, e  ci tengono a precisare che i 15 anni di permanenza nell’Organizzazione ormai sono scaduti,  quasi automaticamente pertanto le spetta il riconoscimento che ne legittimerebbe a tutti gli effetti il ruolo, insieme alle altre economie dell’Occidente.

Non c’è da stupirsi se poi si stringono relazioni internazionali di ferro tra Cina e Russia. Risale ad alcuni mesi fa  la visita del ministro della Difesa cinese a Mosca, il quale ha poi dichiarato: “Siamo qui per fare sapere agli americani quanto stretti siano i legami tra i due Paesi.”

Mentre il Global Times, quotidiano cinese, titolava al riguardo: “La pressione occidentale del blocco Nato  avvicina Russia e Cina.”

L’Europa marcia sempre al passo degli Usa, ma gli americani, con l’attuale assetto politico, stanno dimostrando che a seconda degli interessi in gioco, sanno come svincolarsi dagli impegni già siglati, e non si fanno condizionare dalle reazioni dell’Unione europea, addirittura nel mirino dei dazi sull’export di autoveicoli. L’Europa, qualora il conflitto e la tensione dovessero malauguratamente aumentare, rischia di ritrovarsi come una casetta di paglia tra due fuochi. ‘America first’ non riconosce ‘i parenti’ se vi sono interessi economici da tutelare.

 

 

 

 

ADDIO DISTENSIONE TRA CINA E USA, ARRESTATA TOP MANAGER HUAWEI

DI VIRGINIA MURRU

 

Meng Wanzhou, direttrice finanziaria e figlia del fondatore del colosso tecnologico Huawei, è stata arrestata a Vancouver,  su mandato degli Usa, la notizia è stata confermata dal Dipartimento di Giustizia canadese. A suo carico accuse di violazione delle sanzioni contro l’Iran. Lo sdegno della Cina era scontato, non concorda con i capi d’imputazione lanciati dagli Usa, e ne richiede la liberazione.

E siamo di nuovo in tempesta, o meglio sembrerebbe un fulmine a ciel sereno (o quasi), dopo gli accordi firmati a margine del G20 tra la delegazione americana e quella cinese. L’interpretazione di questa iniziativa assai poco diplomatica, nei confronti del top manager cinese, è da ricercare nel conflitto commerciale in atto sui dazi, ma anche in ragioni di spionaggio.  Le manette sono scattate il 1° dicembre, anche se la notizia è trapelata dopo.

Una cosa è certa: i mercati non vanno a nozze con queste tensioni di carattere geopolitico, e quando viene meno il principio della stabilità, la reazione è assicurata, per questo non c’è da stupirsi se le piazze asiatiche sono crollate dopo la notizia dell’arresto di un manager simbolo, il CFO di una grande multinazionale cinese, qual è appunto Huawei. Non si può esigere pace, se poi s’innesca la miccia di un ordigno, il caos nei mercati era da mettere in conto, e la rivolta dei cinesi al provvedimento pure. Così, addio distensione; era un armistizio che per la verità sembrava costruito sotto la cenere di carboni roventi.

Il Wall Street Journal ha scritto che le indagini sulle presunte violazioni delle sanzioni sull’Iran sarebbero iniziate nei primi mesi del 2018. Attualmente la signora Meng è anche  presidente in carica del board di Huawei, figlia di Ren Zhengfei, il fondatore. Si sospetta pure che ci siano stretti legami con il Partito Comunista Cinese, deduzioni che probabilmente vengono dallo spionaggio.

Huawei, in un comunicato, ha dichiarato che “Meng stava cambiando volo in Canada, quando è stata arrestata su richiesta degli Usa, per rispondere di non ben definite accuse a New York”. Pechino insiste sulla sua liberazione, sostenendo che si tratta di violazione dei diritti umani.

La società non rilascia altre dichiarazioni, e afferma di non essere a conoscenza dell’operato del direttore finanziario riguardo alle accuse che le sono state formulate, sottolinea tuttavia, che la compliance sulle leggi e regole internazionali, controlli e sanzioni, sono state ineccepibili ,  sempre osservate da Meng.

La richiesta di estradizione è stata già inoltrata. Il portavoce del Dipartimento di Giustizia americano non commenta, non è chiaro se si tratti di ‘minaccia cyber’ o vantaggi legati alla competitività. Come si sa, di certo c’è il crollo delle Borse asiatiche, e vi sono ragionevoli timori per la tregua commerciale di 90 giorni tra le due superpotenze. E infatti a Tokyo l’indice Nikkei ha chiuso la seduta in calo dell’1,91%; Hong Kong ha lasciato sul campo il 2,92%; Shanghai quasi il 2%. Ma le cose non vanno meglio nelle Borse europee, il contagio è arrivato un pò ovunque, Piazza Affari cede il 2%.

Huawei è il secondo produttore mondiale di smartphone, un gigante delle telecomunicazioni;  con questa iniziativa gli Usa potrebbero veramente colpire la società tramite la catena di produzione sul piano globale, intanto i titoli dei fornitori asiatici sono già crollati. Eppure l’arresto non è così clamoroso, dato che il colosso cinese era ben sorvegliato in Occidente.

Senza contare, secondo un resoconto di Reuters, che c’è stato il divieto d’uso alle Agenzie governative americane, dei suoi telefonini. Ma c’è pure dell’altro: British Telecom avrebbe deciso di non utilizzare apparecchiature di rete Huawei, nelle sue reti 4G, per proteggere dati sensibili riguardanti i clienti. Del resto la notizia che la Cina si servirebbe dei suoi mezzi tecnologici più avanzati per ‘spiare’ gli Usa e altri paesi, non è di oggi.

 

FRENA IL CICLO DI CRESCITA GLOBALE, STIME IN CALO PER IL 2019

DI VIRGINIA MURRU

 

Lo aveva anticipato già a settembre scorso l’Ocse, con una previsione al ribasso della crescita economica globale, il cui Outlook dovrebbe passare, secondo l’Organizzazione (con sede a Parigi), da +3,9% – stime di maggio – a +3,7%, sia per il corrente anno che per il prossimo. Un ‘soft landing’ del Pil globale, che tuttavia orienta verso la fine del ciclo positivo degli ultimi quattro anni, e pertanto il picco di crescita  si avvierebbe verso la contrazione, destinata a proseguire nel breve periodo.

Al fisiologico andamento del ciclo si potrebbero aggiungere dinamiche di politica economica e instabilità di carattere geopolitico, nonché aggiustamenti di politica monetaria nelle economie avanzate e in quelle emergenti, e infine la destabilizzazione dovuta alle tensioni derivanti dal protezionismo e imposizione di nuovi dazi, che hanno scatenato, nel volgere di un semestre, un vero e proprio conflitto commerciale, con fibrillazione dei mercati al seguito.

Ma l’Outlook dell’Ocse non è ovviamente l’unico che presenta valutazioni al ribasso nella crescita globale, c’è anche l’Fmi (Fondo Monetario Internazionale), il quale, nelle ultime previsioni di ottobre, ha tagliato le stime sul Pil  sia per il 2018 che per il prossimo anno, passando dal 3,9% al 3,7% per il biennio.

Secondo il World Economic Outlook del Fondo, le cause vanno ricercate nel conflitto commerciale scatenato dall’establishment Usa, che potrebbe portare ad una flessione dell’espansione economica globale, pari allo 0,8% nei prossimi due anni, con effetto boomerang proprio sugli States, e poi in Cina, economia bersaglio di queste politiche commerciali aggressive. La Cina già sta seguendo un trend di contrazione nella crescita; secondo le previsioni del Fmi, già nel 2019 il Pil passerebbe dal 6,4% al 6,2%, in linea tuttavia con le stime riguardanti la crescita globale.

In un articolo pubblicato su Investment Managers, gli analisti concordano in generale con le previsioni delle Organizzazioni internazionali: le stime macroeconomiche dei prossimi due anni confermerebbero il trend al ribasso del Pil globale.

Secondo queste analisi, gli Usa sono avviati verso una crescita del 2,9%, ossia la migliore performance dal 2006, andamento favorito dall’espansione fiscale, ma il riflesso non durerebbe a lungo, già s’intravede una riduzione degli effetti delle riforme fiscali, alla quale si aggiunge il riverbero negativo delle politiche commerciali e le contrazioni delle condizioni finanziarie. Fattori che dovrebbero condurre verso il rallentamento ciclico, secondo gli analisti, non proprio ‘soft’: dal 2,9% si passerà al 2,3% nel 2019.

Non si escludono nei prossimi due anni, contrazioni più brusche nella crescita, per via delle dinamiche legate alla politica economica portata avanti dagli Usa. La decelerazione in corso potrebbe derivare anche dall’interazione di dati legati al calo di fiducia, riduzione delle scorte, flessione della spesa e investimenti.

C’è poi l’influenza esercitata dalla politica monetaria, anche se con gli scenari attuali sarebbero da escludere fenomeni di recessione, e tuttavia nel 2020 è attesa una decelerazione, inferiore alla media. La Fed continuerà, ma non per molto, la politica di rialzo dei tassi, con tre rialzi previsti per il 2019. Sarà il 2020 a sancire l’inversione di rotta dell’economia più solida del pianeta.

In Europa il trend di contrazione della crescita è già in corso, l’economia dell’area euro in particolare sconta i riflessi derivanti dall’instabilità politica di alcuni Stati membri, Italia in primis. Il 2018 per l’Ue, in termini di crescita, ha frenato oltre le aspettative, e non andrà oltre l’1,9% nel corrente anno, con una flessione pari allo 0,6% rispetto al 2017. La tendenza è orientata verso un’ulteriore contrazione nel 2019, che dovrebbe attestarsi sull’1,4%, e, in ‘progresso’ negativo, il 2020 dovrebbe registrare l’1,2%.

Tutto questo in un contesto di dati riguardanti i consumi, stabili, mentre freneranno gli investimenti da parte delle imprese, e la redditività, considerato che la domanda di credito, rispetto al 2014, è ai minimi.

La tendenza al rallentamento potrebbe indurre la BCE a portare allo 0% i tassi sui depositi nel 2020, nonostante la controtendenza dei dati relativi all’inflazione, vicina al sospirato target del 2%.

Ulteriori fattori di rischio potrebbero provenire, per l’area euro, dalle politiche di bilancio dell’Italia, e l’instabilità che ne è seguita, con annessi rischi di contagio finanziario. E c’è poi la questione rovente riguardante la Brexit, spina sul fianco dell’Ue da ormai due anni. I progressi compiuti dalla premier Theresa May, che ha dovuto cedere ad un compromesso con i negoziatori dell’Unione europea, ha creato forti opposizioni nel Regno Unito, tanto che il ‘dossier’ relativo allo sdoganamento della Brexit, peraltro tenuto riservato dalla May, difficilmente passerà l’iter di approvazione del Parlamento, previsto a breve.

Altri elementi negativi per la crescita in Europa, derivano dall’imposizione dei dazi sull’export di auto Ue negli Usa.

Insomma stime che prevedono scenari non proprio esaltanti, ma del resto i fenomeni economici sono caratterizzati da cicli racchiusi in tempi limitati, e pertanto bisognerebbe sempre mettere in conto queste variabili, soprattutto quando si ragiona su contesti globali.

 

TREGUA SUI DAZI TRA USA E CINA, OTTIMO L’UMORE DEI MERCATI

DI VIRGINIA MURRU

 

Un deciso cambio di umore nei mercati, dopo l’annuncio dell’establishment americano che un accordo è stato  raggiunto tra Cina e Usa sul fronte dei dazi; l’intesa ha determinato la sospensione del conflitto in atto tra le due superpotenze, causato dalle ritorsioni in entrambi i fronti. Ordigni doganali previsti dal governo americano sull’export cinese, che sarebbero scattati a gennaio 2019, con un rialzo fino al 25%, mentre Pechino non sarebbe rimasta a guardare.

L’accordo è stato raggiunto nell’ambito di un confronto tra le delegazioni Usa e Cina, a margine del summit G20 svoltosi i giorni scorsi a Buenos Aires. Per ora il ping pong sui dazi è sospeso per 90 giorni, e tuttavia sono previsti ulteriori confronti tra il presidente americano e quello cinese, ai quali seguiranno  incontri bilaterali e nuovi negoziati. E’ chiaro come ad entrambi non convenga la linea dura, i cedimenti partono da queste considerazioni, altrimenti Trump non avrebbe concesso nulla al colosso cinese, che ormai da una decina d’anni contrasta la supremazia dell’economia americana.

L’intesa sulla tregua dei dazi prevede che Washington non procederà con i rialzi previsti del 25% sull’export cinese, dal primo gennaio del prossimo anno, e manterrà invece la tariffa del 10% su 200 miliardi di dollari di merci cinesi.

Sull’altra ‘sponda’, i cinesi hanno deciso di mantenere l’impegno sulla riduzione delle misure di aumento dei dazi sull’import di auto made in Usa. Gesti rivolti ad un ‘armistizio’, e non solo sul versante commerciale, ma anche su quello delle relazioni diplomatiche tra i due paesi.

Una linea di distensione  che ha portato un’immediata ondata di ottimismo un po’ ovunque nei mercati, e i listini lampeggiano in verde, soprattutto nelle piazze europee e a Wall Street, con evidente sollievo degli investitori, a Piazza Affari la seduta di ieri si è chiusa al rialzo, il Ftse Mib si è spinto oltre il 2%.

Bene anche i risultati ottenuti dal London Stock Exchange, con +1,18%; e in positivo anche Francoforte e Parigi, che hanno chiuso, rispettivamente, a +1,85% e +1%. Sulla medesima linea d’onda Wall Street, con gli indici S&P, Dow Jones e Nasdaq in positivo.

Anche il ministro degli esteri cinese, Wang Yi (Consigliere di Stato e al vertice nella diplomazia cinese), in una conferenza stampa si ritiene soddisfatto dell’”importante consenso” raggiunto dai  due paesi, i colloqui sarebbero stati diretti “all’amicizia e alla schiettezza, onde evitare di inasprire le tensioni commerciali”.

Aggiungendo che “Usa e Cina hanno la responsabilità di spegnere qualsiasi focolaio di conflitto, a beneficio della pace nel mondo, mirando piuttosto a condividere gli interessi nelle loro relazioni, e non ad accentuare le differenze”. Dunque, secondo il ministro cinese, deve esserci un orientamento diplomatico che miri  all’apertura dei mercati, nei rapporti commerciali; ma anche diretto agli impegni nell’ambito delle riforme da parte del governo cinese, con altre pietre miliari sul non facile percorso del Paese verso la democrazia.

La Cina  prosegue peraltro la sua attività diplomatica a favore della distensione dei rapporti tra Usa e Corea del Nord, dopo i risvolti positivi dell’incontro tra i due capi di Stato, avvenuto a giugno a Singapore. In concerto con i rappresentanti dei rispettivi paesi, si sta mettendo a punto l’organizzazione di un altro meeting che avrà luogo nei primi mesi del 2019, al momento non è stato ancora deciso il luogo in cui si terrà l’incontro.

Intanto, l’allentamento della tensione commerciale tra Cina e Usa, è un supporto anche per le piazze asiatiche e del Pacifico. Le economie più aperte ai traffici del commercio internazionale se ne avvantaggiano; il dollaro australiano più di tutti, con performance che non raggiungeva da oltre quattro mesi. Passo indietro invece del dollaro rispetto allo yuan.

A Tokio la Borsa ha chiuso ieri la seduta in rialzo dell’1%, non succedeva da più di un mese. Le piazze cinesi, e Hong Kong, fanno balzi che sfiorano il 3%, le ragioni di questa ‘euforia’, sono ovvie, il clima di sollievo si avverte ovunque. Clima positivo  è rimbalzato anche nelle Borse di Seul e Sydney, entrambe hanno chiuso la giornata di ieri in positivo.

 

 

 

DOPO BEN 14 TRIMESTRI CONSECUTIVI DI CRESCITA, CALA IL PIL DELLO 0,1%

DI VIRGINIA MURRU

 

Non portano verso l’ottimismo gli ultimi dati diffusi dall’Istat, a ottobre sale il tasso di disoccupazione, al 10,6%, e per i giovani raggiunge il 32,5%.  Ad ottobre gli occupati sono al momento stabili: +159.000 su anno, il tasso di occupazione, secondo i rilievi dell’Istat ‘non fa registrare variazioni congiunturali’.

Ma si va oltre questi arretramenti: la rilevazione del Pil nel terzo trimestre mette in evidenza un calo pari allo 0,1%, un risultato poco edificante, se si considera che l’economia italiana è sotto scacco su diversi fronti. In ogni caso la flessione del Pil risulta essere ancora più preoccupante perché arriva in un momento delicato e risulta essere il primo dato negativo dopo una performance positiva di ben 14 trimestri di crescita.

Secondo il comunicato stampa dell’Istat, la stabilità dei dati sugli occupati, deriva dall’aumento dei dipendenti permanenti, +37 mila, e da una sostanziale diminuzione dei dipendenti a termine: -13 mila, i quali sospendono il trend positivo che si era innescato nel marzo scorso; -16 mila i lavoratori indipendenti. Diminuiscono gli occupati tra i 25 e i 49 anni, mentre un cenno di crescita arriva dai 15-24enni, con un aumento più consistente tra gli over 50. Rispetto al trimestre precedente, ad ottobre 2018, l’occupazione è quindi in calo, -0,2%, che corrisponde a -40 mila unità, e riguarda entrambi i sessi.  Nel corso dell’ultimo trimestre si riscontra una contrazione del numero di occupati, associata a quella dei disoccupati, pari a -2,5%, equivalenti a -70 mila. Aumentano gli inattivi, +56 mila.

E’ dal comunicato stampa Istat, riguardante i conti economici trimestrali, che si prende atto del calo del Pil – ‘espresso in valori concatenati con anno di riferimento 2010, corretto per gli effetti del calendario e destagionalizzato – calo pari allo 0,1%, nei confronti dei dati rilevati nel trimestre precedente, mentre risulta in aumento per lo 0,7% se si raffronta al terzo trimestre 2017.

Per quel che concerne la variazione congiunturale del Pil, secondo l’Istat, in riferimento ai dati del 30 ottobre scorso, era risultata nulla,  mentre aumentava quella tendenziale con +0,8%. Il comunicato precisa inoltre che il terzo trimestre del corrente anno ha avuto due giornate lavorative in più rispetto a quello precedente, e il medesimo numero di giornate lavorative se rapportato al terzo trimestre del 2017.

La variazione acquista per l’anno in corso sarebbe pari a +0,9%.  Si riscontra un calo degli aggregati principali concernenti la domanda interna, -0,1%  i consumi finali nazionali; -1,1% gli investimenti fissi lordi. In crescita import ed export, il primo con lo 0,8% e il secondo dell’1,1%.

A incidere sulla flessione del Pil è stata anche la domanda nazionale al netto delle scorte, che ha pesato con lo 0,3 punti percentuali, e contributo praticamente nullo per quel che concerne i consumi delle famiglie e Istituzioni sociali private, nonché per la spesa delle Amministrazioni pubbliche. In negativo dello 0,2 punti percentuali gli investimenti fissi lordi.

Positivo il dato che fa riferimento all’offerta di beni e servizi, l’andamento congiunturale risulta positivo, ma solo per il valore aggiunto dell’agricoltura, precisa l’Istat, che è aumentato per un valore pari all’1,6%, quelli inerenti l’industria e i servizi, sono invece diminuiti, il primo dello 0,1% , il secondo dello 0,2%.

Al giornalista che gli ha chiesto di esprimere un parere sui dati pubblicati dall’Istat, il premier Giuseppe Conte, dal G20 che si sta svolgendo a Buenos Aires, ha risposto che non c’è da preoccuparsi, se il Pil è calato il Governo penserà a farlo crescere.

 

 

 

OGGI SI CELEBRA LA “GIORNATA INTERNAZIONALE DEI RAGGI COSMICI”

DI VIRGINIA MURRU

 

Oggi, ovunque nel mondo, si celebra l’”International  Cosmic day”, ossia la giornata dedicata ai cosiddetti ‘raggi cosmici’, o radiazione cosmica. Studenti e appassionati  collaborano con le Università, per comprendere, attraverso la ricerca e lo studio, che cosa sia quel flusso regolare di particelle elementari, quali protoni, elettroni, nuclei di atomi pesanti, che provengono dallo spazio e ‘avvolgono’ il pianeta. Il fenomeno può anche essere inteso come sistema di particelle secondarie derivanti dall’interazione di quelle menzionate.

La scienza, e la Fisica in particolare, è una stupefacente avventura che conduce quasi sempre ai confini dell’intelligibile, dove la mente umana rivela il prodigio del proprio ingegno, arrivando a leggere i codici criptati del Cosmo decifrandone le leggi, le formule, i misteri..

Percorrere queste vie dell’Universo irte di ostacoli attrae anche le giovani generazioni, e oggi sono qualche migliaio gli studenti che in Italia partecipano alla celebrazione, collaborando con i protagonisti di questa scienza: i fisici dei centri di ricerca. In questo caso è il centro Desydi di Amburgo, in coordinazione con l’Infn, ossia l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, ma collaborano anche  centri di ricerca importanti a livello mondiale, come il Cern e il Fermilab di Chicago.

Il fine  è ovviamente quello di stimolare la conoscenza e i percorsi di ricerca, dove i progressi nello studio dei raggi cosmici, saranno la base e il fulcro per avvicinarsi alla Fisica e ‘analizzare’  i dati attualmente disponibili dai ricercatori di tutto il mondo. Dati derivanti dall’impiego di un particolare strumento: il rivelatore di raggi cosmici. Attraverso il suo utilizzo fisici e ricercatori possono osservare il flusso di particelle che invadono la Terra dallo spazio, dal Cosmo.

Gli studi degli italiani hanno svolto un ruolo decisivo, è di quest’estate la notizia (data dalla National Science Foundation degli Usa), della scoperta dell’origine dei raggi cosmici, grazie alla ‘cattura dei neutrini cosmici’, ossia quei messaggeri celesti che silenziosamente circondano l’atmosfera terrestre, come ‘presenze’ discrete dell’Universo. Ma i fisici e ricercatori italiani  sono sempre in prima linea sui traguardi raggiunti soprattutto negli ultimi 30 anni, e competono a pari livello con i risultati delle grandi potenze, che dedicano ingenti risorse alla ricerca.

Gli italiani hanno all’attivo  numerose pubblicazioni nelle riviste scientifiche più quotate, alla scoperta dell’origine dei raggi cosmici; hanno partecipato con successo agli studi l’Agenzia Spaziale Italiana, l’Istituto di Astrofisica, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, oltre a numerosi Atenei.

Tramite la ricerca si è portato a conoscenza il ruolo di ‘terzi messaggeri cosmici’ svolto dai neutrini, e sono in buona compagnia con le onde gravitazionali e i fotoni (o particelle di luce); tutti insieme diventano strumenti al servizio della conoscenza nel campo della fisica.

Introdursi in punta di piedi, nei meandri dello spazio, significa correre il rischio d’essere in qualche modo sopraffatti dal fascino  e i misteri della Scienza, quella che s’inoltra al di là degli avamposti del Cosmo, e ne percorre, talvolta con una ‘candela’ in mano, i percorsi accidentati, a volte preclusi dai limiti del sapere. Un sapere che ha compiuto, specie nell’era moderna, progressi enormi, che solo qualche decennio fa non si credevano possibili, certamente coadiuvati, oltre che dall’intuito degli scienziati, anche da strumenti potentissimi che rendono meno ostica la comprensione e la conoscenza dei fenomeni più oscuri dell’Universo.

La fisica, per i profani, può essere solo avvicinata con cautela, perché consapevoli dei limiti del proprio sapere, ma questo non significa rinunciare a sfiorare col pensiero la meraviglia delle scoperte in questo ambito.

Fin dall’epoca in cui si è cominciato a studiare il fenomeno dei ‘raggi cosmici’, si comprese l’importanza della loro esistenza, e si partì da lontano, fin dal XVIII secolo. Nel 1785, il fisico e ingegnere Charles Augustin Coulomb (conosciuto come fondatore di teorie matematiche sull’elettricità e magnetismo, ossia l’unità di misura della carica elettrica), misurò la ionizzazione dell’atmosfera. Tanti studi furono compiuti tra il ‘700 e l’’800, e infatti fu alla fine dell’ottocento che si portarono alla luce scoperte importantissime, le quali fecero da apripista alla fisica moderna. Alcuni esempi riguardano i ‘raggi catodici’ (1879, elettrodo con carica negativa); i ‘raggi X’ nel 1895; ‘la radioattività naturale’, l’anno seguente – e un anno più avanti ancora si elimina un altro velo alla conoscenza di questi raggi, con la scoperta dell’elettrone.  Nel corso dell’ultimo anno del secolo – 1899 – lo scienziato Rutherford scopre i raggi α e poi i β e i γ.

E tuttavia, fu nei primi decenni del ‘900 che si assistette alla “Nascita della Fisica dei Raggi Cosmici”, il famoso fisico tedesco, Victor Franz Hess, sperimentò un volo in ‘pallone’, fino a raggiungere gli oltre cinquemila m. d’altezza.  Con sé aveva un elettroscopio a fibre di quarzo e un microscopio a scala graduata, con i quali misurò le radiazioni e la loro intensità, arrivando alla conclusione che era il doppio di quella rilevata sulla Terra. L’elettroscopio fu uno strumento importante, che permise già nell’’800 la scoperta della ionizzazione dell’aria.

Negli studi ‘precursori’ concernenti la scoperta dei raggi cosmici, c’è anche un autentico pioniere: il fisico italiano, Domenico Pacini, che aveva lavorato all’”Ufficio Centrale di Meteorologia e Geodinamica”, e in seguito diventò docente di Fisica Sperimentale all’Università di Bari. Visse tra l’ottocento e la prima metà del novecento.

Collaborava con lo scienziato austriaco suo contemporaneo, Victor Franz Hess, al quale inviava missive sulle sue intuizioni, e in una di queste lettere si rammaricava del fatto che nelle pubblicazioni del dott. Hesse non si citassero per nulla le ricerche dei fisici italiani. Rivendicava inoltre il fatto che ‘i lavori’ dei ricercatori italiani erano arrivati a conclusioni importantissime, che erano diventate la base per ulteriori progressi e ricerche da parte dei migliori scienziati dell’epoca.

Il prof. Hess rispose in modo cordiale, e si scusò delle omissioni – ‘non volute’ – scrisse, ma comunque nel 1936, il Premio Nobel per la scoperta dei ‘Raggi Cosmici’, fu assegnato proprio a lui e ad un altro ricercatore, Carl David Anderson.

Anderson, era un americano nativo di New York,  ma di origini svedesi, per tutta la vita si dedicò alla ricerca (terminando la sua esistenza a S. Marino nel 1991). E’ noto proprio per la motivazione che gli valse il Nobel in giovanissima età (aveva solo 30 anni), e per una vita di studi e ricerche, i quali hanno riguardato l’irraggiamento della luce solare che si trasforma in elettricità – dovuta alla diffusione spaziale degli elettroni, che derivano da gas diversi, facenti parte dei cosiddetti Raggi X – e in tanti altri ambiti della Fisica.

 

 

PIAZZA AFFARI VIAGGIA PIU’ LEGGERA, RIENTRA LO SPREAD DI 50 PUNTI IN UNA SETTIMANA

DI VIRGINIA MURRU

 

La settimana in borsa è cominciata bene,  s’intravedono diversi segnali luminosi che fanno ben sperare sulla fitta cappa di nebbia che ha oppresso negli ultimi mesi l’andamento dell’economia italiana; non si tratta propriamente di un miracolo inspiegabile, le ragioni ci sono. L’ottusa intransigenza manifestata dal Governo sulle previsioni inerenti il documento programmatico di Bilancio – oggetto del contendere con la Commissione europea – è stata ridimensionata, costretta a venire ‘a patti’, onde evitare conseguenze peggiori di quelle sentenziate dai mercati finanziari nel volgere di 5 mesi.

Ieri, intanto, Piazza Affari ha chiuso le contrattazioni con un incoraggiante +2,7%; i titoli bancari che hanno cambiato decisamente rotta in positivo, mentre lo spread si è fermato in serata a 290, una cinquantina di punti in meno rispetto ai  massimi di una settimana fa. Oggi la borsa in apertura di seduta, e verso metà giornata, continua in positivo,  perde ancora qualche punto  anche lo spread. Insomma c’è al  momento un’atmosfera migliore, e non resta che sperare nella chiusura di un capitolo veramente amaro per le finanze italiane, che non si sarebbero potute permettere a lungo le conseguenze causate dal costante aumento del differenziale di rendimento tra i decennali italiani  e quelli tedeschi.

Il dialogo con le autorità di Bruxelles, la disponibilità alla ‘revisione’ di alcuni punti della manovra – così com’è ritenuta inaccettabile dall’Ue – ha riaperto il fronte degli accordi, al quale sono seguite dichiarazioni incoraggianti e meno ostili da parte del presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, del suo vice Dombrovsks, e del Commissario agli Affari Economici e Monetari, Pierre Moscovici. Quest’ultimo ha definitivamente aperto la strada ad un percorso di ‘conciliazione’, sostenendo di essere contrario per principio alle sanzioni:

“Cerchiamo soluzioni sul bilancio dell’Italia – ha dichiarato a Parigi nel corso di una conferenza stampa – senza negare che le cause delle tensioni sono state un problema per l’Unione europea. Ma non ritengo che intervenire con penalità in questo momento delicato sia opportuno, le sanzioni sono un fallimento a prescindere, meglio sarebbe scegliere la flessibilità. La Commissione lascia la porta aperta al governo di Roma, miriamo ad evitare ulteriori conflitti, nell’interesse del popolo italiano e per il ruolo che il Paese svolge in area euro.” E aggiunge:

“Insieme alle  tensioni causate dalla Brexit e dai conflitti commerciali in atto, la manovra italiana ha contribuito a portare incertezza nell’Unione europea. Auspichiamo interventi incisivi da parte del governo, i rilievi sulla manovra al momento non hanno avuto tuttavia una risposta convincente, persiste la preoccupazione per le imprese, i risparmiatori e cittadini in generale; un debito al 130% del Pil è un forte deterrente per lo sviluppo e un rischio che non si può sottovalutare. Dall’incontro del premier Giuseppe Conte e del ministro Giovanni Tria con il presidente della Commissione, sono emerse buone prospettive sul dialogo, si deve proseguire su queste premesse.”

Incoraggiano le concessioni sullo slittamento delle misure relative al reddito di cittadinanza, e ora ci sono anche le dichiarazioni del vicepremier Matteo Salvini, disposto a ridurre la platea della ‘quota 100’, oltre a rinviarne di un mese l’avvio, partirà infatti a febbraio, non più a gennaio, come era stato previsto.

Un altro spiraglio di luce proviene dalla Bce. Secondo l’Agenzia Reuters, che riporta uno studio degli analisti di Barclays, la Bce avrebbe annunciato in ritardo un nuovo ciclo di Tltro (Targeted long term rifinancing operation), si tratta di operazioni di finanziamento a più lungo termine, che permettono e favoriscono il passaggio dei prestiti bancari all’economia reale. Il processo Tltro, infatti, prevede un’asta attraverso la quale si erogano prestiti quadriennali alle banche dell’area euro, il cui rendimento è di poco al di sotto del tasso di riferimento.

Reuters, in un articolo pubblicato ieri, precisa che, qualora la Bce ritardasse l’annuncio di un terzo ciclo di operazioni di rifinanziamento a lungo termine, passando ai primi mesi del prossimo anno, l’efficacia potenziale sarebbe sostanzialmente ridotta. Questi sono i risultati delle ricerche di Barclays Research, diffuso proprio ieri. Secondo le risultanze della ricerca, l’Eurotower potrebbe annunciare in sede di Consiglio di Politica Monetaria (il 13 dicembre prossimo), l’intento di attivare una nuova serie di Tltro, pubblicando tuttavia più avanti i particolari tecnici degli interventi.

Con queste strategie sui tempi, secondo gli studi condotti da Barclays, gli istituti di credito sarebbero in grado di contenere l’incertezza tramite la programmazione dei criteri (e condizioni) di finanziamento per il biennio 2019/20. Se venisse a mancare la nuova serie Tltro, secondo la ricerca, si assisterebbe ad un rialzo dei tassi sui prestiti al settore privato, e ad una riduzione della disponibilità di credito, il che accentuerebbe le criticità derivanti dalla sospensione del Quantitative Easing, e dei tassi negativi. Considerando anche la fase di “rischi macroeconomici crescenti” – sempre secondo i risultati della ricerca Barclays.

Gli istituti di credito che hanno in portafoglio un notevole volume di titoli di Stato, vivono vicende alterne, a seconda delle risposte dei mercati nei confronti della credibilità o meno dell’economia italiana. Tra ieri e oggi certamente si è assistito ad un rivolgimento per quel che concerne i risultati in borsa.

 

 

A BRUXELLES CONTE SORRIDE (TROPPO?), MANOVRA ANCORA SULLA VIA DI DAMASCO

DI VIRGINIA MURRU

 

Gli avvenimenti degli ultimi giorni autorizzano ad essere ottimisti sul tenore delle relazioni tra Roma e Bruxelles, l’atmosfera di tensione che ha contribuito ad esacerbare il “sentiment” dei mercati si è stemperata, e sia nel risultato dell’incontro tra il presidente della Commissione e il premier, sia nelle ultime dichiarazioni dei due vicepremier, c’è disponibilità ad allentare la presa di un braccio di ferro che non ha portato altro che danni.

I mercati hanno gradito, è sceso al di sotto dei 300 punti base il differenziale, e anche Piazza Affari marcia in positivo.

Il premier Giuseppe Conte, da Bruxelles, ha addirittura ventilato l’ipotesi che si riesca, attraverso il dialogo e qualche concessione sui numeri blindati della manovra, ad evitare la procedura d’infrazione, verso la quale sembrano orientati anche i paesi membri dell’Ue, che a breve, su richiesta della Commissione, esprimeranno il loro parere al riguardo.

Nuove prospettive, dunque, in questo nebuloso orizzonte, che finora ha precluso ogni svolta, e ogni giorno, a causa della sfiducia dei mercati, il Governo ha incassato solo ulteriori complicazioni, tramite il gravame degli interessi, finora circa 6 miliardi in più, ossia una parte della spesa programmata per il cosiddetto ‘reddito di cittadinanza’.  Ma non si può nemmeno sottovalutare l’esito dell’ultima asta sui Btp, dalla quale si è incassato circa il 70% in meno degli importi previsti. E nonostante le rassicurazioni del governo sulla presunta solidità e tenuta dell’economia del Paese, gli investitori evitano i titoli italiani, perché il rischio dell’instabilità avvelena tutto.

All’ottimismo dichiarato alla stampa, il premier Conte aggiunge tuttavia che l’incontro con Jean-Claude Juncker “non è stato risolutivo”, nonostante i toni distesi e la cordialità, e perfino la sortita del presidente della Commissione, il quale, davanti ai microfoni, ha esclamato: ‘ti amo Italia’. Insomma, la cautela è un imperativo di questi tempi, e quella porta a lungo sbattuta in faccia all’Ue, resta ora socchiusa, non spalancata.

Il premier italiano certamente riscuote maggiore credibilità a Bruxelles, perché non ha mai espresso toni propriamente ostili verso le autorità dell’Unione, e tanto meno invettive, come invece hanno fatto i due vicepremier, con  proclami di sfida, intransigenza assoluta verso le raccomandazioni sulla manovra e il rispetto della Legge di Stabilità e Crescita, alla quale sono vincolati i paesi dell’area euro.

Proprio sabato, l’ultimo siluro del vicepremier Matteo Salvini, il quale, mentre a Bruxelles il premier Conte si serviva di tutte le armi della diplomazia e del buon senso, per convincere Juncker della buona fede del Governo e dell’efficacia della manovra, egli dichiarava con disinvoltura: “Io non arretro, chiedo rispetto all’Europa..”

E proprio su questo aspetto si è soffermato Juncker, sui toni troppo duri, sulle parole che somigliano ormai a lanciafiamme, per le istituzioni europee, diventate, da diversi mesi, un tiro al bersaglio, tattiche sovraniste che nessuno in Europa si era mai permesso, a torto peraltro, dato che è il Governo italiano responsabile della violazione di punti importanti del Trattato di Maastricht. Per questa ragione gli altri stati membri, perfino l’Austria, hanno condannato l’operato dell’Italia; non ci si può stupire dello sdegno che ci si è lasciato dietro.

Il premier era accompagnato dal ministro dell’Economia, Giovanni Tria, anch’egli stimato a Bruxelles, nonostante le riserve sul contenuto del documento programmatico di Bilancio. Stimato perché è un ministro che basa le relazioni politiche sulla correttezza e la moderazione dei toni: sul rispetto, che è già tutto. Il dialogo con Bruxelles, sembra abbia imboccato una direzione più rassicurante, resta tuttavia incerto per quel che concerne gli esiti: di fatto sul rapporto deficit/Pil, il governo di Roma è ancora granitico, si parla di ‘limare’ le voci della spesa, ma si tratterebbe di decimali, non ci sono ancora dichiarazioni su cedimenti di sostanza, che sarebbe poi la condizione per evitare la procedura d’infrazione e fare definitivamente pace con l’Ue.

Dichiara il premier Conte: “nell’incontro con Juncker non si è parlato specificamente di saldi finali, ma non ho lasciato intendere che avrei messo limiti alle misure qualificanti della nostra politica economica”. Al pressing dei giornalisti, che gli hanno chiesto maggiori dettagli, ha risposto: “cercate di capire che le negoziazioni – se ci sono in gioco intese di questo tipo – devono restare riservate”.

Traducendo: la mediazione è in corso, non c’è ancora nulla di certo, si è trattato di un’apertura il cui esito si vedrà prossimamente. Ed è chiaro che l’incontro, nonostante le dichiarazioni d’intenti fossero il lasciapassare migliore per dialogare con la Commissione, sia incerto, il premier italiano era  ‘blindato’ dalle resistenze dei due vicepremier, che non autorizzano al momento concessioni che intacchino in misura considerevole le previsioni di spesa contenute nel documento programmatico.

Non ci si è recati a Bruxelles con la bandierina bianca, ma con una non ben definita volontà di giungere a qualche lieve compromesso, termine in realtà mai pronunciato, perché si spera ancora di farla franca con qualche leggera ferita. Ma le autorità italiane, forse, non hanno ancora recepito il fatto che il dialogo e i toni più distesi, d’accordo, sono una premessa, ma sarà alquanto difficile ottenere il disarmo sulla procedura d’infrazione, e una manovra ‘appena infranta’ con una rimodulazione ‘soft’, tanto da non pregiudicare gli obiettivi fondamentali, quelli che rientrano nelle promesse solenni fatte in una campagna elettorale vinta sugli azzardi. Insomma sarà difficile prendere due piccioni con una fava, a Bruxelles non sono degli allocchi, e sanno insinuarsi molto bene nelle strategie politiche dei paesi membri, allorché s’instaura un conflitto per ragioni di inadempienze.

Il vicepremier Salvini, nelle ultime dichiarazioni, sostiene che sarebbe disponibile a rettificare quel tanto discusso 2,4% sul deficit, ma giusto i decimali: “non sono quelli a fare la differenza, può trattarsi di 2,2% o di 2,6%, non è qui la sostanza quando si tratta di serietà”. Ancora irremovibile invece sulla cosiddetta ‘quota 100’, non è disponibile a differire i termini d’inizio di questa misura, per ora nessuna intenzione di farlo slittare a favore di altri impieghi. Il vicepremier Luigi Di Maio, si è sottomesso allo slittamento dei tempi previsti per l’avvio del reddito di cittadinanza, che partirebbe ad aprile, non più a gennaio 2019, ma la Lega è ancora ferma sui tempi stabiliti per fare partire la ‘quota 100’.

Le ragioni per le quali Salvini tiene tanto alla quota 100 sono più o meno le stesse che lasciano in trincea l’altro vicepremier Di Maio, (disposto a rimandare di qualche mese, ma inflessibile sul reddito di cittadinanza), ossia le promesse fatte al Nord, perché davvero ad avvantaggiarsi di questa misura saranno soprattutto al Nord.

Con questo provvedimento previsto dal disegno di legge di Bilancio, si potrà andare in pensione in anticipo di 5 anni, e chi avrà maturato 38 anni di contributi, potrà lasciare il lavoro a 62 anni, ovvero 5 in anticipo rispetto alle norme sulla pensione di vecchiaia. Oppure potrebbero essere necessari 43 anni e tre mesi di contributi maturati per uscire prima dei 67, indipendentemente dall’età. Tale misura riguarderebbe, secondo le stime del Governo, circa 400 mila lavoratori, già in regola per beneficiarne, e sarebbero in gran parte uomini, il 78% del totale. Come già accennato, riguarderebbe specialmente le province del Nord, cinque in particolare sono in testa in Piemonte (da Vercelli a Novara, Biella, Cuneo, Asti).

Questi sono gli argomenti portati sul tavolo di Bruxelles, per convincere la Commissione che la disponibilità alle rettifiche c’è, e l’importante per il governo sarà l’obiettivo della crescita per il 2019, che resta fermo, secondo le previsioni contenute nel documento programmatico, all’1,5%, anche se la congiuntura è diventata più ostica, e difficilmente questo target sarà raggiunto.

Tra le promesse del ministro dell’Economia fatte a Bruxelles, redatte in 40 pagine di dossier, c’è il rinvio di pensioni e reddito di cittadinanza, lo spostamento di circa 5 miliardi per l’incentivazione degli investimenti, che dovrebbero anche agire sul versante occupazionale.

C’è un autentico rigetto per una eventuale patrimoniale, già ventilata dall’Ocse e dalla Bundesbank poche settimane fa, contrario anche il Centro Studi di Mestre (Cgia), che sostiene:

“nel 2017 tra Imu, Tasi, bolli sono stati versati al fisco 45,7 miliardi. Rispetto al 1990 il gettito è cresciuto del 400%.

Ed aggiunge:

“famiglie e imprese, dal 2016 beneficiano dell’abolizione della Tasi sulla prima casa, Imu agricola e Imu sugli imbullonati. Si tratta di misure approvate dal Governo Renzi, e ad oggi hanno prodotto un risparmio di circa 4 miliardi di euro l’anno. Risultato positivo, ma ancora insufficiente, dato che l’incidenza del prelievo sul pil è ascrivibile alle patrimoniali, ed infatti incide per il 2,7%”.

Il piano Tria per la dismissione di immobili, per un valore che si aggirerebbe sui 18 miliardi di euro, non convince, e nemmeno il tanto discusso Fondo, nel quale fare convogliare queste risorse. Il valore dei fabbricati (ma il 77% è inalienabile), è di circa 280 miliardi. Qualcuno ironizza sulla vendita del Colosseo, ma purtroppo c’è poco da sorridere. Sarebbe la ricetta ideale per fare pace col debito pubblico, ma è sempre stata un’impresa difficile da portare avanti, anche se il fine giustificherebbe i mezzi. Qui si tratta di patrimonio dello Stato, e arrivare a ragionare sulla questione, significa essere proprio all’ultima spiaggia.

L’idea di Tria, per rabbonire Bruxelles, non suscita entusiasmo, vendere ‘i preziosi di famiglia’, non sarebbe la migliore prospettiva, il vicepremier Di Maio, orientato più verso la nazionalizzazione (come Alitalia e Autostrade, considerate le vicissitudini di entrambe..), assicura che enti storici quali Enel o Eni, per esempio, non si toccano, sono punti fermi dello Stato. Ma Tria stima che i possibili 18 miliardi di entrate derivanti dalle dismissioni sarebbero ora una manna .

In questo modo si prenderebbe il sentiero più corto per ridurre il rapporto debito/Pil, dunque si caldeggia la prospettiva (ossia la privatizzazione di una piccola parte del patrimonio pubblico),strategia che si innalzerebbe fino all’1% del Pil nel 2019 (col programma straordinario di privatizzazioni). Il debito calerebbe dello 0,3 nel 2018; 1,7 il prossimo anno, 1,9 punti nel 2020. Mentre il rapporto sul debito scenderebbe fino al 126% nel 2021.

Si tratta del ‘pacchetto’ di misure contenute nel dossier che il ministro Tria ha presentato a Bruxelles, si attende ora di sapere se queste misure sono ritenute sufficienti per le autorità dell’Unione europea.

BRUXELLES DI NUOVO RESPINGE LA MANOVRA, IL GOVERNO IRREMOVIBILE

 

DI VIRGINIA MURRU

 

E lo spettro della procedura d’infrazione si fa sempre più possibile, ora la parola definitiva spetta ai Paesi membri dell’Ue, i quali, considerati gli umori che sono circolati nelle ultime settimane, difficilmente saranno ben disposti verso le inadempienze e la mancanza di compliance del governo italiano in materia di legislazione europea sui conti pubblici. Il parere degli altri paesi sulle conclusioni alle quali è pervenuta la Commissione, sarà espresso entro due settimane.

Troppa “disobbedienza” dunque, e toni  irriverenti nei confronti delle autorità di Bruxelles, ma anche una certa dose di arroganza e proclami di autosufficienza in termini di competenza nel campo della politica economica. Dichiarazioni che, per la verità, suonano come presunzione, dato che è prematuro esprimere sicurezza nei confronti di un documento programmatico di bilancio che basa la sua formula sull’eccesso di debito.

Le autorità di Bruxelles avrebbero apprezzato certamente la prudenza, pur tenendo le proprie posizioni sugli azzardi della manovra. Ma tant’è: non sembra una prerogativa della nuova classe di politici al potere; a questo si aggiunge il fatto che si tratta di ragazzi guidati dall’entusiasmo, smania di portare l’Italia in un terreno di efficienza economica, nel quale la crescita sia una semplice conseguenza dell’intraprendenza e della propensione a farsi carico del rischio.

Al momento questo gioco d’azzardo comunque non paga, e non tiene conto del fatto che in ogni caso siamo legati ad un organismo sovranazionale, ad accordi firmati, siamo vincolati alla fedeltà – sempre peraltro dichiarata all’Unione europea e all’euro –  e allora i conti non tornano davvero in termini di ragionamento sensato. E’ tutta qui la ragione del disastro legata ai danni che sta causando lo spread.

Certo, danni, e pure notevoli, visto che nel 2019 avremo oltre 6 mld di euro in più di interessi sul debito, e tutto questo, considerati i proclami sulla ‘manovra del popolo’, arrecherà ulteriori disagi alle famiglie, alle imprese, ai risparmiatori: al “popolo”. Sono rilievi, evidenze, chiare come i numeri, appunto, che esprime il mercato, il quale non vuole saperne proprio di concedere fiducia alla legge di bilancio presentata da questo esecutivo.

E allora non si può dare torto agli esponenti del precedente governo, i quali in queste settimane rimandano al fiume di polemiche scaturite sui 4 istituti di credito falliti: “ ricordate le polemiche sulle quattro banche fallite? Allora le risorse perse dai risparmiatori con i subordinati ammontavano a 300 milioni di euro, da quando è in carica, l’ostinazione di questo governo ci ha fatto perdere, tramite i balzi dello spread, 300 miliardi di euro..”

Ma torniamo al clima aspro e per nulla disteso che si è creato tra Roma e Bruxelles sulla manovra, dobbiamo farcene una ragione: non sono stati rispettate le regole sul debito che riguardano tutti i paesi dell’area euro, e si sono ignorate  le raccomandazioni della Commissione, ogni volta che ha respinto il documento programmatico. Non si è provveduto a correggere il deficit, e di conseguenza la traiettoria del debito, per questo il Commissario agli Affari Economici e Monetari, Pierre Moscovici, sostiene che l’Italia con questa manovra è vulnerabile agli shock.

Ora la manovra approderà al Parlamento europeo, e saranno chiamati in audizione i Commissari, sulla manovra di bilancio italiana, lo ha deciso la Commissione Econ del Parlamento Ue.

“L’Italia è chiaramente isolata – sostiene Moscovici – non si tratta di polemiche tra me e Matteo Salvini, gran parte dei paesi membri ha già espresso dissenso sulla linea di politica economica seguita dal governo italiano.”

Ieri nel corso delle dichiarazioni relative a “European Semester 2019, in riferimento all’Italia, Pierre Moscovici, ha dichiarato:

“L’Italia non ha rispettato le raccomandazioni Ecofin del 13 luglio, circa la riduzione del deficit strutturale del 3,6% di Pil nel 2019, ora invece risulta che dall’analisi del progetto di legge finanziaria, dovrebbe aumentare per l’1% di Pil nel prossimo anno. Con rammarico dobbiamo constatare l’inadempienza, particolarmente grave. Stiamo pensando di avviare la procedura d’infrazione prevista in questi casi, ed è la conseguenza logica dovuta al fatto che Roma ha deciso di non modificare il documento, trasmesso ancora senza variazioni.”

Il Commissario Ue, davanti alla stampa, fa poi una serie di considerazioni sulle conseguenze della ‘disobbedienza’ del governo italiano:

“Chi pagherà il costo di questa maggiore spesa? Noi continuiamo a sostenere che un simile bilancio comporti dei rischi per l’economia italiana, per le sue imprese,  i risparmiatori,  i suoi contribuenti. La Commissione si sta quindi prendendo le sue responsabilità legali e politiche, nell’interesse dei cittadini italiani e dell’Eurozona. Il debito pubblico italiano resta la più grande preoccupazione, non c’è il rispetto delle regole, e pertanto abbiamo risolto di procedere secondo il regolamento. Questo non significa che il provvedimento sarà avviato subito, saranno gli stati membri a decidere, se converranno con le conclusioni della Commissione, allora si potrà procedere con l’iter previsto nei casi d’inadempienza.”

Per dirla tutta, o meglio per consolarci, non saremmo i primi a finire nel mirino della procedura d’infrazione, la Francia ne è appena uscita, la Spagna sta ancora attraversando questo sentiero stretto; ma quasi tutti i paesi membri sono stati soggetti al provvedimento, tranne Svezia ed Estonia. Certo che l’Italia, se potesse risparmiarsi anche questi lacci ai piedi, sarebbe un sollievo, visto che in termini di finanze non siamo messi benissimo.

Continua Moscovici, in riferimento all’Italia:

“La relazione fondata sull’Art. 126-paragrafo 3, dovrebbe ritenere come ‘non ottemperanza’, le risposte fornite dal governo italiano, e pertanto si prospetterebbe un’apertura di procedura per debito eccessivo. C’è anche da considerare che l’Italia sta programmando prestiti integrativi, invece della prudenza fiscale che sarebbe necessaria.

L’impatto del bilancio sulla crescita sarà a nostro parere negativo, non contiene delle misure significative volte a promuovere una crescita sostanziale.  L’incertezza e l’aumento dei tassi d’interesse si stanno facendo sentire nell’economia del Paese, inoltre la manovra ostacola la capacità delle  banche italiane di concedere credito a costi ragionevoli ad imprese e privati.

Negli ultimi anni l’Italia ha compiuto dei progressi in ambito economico, è stato avviato un percorso di crescita, e gli effetti ci sono stati,  con l’aumento dell’occupazione, e dei dati macroeconomici, insomma abbiamo riscontrato un andamento positivo dell’economia, proiettata verso la crescita.  L’incertezza attuale rischia di mettere a repentaglio questo processo.

Il debito dell’Italia dovrebbe restare intorno al 131% del Pil nei prossimi due anni. Si tratta di un gravame di debito non di poco conto, mille euro i costi per ogni singolo abitante all’anno. Per cui non crediamo che l’attuale programma del governo italiano possa portare alla sovranità economica, anzi si può arrivare ad un’austerità aggravata, e si rischia di scivolare nell’instabilità. Noi speriamo che questo rischio possa essere evitato, ma abbiamo il dovere di sottolineare il pericolo di una simile destabilizzazione.”

Inutile trattare le autorità di Bruxelles come ostili, quando non mezzo criminali, semplicemente esistono per vigilare sull’effettiva applicazione delle regole comuni stabilite dai Trattati, in questo caso è in ballo quello di Maastricht, con la Legge di Stabilità e Crescita. Ma i numeri sono impietosi, e non si può dare torto a prescindere alla Commissione europea.

Basterebbe pensare che in Italia la spesa pubblica è al 49,1% del Pil, quindi del 4,5% più alta della media europea, che si ferma al 44,6% ( i dati vengono dall’analisi del Centro studi Impresa-Lavoro).

I numeri sono aridi, ma ci incollano alla realtà. E non si può dimenticare che il denaro finisce poi all’estero, i BTP attualmente hanno una difficile collocazione, perché manca la fiducia degli investitori, in particolare quelli stranieri.

Lo spread a livelli così elevati, non serve girarci intorno, porta sempre danni e fa paura, anche per le passate esperienze (2011/2012), ma poco si parla di un altro ‘tipo’ di spread. Secondo le analisi del Sole 24 Ore, il valore di riferimento che viene preso in considerazione, è generalmente quello che mette in rilievo il differenziale tra Bund tedeschi e Btp italiani. Invece,  analisti ed esperti finanziari, puntano l’attenzione su un altro spread, del quale poco si parla, anche se di fatto è il segnale che lampeggia sui rischi reali del Paese.

Il riferimento è allo spread che rileva la differenza tra i Btp a 10 anni e quelli a 2 anni. Si tratta in definitiva del valore che indica solitamente agli addetti ai lavori una possibile fuga di capitali dall’Italia. Al riguardo bisogna precisare che i due spread vanno quasi sempre in direzioni opposte.

Lo spread al quale i quotidiani economici generalmente si riferiscono, ossia il rapporto Btp/Bund, se va in alta quota, significa rischio. Il secondo tipo di spread (quello sui Btp a 2 e 10 anni), se sfiora lo ‘zero’, segnala che c’è qualcosa di serio che non va. Ed è questo rapporto che mette in evidenza il pericolo di una recessione, o addirittura il default. Tale circostanza si verificò nel 2008 – poco prima delle raffiche dovute ai cosiddetti ‘mutui subprime’, una tempesta che travolse l’economia di mezzo pianeta.  In quell’occasione, in Italia, lo spread dei Btp a 2-10 anni sfiorò lo zero.

Attualmente lo spread del quale si parla, oscilla tra i 200 e 220 punti base, valore che si considera nella norma, dato che il range ideale va dai 200 ai 300 punti base, e se non vi sono gap rilevanti su questo indicatore, la situazione può ritenersi sotto controllo.

Si sa che i titoli tedeschi fungono da “benchmark”, come orientamento di mercato, ed è un riferimento anche per tutta l’area euro, trattandosi dell’economia più solida, conferma che viene dalle Agenzie di rating, che la classificano con tripla ‘A’, quindi il massimo in termini di valutazione.

Nonostante la Commissione europea abbia respinto ancora una volta la manovra, per le ragioni sopra esposte, il governo italiano resta inflessibile, arroccato sulle sue ragioni, mentre il ministro dell’Economia, premier e vice premier, continuano a dichiarare che numeri e percentuali della manovra rientrano in un quadro di spesa sostenibile, e così la situazione è di stallo, perché irremovibili sono gli intenti del governo.

Tutto questo nonostante gli ultimi dati Istat, le cui previsioni sono al ribasso per il 2019, e le dichiarazioni dell’Ocse: “la crescita dell’economia italiana perde slancio, e il debito non subirà riduzioni sostanziali”.

I partiti all’opposizione in Parlamento, ritengono che le risposte date dal Governo a  Bruxelles siano irresponsabili, e che stiano conducendo l’Italia nella direzione del rischio e dell’isolamento in Europa.

C’è infine da considerare la sfiducia degli investitori riguardo ai titoli italiani, qualcuno parla di ‘ecatombe’ dei Btp, che si fatica a collocare sul mercato, le vendite registrate fino ad ora sono quasi irrisorie, certo lontane dai ‘target’ necessari a rasserenare tutti in questo momento.

Qualche settimana fa il vice premier Matteo Salvini, aveva pronosticato un ‘generoso’ sostegno degli italiani, ma in due giorni di asta dei Btp Italia (destinati ai piccoli risparmiatori), sono stati raccolti meno di 1 mld, circa 750 mln ( il 20 e il 21 novembre). La ragione è ovvia secondo gli analisti: il Paese ha perso la sua credibilità.

Non si concede fiducia al documento programmatico di Bilancio presentato dal Governo a ‘conduzione’ Lega- Movimento 5S, si teme per il futuro dell’economia, che sta facendo notevoli passi indietro. L’incasso sui titoli italiani, secondo il dipartimento Tesoro (Mef), aveva un obiettivo: tra i 7 e i 9 mld, alla fine delle operazioni, che dovrebbe chiudersi entro domani. I risultati sono dunque preoccupanti.

I Btp Italia sono titoli indicizzati all’inflazione, la scadenza è a 4 anni, e sono  idonei al mercato dei piccoli risparmiatori.

Titoli destinati, appunto, ai piccoli risparmiatori, o ‘cassettisti’, in quanto non hanno fini speculativi e in genere acquistano titoli a lunga scadenza. La sfiducia deriva dai balzi in negativo dello spread, e a monte c’è la solita questione che rimanda alla manovra, ai rapporti tesi con le autorità di Bruxelles, insomma ad un clima di turbolenza e instabiità in generale. Il rendimento dei decennali italiani, arrivato a 3,86%, non è un buon faro per chi ha necessità di un orientamento sicuro quando si accinge ad investire. Un tasso che va sempre più in alto, e che andrà a pesare  sui contribuenti, risorse in più che il Mef dovrà rendere disponibili per il finanziamento del debito.

 

LUIGI GUBITOSI, NUOVO AD DI TIM, GUIDERA’ LA SVOLTA

DI VIRGINIA MURRU

 

Poche, stringate parole, nel comunicato stampa di Tim, per annunciare la nomina di Luigi Gubitosi ad Ad, nessuna sorpresa per chi ha seguito le ultime vicende riguardanti  i movimenti ai vertici del gruppo, dopo le dimissioni di Amos Genish, Ceo entrato alla guida della società circa un anno fa, e liquidato dal board, con revoca di tutte le deleghe, per risultati incompatibili con le attese.

I mercati hanno accolto con entusiasmo la nomina di Gubitosi, il titolo ieri è andato in rialzo, con +3%, mentre manca sempre più la fiducia nell’economia italiana in generale, e la manovra in particolare, con lo spread che raggiunge  nuovi record, negativi ovviamente. Il differenziale Btp/Bund ha registrato un ulteriore balzo, arrivando a 330 punti base.

La decisione del cambio di guardia ai vertici di Tim, è  giunta in seguito all’analisi di una trimestrale che ha presentato una perdita di 800 mln di euro,  dovuta alla “svalutazione del business domestico” pari a 2 mld. Un lungo braccio di ferro tra gli americani del Fondo Elliot e i francesi di Vivendi,  il verdetto, considerata la prevalenza di voti di Elliot nel Cda, era praticamente scontato. Il comunicato stampa diffuso da Tim è essenziale, ma mette in rilievo in poche note il nuovo assetto.

Due giorni fa si è riunito il Cda di Tim, sotto la presidenza di Fulvio Conti – e dopo la condivisione della raccomandazione proveniente dal Comitato Nomine e Remunerazione – si è scelta la nomina di Luigi Gubitosi ad Ad e Direttore Generale, al quale sono state conferite deleghe esecutive. La deliberazione è avvenuta a maggioranza, e sono state anche confermate le deleghe ad oggi attive, nonché l’assetto interno. E pertanto:

il Presidente svolgerà il mandato attraverso le attribuzioni conferitegli per legge, Statuto e regolamento relativo all’autodisciplina. L’Ad potrà avvalersi dei poteri necessari a portare avanti gli atti concernenti l’attività sociale. Faranno eccezione i poteri riservati per legge e Statuto al Cda.

Stefano Grassi, attuale responsabile di Security, acquisirà deleghe temporanee in funzione di Delegato alla Sicurezza.

Il trattamento economico, secondo il comunicato stampa diffuso da Tim, corrisponderà a quello già fissato per il suo predecessore, nessun cambiamento in questo ambito, prevarrà la linea di politica e remunerazione stabilità dalla Società.

La nomina di Luigi Gubitosi ad Ad e Direttore Generale, significa la qualifica ad Amministratore Esecutivo, non indipendente, e per conseguenza esce dal Comitato per il controllo e i rischi. Il comunicato, precisa altresì, che il nuovo Ceo non possiede azioni di Telecom Italia S.p.A.

La scelta di Gubitosi potrebbe essere l’asso vincente per il gruppo Telecom, in particolare si parla con insistenza del possibile scorporo della rete, al quale farà seguito una società unica dopo la fusione con Open Fiber, caldeggiata dal governo, ma anche dalla destra, e non dispiace al PD.

Polemico al riguardo l’ex ministro del Mise, Carlo Calenda, il quale, su Radio Capital afferma:

“Siamo stati noi del precedente governo ad attivarci per lo scorporo della rete Tim, noi a lanciare l’idea e a tracciarne il programma, con la golden power prima, e in seguito con  Tim, dopo il lavoro svolto con Agcom. Ma rispetto ai piani dell’attuale governo, noi avevamo un progetto a costo zero, mentre oggi s’intende espropriare la rete a Tim: tutto questo avrà un costo che oscilla tra i 30 e i 35 mld, sempre che si possa attuare. Il governo oggi ci sta copiando, e va bene, il problema è che ci sta copiando male. Sono del parere che non riusciranno a portare avanti questo piano di scorporo, perché mancano le risorse, non hanno proprio i mezzi per affrontarlo.”

Il nuovo Ad di Tim, napoletano,  è tuttavia pertinace e sempre orientato verso la svolta, il prossimo anno sarà decisivo in questo ambito.

Luigi Gubitosi ha una vita privata piuttosto riservata, in ambito politico è gradito ad un altro napoletano, Luigi Di Maio, ma in generale alla coalizione Lega-Movimento 5 Stelle. Sul profilo pubblicato nel sito ufficiale Tim, si trovano le tappe più rilevanti della sua carriera.

E’ nato a Napoli nel 1961, ha un percorso di studi a carattere economico-giuridico, con una laurea in Giurisprudenza all’Università di Napoli e un titolo presso la London School of Economics . Ha ottenuto poi un master in Business Administration all’I.N.S.E.A.D. di Fontainbleau.

E’ stato Vice Presidente di Confindustria Servizi Innovativi e Tecnologici, Vice presidente di Asstel e membro del Comitato Fisco e Corporate Governance di Confindustria. Membro anche del Comitato organizzatore delle Olimpiadi di Scacchi di Torino nel 2006, e del Cda di Cometa (Fondo pensione dei lavoratori metalmeccanici).

Dal 1986 al 2005 ha ricoperti diversi ruoli nel Gruppo Fiat, da Chief Financial Officer, a Direttore Finanza e Responsabile Tesoreria. Presidente del Cda di Fiat Partecipazioni, nonché membro del Cda di Fiat Auto, Ferrari, Iveco, Itedi, Comau e Magneti Marelli. Nel 2005 l’ingresso a Wind Telecomunicazioni, in qualità di Chief Financial Officer, quindi ha ricoperto il ruolo di Ad, dal 2007 al 2011.

E’ stato poi Country manager e responsabile della Divisione Corporate and Investment Baking di Bank of America Merrill Lynch Italia, dal 2011 al 2012. Dal 2012 al 2015 ha rivestito la carica di Direttore Generale Rai.

Chairman dell’European Advocacy Committee del CFA Institute, Consigliere indipendente di Tim, dal maggio scorso, fino alla sua nomina ad Ad e Direttore Generale, il 18 novembre 2018.

 

 

INPS E INAIL. TORNA IL CDA, CAMBIO DI GUARDIA AI VERTICI DEI DUE ISTITUTI

DI VIRGINIA MURRU

 

Per i vertici di Inps  ormai il cambiamento è deciso, ma non è, per dirla con un luogo comune, un fulmine a ciel sereno, la decisione è arrivata in un clima di veleni tra il Governo e Tito Boeri, presidente uscente dell’Ente previdenziale.

Le tensioni sono partite a inizio estate, allorché Boeri ha ricordato al governo, nel corso della sua audizione alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle procedure di accoglienza (a luglio scorso), che un eccesso di rigore nella politica di controllo dei migranti avrebbe fortemente inciso sulle risorse dell’Inps, dato che gli immigrati versano nelle casse dell’Istituto circa 8 miliardi di contributi, a fronte di 3 miliardi spesi per i soggetti che vanno in pensione.

“Si tratta – aveva precisato il presidente – di 5 miliardi di saldo netto, dettaglio da non sottovalutare”. Spiegando nel contempo che il riscontro sulla crescita pure notevole dei rifugiati, non compensa la mancanza negli arrivi degli immigrati regolari”.

In questa sede, aveva anche rilevato il “consistente azzeramento delle quote flussi” per quel che riguarda i lavoratori provenienti dall’estero. Secondo Boeri, gli immigrati contribuiscono alla solidità dell’Inps, attraverso la tenuta del sistema pensionistico. E se si volessero davvero mettere in evidenza i vantaggi dell’accoglienza, si dovrebbe anche sottolineare che essi, in termini di contributi sociali, hanno alzato di un punto percentuale il Pil.

Rilevazioni importanti, che Tito Boeri ha ripetuto in varie sedi durante i mesi estivi, e anche ultimamente, in seguito all’allarme causato dalla chiusura dei porti, e al blocco sistematico di nuovi arrivi, riducendo l’accoglienza al minimo. Il ministro degli Interni non ha mai preso atto della denuncia del presidente dell’Inps, ha manifestato piuttosto molta insofferenza, e in più occasioni ha ventilato l’ipotesi di un cambio al vertice, che suonava come una ‘destituzione’, non propriamente come esigenza di  cambiamento per ragioni di fine mandato, che pure è in scadenza. Nei loro rapporti la tensione si è acuita col passare dei mesi, non solo per la questione migranti, ma anche per le divergenze concernenti la legge Fornero, fino a che si arrivati alla conclusione, ossia al cambio di guardia.

L’insediamento del nuovo presidente avrà luogo in seguito agli interventi di riordino delle pensioni, tema caro al governo, e indirettamente, la conseguenza, sarà quella di rinnovare la governance, non solo dell’Inps ma anche dell’Inail.  A nessuno è estranea l’idea che Tito Boeri ormai sia diventato un ostacolo, incompatibile con i programmi del governo, nel cui contratto è previsto che sarà spazzata via la legge Fornero, difesa a oltranza invece da Boeri. Più volte nel corso degli ultimi mesi, sono state annunciate le sue dimissioni, riconducibili ad  un clima di autoritarismo e intolleranza, che la gente avverte sempre più come insidia al sistema democratico.

Previsto un nuovo Cda (dopo un assetto commissariale, con accentramento di poteri al vertice) per i due Istituti (Inail e Inps), che saranno rappresentati da un presidente e 4 consiglieri, nominati con decreto del Presidente della Repubblica – e deliberazione del Consiglio dei ministri,  proposto dal Presidente del Consiglio, in accordo con diversi ministeri, da quello del Lavoro e Politiche Sociali al Mef, non senza il parere favorevole delle Commissioni parlamentari di pertinenza.

Non una semplice nomina, quindi, ma un iter che interessa le stazioni fondamentali del sistema democratico parlamentare, la cui ultima parola, infine, spetta  al Consiglio di indirizzo e vigilanza, il quale deve esprimersi entro il termine di 30 giorni.

L’intento è quello di evitare l’accentramento di competenze e potere su una sola persona, migliorando in tal modo la governance dei due Enti, attraverso l’intermediazione del Consiglio di Amministrazione.

Boeri ha replicato con pacatezza, ma anche con fermezza, alle obiezioni del vicepremier Matteo Salvini; l’ultimo suo intervento in merito, è stato in occasione della presentazione del libro dell’ex premier Paolo Gentiloni, “La sfida impopulista”, evento culturale che si è svolto a Milano, del quale era appunto ospite, Tito Boeri, ormai presidente uscente dell’Inps.

L’intervento di Boeri, nel corso della presentazione del libro di Gentiloni, è stata una frecciata diretta al Governo:

“è alquanto preoccupante l’intento di delegittimare in una democrazia, dove invece sono necessari i parapetti, che permettono ad un sistema democratico di respirare liberamente; allorché s’indeboliscono, s’insinua l’ombra della dittatura della maggioranza..”

Non meno critico Paolo Gentiloni, nei confronti della manovra, dell’isolamento in cui ci stiamo avviando, a causa delle sfide lanciate ad un organismo sovranazionale del quale facciamo parte, ossia l’Unione europea, e il pericolo insito  negli ‘azzardi’ dei programmi di politica economica – “che mettono a rischio l’economia italiana” – secondo l’ex premier.

Non risparmia infine il sarcasmo sulle sortite di Salvini: ‘tanti nemici, tanto onore..’, che sta conducendo invece l’Italia verso l’isolamento in Europa, e non solo. Critico sulla dismissione di tanti immobili, annunciata dal governo come strategia  volta al recupero di fondi, dovrebbe fruttare circa 2 miliardi, ma Gentiloni non approva la misura, la definisce ‘strategia da Mago Merlino’.

E’ verosimile la voce che circola nelle ultime settimane circa l’avvicendamento ai vertici dell’Inps, ossia l’ingresso di Alberto Brambilla, molto vicino alla Lega, e già in passato uomo delle istituzioni  (in qualità di sottosegretario al Lavoro nei governi Berlusconi) in sostituzione di Tito Boeri. A fianco di Brambilla ci dovrebbe essere anche un direttore generale, la cui nomina avverrà su indicazione del M5S.

 

 

MANOVRA. “LA COMPLIANCE ELETTORALE” HA UN PREZZO: L’ISOLAMENTO

DI VIRGINIA MURRU

 

Il documento programmatico di bilancio  è stato rimandato a Bruxelles senza interventi di rilievo, se non buoni propositi, promesse di restare dentro i limiti fissati (ossia al 2,4%, rapporto deficit/Pil), e di non andare oltre. La lettera di accompagnamento è una buona ‘parafrasi’ del documento, ma la manovra  è ostica da mandare giù per quelli di Bruxelles, non scende neppure con le pillole delle buone intenzioni.

Il  DPB deve essere in linea con i parametri; è stato istituito dal Regolamento UE n.473/2013, e ha la funzione di attivare un monitoraggio e relativa valutazione delle politiche di bilancio nei paesi facenti parte dell’Eurozona.

Rispetto dei limiti.. assicurano al Mef. Sì, ma quali limiti? Non quelli sanciti dalla legge di Stabilità e crescita, e in generale dal Trattato di Maastricht; no quelli sono stati proprio ignorati. I limiti ai quali si promette coerenza sono quelli  del rapporto deficit/pil fissati da Roma.

Abbiamo il mondo contro, tutti, i paesi dell’Unione, Organizzazioni internazionali, Agenzie di rating..

A Bruxelles hanno proprio perso la pazienza, e la procedura d’infrazione è auspicata ormai da tutti i paesi membri, Austria compresa. Gli accordi si mantengono, l’Italia ha peraltro già beneficiato degli ‘emendamenti’ apportati alla Legge di Stabilità,  ora è tempo di lasciare spazio alla ragione, non ci si può permettere di decidere in autonomia, come se l’Ue fosse un optional, e rispondere ad ogni strigliata con blandi eufemismi che in definitiva significano semplicemente “me ne infischio..”

Il Governo ha esagerato in termini di ostinazione. Se ogni stato membro decidesse di blindare la sua sovranità, che senso avrebbero l’Unione europea, e i quasi 70 anni di accordi e Trattati? Come si può essere così inflessibili davanti al rispetto delle regole comuni? Proprio oggi il vicepremier Luigi Di Maio – rispondendo ad un’interrogazione parlamentare  (un’esponente della Lega durante il question time) sullo stato degli interventi e sui tempi di attesa, nelle aree colpite da catastrofi naturali dovute al maltempo – ha risposto che si attingerà da varie fonti, compreso il Fondo di solidarietà dell’Ue.

L’Unione europea non può essere un riferimento e una risorsa solo nei casi di emergenza, ci sono anche adempimenti da assolvere, nello specifico il rispetto dei parametri sul versante dei conti pubblici, affinché non si metta a rischio tutta l’area euro, della quale facciamo parte, insieme agli altri 18 Paesi.

Ma non s’intende cedere, a qualunque costo, anche perché, diciamolo francamente, la manovra è una questione di “compliance elettorale”, di promesse fatte proprio durante la campagna delle ultime elezioni politiche. Senza superare i limiti stabiliti dalla Legge di stabilità, non ci si potrebbe permettere il cosiddetto ‘reddito e pensioni di cittadinanza’, e poi c’è la legge Fornero, la Flat tax, condoni fiscali vari, e via discorrendo. La manovra del popolo, certo.. Ma andare a fare la spesa con il portafogli non propriamente fornito, e chiedere credito al di là del buon senso, di questi tempi, non è la risposta più sensata.

E intanto sono mesi che il differenziale di rendimento tra Btp/Bund si attesta intorno ai 300 punti base, oggi è arrivato a 317. Il comparto bancario è a rischio ricapitalizzazione a causa dello spread, un prezzo salatissimo, si sta tornando ai livelli del 2011. Le banche soffrono perché sono grandi acquirenti di Btp, si stima che in portafogli  ne possiedano per un valore di circa 400  miliardi, e abbiano subite perdite conseguenti ai balzi dello spread per circa 6 mld, perdite che peseranno sui conti economici.

Se sale il rendimento dei Btp, diminuisce il valore (il prezzo) e perdono valore le loro attività (degli istituti di credito),  pertanto i requisiti di capitale piuttosto severi richiesti dalla Bce, aumentano.  Si è calcolato che un aumento di 30/50 punti implichi un bisogno di ricapitalizzazione dell’1%, è pertanto  una variabile molto importante, ed è la ragione per la quale le banche attualmente stanno soffrendo. Le banche possono inoltre essere costrette a ridurre la concessione di credito.

Osservato dall’esterno non è un bel vedere. Non è sbagliato, secondo la logica del cittadino comune, la difesa degli interessi di un popolo, davanti alle autorità di un’organizzazione sovranazionale; è sbagliato il modo di proporsi, l’aut aut, la sfida, quel disporsi davanti alle ragioni altrui, senza concedere la possibilità di un compromesso. Al dialogo si fa ricorso qualora si accettino in toto le proprie istanze, altrimenti entra in scena l’arroganza, il rifiuto a comprendere anche le motivazioni che stanno al di là del muro,  che sono poi quelle giuste, piaccia o non piaccia.

Non si può ribattere – quale alibi per tenere buone le istituzioni a Bruxelles – che l’Italia non ha alcuna intenzione di lasciare l’Ue, e tanto meno l’euro, e poi non cedere nulla in termini di sovranità, dopo avere firmato, e dunque accettato, i Trattati, nella fattispecie quello di Maastricht.

Il rifiuto a prescindere della legislazione che è stata sempre recepita in qualità di Stato membro, di fatto ha un solo significato: Italexit. Non si può restare all’interno di accordi che sanciscono in primo luogo il riconoscimento e la legittima appartenenza ad un organismo sovranazionale, e poi voltare le spalle proprio sui punti cruciali che danno senso all’esistenza dell’Unione europea e ai suoi principi fondanti.

Valori comuni che vengono peraltro dal lontano 1957. Ma allora  era lo spirito di fedeltà e coerenza che aveva motivato i padri fondatori dell’Europa unita. Decennio dopo decennio si è rincorso il sogno dell’Unità vera,  si era aderito con entusiasmo agli ideali dei tre intellettuali di Ventotene, e al loro manifesto, che aveva ispirato proprio la carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Cosa è rimasto di quel fervore, oggi? Si è persa prima di tutto la coscienza del fatto che l’Unione europea tiene sotto controllo il nazionalismo esasperato, non solo rende più forte e competitiva l’economia europea e l’euro, una delle divise più forti del pianeta, ma crea un fronte comune di difesa negli accordi internazionali, il blocco unico garantisce sicuramente una maggiore forza in tutti i versanti. Certamente si è meno esposti alle insidie delle più grandi potenze economiche.

L’Unione europea, dopo la terribile esperienza del secondo conflitto mondiale, ha vigilato sulla pace e la distensione nelle relazioni internazionali. E non è un dettaglio di  poco conto.

Il rispetto dovuto alle autorità di Bruxelles, significa tutto questo, tutela di valori comuni, nessuno oggi può permettersi di trincerarsi dentro i propri confini, e tanto meno l’Italia.

 

TIM. IL CEO AMOS GENISH SFIDUCIATO DAL CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE

DI VIRGINIA MURRU

 

Le dimissioni dell’Ad di Tim, Amos Genish, non sono propriamente una sorpresa, nonostante gran parte della stampa abbia dato la notizia come fosse un colpo di scena.

In realtà già da alcuni mesi c’era fermento in Consiglio, e un sentore di sfiducia nei confronti del manager israeliano, che era stato fortemente voluto da Vivendi (società francese che opera nell’ambito dei media e delle telecomunicazioni,  protagonista delle traversie giudiziarie con Mediaset) al vertice di Tim. La decisione è stata presa in seguito all’analisi dei risultati raggiunti dal gruppo, ma anche a causa di conflitti con il Consiglio, nel quale l’Ad era sostenuto dai manager di Vivendi, e dal presidente Fulvio Conti (entrato in carica nel maggio scorso, dopo avere svolto il ruolo di Ad e Direttore Generale di Enel).

Amos Genish si è risolto a presentare le dimissioni allorché ha preso atto della sfiducia da parte del board. Genish era entrato alla guida del gruppo nel settembre del 2017.

I rapporti tra Elliot Management Corporation (il più grande Fondo di investimenti al mondo) e Vivendi , non sono stati idilliaci, c’era della ruggine, e  proprio a maggio scorso, il quotidiano Milano Finanza, titolava:

“Tim, Waterloo di Vivendi. Vince la lista Elliott

Il fondo attivista, appoggiato anche dai piccoli azionisti, avrà dieci consiglieri nel consiglio di amministrazione e i francesi la metà, cinque. Ha deciso in questo modo il 49,84% dei soci presenti in assemblea. Il titolo vira al rialzo in borsa, rally della risparmio”

Si legge nel comunicato stampa pubblicato nel sito ufficiale Tim, sulle delibere assunte dal Cda in data odierna:

“Il consiglio di amministrazione di TIM, riunitosi in data odierna, ha revocato con decisione assunta a maggioranza e con effetto immediato, tutte le deleghe conferite al consigliere Amos Genish e ha dato mandato al Presidente di finalizzare ulteriori adempimenti in relazione al rapporto di lavoro in essere con lo stesso. In conformità al piano di successione degli amministratori esecutivi adottato da TIM, le deleghe revocate al consigliere Amos Genish sono state provvisoriamente assegnate al presidente del consiglio di amministrazione.

Il presidente del comitato nomine e remunerazione ha provveduto alla convocazione dello stesso comitato per gli adempimenti di sua competenza relativamente alla individuazione del nuovo amministratore delegato. È stata convocata una nuova riunione del consiglio di amministrazione per il giorno 18 novembre 2018 al fine di provvedere alla nomina di un nuovo amministratore delegato.

Il consiglio di amministrazione ringrazia Amos Genish per il lavoro svolto nell’interesse della società e di tutti i suoi stakeholders in questi quattordici mesi di intensa attività”.

Il Consiglio, dunque, proprio questa mattina, ha deciso di conferire i poteri esecutivi ad interim al presidente Conti, in attesa della nuova nomina, che dovrebbe avvenire il prossimo 18 novembre. Qualora la scelta fosse orientata verso gli esponenti del Consiglio Tim, potrebbe ricadere su Alfredo Altavilla, che era già stato collaboratore di fiducia di Sergio Marchionne in Fca.

La causa prima della sfiducia, non condivisa da tutti nel Consiglio di Amministrazione –  che si è diviso circa le dimissioni di Genish, dato che i francesi di Vivendi non intendevano accettarle – sono stati comunque i risultati conseguiti dal gruppo, assolutamente non soddisfacenti, tanto che i mercati hanno reagito mettendo in moto vendite consistenti, e facendo perdere il 4% al titolo. Ma ci sono anche altre ragioni, le divergenze in Consiglio, com’è stato già accennato, e infine la risoluzione del governo volta ad accelerare il provvedimento destinato alla nascita della rete unica.

I conflitti in Consiglio  sembra siano derivati dalla ferma opposizione di Vivendi, primo azionista del gruppo, di “estrapolare” la rete Tim;  i francesi non hanno però alcuna intenzione di cedere il controllo della società. E tuttavia, proprio nell’ambito della votazione per la fiducia, hanno prevalso i 10 consiglieri di Elliot, che hanno votato contro la conferma di Amos Genish revocandogli tutte le deleghe; mentre hanno votato a favore i cinque consiglieri di Vivendi. Delibera di sfiducia, dunque, assunta a maggioranza.

Vivendi insorge, non accetta la decisione, ed un portavoce della società dichiara al riguardo:

“Si è trattato di una scelta già programmata in modo riservato, in segreto, per nulla leale nei confronti dell’Ad Amos Genish, che in questi giorni si trova in Cina, e sta negoziando per Tim. Si vuole creare un clima di destabilizzazione con mezzi vergognosi.”

Vivendi, con il 23,68% del pacchetto azionario di Tim, che è il 7° gruppo italiano per fatturato, sta sondando la situazione e sta procedendo  alla convocazione di una nuova assemblea, prevista per domenica prossima, nella quale spera di riprendersi la governance.

 

 

NON SI PLACANO LE POLEMICHE TRA ROMA E BRUXELLES

DI VIRGINIA MURRU

 

Ancora tensioni nei rapporti tra il Governo e la Commissione europea – è ancora la manovra “l’oggetto del contendere”. Entrambi arroccati nelle loro posizioni, in apparenza disposti al dialogo, ma in realtà nessuno finora vorrebbe cedere qualcosa sulle proprie posizioni, difese a suon di percentuali e numeri,  in definitiva il riflesso poco edificante di un popolo che non merita questo stato di quasi emergenza economica in cui è stato ancora una volta scaraventato.

L’incontro tra il ministro dell’economia Giovanni Tria, e il presidente dell’Eurogruppo, Mario Centeno, non ha sciolto i nodi della divergenza sulla manovra di bilancio trasmessa alla Commissione; da entrambi toni distesi, ma nessun passo avanti, neppure un compromesso che consenta di ristabilire relazioni più serene. Centeno auspica la collaborazione dell’Italia a sostegno dell’euro e della sostenibilità dello sviluppo nell’area, e per questo sostiene che è importante mantenere gli impegni assunti quando si tratta di legge di bilancio.

Il ministro Tria non si schioda facilmente dalle sue convinzioni, ha poi due “mastini” intorno che certamente gli fanno buona guardia. Dopo l’incontro con Centeno, ha dichiarato di essere stato molto chiaro:

“Non c’è alcun bisogno di questo allarmismo da parte delle autorità di Bruxelles, nei confronti della manovra di bilancio, ci sono numeri e indicazioni dei quali siamo consapevoli. Per incidere con più leggerezza sul debito, occorrerebbe una politica fiscale molto aggressiva, ridurre l’incidenza del deficit ad un livello tale da risultare insostenibile per un’economia che sta dando segni di rallentamento, insomma ci stanno chiedendo un processo d’involuzione, non di sviluppo e crescita.  Mi chiedo se i risultati poi sarebbero in sintonia con le aspettative in area euro.”

Il ministro ha ribadito più o meno i medesimi concetti anche nel corso della sua audizione in parlamento, davanti alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato riunite, sempre sul tema manovra, sottolineando che è stata voluta perché produca nei prossimi anni un effetto espansivo e deciso verso la crescita, per svincolarsi dalle catene del passato, e dalle formule che la rendevano lenta e poco incisiva. “L’Italia non è la Grecia  – ha detto il ministro – l’economia del Paese è stabile, pertanto non si può creare panico con nuove tasse, e non ci sarà una patrimoniale, sarebbe un suicidio, non sono previsti interventi neppure a sostegno degli istituti di credito.”

Intanto arriva il pungolo del presidente della Commissione , Jean-Claude Juncker: martedì prossimo è attesa la risposta dal Governo italiano sulla manovra, e ci si aspetta un ‘aggiustamento sostanziale’, in linea con le direttive contenute nella lettera in cui sono state elencate le incongruenze. Non c’è molto spazio per altre strategie, e non c’è neppure ‘vocazione’ alla conciliazione soprattutto da parte dei due vicepremier italiani, che spingono ad oltranza verso la disobbedienza, perché prima di tutto viene l’Italia..

Juncker ricorda che proprio l’italia non può più aspettarsi ulteriore flessibilità, dato che le è già stata concessa, per via delle modifiche alla legge di Stabilità, sarebbe stata anzi la prima nazione a beneficiarne. Tutti i ministri dell’Economia dell’area euro, sono peraltro concordi con le decisioni della Commissione di essere irremovibile nei confronti del governo italiano; ci si aspetta piena compliance riguardo al rispetto delle regole comuni.  In virtù delle  modifiche alla legge di Stabilità, l’Italia ha avuto a disposizione 30 miliardi in più, rispetto all’applicazione rigida e ortodossa della legge, per questo, secondo il presidente della Commissione europea, ora a Bruxelles si attendono coerenza e rispetto degli impegni.

Mentre il Fmi mette in guardia dal possibile ‘contagio’ e le implicanze negative dovute all’impatto dello spread, la Banca d’Italia non se ne sta a guardare, e con un monito rende noto che proprio lo spread ha generato costi tutt’altro che indifferenti: 1,5 miliardi nel corrente anno che peseranno sui contribuenti (negli ultimi sei mesi), mentre nel 2019 verrebbero  immolati 5 miliardi, e nel 2020, 9 miliardi. In tre anni oltre 15 mld potrebbero essere bruciati in interessi in più, a causa dei balzi dello spread, ossia dei costi relativi al differenziale di rendimento tra Btp/Bund.

LA COMMISSIONE EUROPEA RIVEDE AL RIALZO LE STIME SUL DEFICIT ITALIANO

DI VIRGINIA MURRU

 

Le previsioni economiche d’autunno sul deficit italiano da parte della Commissione europea, sono tutt’altro che positive, soprattutto per il 2019: 2,9%, mentre il Pil  sarà all’1,2%. Il ministro dell’economia, Giovanni Tria, non concorda su queste previsioni che aggiungono veleno ai rapporti tra Roma e Bruxelles. Il Pil, secondo le previsioni Ue, andrà dall’ 1,3% del corrente anno all’1,1% nel 2019. Nel documento si mette l’accento sul rallentamento della crescita nel Paese, in particolare nel versante dell’export e della produzione industriale.

E tuttavia, secondo le conclusioni della Commissione, nel breve periodo, una maggiore spesa pubblica – così come previsto dalla manovra – sosterrà la crescita moderatamente.  Intanto, comunque, non si può sottovalutare una maggiore esposizione al rischio per quel che riguarda il deficit, associato ad un aumento considerevole degli interessi e tendenza al ribasso; il tutto comprometterà l’obiettivo di riduzione del debito.

Inoltre, secondo le stime della Commissione, la ripresa degli investimenti privati è in via di rallentamento, dovuto anche “ai venti di coda della politica monetaria e degli incentivi fiscali”, mentre le condizioni di credito per le aziende diventano più strette, e infine per motivazioni legate all’impatto dello spread sulla concessione di credito.

Le stime dell’Unione europea proseguono su un trend piuttosto negativo, dato che nel 2020 il deficit si porterà ad oltre il 3% , a causa delle misure programmate, in particolare perché inciderà il reddito di cittadinanza, la riforma Fornero e gli investimenti pubblici che contribuiranno all’aumento significativo della spesa. E non si tiene conto dell’aumento dell’Iva, vista la sterilizzazione della clausola di salvaguardia.

L’Italia, in termini di crescita, va ad occupare gli ultimi posti in Europa, in compagnia del Regno Unito (fino all’uscita definitiva dall’Ue), e il Belgio, le cui performance sono anche peggiori di quelle italiane, secondo le stime della Commissione. In area euro, e nell’Unione in generale, diminuisce il tasso di disoccupazione, ma allo stesso tempo rallenta la crescita dell’occupazione; in Italia il mercato del lavoro non migliorerà, la stima è associata al contesto negativo legato agli effetti che produrrà nei prossimi anni la manovra varata dal Governo. Qualora ce ne fosse bisogno, è in definitiva una conferma di sfiducia nei confronti del programma di politica economica del governo italiano, e il ‘contenzioso’ resta più che mai aperto dopo l’ultimatum dei giorni scorsi.

In netto contrasto con le previsioni d’autunno della Commissione europea  le dichiarazioni del presidente del Consiglio Giuseppe Conte:

“La Commissione sottovaluta l’impatto positivo della manovra economica e delle  riforme strutturali. I conti pubblici, secondo le nostre stime, sono divergenti rispetto a quelle espresse da Bruxelles, noi siamo convinti che la crescita aumenterà, mentre ci sarà un calo di deficit e debito. Non esistono premesse per affermare con fondate ragioni che le nostre previsioni siano di fatto insostenibili. Secondo le nostre valutazioni il deficit diminuirà per effetto della crescita, e pertanto farà diminuire anche il rapporto debito/Pil al 130% per il 2019, e al 126,7% nel 2021.”

Gli fa eco Giovanni Tria: “L’analisi della manovra non  è obiettiva, è parziale, si tratta di défaillance tecnica, il Governo è in netto contrasto con queste previsioni, il deficit diminuirà”.

Sarà sufficiente un anno di governo per capire se la nuova formula di crescita prevista dalla manovra economica funzionerà, il tempo, come al solito, sarà l’arbitro più attendibile.

AUT AUT DELL’UE: O CAMBIO SOSTANZIALE DELLA MANOVRA O PROCEDURA D’INFRAZIONE

DI VIRGINIA MURRU

 

Il dialogo tra Bruxelles e Roma resta aperto, la Commissione europea però questa volta lascia intendere che ci dovranno essere le condizioni per un’intesa di fondo con il Governo italiano. Il terreno del dialogo sta diventando però sempre più franoso; è in definitiva un braccio di ferro, poiché il governo continua a proclamare inflessibilità sui punti chiave del Documento programmatico, e porta avanti ad oltranza questa prova di forza nella speranza di avere ragione sulla logica di austerità (basata sulla richiesta di rispetto dei parametri stabiliti dai Trattati) imposta dall’Unione.

Si tratta dunque di un ultimatum: il dead line è stabilito per il 13 novembre, entro questi termini il Governo dovrà trasmettere a Bruxelles una copia della manovra con interventi di correzione considerevoli, qualora si ostinasse nella logica dell’intransigenza, sono pronte le misure e le penalizzazioni, che non sono di poco conto. Ai sensi dell’Art. 126 del Trattato sull’Ue, si procederebbe contro l’indisciplina nei conti del Paese; e qualora scattasse la procedura, l’Italia potrebbe essere penalizzata con circa 9 miliardi di euro. Un colpo piuttosto duro da metabolizzare, di questi tempi.

E’ l’ultima considerazione da fare in questa delicata circostanza, ma l’immagine dell’Italia ne viene fuori veramente male, siamo diventati il tiro al bersaglio in Europa, e non è edificante.

L’articolo del Trattato sull’Ue, citato, ossia il 126, si richiama espressamente al divieto, per gli Stati membri, di produrre eccessi in termini di disavanzo pubblico, per questo il Paese che se ne rende responsabile resta sotto il controllo diretto della Commissione europea, fino a quando il rapporto deficit/Pil diventa accettabile, ovvero sotto la soglia di sicurezza, che le autorità ritengono congrua. Altra nota dolente è la consistenza del debito pubblico, stimato intorno al 132% del Pil, in sostanza il rischio è che l’Italia non possa più accedere al programma dii acquisto di titoli di Stato da parte della Banca centrale europea, che ha notevolmente contribuito a sostenere i conti pubblici fino ad ora.

Nemmeno le previsioni ottimistiche del vicepremier 5S Luigi Di Maio, sono state ‘scaramantiche’ verso una buona disposizione da parte delle autorità della Commissione europea. Valdis Dombrovskis, vicepresidente dell’esecutivo, è stato piuttosto chiaro, quasi lapidario sulla questione manovra: qualora non siano apportate considerevoli modifiche, a Bruxelles saranno costretti a “rivedere le conclusioni”, e il trattamento di “clemenza” riservato a Roma in altre circostanze non si ripeterà.

E infatti, a questo riguardo Dombrovskis dichiara:

“Abbiamo proceduto con parsimonia anche gli anni scorsi, sostenendo che l’italia era in sostanza in regola con i requisiti del Patto di stabilità, evitando così l’onere della procedura d’infrazione. Ma ora si chiede troppo alla Commissione, il Documento programmatico di bilancio non è stato modificato, ed è nostro compito “rivedere le conclusioni”. Roma non ha tenuto conto delle nostre richieste, ossia il miglioramento del deficit strutturale di 0,6%. Notiamo anzi che c’è un peggioramento di 0,8%, e dunque una deviazione pari all’1,4%: non è accettabile.”

La Commissione contesta al governo di Roma lo scostamento da quella linea di rientro del rapporto debito/Pil, che è oltre la soglia del 60% fissata dal Trattato di Maastricht, gli anni scorsi è stato verificato l’impegno a produrre un buon livello di avanzi primari, e per via di questo impegno si è deciso ogni volta di concedere fiducia all’Italia. L’attuale manovra è stata ritenuta troppo arbitraria sulla linea del rischio, non si tiene conto dei meccanismi di aggiustamento dei valori riguardanti il rapporto debito/Pil,  questa è la ragione dell’allarme di Bruxelles, e la determinazione a prendere le misure necessarie qualora il Documento programmatico non sia sottoposto ad una sostanziale revisione.

Intanto il ministro dell’Economia Giovanni Tria, presente al meeting Ecofin, è rientrato a Roma prima del previsto, e non è apparso un buon segno di conciliazione con le autorità della Commissione, senza contare il fatto che i colleghi ministri dei Paesi membri, hanno in più circostanze dichiarato di non concordare con le misure di politica economica troppo spregiudicate intraprese dal Governo italiano. Non hanno convinto nemmeno le dichiarazioni spicciole del ministro Tria al suo rientro da Bruxelles, del resto è persona molto diplomatica, e parte dal principio che non giovi esprimere opinioni troppo schiette, semmai sia necessario privilegiare la via del dialogo, soprattutto in circostanze difficili come queste. In ogni caso l’atteggiamento è sintomatico di questa tensione, anche l’incontro che il ministro avrebbe dovuto avere con la stampa è saltato a chiusura dei lavori con Ecofin.

Nel corso del meeting, Pierre Moscovici, commissario agli Affari economici, è stato subito esplicito: “un conto è la richiesta di flessibilità, altro è chiedere di agire deliberatamente al di fuori delle regole”. Insomma si è sorvolato fino ad ora, non può essere il governo di un singolo Stato membro a decidere, senza tenere conto dei Trattati che sono stati firmati. L’Ue deve vigilare affinché proprio gli accordi siano rispettati, il  ruolo di vigilanza è fondamentale.

Sul versante italiano non lampeggiano segnali di apertura verso un’intesa soddisfacente anche per la Commissione europea, non s’intravede un ravvedimento per quel che concerne la correzione della Nota di Aggiornamento al Def, il rapporto deficit/Pil resta quello dichiarato, ossia il 2,4% così contestato, spartiacque che ha creato i due fronti divergenti.

 

 

 

 

“UE EQUAL PAY DAY”, PER RICORDARE CHE LE DONNE LAVORANO DUE MESI ALL’ANNO GRATIS

DI VIRGINIA MURRU
Non è esattamente una celebrazione, ma almeno, il 3 novembre, si rivolge lo sguardo verso l’altra metà del cielo, dove la “luce” giunge un po’ in diagonale, nel senso che i diritti non sono uguali all’altro “versante”: le donne, soprattutto in alcune aree del pianeta, sono ancora vite di serie ‘B’, e le disparità di trattamento rispetto al mondo maschile, sono veramente inconcepibili nel terzo millennio.
L’Ue allo scopo di favorire la parità di genere fra uomo e donna in ambito lavorativo, ha fissato nel calendario una data significativa, l’”Equal pay day”, che comincia proprio il 3 novembre; a partire da questo giorno, infatti, in media, la donna europea lavora gratis, fino al 31 dicembre.
Si parla della media europea, perché osservando la situazione di ciascun paese membro, ci troviamo davanti qualche sorpresa: per esempio le donne tedesche cominciano a lavorare gratis, a partire da metà ottobre, così come, accade alle donne in Estonia e Cecoslovacchia, queste lavoratrici prendono circa il 22% in meno rispetto agli uomini. Sorprendente (quasi un primato per i diritti civili) che le donne italiane invece, comincino a lavorare gratis da metà dicembre (fino al 31, periodo di riferimento).
Afferma il vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans, sostenuto dalla Commissaria Marianne Thyssen e Vera Jourova:
“Donne e uomini devono avere pari diritti, si tratta di un valore fondante dell’Unione europea. Nonostante questo le donne europee, in media, lavorano due mesi gratis rispetto ai loro colleghi, è una situazione inaccettabile, bisogna intervenire per tutelare le donne che lavorano.”
In media, le donne europee, secondo Eurostat, quanto a trattamento economico sul lavoro, prendono il 16,2% in meno rispetto agli uomini, e dunque a partire dal 3 novembre, lavorano gratis fino alla fine dell’anno. Se si volesse precisare meglio, per ogni euro che un uomo guadagna, la donna prende circa 16 centesimi in meno (in Italia, secondo i dati Eurostat, le donne prenderebbero invece il 5,3% in meno).
Questa data è diventata un simbolo, si spera di riscatto, Equal Pay Day, per indurre a riflettere, e soprattutto per restituire dignità e parità di diritti a tutte le donne che lavorano.
Le differenze sono comunque rilevanti, e parliamo dell’Occidente, dove i diritti civili e umani dovrebbero essere molto avanzati, e invece anche qui siamo ben lontani dal raggiungere il traguardo delle ‘pari opportunità’, sancite da princìpi giuridici contenuti nella Costituzione (e non solo in quella italiana).
Ben 3 articoli vi fanno infatti riferimento: il N. 3, il 37 e il 51.
Afferma l’Art. 3:
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
E potrebbe anche essere sufficiente ad eliminare qualsiasi forma di dubbio o discriminazione di genere, ma l’Art. 37 entra nello specifico, e recita:
“La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.
La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato.”
E infine è bene citare anche l’Art. 51:
“Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini.”
Eppure di fatto questi fondamentali princìpi della nostra Costituzione sono stati solo relativamente applicati, considerato che, ancora oggi, i risultati sono questi.
Si è detto che la parità di genere, anche in ambito lavorativo, è anche un diritto stabilito dell’Ue, e infatti, fin dalla sua istituzione, la Comunità europea, ha messo in rilievo l’importanza della parità di retribuzione, proprio come principio fondante, e sulla base di questa tutela ha promulgato una normativa che tende a garantire i medesimi diritti tra uomo e donna. Dunque stesse opportunità per l’accesso all’occupazione, condizioni di lavoro non discriminanti, diritto alla formazione professionale con gli stessi criteri dei colleghi maschi, e soprattutto attenzione per quel che concerne la protezione sociale, welfare..
A partire dal 1957, anno di fondazione della Comunità europea, troviamo nella normativa, un articolo che entra nello specifico, il N. 119 dei Trattati sostitutivi, che disciplina e sancisce il principio della parità di retribuzione tra lavoratori maschi e femmine, allorché svolgano lo stesso lavoro. Purtroppo, oggi sappiamo che non si è dato seguito a questi diritti fondamentali che caratterizzano una società evoluta sul piano sociale qual è quella europea.
Il concetto fu ripreso una ventina d’anni più tardi, ossia nel 1975, quando la Comunità europea emanò delle norme precise sulla parità di retribuzione, si trattava della Direttiva 75/117/CEE, che aveva il fine di ‘omologare’ il trattamento retributivo nell’ambito della legislazione degli stati membri. A questo intervento giuridico seguì un’altra Direttiva l’anno successivo, la 76/207/CEE, emanata dal Consiglio del 9 febbraio 1976, che riportava l’attenzione sulla parità di diritti nell’accesso al lavoro tra uomini e donne, formazione professionale e tutte quelle materie oggetto di discriminazione di genere, che restavano di fatto problematiche sociali ancora irrisolte.
Da allora le Direttive su questa materia sono state diverse, come quella del 1986 (e non certo l’ultima), ossia l’86/378/CEE, la quale ribadisce con eloquenza la necessità di stabilire il principio della parità di trattamento (richiamo in particolare al settore dei regimi professionali di sicurezza sociale, tutela della maternità, ecc.), e relativa applicazione da parte degli Stati membri, che dovevano, per ovvie ragioni, recepire la normativa.
Altri interventi di carattere normativo sono seguiti, ma siamo ancora qui, nel terzo millennio, a parlare e a scrivere di trattamento discriminatorio tra i due sessi, disparità di genere anche nell’ambiente di lavoro, ed è difficile essere ottimisti, pensare che nel volgere di pochi anni, alle donne, finalmente, nel lavoro saranno riconosciuti gli stessi diritti dei colleghi maschi.

EBA. SUPERATO LO STRESS TEST DALLE 4 BANCHE ITALIANE FACENTI PARTE DEL CAMPIONE

DI VIRGINIA MURRU

 

L’Eba ha pubblicato oggi gli esiti sullo stress test riguardante 48 Istituti di credito di 15 paesi membri dell’Ue, i quali rappresentano, in complesso, il 70% dell’attività amministrativa, come si legge nel sito dell’Autorità di vigilanza bancaria. Le banche italiane in esame, ossia Unicredit, Intesa Sanpaolo, UBI Banca, Banco BPM, sono state ritenute solide, anche in condizioni di scenari avversi o supposti shock sistemici .

Come funziona lo stress test eseguito dall’Autorità bancaria europea (European Banking Authority), ossia l’Eu-wide stress test?

L’ABE, autorità di vigilanza del settore bancario europeo, ha sede a Londra, ed è prima di tutto rappresentata da un presidente, che attualmente è un italiano, Andrea Enria. Il suo ruolo di guida consiste nell’impostare i lavori nel corso degli incontri con il Consiglio e le autorità di vigilanza. Le riunioni sono indette da un direttore esecutivo, mentre i due organi esecutivi sono il Consiglio delle autorità di vigilanza (organo decisionale, che delibera su tutte le scelte di carattere politico), e il Consiglio di Amministrazione, che sovraintende e vigila affinché siano assolte tutte le operazioni e i compiti concernenti la missione di Abe. In questo contesto si svolge un programma di lavoro annuale, con relativo bilancio, oltre ad un Piano in materia di politica del personale, e la relazione annuale. L’Abe svolge il suo ruolo in stretta collaborazione con le altre autorità europee di vigilanza.

Per garantire e tutelare i diritti delle parti coinvolte e interessate dalle decisioni dell’Autorità di vigilanza bancaria, è stata istituita una Commissione di ricorso. Gli stress test sono stati collaudati negli Usa, dopo la sonora lezione dei mutui subprime, nel 2008, e sono piuttosto importanti per una banca, perché, sulla logica delle analisi compiute dall’Eba, impostano le azioni di management, e le scelte destinate ad assicurarne la solidità.

Lo stress test consiste in un’analisi alla quale viene sottoposto un gruppo di banche europee, tenendo conto di scenari futuri sfavorevoli, al fine di comprendere il grado di sostenibilità nel corso di tali eventi, che potrebbero anche essere disastrosi sul piano finanziario, e pertanto con questi parametri si riesce a valutare la consistenza del capitale, la “resilienza” in  casi d’impatto con shock.

Si valutano nello specifico alcuni aspetti chiave, ossia il modo in cui i rischi di credito, mercato e liquidità, reagiscono allo stress test, nel caso di evenienze  negative. Le crisi vengono pertanto ipotizzate, sulla base di elementi diversi. In definitiva, queste analisi, misurano il grado di resistenza e tenuta patrimoniale delle banche sottoposte a forti pressioni in un contesto di criticità di carattere economico. E’ stato simulata la reazione del CET1 ratio, il Common Equity Tier 1, ovvero quella componente primaria rappresentata dal capitale di una banca. La solidità dunque del patrimonio.

Nei risultati pubblicati dall’EBA, per quel che riguarda il gruppo di banche italiane, l’esito risulta positivo, la più ‘resiliente’ è stata Intesa Sanpaolo, la più solida, ma sono venute fuori indenni dalla graticola anche Banco Bpm, Ubi, Unicredit. Le 4 banche si sono classificate con risultati migliori di Deutsche Bank,  il colosso tedesco, con circa 50 mila dipendenti sparsi nel mondo. Ma l’analisi dell’Eba non stupisce più di tanto, dato che Deutsche Bank, negli ultimi anni, ha affrontato momenti veramente difficili, si è rimessa in piedi anche grazie agli aiuti di Stato.

Gli istituti bancari italiani sono risultati nella media europea, secondo i test eseguiti. In dettaglio, per quel che riguarda Intesa Sanpaolo, lo scenario avverso ha indicato per l’anno 2020, un Cet1 ratio pari al 10,4%, nel 2019 il 10,64%, e nel corrente anno 10,8%. Il dato concernente il 2017, è stato rivisto al 13,24%.

Unicredit ha risposto allo stress di scenari avversi, con il Cet1 ratio a 12,8%  ridefinito per il 2017; a 9,34% nel 2020. Mentre nel 2019 sarebbe  a 9,58%, e nel 2018 a 10,31%.

Per quanto concerne Ubi Banca, in condizioni di schock il Cet1 ratio andrebbe nel 2018 a 9,76%, a 9,25% nel 2019, e ad 8,32% nel 2020. Il dato inerente il 2017, è stato ridefinito a 11,7%.

Su Banco BPM, il risultato del test indica un Cet1 ratio derivante da condizioni avverse, a 8,47 nel 2020; nel 2018 9,93%, e nel 2019 a 9,4%. Sul 2017, il Cet1 ratio è stato ridefinito al 13,94%.

Un “sistema immunitario” di carattere finanziario dunque in grado di affrontare tempeste, nella media dei risultati europei, il che tranquillizza il comparto e anche il Governo italiano. Soddisfatto il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, un sospiro di sollievo che permette al governo di continuare a portare avanti il programma di politica economica indicato nella manovra approvata di recente.

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LA VITA E’ MIA

 

DI VIRGINIA MURRU

 

lascia in pace il mio tempo
maturo da sempre
davanti al sole

Strappa i chiodi
da tutte le mie strade
vorrei parole libere
niente più maschere
nel corso del mio andare.

Sono intossicata di parole
basta folli congiunture
non serve mai tacere –
sono azzime le ore
e astinenze di vita
hanno scavato miniere sull’errore.

Io ringhio alla menzogna
e non son cane
toglimi l’osso e spezza la catena..

V.M. 2002

ALITALIA. I COMMISSARI ANALIZZANO TRE OFFERTE D’ACQUISTO, DUE VINCOLANTI

DI VIRGINIA MURRU

 

Lufthansa non vuole proprio saperne d’intrecciare rapporti di partnership con Alitalia, perché esiste un ‘terzo incomodo’, il governo italiano, che di questi tempi non gode di molta credibilità all’estero, se ne diffida anzi parecchio. Questa è la ragione della rinuncia della compagnia tedesca, che fa sapere di chiudere ogni accordo e possibile investimento qualora si abbia a che fare poi con lo Stato italiano. Accetterebbe in futuro, nel caso in cui la ex compagnia di bandiera si svincolasse dalle redini dello Stato, una partnership di carattere commerciale, allorché si supererà questa fase di transizione, con nuove premesse e un solido risanamento.

In sostanza, Lufthansa, non intende rischiare nel pur ambizioso piano di rilancio promosso dai due schieramenti politici di M5S e Lega, ci sarebbe da considerare la partnership con FS, azienda di trasporti pubblica, e proprio per questo rappresenta per i tedeschi uno scoglio che non si vuole affrontare. Lo dice a chiare lettere il Ceo della compagnia Carsten Spohr, precisando che Lufthansa potrebbe ancora farsi avanti quando Alitalia sarà completamente ristrutturata.

Tutti gli sforzi del vicepremier Di Maio, ministro anche dello Sviluppo Economico, non hanno sortito risultati. Si è fatta avanti, com’è noto, FS, tramite il nuovo Ceo Gianfranco Battisti, ma è stata posta una condizione: deve esserci con Alitalia un altro partner, ovvero un vettore estero, e si dovrebbe fare presto, prima che lo Stato sia costretto a foraggiare ancora una volta la compagnia.

Insomma una storia ricca di rivolgimenti, quasi sempre negativi, visto che negli ultimi dieci anni l’azienda è andata in bancarotta tre volte, macinando finanziamenti che regolarmente si sono volatilizzati, senza riuscire a trovare una rotta veramente in grado di portarla oltre la fitta nebbia degli ultimi decenni.

Intanto, i Commissari straordinari, quando ormai stavano per scadere i termini per le offerte, hanno fatto sapere che è giunta una manifestazione d’interesse non vincolante e due offerte vincolanti. Ora è necessario mettere al vaglio le proposte, e valutare attentamente prima di giungere ad una risoluzione che metta fine ad una condizione di perenne stand-by.

Sarà successivamente il vicepremier Di Maio a valutare la scelta dei Commissari; tra le offerte presentate c’è  quella vincolante di FS (vincolata ad un piano industriale), controllata al 100% dallo Stato. L’interesse del colosso pubblico dei trasporti sarebbe interessato ad alcune ‘parti’ di Alitalia, ossia Alitalia-Sai e Cityliner, le condizioni che sono state poste, come già accennato, è la presenza di un partner del settore. Verificate queste premesse, FS procederebbe quindi alla costituzione di una società, in compartecipazione con il vettore aereo.

La seconda offerta vincolante viene da Delta.

Altra offerta  è arrivata da EasyJet, la quale tuttavia precisa che la sua manifestazione di interesse (non vincolante) è rivolta ad un’azienda ristrutturata e risanata, e segue la linea strategica della compagnia low cost inglese nei confronti dell’Italia.

 

 

 

ISTAT. VERSO UN TREND INVOLUTIVO: FERMI CONSUMI E INVESTIMENTI

DI VIRGINIA MURRU
Lo spread non è un allarme perennemente acceso nei mercati per eccesso di prudenza, è una spia che lampeggia perché i segnali negativi che provengono da importanti settori dell’economia sono tanti. Certo le borse sono refrattarie alla politica economica che presenta alti margini di rischio, e in generale ai fattori d’instabilità, siano essi ‘endogeni’ o ‘esogeni’. E tuttavia non sono solo le borse a mugugnare e a remare contro, l’economia è una questione di numeri, di cifre e risultati, che piaccia o no.
E con i numeri è necessario fare pace, non ci si può spingere ad oltranza in un terreno minato, che ha già causato, fino ad ora, nel volgere di circa sei mesi, danni notevoli (persi in borsa oltre 65 miliardi). Solo a maggio, Piazza Affari aveva bruciato notevoli risorse, con l’indice di riferimento, il Ftse Mib, che in due settimane arretrava del 7%.
Se si traducono i numeri in parole, significa che fin dall’inizio, il governo Conte è stato “sfiduciato” dai mercati (e non solo); risposte chiare, non criptate, a partire dagli accordi raggiunti dai due schieramenti che hanno vinto le elezioni politiche. E a trattativa conclusa sul Contratto di governo, la strada percorsa dai decennali italiani, i Btp, è andata sempre in salita, con ben pochi cenni di tregua.
Per quel che concerne la ripresa, nonostante le rassicurazioni del premier Giuseppe Conte, e dei due vicepremier, il clima di fiducia sembra compromesso, qualcosa si è spezzato dopo 3 anni consecutivi di espansione economica, anni in cui il trend di crescita del Pil non ha viaggiato a ritmi sostenuti, ma ha seguito un andamento in ascesa: nell’ultimo trimestre del 2017, il Pil, secondo i dati Istat, si attestava a +1,7% (crescita congiunturale sul 2016).
A distanza di un anno, lo scenario economico, nonché quello politico, sono alquanto diversi, purtroppo il fenomeno che sta caratterizzando il 2018 è la contrazione evidente di alcuni dati che rappresentano le credenziali per l’andamento positivo di un’economia. Il comunicato stampa pubblicato oggi dall’Istat rivela in modo impietoso il processo involutivo in atto, che mette a rischio lo sviluppo e la crescita nei prossimi anni. Questo il comunicato sull’economia italiana:
“Nel terzo trimestre del 2018 si stima che il prodotto interno lordo (Pil), espresso in valori concatenati con anno di riferimento 2010, corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato, sia rimasto invariato rispetto al trimestre precedente. Il tasso tendenziale di crescita è pari allo 0,8%.
Il terzo trimestre del 2018 ha avuto due giornate lavorative in più rispetto al trimestre precedente e lo stesso numero rispetto al terzo trimestre del 2017.
La variazione congiunturale è la sintesi di un aumento del valore aggiunto nel comparto dell’agricoltura, silvicoltura e pesca e dei servizi e di una diminuzione in quello dell’industria. Dal lato della domanda, la stima provvisoria indica un contributo nullo sia della componente nazionale (al lordo delle scorte), sia della componente estera netta.
La variazione acquisita per il 2018 è pari a +1,0%.”
Intanto significa che il Pil, rispetto al trimestre precedente, secondo le stime preliminari dell’Istituto di Statistica, non ha fatto alcun progresso, rimanendo di fatto invariato. I dati, come precisa il comunicato, sono corretti per gli effetti di calendario e destagionalizzati, con anno di riferimento 2010. Il tasso tendenziale di crescita è dunque dello 0,8%. In rilievo le due giornate lavorative in più rispetto al precedente trimestre, uguali invece rispetto al terzo trimestre 2017.
L’Istat sottolinea che negli ultimi 3 mesi, l’economia italiana in termini di sviluppo si è fermata, la prima pausa dopo tre anni consecutivi di crescita. Il malessere, in sostanza, diventa tangibile, anche perché il tasso tendenziale di crescita passa a +0,8%, da +1,2% del secondo trimestre. Insomma un tracciato che fibrilla, proponendo uno scenario che richiede un’inversione di rotta a breve termine.
Al traino dei modesti risultati conseguiti, sempre secondo i rilievi dell’Istat, c’è l’industria, che tuttavia sta perdendo competitività, perché non ci sono le condizioni per sfruttare il potenziale di crescita.
A conferma di queste considerazioni basta dare uno sguardo al settore dell’automotive, con Fca in testa, che sta registrando una flessione nelle immatricolazioni di nuove auto: lo scorso settembre c’è stato un autentico crollo, con oltre il 25% in meno rispetto al 2017, stesso mese di riferimento. La Fiat, in affanno, ha quasi dimezzato le vendite.
A conforto di queste pessime performance, c’è il fatto che anche in Germania il mercato dell’auto ha subito cedimenti notevoli, ma l’andamento è negativo quasi ovunque. Arretrano anche gli investimenti in generale nel comparto, soprattutto quelli relativi agli investimenti sui macchinari, con uno sconfortante -15,3%, ulteriore conferma di un clima di stasi e malessere ormai conclamati.
La manovra approvata di recente è ambiziosa, ma tanti sono ancora gli elementi controversi, il reddito di cittadinanza, per esempio, e gli investimenti pubblici previsti dal documento programmatico di bilancio presentato dal governo, dovrebbero avere dei ritorni in termini di consumi e occupazione, dando impulso allo sviluppo, ma al momento, secondo le analisi degli economisti, l’orizzonte di queste misure è immerso nella foschia: insomma certezze sui risultati non ce ne sono.
Il rischio, elemento destabilizzante che invece si riflette soprattutto sui mercati, insieme al giudizio pesante delle Organizzazioni internazionali che osservano con occhio piuttosto critico, come del resto le  Agenzie di rating, causano invece conseguenze dirette, che si traducono in perdite pesantissime per gli investitori, i quali preferiscono la fuga. E le ragioni ci sono: sono stati persi in titoli pubblici e obbligazioni bancarie (in particolare), da maggio ad agosto, oltre 65 miliardi di euro.. Non noccioline: come ignorare questi risultati, e celarsi sempre dietro al paravento del ‘terrorismo’ mediatico, volto a boicottare il governo in carica? Sono proprio gli investitori esteri ad abbandonare i titoli italiani, perché sono sul limite del ‘junk’, ossia della carta straccia. Per questo si vende e non si compra, e la volatilità esulta.
Si argomenta intorno a fatti, numeri, non si tratta di veleno gratuito, o smania di arrampicarsi sugli specchi. E’ giusto concedere fiducia al cambiamento, tentare carte nuove per imboccare la via di una svolta più certa, non accontentarsi della guida prudente ingranando una marcia che non permette uno scatto più deciso, ma andare oltre.
Certo, giusto attendere i risultati del programma di politica economica ‘del popolo’, pensato per la gente, quella meno abbiente. Ma con i riscontri attuali e i rischi che comporta, ci possiamo permettere di viaggiare con una candela in mano dentro un tunnel ancora poco illuminato?
Non per farci del male, ma per aprirci gli occhi, l’Istat, nell’allegato al comunicato stampa, commenta:
“Nel terzo trimestre del 2018 la dinamica dell’economia italiana è risultata stagnante, segnando una pausa nella tendenza espansiva in atto da oltre tre anni. Giunto dopo una fase di progressiva decelerazione della crescita, tale risultato implica un abbassamento del tasso di crescita tendenziale del Pil, che passa allo 0,8%, dall’1,2% del secondo trimestre. Questa stima, che ha natura provvisoria, riflette dal lato dell’offerta la perdurante debolezza dell’attività industriale – manifestatasi nel corso dell’anno dopo una fase di intensa espansione – appena controbilanciata dalla debole crescita degli altri settori.”
Il nuovo anno, ormai alle porte, darà già le prime risposte certe ai tanti interrogativi.

BUNDESBANK: IL 20% DEI RISPOARMI DEGLI ITALIANI PER RISOLVERE IL PROBLEMA DEL DEBITO PUBBLICO

DI VIRGINIA MURRU
E’ stato il quotidiano tedesco Frankfurt Allgemeine Zeitung a darne notizia, con tutte le riserve del caso, precisando che l’opinione dell’economista tedesco Karsten Wendorff sarebbe “personale”, non una crociata dei tedeschi, che comunque non si sentono propriamente al sicuro, con un Paese che presenta turbolenze in ambito economico poco rassicuranti, e sta facendo troppo rumore nei mercati finanziari.
Insomma, la proposta di tartassare gli italiani e i propri risparmi, viene da una personalità piuttosto autorevole, attento a proteggere la Germania da possibili insidie esterne, soprattutto in area euro. E l’Italia è sempre stata vista più o meno alla stregua di una scheggia impazzita che potrebbe colpire tutta l’area; del resto le recenti vicissitudini dello spread purtroppo gli danno ragione, quanto a timori di contagio in Eurozona.
Nello specifico, che cosa propone Wendorff? Un prelievo forzoso del 20% dei risparmi degli italiani da convertire in acquisto di bond, ossia un piano di salvataggio sulla falsariga del “bail-in”, solo che questa volta non si tratta di salvare una banca dal rischio di default, ma uno Stato. Una strategia alquanto barbara, quasi una provocazione. Se avesse fatto, per pura ipotesi, una proposta del genere ai tedeschi, siamo sicuri che questi non avessero imprecato come turchi di fronte ad una simile prospettiva?
Non che il vicepremier Matteo Salvini, non ci abbia già messo il naso su un’evenienza di questo tipo, lo ha dichiarato proprio qualche settimane fa, sostenendo che la manovra non è a rischio di copertura e “gli italiani, qualora i rivolgimenti fossero i peggiori, essendo un popolo di risparmiatori, sarebbero generosi..” Forse sottovaluta quello che significa risparmio in Italia, per una famiglia: quasi sempre uno slalom di strategie quotidiane volte ad assicurare il futuro dei figli, e certo vedersi insidiare anche questo, dopo il rigore del fisco, sarebbe inaccettabile.
Aiutare lo Stato nel ruolo di contribuente, richiede già penalizzazioni non di poco conto; gli italiani lavorano per il fisco, nel corso dell’anno, fino a giugno (gli americani fino ad aprile), la sospirata ‘liberazione fiscale’ o ‘tax freedom day’, arriva proprio il 2 giugno. Ora attingere al 20% del patrimonio netto, per riparare gli errori di una politica economica scellerata da decenni, non sarebbe la migliore delle aspirazioni, com’è ovvio concludere.
Ma ai tedeschi non importa molto delle vicissitudini degli italiani, lo spread in Italia è diventato poco meno di una mina vagante, e per fermarne i continui balzi, la ricetta è quella trita e ritrita: ridurre l’incidenza del debito pubblico. Ora si propone di farlo attraverso una patrimoniale del 20%, con prelievi forzosi nei conti correnti al fine di contribuire “solidalmente”, tramite un Fondo ad hoc, alla sottoscrizione di titoli di stato solidali, appunto.
Tutto questo affinché si eviti il rischio di coinvolgere i paesi membri dell’Ue, in particolare quelli dell’Eurozona. Il contrario di quello che vorrebbe attuare il ministro per gli Affari europei Paolo Savona, che invece esigerebbe interventi di sostegno dall’Ue, per risolvere l’annoso problema del debito pubblico.
Il debito pubblico non sarebbe così azzerato, ma dimezzato, e se una simile mannaia cadesse sui risparmi degli italiani, certamente sarebbe provvidenziale per il debito-mostro che questo Paese si porta avanti da mezzo secolo, ma un tale sacrificio sancirebbe la fine del Governo che si accingesse a mettere in pratica la proposta.
Intanto, Bloomberg, bolla il piano dell’economista tedesco come radicale, qualora fosse applicato si rifletterebbe sui consumi delle famiglie, e di conseguenza sull’andamento dell’economia. Sarebbe veramente un’iniziativa ad altissimo rischio. Possibile che queste considerazioni sfuggano ad un economista del calibro di Wendorff? Si tratta di un pezzo da novanta della Bundesbank, responsabile per il dipartimento delle finanze pubbliche, uno degli economisti più quotati nella Banca centrale tedesca.
Tuttavia nel quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine, è stato piuttosto chiaro: l’Italia non può chiedere di attingere da un Fondo europeo per l’acquisto di titoli di Stato, a spese dei cittadini dell’Unione (ricorrendo all’ European stability mechanism (Esm), ma dovrebbe istituire un Fondo “Salva Italia” nel Paese, che acquisterebbe bond, trovando così la soluzione al problema all’interno dei confini della Nazione. In spiccioli: saldatevi i vostri debiti, e lasciateci in pace..
La Bundesbank, per evitare di suscitare un putiferio – il governo italiano non perdona di questi tempi – ha precisato che si tratta di opinioni espresse da Wendorff, e che la Banca centrale non c’entra.

SOLO CONFERME DALL’EUROTOWER, I TASSI RESTANO INVARIATI

DI VIRGINIA MURRU
L’ultima riunione del Consiglio direttivo della Bce, al quale ha partecipato anche il vice presidente della Commissione Valdis Dombrovskis, non ha espresso novità sulla politica monetaria convenzionale (e non) e il PAA (Programma Acquisto Attività), i tassi d’interesse di riferimento restano invariati.
Il che significa che il meeting del 25 ottobre conferma le scelte già operate nei precedenti incontri, sulla base delle analisi di carattere economico e monetario, e pertanto si prevede che i tassi si manterranno su livelli pari a quelli attuali almeno fino alla prossima estate.
Il presidente Draghi, nella consueta introduzione alla conferenza stampa, precisa che il mantenimento del basso livello dei tassi è finalizzato ad assicurare che l’inflazione continui a convergere intorno all’obiettivo prossimo al 2% nel medio termine.
Per quel che concerne le misure non convenzionali, ossia il programma di acquisto di attività, il ritmo seguirà il piano già previsto, ad un ritmo mensile di 15 miliardi di euro al mese, fino al 31 dicembre prossimo.
Il presidente Draghi ha sottolineato che, qualora il target sull’inflazione a medio termine sia raggiunto, termineranno anche gli acquisti netti. Precisa inoltre – ma è una semplice conferma – che la Banca centrale europea continuerà comunque a reinvestire il capitale rimborsato in titoli in scadenza, sempre nell’ambito del programma di acquisti, per un ampio periodo di tempo, al momento non fissato.
Queste linee di politica monetaria continueranno finché “sarà necessario per mantenere uno stato di liquidità favorevole e il giusto grado di accomodamento monetario.”
Egli sostiene che, nonostante si siano riscontrati ultimamente dei segnali meno incisivi sulla crescita, con un lieve rallentamento in area euro, i dati restano positivi per quel che concerne la tendenza all’espansione in generale dell’economia (il Pil in termini reali in area euro è aumentato dello 0,4% nei primi due trimestri dell’anno in corso), e l’aumento della pressione inflazionistica.
Quest’ultima osservazione, secondo Draghi è importante, in quanto i risultati e le tendenze si confermano positivi nonostante le misure di tapering adottate a partire dal 2017, ossia la diminuzione costante negli acquisti di titoli.
Vi sono tuttavia delle vulnerabilità che provengono dal fronte globale dell’economia, ossia le politiche protezionistiche portate avanti dagli Usa, le incertezze riscontrate nei mercati emergenti, e la recente volatilità manifestatasi nei mercati finanziari.
Questi elementi di analisi determinano le scelte e gli attuali orientamenti della Banca centrale europea, considerando la necessità di stimoli monetari in grado di fronteggiare le pressioni interne sui prezzi e in generale le dinamiche legate all’inflazione nel medio termine. Il presidente dell’Eurotower sottolinea che il Consiglio direttivo vigila sull’andamento dell’inflazione, e si continueranno ad impiegare tutti i mezzi affinché siano perseguiti gli obiettivi. Precisando, durante la conferenza stampa, che esistono anche altri strumenti, oltre al Quantitative easing.
Del resto il fine principale è mantenere la stabilità dei prezzi nell’area dell’euro e preservare così il potere di acquisto della moneta unica.
Positivo, secondo l’analisi del presidente, non solo la tendenza all’espansione economica, sia pure leggermente più contenuta nei primi sei mesi del 2018, ma anche quella del mercato del lavoro. Il tasso di occupazione nell’area esprime dati incoraggianti, così come l’aumento dei salari. Buoni riscontri nell’ambito dell’edilizia residenziale, che vede crescere gli investimenti.
I consumi privati se ne avvantaggiano, e le misure di politica monetaria sostengono la domanda interna, questo determina un incremento degli investimenti da parte delle imprese, spinti anche dalle favorevoli condizioni di finanziamento.
Segnali destinati a mantenersi positivi se le prospettive di espansione a livello globale continueranno, perché fungeranno da stimolo all’export in eurozona.
I rischi, tuttavia, nonostante la crescita costante rilevata negli ultimi anni, persistono, secondo il presidente della Bce, e derivano (come già accennato) da aree sensibili della politica economica degli Usa, come il protezionismo, ma anche dai risultati negativi dovuti alla volatilità dei mercati finanziari.
Draghi richiama, come di consueto, l’attenzione dei paesi membri sulla necessità di seguire una politica di attuazione delle riforme strutturali, la quale ha bisogno d’essere incentivata affinché si consolidi la capacità di tenuta nell’area. Indispensabile anche l’attivazione di misure in grado di ridurre la disoccupazione strutturale, sempre con l’obiettivo di rafforzare la produttività e il potenziale di crescita.
Il presidente si rivolge poi a quei paesi che presentano problemi nei conti pubblici, e sostiene che per quel che concerne le politiche di bilancio, la situazione è favorevole per ricostituire margini di manovra nell’ambito delle finanze pubbliche. Con questi orientamenti si può ridurre il debito pubblico e mantenersi coerenti in termini di compliance sulle norme stabilite dal Patto di stabilità e crescita. Il quadro normativo di riferimento stabilito dall’Ue, per la governance economica, deve essere rispettato al fine di consolidare la tendenza alla crescita e alla tenuta dell’area.
Diversi giornalisti, tra  presenti, durante conferenza stampa, hanno rivolto domande al presidente Draghi sull’attuale politica economica e di bilancio seguiti dal governo italiano, sulle conseguenze nei mercati, nonché sul riflesso che potrebbe avere in Eurozona.
Una delle primissime domande ha riguardato la manovra economica trasmessa dal Governo a Bruxelles. Il presidente ha precisato che “l’Italia è un tema fiscale di pertinenza della Commissione europea, la Bce non entra in merito alle politiche di bilancio dei singoli stati, in quanto Istituzione finanziaria dell’area euro”. Tuttavia, secondo una personale opinione, sostiene che sia importante per entrambe le parti, trovare un accordo.
Sempre in merito alla situazione italiana, gli è stato chiesto un parere sul settore bancario italiano, in particolare sui bond che le banche detengono nel portafoglio. Draghi, che chiaramente intende difendere la neutralità del ruolo, ha detto che non può avere certezze al riguardo, in quanto non “ha la sfera di cristallo” che gli permetta di presentire cosa accadrà, ma ribadisce la fiducia in un accordo con l’esecutivo dell’Ue.
Sulla questione banche italiane, ha risposto che è necessario intervenire per ridurre lo spread (non è compito della Bce), col tempo infatti potrebbe davvero nuocere agli istituti di credito. Non ha mancato di mettere l’accento sulle relazioni tra il Governo italiano e le autorità dell’Ue, che dovrebbero mantenersi nell’ambito del rispetto, e i toni dovrebbero essere moderati.
Ad una domanda sul modo in cui affrontare la crisi di un paese nell’ambito dell’area, ha risposto che la Banca centrale utilizzerebbe l’OMT, sigla di Outright Monetary Transactions (ossia il programma di acquisto di titoli di Stato lanciato sei anni fa, seguito allo slogan spesso usato dal presidente “whatever it takes”, al fine di garantire e preservare l’Eurozona, anche se fino ad ora questo piano non è mai stato attuato), qualora ne ricorressero le condizioni, e non compromettesse in generale le linee di politica monetaria, si potrebbe intervenire in situazioni di seria crisi che si presentasse in un singolo Stato, tramite l’acquisto diretto di titoli di stato a breve termine.
In seguito ad una domanda sulla politica monetaria, Draghi ha sostenuto la necessità del loro completamento, per evitare che si indebolisca, le iniziative, tuttavia, devono venire dai governi dei paesi membri.

FCA. LE RAGIONI CHE HANNO PORTATO ALLA CESSIONE DI MAGNETI MARELLI

DI VIRGINIA MURRU
 
Fca decide di cedere alla giapponese Calsonic Kansei Holdings Corporation, la controllata Magneti Marelli S.p.A., un gioiello tutto italiano, contribuendo ad aumentare il paniere di vendite che sta tristemente caratterizzando il panorama dell’industria nel Paese. Il gruppo giapponese di automotive è più piccolo della multinazionale italiana.
 
Qualcuno osserva che il capitalismo italiano sia in pieno declino, e che meglio sarebbe stato se l’operazione fosse stata “invertita”, scambiando i ruoli: ossia avrebbe dovuto essere Magneti Marelli ad acquisire il gruppo giapponese Calsonic K. Ma, sempre sulla base di queste considerazioni, l’industria italiana non ha più le carte in regola per giocare in attacco, può solo difendersi, ove possibile.
 
Dietro vi sono quasi sempre ragioni di carattere finanziario, esigenze di mezzi per favorire gli investimenti e reggere la competitività.
Nemmeno Fca è propriamente italiana: è una società italo-americano di diritto olandese, con sede legale a Londra, e stabilimenti presenti in America e altri stati europei. La Fiat, simbolo dell’industria italiana nel mondo è un lontano ricordo.
Effetti della globalizzazione? Certamente, ma anche della profonda crisi dell’economia e industria del nostro Paese.
 
I sindacati definiscono positiva l’operazione di cessione di Magneti Marelli, ma nel contempo dichiarano che ‘vigileranno’ affinché l’occupazione sia garantita. Del resto, a Sesto S. Giovanni, Magneti Marelli dà lavoro a circa 43 mila dipendenti (il suo fatturato è di oltre 8 miliardi).
 
Ma non c’è spazio per i patriottismi, i mercati hanno salutato l’operazione – che ha portato nelle casse di Fca un controvalore pari a 6,2 miliardi di Euro – con entusiasmo, contribuendo peraltro a diffondere un po’ di ottimismo a Piazza Affari, in questo periodo di turbolenze. Il Sole 24 Ore definisce in modo eloquente l’accordo: “l’operazione migliore nel tempo peggiore”. Piazza Affari ha esultato e ‘premiato’ Fca, dando notevole impulso al titolo: +5%.
 
Sergio Marchionne stava già valutando l’opportunità della vendita con gli americani di Kkr, e con il suo “sguardo lungo”, ne aveva già fissato il valore: non meno di 6 miliardi di euro. La multinazionale italiana è stata infatti acquistata da KKR tramite la giapponese Calsonic Kansei. Kkr è uno dei principali operatori internazionali di private equity del mondo, trattandosi di Fondi d’investimento, il suo obiettivo è quello d’incrementare il valore delle sue operazioni, per poi rivendere ad un prezzo maggiore, determinando una plusvalenza. Più che l’aspetto industriale, il fine primario è quello finanziario. Strategie che si spera non possano nuocere in futuro a Magneti Marelli.
 
Con questa operazione, Fca ha ceduto il business della componentistica per autoveicoli di Magneti Marelli, ad uno dei migliori fornitori giapponesi che opera nello stesso ambito. Ad accordi conclusi, si pensa nei primi mesi del prossimo anno, il nome diventerà “Magneti Marelli CK Holdings”, e rappresenterà, ad attività congiunte, il settimo gruppo indipendente più importante al mondo, in termini di fatturato (oltre 15 miliardi).
 
Prima della conclusione definitiva degli accordi, l’operazione dovrà essere sottoposta all’approvazione delle autorità regolatorie e all’iter completo previsto dalle condizioni di chiusura. Fca e la Corporation giapponese esultano, con il beneplacito dei mercati, perché la sigla di questo accordo rappresenta un’opportunità di combinazione di business, ad altissimi livelli. Come si è già accennato, si parla dei migliori fornitori indipendenti nel pianeta in questo settore. Il fatturato espresso in yen sarà di 1,975 miliardi.
 
Ma le prospettive, e le ambizioni di entrambe le aziende, sono quelle di avanzare e puntare oltre, diventando in futuro un fornitore di primissima importanza sul piano globale. A determinare questi risultati, e gli obiettivi, saranno la forza finanziaria, la natura complementare nella linea di produzione, e la presenza geografica strategica. Si prevede di operare su circa 200 impianti, associati a centri di ricerca e sviluppo in diversi continenti.
 
Il Ceo Beda Bolsenius (attuale amministratore delegato di Calsonic K.), guiderà il sodalizio che darà vita alla nuova azienda ‘combinata’, mentre l’attuale Ceo di Magneti Marelli, Ermanno Ferrari, entrerà nel board. Soddisfatto tutto il management di Fca, il nuovo Ceo Mike Manley, che ha sostituito Sergio Marchionne, dichiara:
 
“Si tratta di un’opportunità ideale per Magneti Marelli, è un’operazione che permetterà all’azienda di esprimere tutto il suo potenziale nella prossima fase di sviluppo, ci sono le condizioni per l’accelerazione della crescita in futuro. Sarà preservato l’aspetto occupazionale, e l’azienda resterà un partner commerciale di primaria importanza per Fca. L’operazione segue un obiettivo di crescita e valorizza il focus diretto alla creazione di valore.”
 
Su questi valori, e sulla competitività nel settore, dovuta alla posizione estremamente favorevole in qualità di fornitore automobilistico, concorda pienamente anche Beda Bolzenius, Ceo dell’azienda ‘combinata’ “Magneti Marelli CK Holdings”.
Del medesimo avviso anche l’Amministratore delegato di Magneti Marelli, Ermanno Ferrari.
 
Le attività congiunte, si legge in un comunicato stampa del sito ufficiale Magneti Marelli, opereranno sotto il nome Magneti Marelli CK Holdings*, e il suo fatturato totale ammonterà a 15,2 miliardi di euro, il risultato sarà la creazione di uno dei maggiori fornitori indipendenti nella componentistica per automotive a livello globale. L’accordo prevede una fornitura pluriennale con Magneti Marelli CK Holdings, in pieno accordo per quel che concerne il mantenimento della sede in Italia, e il consolidamento dei livelli occupazionali.
 
La Magneti Marelli è una società per azioni ‘storica’ fondata un secolo fa, che ha sede a Sesto S. Giovanni, nei dintorni di Milano, e si occupa di sistemi e prodotti ad alta tecnologia (tutto il know how finirà ora in Giappone, con qualche interrogativo in merito..), una multinazionale solida, che era peraltro strategica per la corsa all’auto elettrica.
 
E soprattutto per questo i giapponesi sono fieri e soddisfatti dell’acquisizione. Era strategica anche per Fca, ma allora perché hanno deciso di cederla? Che dietro ci fossero pressioni e spinte da parte del presidente di Fca, John Elkann, non è un mistero, ma le ragioni sono in fondo piuttosto semplici: Fca intendeva dare impulso alle proprie casse, in primis, e puntare ad un programma di sviluppo e consolidamento del gruppo.
 
Il piano industriale messo a punto lo scorso giugno, approvato da Marchionne (ultimo suo intervento prima della scomparsa), è lungimirante in questo senso, e mira al miglioramento dell’aspetto tecnologico, con l’occhio fisso alle orme dei mercati nell’ambito dell’elettrificazione dell’industria automobilistica e guida assistita.
 
Si punta a migliorare l’efficienza nelle vendite, al di là del modello Jeep (per la quale si prevede un’espansione della gamma), il gruppo Fca non brilla nel mercato, è necessario migliorare queste dinamiche, e Sergio Marchionne ne era ben consapevole.
 
Per attuare il piano industriale, e puntare sul prestigio con ritorni di cassa, occorrevano nuove piattaforme modulari (ossia le basi che consentono di realizzare modelli diversi, riducendo gli investimenti in quanto vengono impiegati su gamme differenti) con relativi progetti. Per questi obiettivi sono necessari anche mezzi finanziari adeguati, al fine di portare sul mercati nuovi modelli, più competitivi sul piano globale, nonché il potenziamento dei motori dei modelli esistenti, come quelli a 3 cilindri.
 
Secondo un’analisi del Sole 24 Ore, Fca – anche se può sembrare un controsenso vendere un’azienda così solida – ha deciso l’operazione di cessione perché le nuove strategie di gestione non sono tanto interessate ad avere la proprietà di un costruttore automobilistico, ma è sufficiente “governare” i fornitori. Sulla base della linea strategica tedesca, che seguendo questi criteri, i quali richiedono notevoli investimenti, mette sul mercato le auto più avanzate sul piano tecnologico.

BREXIT. ANCORA FUMATA NERA SUI NEGOZIATI

DI VIRGINIA MURRU
L’accordo tra la premier britannica Theresa May e i rappresentanti dell’Ue sembrava ad un passo dal traguardo, e invece non rassicurano le dichiarazioni di Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo: “la convergenza delle parti negli ultimi incontri sembra più lontana che mai”.
E il totale accordo tra Regno Unito e Ue non è stato affatto raggiunto.
Il nodo è tra i più dibattuti – già all’indomani del referendum svoltosi due anni fa – e riguarda i confini tra Irlanda del Nord e Irlanda, che già si porta dietro una memoria storica di scontri e tensioni.
Il risultato di queste divergenze, tra la delegazione del RU e Ue, è che si ritorna al rischio del ‘no deal’, o hard Brexit, anche se questa ipotesi, com’è facile presentire, porterebbe conseguenze veramente serie per l’economia del Regno Unito, che già sta scontando le conseguenze del successo referendario in favore dei “Leave”.
Del resto sono allarmati un po’ ovunque nel Paese; recentemente lo ha affermato anche il personale accademico delle Università scientifiche, il quale sostiene che ‘non esiste un piano B’, e che è indispensabile salvaguardare la ricerca dai possibili esiti negativi della Brexit. “La ricerca – dichiarano  senza eufemismi – è stata anche finanziata dall’Ue, un negoziato che si concludesse senza accordi significherebbe un cataclisma”.
In questi ultimi due anni, le tentazioni di un secondo test elettorale sono state forti, incoraggiate, foraggiate e sostenute da orizzonti diversi della società britannica, da quello politico a quello economico e finanziario, nonché giuridico. Soprattutto dalla parte della popolazione che non si riconosce nel risultato elettorale.
E proprio qui sarebbe necessaria qualche considerazione. Domanda: è lecito che il 51% dei votanti trascini il restante 48% in una scelta così importante per il Regno Unito? Non sarebbe stato più ovvio il buon senso, ossia prevedere uno scenario dal quale potesse emergere un simile risultato, e per questo stabilire un margine di consensi maggiore, per entrambi le parti?
Risposta: a questo punto, poiché non si è tenuto conto di un dettaglio così importante, sarebbe ovvio procedere con una seconda consultazione referendaria.
Recentemente è stato scritto sul Financial Times:
“Ha senso l’idea di un secondo referendum? I tanti che condividono le mie vedute sul voto – che è stato un errore enorme – insistono che un senso ce l’ha. Anche se dalla parte dei ‘Leaves’ naturalmente non è proponibile. Eppure fa parte dell’essenza di una democrazia il fatto che gli elettori possano cambiare le loro tendenze sul voto.
Se questo non fosse stato possibile, tutto sarebbe rimasto nei limiti dello stesso risultato ottenuto con il referendum del 1975, quando il popolo del Regno Unito scelse di diventare membro dell’Ue..”
Un brevissimo excursus storico al riguardo è necessario.
Cominciò nel 1973 (non nel ’57 col Trattato di Roma), quando il RU entrò a fare parte della Cee (Comunità economica europea, ossia Mercato comune). L’accordo fu siglato da un rappresentante dei Tory, Hedward Heath. Nei primi anni ’60, la Gran Bretagna affrontò una crisi economica non di poco conto, si trovava di fronte ad un elevato tasso di disoccupazione, e il Pil era tra i più bassi in Europa.
Il precario stato dell’economia spinse il Governo a chiedere l’adesione alla Cee, ma la richiesta fu respinta due volte. Poi fu in seguito accettata. In quel periodo ci fu però un ‘turn over’ del premier: Heath era stato sconfitto, gli subentrò il laburista Harold Wilson, il quale, volle sondare gli umori della popolazione sulla permanenza della GB nella Cee, e, nel 1975 , indisse pertanto un referendum. I “Remain” di allora vinsero con il 62% dei consensi. Anche la Thatcher si schierò a favore.
In questo caso il risultato riflette veramente uno schieramento chiaro, verso una scelta decisa, con quasi il 10% in più dei consensi ottenuti dai “Leave” nel 2016. Qui si può ragionare meglio in termini di democrazia. Se si fosse conseguito un buon 70%, il risultato, ovvio, sarebbe stato ancora più garantito.
Ma quando più o meno il 50% si schiera in una posizione positiva e l’altra metà propende per l’altro versante, vincendo la competizione elettorale per pochi punti, è possibile che il dibattito e il dissenso finiscano per incoraggiare anche gli atti violenti. Cosa che puntualmente si sta verificando negli ultimi due anni in Regno Unito.
Come si è accennato, anche le pressioni per un’altra prova elettorale sono state tante, le lotte della premier scozzese (Nicole Sturgeon) che non voleva e non vuole saperne di lasciare l’Ue, sono state implacabili. Ha minacciato a lungo un nuovo referendum per la secessione della Scozia da Londra (consultazione che peraltro c’era già stata alla fine del 2014, quando i ‘no’ avevano vinto più o meno con lo stesso risultato dei brexitiers, ossia il 55,4%).
Ma Nicola Sturgeon, e il Parlamento scozzese, sono sempre sul piede di guerra. Non intendono divorziare dall’Unione europea, e anzi vorrebbero sfruttare il dissenso popolare al riguardo per imporre una seconda consultazione referendaria sull’indipendenza . Il Parlamento ha infatti recentemente respinto il progetto di legge-quadro formulata da Londra per l’uscita dall’Ue.
L’entusiasmo non è alle stelle neppure in Irlanda, e in quella del Nord; i fermenti pro Ue non mancano; vi sono stati anche incontri con i reciproci rappresentanti politici, volti a trovare un accordo per l’unione dell’isola. Ma non è semplice, il ‘leone’, a Londra, non tollererebbe la disgregazione del Regno Unito, c’è già la Scozia che preme, come spina sul fianco. La Gran Bretagna, che con il Commonwealth ha avuto mezzo mondo in passato tutto per sé, non accetterebbe di essere ridotta ai minimi termini senza battere ciglio.
Londra non vuole in ogni caso spostare il confine doganale sulle coste dell’isola. Per l’Ue si prospetterebbe una hard border. Né il RU è disposto a concedere l’inclusione dell’Irlanda del Nord nell’Unione, perché creerebbe i presupposti per l’indipendenza politica, e la conseguente unità dell’isola. Realtà scongiurata dal Governo inglese, per le ragioni esposte.
A febbraio scorso, Michel Barnier, negoziatore capo dell’UE per la Brexit, aveva proposto l’inclusione dell’Irlanda del Nord, ma com’è facile intuire, aveva trovato ferma opposizione da parte di Theresa May e dal suo entourage politico.
La questione Irlanda è sempre in graticola, oggetto del contendere, e sta tuttora creando ostacoli nei negoziati.
I “remain”, in Gran Bretagna, hanno sperato a lungo in un’inversione di tendenza decisiva per quel che concerne gli umori della popolazione, soprattutto tra coloro che avevano votato il movimento “Leave” nella consultazione referendaria del 23 giugno 2016. Da un anno a questa parte, la possibilità di un nuovo test elettorale si è fatto sempre più reale, se si considerano le vicissitudini politiche della leader Tory Theresa May, e il dissenso sempre più evidente tra i suoi stessi sostenitori in parlamento.
La stessa premier, nei giorni scorsi, ha dichiarato che i risultati dei recenti incontri a Bruxelles si sono rivelati più complicati di quanto ci si potesse attendere.
I problemi sul tavolo delle trattative sono pochi, ma si tratta di quelli più ostici, come il dossier Irlanda del Nord, appunto. Indiscrezioni raccolte negli ambienti Ue da Reuters, fanno intendere che a Bruxelles ci si prepara anche al peggio, ossia ad un negoziato senza accordi. La May è “under pressure” (sotto pressione), si fa influenzare da esponenti Tory che spingono per una hard Brexit, al di là delle conseguenze, e possibili ritorsioni Ue.
Nello specifico, Londra, non intende accettare un’ipotesi di backstop, pieno d’insidia per il RU, ossia la proposta dell’Unione volta a tenere dentro i confini del mercato unico l’Irlanda del Nord. La premier  deve lottare tra due fuochi: gran parte dei parlamentari non vogliono una hard Brexit, non ne accetterebbero le condizioni.
Si attende una possibile svolta durante il vertice (dei leader) dei 27 Paesi membri a Bruxelles, previsto per mercoledì, nel corso del quale potrebbe maturare l’accordo decisivo. Marzo 2019 è ormai prossimo, ed entro questa data si dovrebbe applicare, nei confronti del Regno Unito, l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, che prevede e disciplina il recesso volontario e unilaterale di un paese membro dall’Unione europea.

ALITALIA. PRONTO IL PIANO DI RILANCIO DELLA COMPAGNIA, TRIA E DI MAIO AI FERRI CORTI

DI VIRGINIA MURRU

 

Certo che l’ex compagnia di bandiera italiana, da quando è cominciata l’Amministrazione controllata con i 3 commissari straordinari (2 maggio 2017), ha seguito una ‘rotta’ di rigore per quel che concerne la gestione. E i risultati sono evidenti, con un trend di crescita che fa ben sperare sul suo destino travagliato, che, fra alterne vicende, va avanti ormai da oltre vent’anni.

Il controllo dei costi e la conseguente riduzione, l’attenzione verso il rispetto degli orari e le esigenze dei viaggiatori, la riapertura di ‘vecchie’ rotte, insieme ad altre nuove, un assetto interno più efficiente, hanno fatto la differenza. Decisamente, ‘si viaggia meglio’, in tutti i sensi, ed è pertanto lecito sperare su migliori prospettive per il futuro.

Il clima di fiducia traspare anche dalle dichiarazioni di Luigi Gubitosi e degli altri Commissari, i quali, alla fine di settembre (il 26), si sono presentati in audizione in Parlamento. Le stime sui ricavi, secondo il loro resoconto, sarebbero buone anche per l’ultimo trimestre del 2018, tanto che il bilancio dovrebbe chiudersi in positivo, ossia con un modesto ma importante margine di utili.

“Cosa che – hanno spiegato i Commissari – induce all’ottimismo, poiché, com’è noto, non accadeva da tempo. Si tratterà infatti di circa 2 milioni di utile netto (nel 2018), ma già nel terzo trimestre dell’anno in corso vi è una disponibilità di cassa di poco inferiore ad un milione di euro.”

Un anno fa la situazione, dopo sei mesi di amministrazione straordinaria, era sicuramente meno rassicurante, il ‘paziente’ era sottoposto a terapia intensiva di riduzione di costi, e gli utili relativi all’acquisto dei ticket, si dissolvevano nelle maglie delle strategie di risanamento.

C’è attualmente una differenza di 140 miliardi in termini di ricavi dalla vendita di biglietti, rispetto allo stesso periodo del 2017, e nei tre trimestri del 2018, la crescita è stata del 7%. Praticamente al di là delle previsioni, se si considera la situazione dei conti a maggio dello scorso anno, quando i Commissari hanno preso in mano le redini dell’azienda.

Intanto il termine previsto per il rimborso del cosiddetto ‘prestito ponte’, è stato portato a metà dicembre prossimo.

La restituzione del finanziamento concesso dallo Stato (tra polemiche e contestazioni da parte dell’Unione europea), la cui prima tranche è stata di 600 milioni di euro, e la seconda di 300 milioni, sancirà il ‘closing dell’operazione’.

Siamo giunti comunque alla scadenza dei termini previsti per l’Amministrazione straordinaria della compagnia: il 31 ottobre, data in cui scadranno anche i termini per l’inoltro delle offerte vincolanti. La data era stata prorogata, era previsto infatti che dovesse chiudersi entro il 10 aprile.

I problemi sulle sorti della Compagnia sembra si siano spostati sul versante politico, il vice premier Luigi Di Maio, vorrebbe una partecipazione diretta dello Stato, ma il titolare del Mef, sembrerebbe non concordare su questa scelta, e non è certo l’unica linea di demarcazione tra le vedute dei due ministri. In più circostanze, negli ultimi mesi, la mancanza di convergenza ha creato dibattiti e urti nel Governo, nonostante la ‘spugna’ fosse sempre pronta a cancellare i dissidi, compiacente verso un’immagine che riflettesse all’esterno piena armonia.

Ma sulla futura gestione di Alitalia, lo scontro è praticamente palese. Di Maio, e lo ha dichiarato in più occasioni, aspira ad un “modello Ilva”, con un piano industriale a lungo termine. Il rilancio dovrebbe essere attuato tramite il Ministero dell’Economia. Ma su questi proclami Giovanni Tria dissente: “Io rappresento il Mef, non devono essere altri a fare dichiarazioni sui programmi del mio Ministero.”

Eppure- quello che un cittadino percepisce dall’esterno -è che la politica economica del Governo sia in mano ai due vice premier, loro sembrano i piloti che decidono rotte e strategie, perfino il premier Giuseppe Conte, appare come il terzo incomodo. I rappresentanti del M5S e della Lega, si atteggiano a factotum, saltano, in termini di competenze (o ingerenze?) da un ministero all’altro, e se oppongono il loro veto, se ostano su iniziative che non rientrano negli interessi dei due schieramenti, difficilmente queste andranno in porto.

Questa è l’immagine allo specchio dell’establishment politico delle egemonie, che porta avanti disegni – su alcuni importanti aspetti del cosiddetto contratto di governo, o ‘compromesso’ tra i due vice premier (il reddito di cittadinanza ne è un esempio) – che creano attriti come cortocircuiti per la fragilità della finanza pubblica, ma soddisfano requisiti di ‘compliance elettorale’.

E non importa se questi punti programmatici alimentano il rischio nei conti, a tutti i costi sembrerebbe necessario mantenere le promesse, tenere in cassaforte i voti del ‘popolo’. Ma siamo sicuri che lo “slalom” di cifre nel Def (che questa strategia puramente politica ha causato), sia la migliore garanzia in termini di ‘ritorni’ nella prossima legislatura?

Su Alitalia il fermento è forte, più volte è stato messo in discussione il ruolo di Giovanni Tria, ma non è l’unica poltrona a rischio, il prossimo anno potrebbero saltarne diverse.

E basterebbero le dichiarazioni del vice premier Di Maio, per comprendere l’aria che tira nei rapporti con il titolare del Mef:

“Ma quello non vuole veramente capire.. c’è una maggioranza politica siglata con un contratto di governo, perciò un tecnico deve attenersi a quello che si decide in questo ambito. Altrimenti è libero di andarsene..”

Che altro? Si può con discrezione aggiungere che il Mef è un ministero chiave per il Governo, lo è sempre stato, ma ora è cruciale se si tiene conto della delicatissima congiuntura economica del Paese.

Tra i due ‘litiganti’, c’è l’ombra discreta del presidente Mattarella, che scongiura l’allontanamento del ministro dell’Economia, poiché ritiene che rappresenti la moderazione e l’equilibrio, anche con il modo di proporsi e i continui appelli ad ‘abbassare i toni’, con ‘quelli’ di Bruxelles.

Che bisogna tenersi buoni, perché si sa: da là arrivano tuoni e fulmini, che finiscono per cadere sul tetto dei mercati, e le conseguenze ormai sono note. Il ministro Tria non deve solo essere circospetto nei confronti del vice premier del M5s, ma anche verso il ministro dei Rapporti con l’Europa, l’economista Paolo Savona. Ingerenze e interventi ‘a gamba tesa’, vengono anche da qui, ed è ovvio che al Mef ci sia aria di sdegno, ci si sente un po’ estromessi dal ruolo.

Alitalia tuttavia non ha tempo da perdere. Intanto, il piano di salvataggio deve essere concluso perché ormai non vi sono margini per continuare a temporeggiare.

L’Amministrazione straordinaria ha comunque conseguito notevoli risultati, basti pensare che le perdite operative Ebitda (ossia Earnings Before Interest, Taxes, Depreciation and Amortization – utili prima degli interessi, delle imposte, del deprezzamento e degli ammortamenti), sono state ridotte fino a 37 milioni di euro, ed erano ben 258 milioni nove mesi fa, cioè a gennaio dell’anno in corso. Alla riduzione della spesa, va aggiunto il rigore per quel che concerne la puntualità nel rispetto degli orari sui voli, diventati al primo posto in Europa; dettagli non di poco conto.

Quando si risolverà la questione salvataggio, e la gestione diventerà regolare, sarà tuttavia necessario intervenire sulla potenzialità della flotta, che dovrebbe essere incrementata, fondamentale per l’aumento del traffico e la vendita di tickets. Questi dati restano ancora punti sensibili da migliorare. Buoni i risultati raggiunti sul numero dei passeggeri di lungo raggio, con un incremento pari al 7,5%. I commissari però, al riguardo, osservano che l’Italia è sotto servita sui voli a lungo raggio: c’è una flotta di appena 26 velivoli.

I dati irrisori partono dal confronto con il gruppo leader europeo, ossia Lufthansa, la quale ha trasportato ben 130 milioni di passeggeri nel 2017, mentre la nostra compagnia poco più di 20 milioni.. Certo è necessario anche sottolineare che Alitalia ha meno di 12 mila dipendenti (prima della crisi erano 20 mila), e una flotta di velivoli per ovvie ragioni non paragonabile, mentre la compagnia tedesca ha 130 mila dipendenti. Non regge proprio il confronto.

Se fosse portato a termine il progetto di una nuova compagnia, una newco con Fs, le prospettive potrebbero cambiare in termini di potenzialità ed efficienza. Intanto entro la fine di ottobre arriverà l’offerta vincolante per l’acquisizione. Sono dichiarazioni rese dal ministro Di Maio in occasione di un recente incontro con i sindacati.

La procedura di vendita e i termini saranno rispettati, secondo il ministro, che afferma:

“Si tratta di un progetto ambizioso, non rivolto al salvataggio della compagnia, ma al suo rilancio, l’esecutivo ha le idee chiare in merito.”

E aggiunge che ci sarà una dotazione di 2 miliardi, e non solo: si sta prospettando la conversione di una parte del finanziamento che Alitalia ha ricevuto dallo Stato, in equity (o capitale sociale) per la newco in dirittura d’arrivo. La partecipazione dello Stato nel capitale, tramite il Mef, è dunque praticamente decisa. Parteciperebbero anche Fs (con una partnership strategica e finanziaria) e Cassa Depositi e Prestiti con finanziamenti adeguati, considerando che il piano industriale è ambizioso e prevede l’incremento della flotta di velivoli, e delle rotte a lungo raggio.

Per quel che concerne i dipendenti, il cui stipendio viene integrato da Cigs (Cassa integrazione straordinaria), in scadenza il 31 di ottobre, il vice premier Di Maio ha garantito una proroga. Nel contempo assicura ai sindacati che non vi sarà una svendita ad eventuali partner stranieri della Compagnia, il piano di rilancio presterà attenzione a tutti quei punti di vulnerabilità che hanno determinato l’amministrazione straordinaria, e portato disastri finanziari.

La Cgil auspica una soluzione in tempi brevi, la leader Susanna Camusso, dichiara: “dopo le promesse si aspettano i fatti.”

A questo riguardo, il 12 ottobre, si è tenuto l’incontro tra i rappresentanti dei sindacati e le delegazioni dei Ministeri dello Sviluppo Economico e del Lavoro – presente dunque il titolare dei due Ministeri, Luigi di Maio – sul tema della crisi di Alitalia.

 

ANCORA CROLLI NEI MERCATI, LE PIAZZE ASIATICHE LE PIU’ COLPITE

DI VIRGINIA MURRU

 

Altra pessima performance dello spread, e brutto risveglio per gli italiani, in apertura, stamattina, il differenziale è andato a 303 punti base, il tasso di rendimento a 3,57%.

A Milano l’esordio di stamani a Piazza Affari è stato in calo, a -1,5%, sulla stessa scia più o meno le borse europee. A Tokyo si registra la perdita più pesante dalla primavera scorsa, l’indice Nikkej va a -3,90%.
Lo yen si rivaluta sia nei confronti del dollaro che dell’euro.

Siamo sugli stessi livelli anche per quel che riguarda le piazze di Hong Kong, che va a . 3,78%, mentre sui listini cinesi i riflessi sono anche peggiori: Shanghai a -4,90% e Shenzhen a -5,96%.

Colpi notevoli per i personaggi più ricchi del pianeta, che hanno lasciato sul terreno fior di miliardi.

Le reazioni della borsa a Milano, non scompone il Governo, che è imperturbabile e ha scommesso sulla manovra, già peraltro respinta su diversi fronti cruciali, l’ultima bocciatura viene dall’Ufficio parlamentare al Bilancio. Ci vuole una statua di bronzo, anzi quattro (premier, i 2 vice premier e il titolare del Mef), per procedere imperterriti, nonostante i tuoni e i fulmini che come strali raggiungono il Def

Non incoraggia l’Agenzia di rating Fitch, la quale aveva già ‘minacciato’ il declassamento, ora in un comunicato fa sapere che i rischi sono alti per quel che concerne i target fissati nella manovra. Si faranno sentire, secondo Fitch, a partire dal 2020. E’ la politica di bilancio ad essere dunque messa in discussione, la quale, secondo l’Agenzia, è la chiave di valutazione sul rating sovrano del Paese.

Per quel che concerne il voto in pagella, assegna un BBB, il che significa che si fa presto, con i rischi insiti nella manovra, a finire nell’anticamera del livello speculativo, e non è remota l’ipotesi, in questo caso, del default.

Secondo Fitch, solo nel 2020 il Governo punta ad una riduzione del deficit, che dovrebbe attestarsi, secondo i target, sul 2,1% del Pil. Ma l’Agenzia si aspetta invece il 2,6%, il che significa che le stime sul rapporto debito/Pil sono più alte rispetto a quelle previste sulla Nota di Aggiornamento al Def.

Le borse europee, come si è accennato, in mattinata vanno in rosso profondo, con un volume di vendite le cui raffiche non tardano a raggiungere Wall Street, dove si è innescato un sell off che ha contribuito poi anche al crollo delle piazze asiatiche.

Questi sono i mercati, sensibilissimi per loro natura, all’instabilità, e questa volta, oltre alle previsioni al ribasso sulla crescita mondiale del FMI – che stima una flessione rispetto al precedente outlook – e ai timori riguardanti la guerra commerciale sui dazi tra Cina e Usa, ci sono scosse in negativo anche sul versante Italia, diventata focolaio di contagio in Europa, e non solo.

Mentre in Europa le perdite non sono molto consistenti, a Wall Street il Nasdaq è andato a -4%, batosta che non si verificava da alcuni anni a questa parte.

E a questi scenari non propriamente tranquillizzanti, si aggiunge anche l’insofferenza del presidente Usa, Donald Trump, che come sappiamo, è personaggio piuttosto reattivo, e ai suoi bersagli non le manda a dire. Nel corso di un’intervista, ha accusato la Fed di avere causato il sell off nei mercati, definendo “pazze” le sue strategie finanziarie.

ALLARME SUI COSTI DEI CONTI CORRENTI: +60% RISPETTO A GENNAIO

DI VIRGINIA MURRU
Risparmiare costa sempre di più, l’allarme viene dall’ultimo osservatorio di SosTariffe.it, il quale mette in rapporto e analizza i costi sostenuti dai titolari di Conti correnti, che affidano i propri risparmi ad un istituto di credito.
L’analisi e la comparazione delle tariffe sono in continuo aggiornamento, grazie ad un team di esperti che lavorano per Sos Tariffe (il sito è stato insignito del riconoscimento “Sito Web dell’anno 2015”) i quali confrontano i dati in modo indipendente.
Fineco, Cariparma, Unipol Banca, Webank, CheBanca, Hello Bank, sono solo alcune delle banche i cui costi vengono continuamente monitorati e, cosa non trascurabile, per il risparmiatore che volesse avere un’idea chiara sulla gestione più conveniente del suo risparmio, Sos Tariffe offre un servizio gratuito, consentendo di comparare le diverse offerte disponibili sul mercato, tenendo conto in particolare delle esigenze stesse di coloro che si avvicinano pieni di dubbi al mondo del risparmio e ad un istituto di credito.
Il Conto Deposito orienta sul rendimento dei propri risparmi, attraverso il comparatore di Sos Tariffe. Ma il servizio di comparazione costi è disponibile anche per chi ha esigenze di un certo numero di movimenti bancari, quali Bonifici e Prelievi; orienta verso le offerte di conti correnti a Zero spese, Operazioni Incluse, Senza imposta di bollo, Conto Online ecc. Tutto questo tramite una tabella chiara, consultabile proprio per avere una proiezione diretta dei costi stabiliti dalle Banche messe a confronto.
I profili pertanto sono diversi: Conto Giovani, Conto Minori, Conto Famiglie, Conto Pensionati ed altre tipologie rispondenti agli interessi e alla condizione specifica del richiedente.
Attraverso l’osservatorio di Sos Tariffe, dunque, si può constatare che affidare i propri risparmi in forma di assegno o in contanti allo sportello di una banca, costa attualmente fino al 60% in più rispetto ai primi mesi dell’anno.
Si tratta di costi che schizzano in alto allorché si considerano le banche online, quelle che sul territorio italiano hanno poche filiali. Ma gestire il risparmio è diventato oneroso anche nelle banche presenti ovunque sul territorio delle diverse regioni; incide soprattutto il costo relativo alle commissioni sui bonifici, con un rincaro dell’11%. Una nota positiva, tra le tante dolenti: mentre a gennaio la banca caricava 3 euro per l’accredito dello stipendio, ora l’operazione è gratuita.
E tuttavia il prelievo allo sportello, secondo i dati di Sos Tariffe, ha un costo pari al 48% in più, così come aumenta il canone per la carta di credito. Un altro ‘morso’ ai risparmi viene dal versante dei prelevamenti con bancomat, tramite gli sportelli di un altro istituto di credito, si tratta del 19% in più.
Aumentano in generale le operazioni richieste in filiale, e i servizi accessori al conto. Come già si è accennato, si è verificato un balzo dei costi riguardanti la gestione del risparmio sulle Banche Online, il 60% in più rappresenta un autentico allarme nell’ambito del settore bancario, e pesa soprattutto sui versamenti di assegni e contanti.
Da circa 50 centesimi si è passati alla soglia di 1 euro. Non si parli poi del prelievo di contanti allo sportello, siamo a poco meno in termini di rincari, ma si tratta comunque di costi pesanti per il risparmiatore.
Secondo l’analisi di questi dati, i tempi si presentano ancora più difficili per chi affida il frutto dei propri risparmi ad un istituto di credito, che deve pure fare i conti con un certo margine di rischio, vista l’esperienza di coloro che hanno affidato le loro risorse a istituti che, sul piano della solidità, non sono “infallibili”.
A togliere la pace infine arrivano i messaggi più o meno eloquenti del ministro degli Interni, il quale sostiene che nel caso le iniziative del Governo non dovessero volgere per il meglio “gli italiani ci darebbero generosamente una mano..”
Non occorre poi tanto acume per concludere che i tempi viaggiano su prospettive di grande incertezza, e che nessun risparmiatore, oggi, può ritenere le risorse affidate ad un istituto di credito al sicuro; insomma, all’insidia del bail-in si aggiunge anche lo spettro del default dello Stato.

FMI: OUTLOOK AL RIBASSO PER L’ITALIA. E UN MONITO PRO FORNERO

DI VIRGINIA MURRU

 

L’Fmi, secondo l’ultimo rapporto relativo al World Economic Outlook, è stato piuttosto esplicito sulla delicata fase congiunturale dell’economia italiana: a rischio shock. In riferimento al rallentamento riscontrato nella crescita, esprime perplessità e rimanda alle dinamiche ‘involutive’ della domanda interna ed estera, quali cause dirette della flessione, nonché allo stato di evidente insicurezza derivante dalle misure varate ultimamente dal Governo, già peraltro ‘respinte’ dalla Commissione europea.

Sull’economia italiana c’è un clima di riserva, o meglio, dichiarata diffidenza, da parte degli Organismi economici globali che contano, in quanto essi vigilano sull’andamento dell’economia globale, e sugli eventuali ‘focolai di contagio’ che si riflettono poi ad ampio raggio, condizionando i mercati. Sono proprio i Btp italiani “a rischio contagio”, secondo le valutazioni del Fmi, il quale potrebbe creare un circolo vizioso e serie conseguenze nel settore bancario; ma in rilievo restano le ripercussioni del debito pubblico italiano, che potrebbe avere ricadute su altri Paesi, soprattutto in area euro.

I timori del Fondo sono proprio rivolti all’aspetto finanziario e al coinvolgimento delle banche, in questo trend che riporta indietro la crescita, e vincolerebbe progresso e sviluppo nei prossimi anni.
L’Organizzazione internazionale presieduta da Christine Legarde (ne fa parte in qualità di vice direttore del Dipartimento di Ricerca, anche l’economista italiano Gian Maria Milesi-Ferretti) – sulla base delle incertezze politiche  e secondo il piano di crescita presentato dal Governo, basato sullo sforamento del rapporto deficit/Pil, e quindi su un maggiore indebitamento – ha espresso riserve sulla politica economica espansiva che mette a rischio la finanza pubblica, e ha ridotto le stime di crescita per il Paese.

L’ Fmi, nel contesto di un quadro previsionale che tiene conto delle più solide economie mondiali, stima che in Italia ci sarà una contrazione del Pil, con una crescita di +1,2% nel 2018, ossia lo 0,3% in meno rispetto al 2017; per il 2019 si prevede ancora un calo, e pertanto il Pil è stimato all’1% (stime ridotte anche rispetto ad aprile: +1,5% anno in corso e 1,1% nel 2019).

In area euro, l’outlook riduce la crescita: si passa da +2,2% del 2017 a +2% nell’anno in corso. L’Fmi (che ha sede a Washington) sostiene che le manovre di bilancio in Italia sono esigue (per via di un debito che schiaccia la finanza pubblica), perché i margini sono stretti, così come, del resto, avviene anche per la Spagna e la Francia. Questi paesi, secondo il rapporto del Fondo, dovrebbero impostare criteri di crescita oltre il potenziale, per aumentare margini di risorse e creare più sicurezza sui conti. In Italia, la via intrapresa in questo ambito, creerebbe ulteriore rischio poiché si procede verso la deviazione di un piano di riduzione del deficit strutturale.

Il tasso di disoccupazione è previsto (sempre secondo l’Outolook Fmi) in calo, ossia passerà dall’11,3% dello scorso anno al 10,8% del 2018. Per il prossimo è atteso al 10,5%.

Anche il debito pubblico, nonostante gli allarmi prospettati per via della recente manovra, è previsto in calo: passerà dal 131,3% del 2017 a 130,3% del Pil nell’anno in corso. Nel 2019 andrà in contrazione ancora fino al 128,7%, fino a raggiungere nel volgere del quinquennio il 124,1% del Pil.

Nel comunicato si precisa che, per ciò che riguarda le previsioni sull’Italia, non si è tenuto conto della Nota di Aggiornamento presentata di recente, le valutazioni si basano invece sugli orientamenti e il quadro di riforme del precedente governo, con disinnesco, a gennaio prossimo, delle clausole di salvaguardia sull’Iva.

L’Organizzazione sottolinea anche l’importanza di lasciare ‘incolume’ la legge Fornero, è quasi un monito, e del resto non è solo l’Fmi a insistere su questo punto, oggi è stata la Banca d’Italia a chiedere al Governo di non procedere con scostamenti che potrebbero tradursi in scompensi già nel breve periodo. Insomma la Legge Fornero non si dovrebbe cambiare.

“Roma – si legge nel rapporto – dovrebbe proseguire con le riforme sull’occupazione e mercato del lavoro, particolare attenzione si dovrebbe riservare alle pensioni”.
Il Def, così com’è stato redatto, è in attrito con le valutazioni della Commissione europea, ma anche delle Agenzie di rating (Fitch è già orientata a ‘castigare’ il paese con un rating che presumibilmente continuerà ad inasprire le reazioni dei mercati). Insomma, nessuno, nello scenario economico internazionale, auspica un florido futuro all’economia italiana, tenuto conto delle svolte previste nel programma di politica economica del Governo.

Si legge, tra l’altro nel rapporto del Fondo: “The issues of Italy and Brexit are, you know, of more systemic significance. Our concern about Italy is that there is a real imperative for the fiscal policy to maintain confidence, the confidence of markets. And we have seen spreads increase over the past months. This has certainly contributed to our downgrade of Italian growth and makes the economy more susceptible to shocks. So, we think it is important that the government operate within the framework of the European rules, which are also important for the stability of the eurozone, itself”.

(Le situazioni concernenti l’Italia e la Brexit, hanno, lo sapete, maggiori implicazioni di carattere sistemico. La nostra ‘preoccupazione’ circa l’Italia, è che si deve considerare un imperativo la politica fiscale volta a instaurare un clima di fiducia, soprattutto nei mercati. Abbiamo anche rilevato l’aumento dello spread nei mesi scorsi. Tutto questo ha sicuramente contribuito ad abbassare le previsioni di crescita per l’Italia, perché (la espone) rende l’economia più suscettibile di shocks. Pertanto, noi riteniamo importante che il Governo operi nel rispetto dei parametri e delle regole europee, altresì importanti per la stabilità stessa dell’area euro).

CGIL. A TUTELA DELLA DONNA UNA PIATTAFORMA DI GENERE

DI VIRGINIA MURRU

 

L’assemblea nazionale delle donne, tenutasi due giorni fa a Roma, al Teatro Brancaccio, con la presenza della Segretaria Generale Susanna Camusso, ha aperto i lavori con un tema eloquente “Belle Ciao. Tutte insieme vogliamo tutto”.

Nel corso di questo incontro è stato illustrato un Piano straordinario d’intervento, orientato su cinque direttrici: occupazione, welfare e molestie, parità di salario e condivisione. Misure che dovrebbero essere parte integrante dei diritti della donna, ma che nella realtà invece sono oggetto di lotta quotidiana, perché nel terzo millennio, anche nelle società evolute dell’Occidente, non vi è di fatto una reale applicazione.

Affermano le organizzatrici:

“Si tratta di punti di azione e di intervento, che faremo vivere nella nostra attività di contrattazione. Miriamo a   a contrastare le molestie nei luoghi di lavoro ad andare oltre le diseguaglianze di genere nella ricerca di occupazione, retribuzione e accesso alle cure mediche”.

“Siamo convinte – aggiungono – che in una fase politico sociale così complessa e pericolosa sia ancora più fondamentale una nuova alleanza tra donne, solo così si potrà contrastare la regressione culturale, sociale ed economica, e rendere migliore questo Paese”.

Una delle tante dichiarazioni di questa importante assemblea nazionale – riportate peraltro anche nel sito della Cgil – dal quale ci si auspica una più efficace incisività soprattutto in termini di tutela contro la violenza. Violenza che purtroppo sembra inarrestabile, autentica emergenza quotidiana, verso la quale, al di là delle proclamazioni e della retorica, ben poco si è fatto, sia in fase di prevenzione che in quella giudiziaria, dove le pene comminate nell’ambito della violenza di genere, sono ancora irrisorie. Certo non volte a scoraggiare chi se ne rende responsabile.

Durante l’incontro si è parlato di precarietà e discriminazione di genere anche nella ricerca di un’occupazione, della disparità di trattamento retributivo tra uomo e donna, di una tutela più vicina alla donna,  per quel che concerne le cure medico-sanitarie, affinché siano rese più agevoli e accessibili.

Non bisogna dimenticare che l’Italia è agli ultimi posti in Europa sul versante dell’occupazione femminile, il lavoro è spesso mal retribuito, dequalificato; ingiustizie che subiscono oltre la metà delle donne che affrontano quotidianamente le problematiche del mondo del lavoro. Le donne sono anche costrette ad accettare contratti basati sul precariato, e part time obbligati.

Ma basterebbe dare uno sguardo al nuovo rapporto Oxfam sulle disparità di genere, per renderci conto che l’Italia è davvero il fanalino di coda in Europa per quel che concerne la disparità di genere e i diritti civili ad essa connessi. Tra questi diritti mancati, emerge l’occupazione: nel 2017 – secondo l’ultimo rapporto – 10 donne lavoratrici su 100, sono state a rischio povertà. Le donne risultano essere retribuite in  modo inferiore rispetto ai maschi, circa il 16% in meno.

Il mondo femminile, rispetto a quello degli uomini, è maggiormente esposto ai lavori precari, è ancora invalsa la convinzione che l’uomo sia più “all’altezza” per quel che attiene le capacità professionali e qualifiche specifiche nello svolgimento di un lavoro che richiede specializzazione. Tutto questo mentre la donna continua ad affrontare lo slalom del doppio ruolo: quello domestico, ossia la cura della casa e l’educazione dei figli, e l’attività lavorativa, mai riconosciuti davvero questi ruoli, ai quali si aggiunge lo svilimento relativo alla retribuzione. Secondo Oxfam, la donna, per raggiungere pari dignità di genere, dovrebbe lavorare due mesi in più l’anno..

Da qui l’esigenza di un Piano straordinario, secondo le donne della Cgil, che preveda investimenti pubblici e una Carta dei diritti che sia finalmente applicata in favore di ogni donna.

La Piattaforma fa riferimento specifico ad alcuni punti sensibili che riguardano le ingiustizie più rilevanti subite dalle donne: i congedi parentali, che dovrebbero essere aumentati in termini di tempo, formazione obbligatoria dopo la maternità, il riconoscimento del lavoro di cura, interventi a sostegno della non autosufficienza, aumento di asili nido a supporto dell’attività lavorativa della donna, infine incentivi nuovi su politiche di condivisione e conciliazione.

E nello specifico gli interventi sulle disuguaglianze negli ambienti di lavoro, e, in generale, attenzione concreta sui servizi inerenti la salute, che deve tenere conto delle esigenze diverse concernenti il genere, compreso una sollecitazione affinché la Legge 194 sia effettivamente e concretamente applicata (La Legge 194, del 22 maggio 1978, riguarda la tutela sociale della maternità, nonché interruzione volontaria della gravidanza. Tale legge ha disciplinato attraverso specifica normativa, l’accesso all’aborto).

La Cgil infine chiede interventi più mirati per le violenze e le molestie sui luoghi di lavoro, la formazione delle Rsu (Rappresentanza Sindacale Unitaria); le proposte al riguardo sono tante, ma si dovrebbe investire molto di più in termini di prevenzione, affinché il fenomeno possa essere arginato tramite la sensibilizzazione, a cominciare dalla formazione scolastica, dove si dovrebbero apprendere i primi fondamentali ‘rudimenti’ di convivenza civile e avversione verso la violenza.

 

VERSO LA VERITA’ SULLE STRAGI DI PALERMO. INTERVISTA AL PENTITO CALCARA

DI VIRGINIA MURRU

 

 

Dire qualcosa sui 25 anni di processi riguardanti le stragi di Palermo, significa introdursi, sia pure da cittadini comuni, in una fitta rete di accadimenti, tra i resoconti sommari (considerato lo spazio che consente un articolo) dei collaboratori di giustizia, e infine, nelle trame oscure dei tentativi di depistaggio, che hanno offeso ancora di più la memoria delle vittime.

Povera Italia, sempre imbavagliata, messa a tacere in un angolo, mentre illustri innominati ne guidano i passi, senza il coraggio di mostrarsi a volto scoperto, di rispondere all’appello della Giustizia quando chiama. 50 anni di storia violenta alle spalle, di stragi e vittime,  fiumi di sangue e  lacrime. Possibile che tutto questo debba dissolversi nel nulla, che tanto male debba essere immolato alla causa del tacere (e del potere)?

Sono questi i veri “non luoghi a procedere” che bloccano la Verità.

Possibile che sia questo il modo migliore per andare incontro alla svolta? Non si può passare in una sponda più degna così, per scrivere parole nuove è necessario che si abbia il coraggio di dire basta. Basta alla corruzione, alla sopraffazione, basta soprattutto alla violenza chiara e occulta. Basta all’insidia del silenzio. Un Uomo ha altre prerogative più degne, un Uomo sbaglia, anche, ma non può contraffare la propria natura fino a questo punto. Eppure, i veri mandanti, ossia la Verità ultima sulle stragi di Palermo (e non solo), è ancora preclusa.

In nome di coloro che sono passati sotto i cingoli spietati del potere violento, è necessario lottare per la verità e la trasparenza nell’attività delle Istituzioni.

Il giudice Antonino Di Matteo, il 17 settembre scorso, in audizione al Csm, ha fatto un bilancio positivo sui 25 anni di processi contro i responsabili delle stragi del ’92/93, e l’accertamento della verità sulla trattativa Stato-mafia. Il magistrato ha chiesto che l’audizione fosse pubblica, Radio Radicale (e non solo) ha infatti registrato tutto il suo intervento.

Sostiene il magistrato : “non è vero che tutti questi anni di indagini e ricerca della verità siano stati inutili, intanto sono state inflitte pene esemplari, l’irrogazione di 26 ergastoli è già una prova”.

E aggiunge: “Su via d’Amelio siamo  ad un passo dalla verità. Mai come ora siamo stati vicini all’accertamento dei fatti riguardanti le stragi di Palermo . E questo grazie al mio contributo  e a quello di altri magistrati. Non è giusto che questi magistrati siano oggi accostati a depistaggi, l’ accusa è strumentale a chi non vuole che si vada avanti”.

Sembra retorico chiedersi perché è necessario andare oltre. La risposta è evidente:  nonostante i progressi, restano tante ombre e interrogativi sulle stragi. Su Via D’Amelio, per esempio, non è stato affrontato  solo il depistaggio legato alle false affermazioni del pentito Scarantino, che ha ritardato il corso della verità. C’è anche quello che riguarda l’agenda rossa del giudice Borsellino. I giudici della Corte d’assise l’hanno definito come il “depistaggio più grave della storia”. Proprio alcuni giorni fa sono stati rinviati a giudizio tre poliziotti, accusati “di avere favorito la mafia, tramite una falsa ricostruzione della fase esecutiva della strage, che ebbe come conseguenza la condanna all’ergastolo di sette mafiosi, estranei all’attentato”.

Nelle vicende di mafia concernenti gli anni ’80 e ’90, c’è anche un testimone di giustizia piuttosto noto, Vincenzo Calcara – il quale, avendo fatto parte, fino  al ’91, dell’organizzazione mafiosa in qualità di uomo d’onore ‘riservato’ (‘riservato’ perché non era conosciuto dagli altri membri dell’organizzazione), al servizio di Francesco Messina Denaro – avrebbe voluto essere ascoltato dai giudici che si sono occupati negli ultimi 25 anni della strage di Via d’Amelio.

Vincenzo Calcara ha scritto un memoriale, pubblicato peraltro  nel blog di Salvatore Borsellino (ma anche in altri), la sua è una storia lunghissima e travagliata, che per ovvie ragioni di spazio non può essere riportata per intero in un articolo. Egli ha tuttavia riferito fatti nelle sedi opportune che sembrano inverosimili, ma si tratta di testimonianze rese a suo tempo  al giudice Paolo Borsellino, il quale ha preso nota per mesi delle sue rivelazioni, sul finire del ’91, e nel ‘92, fino a poco prima della strage  in cui, insieme alla sua scorta, fu assassinato.

Il rapporto tra il testimone di Giustizia e il giudice, fu di rispetto reciproco, nonostante la scioccante rivelazione del Calcara, il quale gli confidò di avere ricevuto, poco tempo prima del suo arresto (avvenuto nel 91), l’incarico da parte del capo famiglia  Francesco Messina Denaro di Castelvetrano,  di ucciderlo con un fucile di precisione, nella statale tra Palermo e Agrigento. Qualora si fosse decisa la strage attraverso l’uso del tritolo, e dunque con un’autobomba, avrebbe dovuto svolgere un ruolo di copertura.

“Di quel Borsalino –  pare avesse detto in modo sprezzante il boss – non devono restare nemmeno le idee..”

Per chi volesse conoscere la testimonianza di Vincenzo Calcara, basta leggere i suoi memoriali. Le video interviste e la partecipazione a tante trasmissioni televisive, inoltre, rendono l’idea dell’attaccamento alla memoria del giudice Borsellino, e al rispetto sempre dichiarato  nei confronti della sua famiglia.

Da anni è uscito fuori dal programma di protezione, vive con la moglie e le quattro figlie, ma gli resta il rammarico di non essere stato ascoltato abbastanza in ambito giudiziario. Solo il giudice Borsellino gli aveva prestato la dovuta attenzione. Vincenzo Calcara vorrebbe offrire il suo contributo per il riscatto della verità, ma non è stato messo a confronto  con i pentiti più seguiti sia nei processi svoltisi a Caltanissetta che a Palermo.

Tanto è stato l’impegno della Magistratura per la ricerca della verità, e tuttavia un’infinità d’interrogativi restano ancora senza risposta, perché mancano i nomi e i volti dei veri direttori d’orchestra, ossia le cosiddette ‘entità’ di un potere occulto che dietro le quinte sembra sia stato il vero regista. E’ il muro più ostinato, invalicabile fino ad ora, col quale i magistrati si sono misurati. Sono quelle ‘menti raffinatissime’ alle quali faceva riferimento  il giudice Falcone.

Questi misteri sono le ‘terre irredente’ della giustizia, rappresentano la porta blindata delle istituzioni deviate che fu interdetta a Borsellino, e ai giudici coraggiosi come lui, che hanno pagato con la vita l’ardire di condurre le indagini negli angoli più oscuri della vita della Nazione. Che hanno vissuto di tradimenti e detrazioni, hanno respirato l’aria piena di veleni e sospetti di chi era già inviso alla verità e alla giustizia. Una terribile lotta in sordina tra bene e male, dove la distanza, tra irreprensibilità e corruzione, è davvero una questione di maschere. Chi ha osato inoltrarsi in questi fondali limacciosi, aveva solo il fine di portare in superficie la verità; unico obiettivo che ha distinto  l’operato delle persone cadute sotto gli strali di queste forze oscure. Ma qui la verità è avvolta davvero da una spessa coltre  di nebbia, non è un percorso illuminato, non si può andare oltre.

Occorrerebbe ora un altro ordine di pentiti, come scrive la rivista on line Antimafia Duemila: proprio quelli che si riparano dietro il paravento di cariche pubbliche, Istituzioni. Persone che conoscono risvolti inediti, in grado di farsi largo nel passaggio più inaccessibile: la Verità ultima sulle stragi. Ossia coloro che hanno sempre considerato il potere violento alla stregua del fine che giustifica i mezzi.

Il collaboratore di giustizia Antonino Giuffré, nei suoi resoconti, è stato molto più onesto di altri, meno strumentale nei confronti di altri pentiti, ha almeno fatto riferimento a questi presunti poteri occulti che agivano in concerto con i criminali mafiosi.  Così come Leonardo Messina, anch’egli nel ’92 riferì al giudice Borsellino particolari e nomi utili alle indagini, grazie al suo contributo furono arrestati 200 uomini d’onore ( fu definita  ‘Operazione Leopardo’).

A Vincenzo Calcara, dopo avere ascoltato con attenzione i fatti che ha raccontato, ho rivolto alcune domande. Devo precisare che la registrazione è troppo lunga, il pentito è un torrente in piena, e per ragioni di spazio ho dovuto riassumere ed estrapolare i dettagli che ritenevo più rilevanti.

 Sig. Calcara, lei ha sempre dichiarato la sua perplessità sul fatto che, pur essendo stato un testimone di giustizia, che ha goduto della fiducia del giudice Borsellino, non è stato coinvolto nel corso dei tanti processi condotti sulle stragi, lei avrebbe voluto che le si chiedesse anche solo una conferma, un confronto, con le confessioni di alcuni pentiti.

Quali sono a suo avviso gli angoli ancora oscuri sui quali è necessario fare luce, al fine di arrivare alla verità  dei fatti criminali legati a cosa nostra, e quale contributo potrebbe dare in questo versante?

Sono tanti ancora gli angoli oscuri sulle stragi, io avrei voluto offrire il mio contributo, mi sarei reso utile, perché avere militato nell’organizzazione mafiosa nel ruolo di ‘uomo riservato’, significa venire a conoscenza di fatti importanti. In questo senso mi sento frustrato, vorrei veramente essere almeno messo a confronto con i collaboratori che non hanno detto tutta la verità.

Sono entrato a fare parte di cosa nostra il 4 ottobre del 1979, nel 1981 io ero sorvegliato speciale, con una condanna a 15 anni di carcere per omicidio, ero un uomo libero perché aspettavo la sentenza della cassazione. In quel periodo fui assunto nell’aeroporto di Linate a Milano, con tanto di cartellino al collo, nella dogana; ma lo scopo non era il lavoro in sé quanto favorire i traffici di droga, e proteggere i colli dalle ispezioni delle forze dell’ordine.

Per questo ‘lavoro’, l’Istituto previdenziale mi ha versato i contributi.. Nessuno ha mai fatto i dovuti controlli al riguardo. Come poteva un pregiudicato come me entrare in un posto così delicato come la dogana di un aeroporto tanto importante, se non grazie a complicità che stavano veramente in alto?

E’ tutto verificabile. Lo affermo limpidamente, proprio per dimostrare che la Giustizia su tanti aspetti che riguardano la criminalità organizzata, è arrivata in ritardo, e su tanti altri forse deve ancora arrivare.

Ho trasportato droga e armi, sul finire degli anni ’80, con persone affiliate alla Ndrangheta, io in seguito alla mia scelta di collaborare con la Giustizia, ho segnalato questi fatti con nomi e cognomi, e grazie  alla mia testimonianza sono stati identificati, processati e condannati.

Sig. Calcara, è semplice dedurre dalle sue testimonianze, che ha un grande rammarico, ossia non avere avuto l’opportunità di parlare di importanti fatti dei quali è venuto a conoscenza, o per esperienza diretta, nelle sedi opportune. Soprattutto – lei dice – di non essere stato messo a confronto con tanti collaboratori di giustizia, che a suo avviso, non solo non hanno detto la verità su questioni importanti riguardanti le stragi, ma si sono resi responsabili di  omissioni, che avrebbero acceso una luce più chiara sulle indagini. Con quali pentiti avrebbe voluto confrontarsi nei processi?

Con diversi pentiti, in particolare con Giovanni Brusca, che era figlio di un capo mandamento (S. Giuseppe Jato) e a sua volta, dopo la scomparsa del padre, è stato lui a tenere le redini. Ci sono diversi vuoti nelle testimonianze del Brusca, in particolare non ha parlato dei poteri occulti, quella linea trasversale alla criminalità organizzata siciliana, e non solo. Avrebbe dovuto parlarne, perché sicuramente, questi personaggi ancora senza un nome, hanno difeso e protetto gli interessi della sua famiglia, quindi sa molto di più di quanto abbia dichiarato. Le mie rivelazioni su questo punto, sono state confermate dalle testimonianze di Antonino Giuffré, anch’egli collaboratore di Giustizia, Leonardo Messina, ed altri pentiti.

Ma dei poteri forti ormai sono in tanti ad  averne parlato,  i giudici dopo anni d’indagine, si sono persuasi che esista una linea di convergenza d’interessi con l’organizzazione mafiosa, del resto tanti sono i testimoni di giustizia che hanno parlato di servizi segreti deviati, e purtroppo di uomini delle istituzione coinvolti a vario titolo in complicità sconcertanti. Ai poteri occulti si è riferito Walter Veltroni, Piero Grasso, e tantissimi giudici che sono pervenuti a questa conclusione, dopo fiumi d’interrogatori ai collaboratori di giustizia, e  conclusioni scaturite dalle indagini. Se ne parla ormai apertamente, non ne parlo solo io, non è un mistero per nessuno che dietro le stragi vi sia una verità sommersa, coperta,  proprio perché riguarda personaggi ‘intoccabili’, purtroppo spesso ‘irreprensibili’ davanti alla gente. Lo so che non è facile,  è un’impresa arrivare al capolinea della Verità che riguarda poi tutte le stragi commesse in Italia. Questo lo so bene.

Io sono convinto che esiste una ‘Commissione nazionale’, della quale fanno parte anche esponenti delle organizzazioni mafiose, siciliane e calabresi, e questa Commissione è potentissima. Ma sono altrettanto convinto che esista anche un riferimento internazionale. Certi fatti gravissimi, come sono state le stragi, non potevano essere organizzate solo dalla criminalità organizzata, dietro ci sono altri referenti, complicità e collusioni ad altissimo livello. Del resto, il giudice Falcone parlava di “menti raffinatissime..” E se ne stava convincendo anche il dottore Borsellino, per questo doveva sparire.

Una parte della politica siciliana, ormai è noto, era collusa con la mafia, e basterebbe citare Salvo Lima, Vito Ciancimino, e tanti altri nomi illustri, per capire quanti scambi di favori ci fossero dietro l’apparente irreprensibilità di certi personaggi. Non si dimentichi che i collegamenti tra esponenti di primo piano della politica nazionale con i boss di cosa nostra sono stati provati, e se gli interessati  non sono stati condannati, è dipeso dallo scadere dei termini di prescrizione del reato di associazione per delinquere/ mafiosa (caso Andreotti).

Signor Calcara, sappiamo che i depistaggi che hanno riguardato la strage di Via d’Amelio, hanno concorso a ritardare l’esito delle indagini, e che alcuni pentiti, con le loro false rivelazioni, ne hanno deviato il corso. Ma comunque si è fatta luce, sia pure dopo diversi anni, soprattutto grazie al contributo di testimoni di giustizia più attendibili e coerenti con il reale svolgimento dei fatti. Ci sono stati 26 ergastoli e tante altre condanne per concorso in strage, ma la verità, tutta la Verità, sembra ancora sulla Via di Damasco. 

Sì, è vero, ma perché? Certamente, ci sono stati ritardi perché purtroppo si è concessa fiducia troppo presto a falsi pentiti come Scarantino, non tutti i cosiddetti collaboratori di giustizia sono affidabili, molti usano la Giustizia e i vantaggi che ottengono con le loro confessioni, ma fanno affermazioni non corrispondenti al vero, e soprattutto non dicono tutto quello che sanno.

Lei cosa mi dice sui tanti depistaggi legati alla sparizione dell’agenda rossa del giudice Borsellino, conosce dettagli importanti al riguardo?

Cosa posso dire.. io prima di tutto quell’agenda l’ho vista più volte nelle mani del dottore Borsellino, lui annotava anche davanti a me dettagli che erano importanti per le indagini. Non conosco i nomi di coloro o di chi l’hanno resa irreperibile. Non ho certezze, ma sono convinto che l’agenda, per il valore del suo contenuto, sia oggetto di ricatti proprio all’interno di questo sistema di poteri occulti e deviati di cui ho già accennato. Il notaio Salvatore Albano era molto probabilmente un tramite tra queste entità, che hanno un potere enorme.

Io ho conosciuto il notaio Albano, avevo portato di persona, una decina di miliardi che dovevano essere ‘ripuliti’. Lo stesso Brusca ha confermato in una deposizione, che il notaio in rappresentanza di un noto esponente politico, aveva fatto avere un regalo alla figlia di uno dei fratelli Salvo che si era sposata.

Altro sull’agenda rossa non so, ma direi che la sua sparizione  è la prova del fatto che esiste una gerarchia di poteri forti, e che il destino del giudice Borsellino è stato forse deciso in “alte sfere”, così come l’agenda è stata sottratta per le stesse ragioni: perché la verità è scomoda. Del resto anche il suo ufficio era stato ‘visitato’ subito dopo la strage, e documenti importanti sono stati portati via.

E non è la prima volta, è stato fatto anche dopo la strage di Capaci, con documenti e prove importanti in mano del dottore Falcone. Ma anche a casa del generale Dalla Chiesa, erano arrivate puntuali le visite nella sua abitazione, dopo la strage.

Stiamo ancora a chiederci le ragioni? Ci chiediamo ancora perché la villa di Totò Riina non è stata perquisita, e non è stata chiusa e sigillata dopo avere portato via documenti sicuramente importantissimi ai fini delle indagini? La sua villa è rimasta senza un’ispezione per settimane, il tempo necessario alla mafia di ripulirla bene, perfino imbiancare le pareti..

Sig. Calcara, lei ha parlato in più occasioni delle “cinque entità”, ossia un insieme di poteri occulti del quale fa parte la criminalità organizzata, istituzioni deviate, servizi segreti ecc. E tuttavia  non può provare l’esistenza di questa Commissione nazionale..

Ma esiste! E come ho già avuto modo di sottolineare, a questi poteri deviati fanno riferimento in tanti, tutte persone rispettabili e non compromesse con la giustizia. Non è un mio delirio. Si dovrebbe indagare ora in questa direzione, perché qui si troveranno le risposte ai tanti interrogativi che hanno interessato la storia d’Italia negli ultimi cinquant’anni, se non anche prima.. Qui è la verità, lo sostengono ormai in tanti, come bisogna dirlo?

L’ultima domanda: come mai sig. Calcara è uscito fuori dal programma di protezione?

Sono uscito fuori volontariamente, in seguito ad un rinvio a giudizio per calunnia, dichiarazioni ritenute false, ma io ho detto la verità riguardo ai dieci miliardi consegnati al notaio, per questo mi sono rivoltato verso questo trattamento. Ne avevo parlato con la moglie del giudice Borsellino, la sig.ra Agnese, la quale mi aveva assicurato, che in mancanza di un aiuto da parte dello Stato, avrebbe pensato la sua famiglia a trovarmi un lavoro, e infatti lo ottenni. Con mansioni di custode lavorai in un convento al nord. Ho ricevuto sostegno morale ed economico dalla stimatissima famiglia Borsellino, e non finirò mai di essere loro grato per tutto il bene che hanno fatto a me e alla mia famiglia.

Grazie, sig. Calcara della sua testimonianza.

Il giudice Roberto Scarpinato, in un’intervista, definisce l’agenda rossa come “una sorta di promemoria dell’indicibile”. E aggiunge: “forse le tracce che portano a questi ‘indicibili’ sono proprio nell’agenda  del giudice scomparso”.

E basterebbero le conclusioni di questo giudice coraggioso a fare riflettere: “L’Italia è un Paese democraticamente immaturo, che non ha mai saputo fare i conti con il proprio passato”.

Lo stesso giudice Paolo Borsellino confidò alla moglie, poche settimane prima della strage: “sarà la mafia a uccidermi, ma altri a deciderlo..”

 

 

I RAPPORTI TRA ROMA E BRUXELLES SCORRONO SU TRALICCI AD ALTA TENSIONE

DI VIRGINIA MURRU

 

Le riserve e la diffidenza nei confronti del nuovo Governo italiano, da parte dell’Unione europea e dei suoi più autorevoli rappresentanti, è iniziata con le polemiche sul modo in cui il ministero dell’Interno ha scelto di gestire le politiche sull’immigrazione.

Non c’è intesa e non potrà essercene con una logica di chiusura dei confini e lo slogan “prima gli italiani”, al di là di ogni considerazione etica, al di là di quell’ecatombe che da anni è diventato il Mediterraneo.

E c’è però l’altra faccia della medaglia: l’Italia non può continuare a gestire ‘flotte’ di migranti con una scarsa regolamentazione da parte dell’Ue, solo perché le sue caratteristiche geografiche ne facilitano l’approdo, occorrono sicuramente misure efficaci per disciplinare in modo equo l’arrivo dei flussi di disperati che provengono soprattutto dal nord Africa.

La condivisione dell’accoglienza deve rientrare in un piano d’interventi volto alla responsabilizzazione di tutti gli Stati dell’Unione, non è una questione di stanziamento di fondi a supporto del notevole peso economico che grava sui paesi che accolgono, è la gestione e le implicazioni insite nei processi d’integrazione che preoccupa.

Nonostante le politiche socio-integrative messe in atto dal Ministero del lavoro, volte a rendere sostenibile il fenomeno, è difficile arrivare all’obiettivo di portare all’autonomia questi diseredati, che si trascinano dietro storie travagliate di violenza e miseria. Lo sbando e le storie di emarginazione che ne conseguono, emergono ogni giorno anche dai fatti di cronaca; vi sono ragioni sensate per disciplinare il flusso degli arrivi, non ve ne sono per il rifiuto e la chiusura a prescindere, non si può certamente giustificare l’intento di volgere lo sguardo altrove e lavarsene le mani.

In seguito all’approvazione della Nota di aggiornamento al Def, i rapporti tra Governo italiano e Bruxelles, sono diventati quasi roventi. I conti pubblici italiani, secondo la Commissione europea, erano tutt’altro che a norma anche negli anni scorsi, secondo i parametri Deficit/Pil che dovevano essere rispettati.

Materia del “contendere” è la scelta dell’attuale governo di sforare il 2%, e portarsi al 2,4%, mentre l’Italia vive una fase delicatissima di transizione, già nel mirino dei mercati, con uno spread che è ultrasensibile ad ogni dichiarazione che comporti minacce d’instabilità. Uno spread che, per i conti pubblici, sta diventando un ordigno per il differenziale di rendimento e gli interessi passivi che vanno ad aggravare la precarietà sul piano finanziario.

E l’attrito arriva dall’Unione e dagli esponenti politici delle economie più solide in Europa, per tutti la manovra espansiva posta in essere dal Governo è piena d’insidie. C’è del coraggio, guidato dal forte impulso di una svolta, ma i riflessi già spaventano.

Anche i quotidiani economici più autorevoli sono allarmati dalle mire espansive del nuovo Governo, il Financial Times in particolare, che ritiene pericoloso questo procedere spavaldo, e sostiene che più o meno queste scelte equivalgano a “mettere un dito nell’occhio dei partener dell’Ue”. Aggiungendo che il ministro Tria sta cercando di contenere l’esuberanza dei vertici del Governo, e qualora decidesse di lasciare le redini, la situazione precipiterebbe. “E’ una politica di bilancio azzardata – sottolinea il quotidiano londinese – che vira in modo pericoloso rispetto alle regole fissate dall’Ue in questo ambito.”

Intanto per oggi è prevista un nuovo vertice del Governo; secondo Reuters, che fa riferimento a fonti governative della Lega, si è già deciso un passo indietro: ossia di rendere meno traumatico l’impatto sul rialzo del deficit/Pil. La misura del 2,4% sarà rivolta solo al 2019, non all’intero triennio. Si è dunque previsto di portarla al 2,2% nel 2020 e al 2% nel 2021.

Una lieve revisione che tende a rendere più soft il rapporto deficit/Pil nei prossimi anni, ma, secondo i due vice premier, Salvini e Di Maio, non si cambierà di un micron la sostanza della misura, considerata lungimirante per le classi meno abbienti. Il ministro degli Interni intanto tuona contro Bruxelles, che ieri, con le sue dichiarazioni, avrebbe fatto compiere un balzo ancora più negativo allo spread, arrivato ad oltre 300 punti base, causando ulteriori disastri in borsa.

E potremmo essere pronti ad imboccare la via della procedura d’infrazione, visto che le norme di rispetto sul fiscal compact, di fatto sono state ignorate.
Secondo l’ex ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, in una intervista pubblicata da Agi, l’economia italiana già non è sostenibile in area euro, la recente approvazione delle misure contenute nella manovra del governo, non potrà cambiare di molto le sorti del Paese. Varoufakis del resto è sempre stato contrario alle politiche europee del Fiscal Compact, ma anche il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, aveva più volte espresso il suo dissenso in merito negli anni scorsi.

Sono tanti i paesi, e diciamo pure le economie più solide dell’Unione, che tentano di superare i parametri rigidi imposti dalle sue politiche, andando al di là delle misure che possono mettere a rischio la sostenibilità finanziaria (nell’Ue), con una deviazione dagli obiettivi di austerità espansiva.

Recentemente, il ministro per gli Affari europei, Paolo Savona, ha inviato alla Commissione europea un documento, nel quale si chiede una riforma delle politiche e misure stabilite dalla Ce, perché sarebbero superate, e occorre un dinamismo più adeguato alle esigenze degli Stati che ne fanno parte, in particolare la normativa sul Fiscal Compact (o Patto Intergovernativo di Bilancio europeo), che in qualche modo risulterebbe contorto.

Negli anni scorsi, il ministro Padoan, in più occasioni aveva chiesto una revisione delle sue regole, e si era peraltro cominciato a lavorare a Bruxelles in tale senso, ma poi ne è stato bloccato il corso. In realtà il Fiscal Compact non lo vuole nessuno, né si vorrebbe che fosse incorporato nei Trattati dell’Unione (come stabilisce l’articolo 16 del Fc).

Secondo gli esperti in questo ambito, le regole adottate dall’Ocse in questo genere di ‘conteggi’, sarebbe meno rigida di quella dell’Unione europea. Ma vi sono due ‘sentinelle’ a garanzia del rigore, e sorvegliano la roccaforte dell’euro: la Bce e la Commissione europea, entrambe convinte della severità delle misure di politica economica, e della necessità d’incrementare il processo di attuazione delle riforme strutturali, affinché si garantisca la tenuta dell’Eurozona, e si stimolino tutti i fattori potenziali di crescita, dall’occupazione agli investimenti. Insomma: migliorare i conti pubblici e la governance. Portare gradualmente il debito pubblico al 60% del Pil.

L’economista e ministro Savona, attraverso il suo documento trasmesso alla Ce, vuole mettere in rilievo il ruolo di un’”Europa dentro la Storia, non all’interno di schemi econometrici”. Necessaria, dunque, una riforma interna (che preveda un bilancio pubblico europeo), cominciando da quella dei singoli Stati, sui quali è necessario avviare un’estrapolazione degli investimenti pubblici dalla valutazione dei bilanci, mediante un’attenta verifica dei moltiplicatori.

Una cosa è certa: il fiscal compact, o Patto di bilancio, danneggia l’Italia e i suoi conti, ma anche altri paesi, la Spagna e la Francia a loro volta hanno da tempo presentato rimostranze al riguardo alla Ce.

OGGI DIMEZZATO IL QE: 15 MILIARDI AL MESE. IMPLICAZIONI NELL’ECONOMIA ITALIANA

DI VIRGINIA MURRU

 

Il programma di riduzione degli stimoli monetari da parte della Bce,  iniziato nel 2017, prosegue: da oggi il Quantitative Easing sarà ancora dimezzato, e gli acquisti di titoli saranno ridotti a 15 miliardi di euro al mese, fino al 31 dicembre, quando la politica monetaria di ‘accomodamento’ sarà completamente azzerata.

Durante il corso dell’ultima conferenza stampa del 13 settembre scorso, la  BCE ha ricordato che al momento è ancora prematuro parlare della possibilità d’incrementare i tassi di interesse.

La Banca Centrale Europea ha tuttavia assicurato, dopo l’ultima riunione del Consiglio Direttivo, che la sua attività continuerà sul mercato, attraverso il reinvestimento delle somme derivanti dal rimborso dei titoli acquistati, per un tempo “abbastanza esteso”, dopo la fine del Qe. In ogni caso, aveva affermato il presidente Draghi, il tempo necessario a “mantenere condizioni di liquidità favorevoli, e un conseguente livello di accomodamento monetario” – “Gli acquisti restano parte degli strumenti di politica monetaria che potranno essere utilizzati in particolari situazioni”.

Vigilanza, insomma, affinché le ottime performance raggiunte dall’economia dei Paesi dell’Eurozona, non subiscano ‘traumi’ in seguito alla sospensione dell’acquisto di asset. Attualmente, l’economia europea,  evidenzia un trend di crescita solido, malgrado le incidenze negative legate alla politica del protezionismo portata avanti dall’establishment Usa, e al conseguente clima d’incertezza a livello globale, soprattutto a danno delle economie emergenti.

In Eurozona dunque si viaggia sicuri, e nonostante qualche  incertezza riscontrata negli indicatori economici, che tuttavia non compromette la solidità dell’area. Nemmeno il clima di sfiducia sulla politica italiana, ha finora creato problemi seri ‘di contagio’, i mercati, dopo le reazioni negative non durate a lungo, si sono ricomposti, e non si sono verificati riflessi preoccupanti sull’andamento dell’economia negli altri paesi della zona euro.

Uno dei più importanti investitori a livello globale in obbligazioni, Pimco, circa un anno fa, aveva pronosticato, in riferimento alla fine del Qe, un clima “nefasto” per l’Italia, che avrebbe raggiunto il suo epilogo drammatico con la ‘vendita’ del debito, e un incremento d’interessi tale da compromettere del tutto la crescita economica. Pimco (Pacific Investiment Company Management, LLC), è una nota azienda californiana di gestione globale degli investimenti, che opera in titoli a reddito fisso.

Il ‘top’ di questo dissesto, secondo i dirigenti di Pimco,  avrebbe portato al “bail-out”, con una congiuntura insostenibile sul piano economico-finanziario. Il resoconto di questo ‘infausto outlook’, era stato pubblicato dal ‘Telegraph’ lo scorso anno.

L’ottimismo, ad un anno di distanza, non è poi migliorato di molto, e proprio le recenti iniziative di politica economica avviate dal Governo, non aiutano ad intravedere solide  prospettive per il Paese.

Intanto la Bce ha rivisto al ribasso, sia pure di poco, le previsioni di crescita per l’anno in corso e il 2019; ma restano ancora in positive per quel che concerne l’area euro. Il Pil, secondo le stime, subisce una lieve flessione, passando al 2% (dal 2,1%) nel 2018; mentre nel 2019, passerà dall’1,9% all’1,8%. Confermate le stime per il 2020, che restano all’1,7%. L’obiettivo inflazione al 2%, non è stato ancora raggiunto, ma ha fatto notevoli passi avanti, le stime per il triennio 2018/20, restano all’1,7%.

Fermi i tassi ufficiali, quindi confermati a -0% (tasso di riferimento) e lo 0,40% quello sui depositi alla Bce – tasso di rifinanziamento marginale 0,25%. I tassi non subiranno variazioni fino all’estate del 2019, secondo le decisioni prese all’unanimità dal Consiglio Direttivo della Bce, o comunque, come precisa il presidente Draghi, “il tempo necessario affinché la crescita dell’inflazione segua il trend di aspettative orientato al 2%”.

Secondo alcuni economisti ed esperti, non sarebbero tanto i conti pubblici in Italia a subire le conseguenze del mancato sostegno del Qe, ma piuttosto il settore privato dell’economia. La Bce ha in ogni caso assicurato che non abbandonerà il mercato, e non lascerà ‘sola’ l’economia dell’area euro, in caso di difficoltà, dopo la fine della politica monetaria espansiva, proprio perché, come ha precisato,  continuerà ad acquistare titoli di stato tramite l’investimento di quelli in scadenza.

Fin qui le risoluzioni dell’attuale Consiglio Direttivo, ma la situazione potrebbe subire variazioni nel 2019, anno in cui è previsto il cambio di guardia ai vertici della Bce. A questo punto potrebbero mutare le condizioni per quei paesi dell’area euro, la cui economia, presenta ancora fragilità.

A partire da febbraio/marzo scorso, intanto, si è fermata la corsa del ‘super euro’, che già a settembre 2017, aveva quasi raggiunto quota 1,21 nel cambio col dollaro, conseguenza positiva scaturita anche dal sentiment che si era venuto a creare nei mercati in seguito alla pubblicazione dell’indice PMI (Purchasing Managers Index, ossia Indice dei Direttori agli Acquisti), schizzato a quota 60, 6. Tenendo conto che si considera positivo già quando supera quota 50.

La corsa dell’euro,  ha raggiunto il culmine nel cambio col dollaro (1,23 – apprezzandosi del 2,5%)), intorno alla seconda settimana di gennaio,  ma dietro questi risultati c’era anche la debolezza del biglietto verde, che nei mesi successivi invece a ripreso la sua forza.

La forza acquistata dall’euro aveva comunque a inizio anno  destato  perplessità e riserve, dato che un euro così forte, col tempo, avrebbe potuto innescare riflessi negativi per l’export europeo, soprattutto nei paesi dell’Eurozona. I trader si sono orientati verso l’euro, quando ha cominciato ad allentare il programma di acquisto di titoli, creando di fatto un rafforzamento della divisa europea. Rientrata poi, in termini di rapporto con il dollaro, in primavera ed estate, quando appunto, come si è accennato, il dollaro ha ripreso vigore.

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APPROVATA LA NOTA DI AGGIORNAMENTO AL DEF. DOVE CI PORTERA’ QUESTO “GIOCO D’AZZARDO”?

DI VIRGINIA MURRU

 

Dunque hanno vinto loro, i due Vice-premier Di Maio e Salvini (ma Conte esiste nel ruolo di Presidente del Consiglio?), si va a sforare il 2% di deficit sul Pil, l’accordo è esattamente per 2,4% per 3 anni; il ‘dopo virgola’, in termini di miliardi, non sono comunque bruscolini..

In tutto il ‘prestito’ ammonta a 27 miliardi di euro. Una manovra rischiosissima: la Nota di Aggiornamento al Def è stata varata ieri notte, era il limite di tempo richiesto (manca il lasciapassare del Presidente Mattarella, ma non dovrebbero esserci intralci). Nonostante gli entusiasmi dei due alleati, Di Maio e Salvini, l’Italia è fortemente esposta al rischio: con le risorse disponibili anche nei prossimi anni, potrebbe non riuscire a trainare un carro con un indebitamento così pesante.

Intanto non c’è il placet dei mercati, che anzi sussultano e si rivoltano alla scelta di politica economica del Governo, all’ennesimo stato di allerta sui conti pubblici, all’instabilità che ne consegue.

Si renderanno disponibili dunque 10 mld per il reddito di cittadinanza (e pensioni di cittadinanza), dei quali beneficeranno circa 6,5 milioni di persone. 1,5 mld saranno destinati a coloro che hano subito truffe dalle banche, più o meno a titolo di rimborso. A gennaio non dovrebbero scattare le clausole di salvaguardia Iva; è previsto un limite di tasse del 15% per un milione di persone, e pax fiscale, con ‘chiusura’ di cartelle esattoriali e contenziosi con liti pendenti, fino ad un importo di 100 mila euro.

Il tutto dovrebbe rientrare nel ‘prestito’ (o meglio indebitamento) di 27 miliardi di euro. Nel 2019 pertanto, il rapporto deficit/Pil sarà pari al 2,4%. E il contratto di Governo è salvo, si dovevano a tutti i costi mantenere le promesse solenni fatte in campagna elettorale, e per questo il titolare del Mef, Giovanni Tria, è stato quasi minacciato d’essere perfino destituito.

E’ da irresponsabili esultare e sostenere che ha “vinto il popolo”, il popolo è nelle mani di questi politici digiuni d’esperienza, che finora ha fatto di tutto per foraggiare gli entusiasmi delle famiglie che hanno necessità di sostegno e certezze. La realtà però è un’altra cosa, è fatta di numeri che devono tornare, di conti che devono avere precisi riscontri, di impegni con l’Ue che devono essere rispettati.

Finora, la Commissione europea è stata fin troppo duttile nei confronti delle richieste di flessibilità del Governo (anche quello precedente), ora c’è un vero e proprio stato di allarme. Siamo sorvegliati speciali, e i richiami continui all’ordine, diventano un’umiliazione, se si considera che, nonostante tutto, l’Italia ha una notevole potenzialità, sul versante industriale siamo la seconda potenza in Europa.

Ma i conti sono in perenne scostamento dai parametri, e questa volta le sanzioni sono nell’aria, il monito del resto è già arrivato da Bruxelles. Se poi l’ambizioso progetto varato dal Governo dovesse tradire le aspettative, e i conti dovessero sprofondare in un girone infernale ancora più nero, in zona euro potrebbero metterci alla porta per incompatibilità con i Trattati a suo tempo firmati.

La Germania vorrebbe uscire volontariamente dal sistema Euro, ma perché non vuole più saperne di “risk-shared” . Per l’Italia il discorso è diverso: andrebbe via perché non sussistono più le condizioni per il rispetto dei parametri. Non si tratta di catastrofismo se in una simile congiuntura s’intravede lo spettro del default. In recessione già eravamo nel 2014.

Inutilmente ci si chiede perché, un’Italia che ha necessità d’investimenti in infrastrutture, di creare nuova energia nel versante occupazionale, disperda mezzi così consistenti con l’assistenzialismo. I 10 miliardi destinati al reddito di cittadinanza, diventano in gran parte una dispersione di risorse, e avrebbero invece potuto essere investiti in opere pubbliche, delle quali si ha un gran bisogno. Intanto, molti edifici scolastici, solo per citare una delle tante lacune, sono fatiscenti, quando non ruderi. Perché non investire una parte di questi miliardi per la costruzione di nuove strutture, incrementando l’occupazione e dando l’opportunità ai lavoratori di guadagnare dignitosamente uno stipendio?

Non si può capire questa smania di accattivarsi la simpatia della gente in modo sterile, e sul piano economico assolutamente deviante.

Noi cittadini, impotenti davanti agli esiti di questi azzardi, possiamo solo sperare che abbiano ragione loro, ossia Conte & company, gli esponenti del governo che hanno tentato questa via, ma non si può mettere a tacere la ragione, non si può investire solo sull’intraprendenza. Questa volta l’Italia è nelle mani dei funamboli, di chi si sta giocando il futuro del Paese con scommesse in cui il rischio è la posta in gioco, e qualora si precipitasse da quell’asse, non ci sarebbero coperture per la salvezza.

I mercati si stanno rivoltando perché un’Italia che viaggia con i conti così in dissesto, e un debito pubblico schiacciante, ha necessità di un percorso sicuro, il livello di rischio è altissimo. Giovanni Tria questo lo sa, non ha certamente ceduto a Salvini e Di Maio di buon grado, davanti a scelte di politica economica di questa portata. L’Italia si aspetta atti di governo che implichino una svolta, certamente, ma con una buona dose di buonsenso, non si può andare allo sbaraglio nello stato in cui ci troviamo.

Da quest’anno la crescita è in flessione, dopo oltre 3 anni di progressi: numeri, non opinioni. Per il 2019 agli Outlook delle Agenzie di rating, esperti, economisti e Organizzazioni internazionali, non sono orientati verso l’ottimismo.
La pariglia Di Maio-Salvini replica che non c’è nulla da temere, “i mercati se ne faranno una ragione”, lo sforamento del deficit è stato presentato come una vittoria. Ma i 27 miliardi dovranno rientrare nel volgere del breve periodo, e garanzie al riguardo non ce ne sono.

Si replica che il reddito di cittadinanza se lo può permettere la Germania, dunque perché non provarci anche noi? Certo che i tedeschi possono permetterselo, con una “dispensa” ben più fornita della nostra, trattandosi della prima potenza economica dell’Ue, quella che traina l’Eurozona.

E’ un confronto da irresponsabili, questo, basterebbe dare uno sguardo al differenziale di rendimento – che peraltro stamattina è schizzato fino ad oltre 280 punti base – per capire in quale tunnel poco illuminato ci stiamo inoltrando. O un semplice sguardo ai decennali del Tesoro tedeschi per capire che si sta paragonando il giorno con la notte.
No, i mercati non hanno brindato con i ministri che hanno approvato questo salto nel buio. Nessun cittadino, tuttavia, dovrebbe augurarsi che questa manovra sia l’anticamera di un’erta.

Sono tante le promesse fatte agli italiani, ma le promesse diventano poi “debiti”, nella vera accezione del termine. Con un debito pubblico che marcia ad oltre 2.330 miliardi, e un debito pro capite di oltre 38.700 euro, c’è poco da scherzare, e da azzardare.

Anche Francia e Spagna andranno oltre le transenne dei parametri imposti dai Trattati, lo hanno già reso noto a Bruxelles, che prevedono un deficit per il prossimo anno di circa 2,8% sul Pil. Ma la Spagna, nel 2017 ha marciato con un Pil pro capite superiore al nostro, ci ha superato. Un Pil misurato in PPP, ossia Power Purchasing Parity – tenendo conto della parità del potere d’acquisto.

Un governo ambizioso, il nostro, e questo poco male; quando si “va a fare la spesa”, se si eccede, si possono firmare cambiali, ma devono esserci garanzie e garanti.
Senza dimenticare che il primo di ottobre, il Quantitative Easing continuerà il suo processo di tapering (ché di questo infine si tratta), e verrà dimezzato ancora, passando dagli attuali 30 mld ai 15 mld al mese, fino al 31 dicembre prossimo.

Per un Paese che ha i conti in dissesto come l’Italia, il Qe è stato provvidenziale,  aiuto notevole l’acquisto di asset ogni mese da parte della Bce. Il venir meno della politica monetaria espansiva, per noi sarà una certezza e un sostegno dei quali si avvertirà la mancanza, e non dettagli di poco conto.

Non si può dire oggi che l’Italia sia al di là della sponda; anche se i due ‘Caronti’ al governo hanno chiesto di apparecchiare il tavolo con una mensa allettante, e tanta abbondanza, non è detto che possano permettersi poi di “pagare il conto”.

Speriamo che non sia così, per il popolo, una parola fin troppo abusata nel 2018, ma lo spread a quota 280 punti base, non è un buon auspicio, e nemmeno il rendimento dei Btp a 10 anni, che supera il limite di guardia del 3%..

ROMA: UNA CIVILTA’ CHE SCAVALCA I MILLENNI E NON PERMETTE OBLIO

DI VIRGINIA MURRU

 

Il ritrovamento a Como delle 300 monete d’oro d’epoca romana, non contribuiranno a ridurre il debito pubblico italiano, ma certamente arricchiranno i musei; simili scoperte non possono che avere un’importanza storica rilevante.

Le monete sono state rinvenute, come si sa, in un sito del centro storico della città, (Via Diaz), cantiere Cressoni, durante i lavori di sbancamento del cinema-teatro, che dovrebbe lasciare posto ad un nuovo edificio.

Sono stati gli operai del cantiere a ritrovare, ad appena un metro di profondità, il contenitore di particolare fattura, realizzato con pietra ollare; ha una certa similitudine con le urne nelle quali solitamente si custodivano i tesori. E di tesoro si tratta, non vi sono dubbi su questo, l’oro utilizzato dai romani ha un alto grado di purezza, è evidente dal colore delle monete, ritrovate impilate una sull’altra, sembra che abbiano appena lasciato la zecca, tanto sono lucenti.

Il ritrovamento ha un notevole valore storico, dato che, nei lavori di scavo susseguitisi nel corso dei secoli, non sono state rinvenute grandi quantità di “sesterzi aurei” coniati dai romani.
Dichiara il ministro dei Beni Culturali, Alberto Bonisoli:

“Gli archeologi stanno valutando la portata storica e culturale della scoperta, e la direzione scientifica che sovraintende agli scavi, ha subito trasferito le monete in una sede di restauro del Mibac a Milano, dove l’urna che le conteneva è già oggetto di studio e di analisi.”

E’ stata subito informata la Sovrintendenza Archeologica, e sul sito del ritrovamento ora proseguono gli scavi, si pensa che le monete e i monili siano solo un indizio per altri importanti reperti.

Intanto gli esperti hanno stabilito che il ritrovamento potrebbe collocarsi in epoca bizantina, o risalire ad uno/due secoli prima di Cristo, questo sarebbe il quadro temporale più attendibile. Gli oggetti preziosi ritrovati insieme alle monete si suppongono legati alla fondazione e origine stessa della città di Como, ma gli orientamenti temporali non sono ancora certi: potrebbe anche trattarsi di un periodo precedente, quando il territorio era abitato da tribù di Celti e Galli.

Si va dai due secoli A.C. al IV secolo D.C., più avanti gli studi sui reperti esprimeranno una datazione più attendibile.
La Civiltà romana e i suoi tesori, ogni tanto tornano in superficie in seguito a scoperte casuali, e altre portate avanti con mesi e a volte anni di scavi da parte di squadre di archeologi.

Casuale fu anche il ritrovamento di Orselina, nel Canton Ticino, quattro anni fa: com’è noto, in un terreno privato nel quale si eseguivano lavori di scavo per ragioni ben lontane dall’eccezionale scoperta, furono rinvenute in un contenitore di ceramica, migliaia di monete in bronzo d’epoca imperiale, risalenti ai primi secoli d.C.

E’ verosimile che questi tesori venuti alla luce dopo alcuni millenni, e conservatisi perfettamente integri, dentro anfore di materiale diverso, siano stati nascosti per essere protetti da eventuali insidie provenienti da nemici esterni al territorio, non ultimi le orde di barbari che giungevano continuamente dal Nord.
La presenza dei Romani a Como e dintorni, è un dato certo, gli studi sulle monete e l’anfora che li contiene, saranno utili per una conoscenza più profonda della presenza romana nella città, e magari per rivelare ulteriori dettagli sui traffici commerciali che il lago permetteva.

Di certo si può dire che si tratta della scoperta più sensazionale avvenuta nell’ultimo decennio, per il prezioso valore storico e numismatico degli oggetti rinvenuti, non solo in Italia ma nell’intera Europa.

PICCOLA VITA IGNARA..

DI VIRGINIA MURRU

 

Ero una piccola vita
con l’anima intrecciata a fili di paglia
cresciuta dentro un nido sopra i rovi
come una parola tesa verso l’alto
che non aspetta l’eco del ritorno.

E raccoglievo bacche nelle siepi
salivo a piedi nudi sulle piante
credendo fosse il vertice del mondo.

Era semplicemente vita
quella che non domanda da chi viene
offre sorrisi anche alle tempeste
non cerca strade larghe al suo andare
cammina con i chiodi sotto i piedi.

Quella era vita immune da pensiero
con vuoti di tempo da riempire a caso
nemmeno si facevan congetture
sulle ragioni del Cielo quando piove.

Mentre lente avanzavano le sere
senza spiegarmi nulla, senza amore,
ombre armate di male, di silenzio
avevano già scritto il mio destino

contavano le lacrime sul volto
fino a riempire il mare ed anche oltre.

BOERI: “CONTROLLARE LA PRESENZA DEI MIGRANTI, PROBLEMA SERISSIMO PER I FLUSSI CONTRIBUTIVI”

DI VIRGINIA MURRU

 

Il presidente dell’Inps Tito Boeri non usa eufemismi per mettere in rilievo il rischio che comporta per il sistema pensionistico la riduzione del flusso di migranti. lo ha espresso con toni preoccupanti nel corso del suo intervento al Festival del Lavoro, che si è tenuto a Milano al  Centro Congressi Mi.Co, il 28 giugno ( si concluderà oggi).

All’appuntamento annuale, organizzato dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, giunto alla sua nona edizione, erano presenti 270 ospiti, tra i quali il ministro del Lavoro Luigi Di Maio e il ministro dell’Interno Matteo Salvini, accademici ed esperti a vario titolo del tema ‘Lavoro’.

Nel suo intervento, il presidente dell’Inps ha fatto considerazioni importanti, che mettono in discussione la politica di controllo sui migranti  portata avanti dal Governo, e che peraltro sta infervorando il dibattito in ambito europeo, suscitando anche tensioni non facilmente superabili.

Ora le contrapposizioni interne in tema di flussi migratori emergono chiare dalle dichiarazioni di Boeri:

“Stanno diventando preoccupanti gli scenari sulla spesa pensionistica, a causa del controllo dei flussi migratori. Sul piano demografico in Italia è in atto un calo delle nascite rilevante, il sistema pensionistico non è in grado di adattarsi a questo fenomeno, a causa delle forte interdipendenza, si tratta di un problema serissimo, e riguarda l’immediato.”

“Volenti o nolenti – ha proseguito Boeri – la costante presenza dei migranti può aiutarci a gestire questa difficile transizione demografica. Quand’anche ci fosse in Italia un’inversione di tendenza a livello demografico, ci vorrebbero almeno 20 anni prima che questi contribuenti fossero in grado di compensare il gap col versamento dei contributi. Attualmente questo flusso contributivo  per il sistema pensionistico è importante, con la diminuzione dei flussi, l’arrivo di migranti “comincia ad essere non più sufficiente” a controbilanciare “il calo degli autoctoni.”

Affermazioni in linea con l’Ufficio parlamentare di bilancio, che proprio il giorno prima (il 27 giugno)  aveva ricordato in una relazione, l’importanza dell’arrivo degli immigrati per i conti pubblici, per le stesse ragioni sottolineate dal presidente dell’Inps, ossia il sostegno contributivo.

In evidente contrapposizione con le recenti misure adottate dal ministro dell’Interno Matteo Salvini, il quale, anche attraverso un tweet, ha espresso tutto il suo dissenso nei confronti delle dichiarazioni di Boeri:

“Secondo Boeri, presidente dell’Inps, la “riduzione dei flussi migratori” è preoccupante, perché sono gli immigrati a pagare le pensioni degli italiani…..
E la legge Fornero non si tocca.
Ma basta!!!”

Al Festival del Lavoro ancora in corso a Milano, Boeri ha fatto anche riferimento alla “quota 100”, riforma che dovrebbe permettere di neutralizzare la legge Fornero, ma che avrebbe riflessi non di poco conto sulla spesa pensionistica, e non solo: non migliora il rapporto tra pensionati e lavoratori. Boeri sottolinea il fatto che aumenterebbe il numero dei pensionati, circa un milione, ma diminuirebbero i lavoratori per via delle tasse sul prelievo pensionistico.

Il presidente dell’Inps ha poi espresso qualche considerazione sulle cosiddette “pensioni d’oro”:

“interventi di questo tipo, sono auspicabili nel momento in cui il debito pubblico è molto alto, e quando si volesse abbassare la pressione fiscale sul lavoro finalizzata al rilancio dell’economia.”

RAPPORTO CSC: “L’ITALIA CRESCE, MA TROPPO POCO, PLAUSIBILE MANOVRA CORRETTIVA”

DI VIRGINIA MURRU

 

Secondo il Centro Studi Confindustria (CsC), l’economia italiana sta rallentando più di quanto ci si aspettasse nelle stime di dicembre 2017. I riscontri, per quel che concerne il tasso di crescita del Pil, sono infatti inferiori rispetto ai target: -0,2%, ossia, non la crescita del +1,5%, ma del +1,3% in termini reali. Gli economisti ed esperti del Centro studi di Viale dell’Astronomia, prevedono anche per il 2019 una flessione più ampia rispetto alle aspettative, ossia +1,1%. L’analisi riguarda il biennio 2018/19.

Secondo gli studi del Centro, la decelerazione nella crescita prosegue in modo graduale, e tanti sono i fattori che hanno inciso nella determinazione di queste dinamiche ‘involutive’.

A questo punto diventa ragionevole e ‘plausibile’ una manovra correttiva, stimata dell’ordine di 9 miliardi di euro. L’aggiustamento richiesto per il 2018, sarebbe pari allo 0,5% del Pil, mentre il  prossimo anno, si dovrebbe intervenire con  0,6 punti (equivalgono a circa 11 miliardi). Sarebbe più o meno l’equivalente del valore della clausola di salvaguardia, qualora fosse stata attivata.

Nelle previsioni sui conti concernenti il 2019, c’è l’ipotesi di sterilizzazione completa delle clausole di salvaguardia Iva, che peraltro è stata inserita nella risoluzione di maggioranza del 19 giugno, al Documento di Economia e Finanza. La copertura della sterilizzazione Iva dovrebbe attuarsi attraverso la già annunciata manovra di agevolazioni fiscali  sulle imposte dirette, e di un previsto aumento di quelle in conto capitale. Non vi sarà, come per gli anni scorsi, finanziamento in deficit.

I rischi, secondo il Centro studi Confindustria, per la crescita dell’economia italiana sono dietro la porta, soprattutto in riferimento allo scenario globale, che ultimamente ha presentato serie ragioni d’incertezza e tante incognite. Le politiche protezionistiche e le recenti misure d’inasprimento sui dazi, portate avanti dal governo americano, sono motivo di preoccupazione, non solo in Italia, ma in tutta l’Unione europea (e oltre com’è noto). I riflessi di queste politiche economiche sul nostro export sono stati severi, e potrebbero essere causa di un ulteriore rallentamento dell’economia, qualora il conflitto commerciale in atto dovesse proseguire in modo spregiudicato.

Intanto è pesante, sempre secondo il CsC, la flessione della domanda estera, e la conclusione del ciclo positivo degli investimenti sul piano nazionale, dinamiche negative derivanti dalle condizioni d’incertezza in cui si muovono gli operatori economici, sia in ambito internazionale che interno. Sull’aumento rilevante riscontrato negli anni scorsi, s’inserisce poi “un aggiustamento fisiologico”.

La crescita a livello globale dell’export, rimane stabile e positiva nel biennio considerato, trainata anche dal crescente sviluppo delle maggiori economie emergenti. Nonostante le incertezze sui tanti fronti dello scenario internazionale, non si avvertono scosse che fanno pensare ad un’inversione del trend, ossia alla fine del ciclo di espansione globale. Incoraggianti i ritmi degli scambi, anche se ci sono da considerare i rischi al ribasso, proprio per le dinamiche insite negli scambi globali, dove entrano in merito le politiche protezionistiche degli Usa, oltre alle incognite fisse che riguardano le tensioni geopolitiche, fattori che mettono in gioco la stabilità, con annesse le ripercussioni sui mercati finanziari. Il rialzo dei tassi (da parte della Fed) potrebbe causare “turbolenze” finanziarie nei mercati emergenti.

Sullo sfondo di questo panorama economico globale, il CsC  opta per una revisione al ribasso sulle previsioni relative al 2018, per quel che riguarda l’export del Paese di beni e servizi (che incide per circa il 32% sul Pil). Dopo un 2017 all’insegna del boom nell’export, si assisterà ad una contrazione della domanda mondiale nel biennio considerato. Non accadeva dal 2013, ossia da quando il Paese stava imboccando la via della recessione. Si perderanno, in considerazione di queste valutazioni, consistenti quote di mercato.

Del resto, un primo segnale di questa inversione di tendenza nell’export, si è avuta nel primo trimestre del corrente anno. In conto sui dati negativi riscontrati, il rafforzamento del cambio dell’euro soprattutto nella seconda metà del 2017, e nei primi mesi del 2018. Un riflesso negativo deriva anche dalla contrazione degli scambi esteri dei paesi europei, che ha notevolmente penalizzato l’export italiano.

Si legge nel rapporto del CsC:

“L’Italia ne ha risentito per via della specializzazione in beni semilavorati e strumentali che rispondono più rapidamente a variazioni del ciclo. Comunque, l’andamento dell’export va valutato su un

periodo più lungo, data la normale volatilità degli scambi e considerato che nel 2017 l’espansione

è stata molto sostenuta”.

Secondo Confindustria, il Pil rallenta anche a causa del clima d’incertezza, “serve un’Italia forte in un’Europa forte”.

Come si è visto, Confindustria ha fatto il punto sullo stato dell’economia italiana,  in funzione degli scenari globali, del resto non si potrebbe prescindere, anche alla luce degli ultimi allarmi provenienti dalle risoluzioni della politica economica americana.

 

“Dove va l’economia italiana, e una proposta per l’Eurozona”, è stato dunque il tema dell’incontro organizzato dai rappresentanti degli imprenditori.

In evidenza, negli studi degli economisti di Confindustria, alcuni dati macro, tra i quali lo stato dell’occupazione, che è previsto in aumento di circa l’1,0% nel biennio 2018/19, con intensità inferiore rispetto al Pil.

Nei primi mesi del 2018 ha interrotto la crescita il lavoro a tempo indeterminato, mentre si rileva un considerevole aumento di quello a termine.

Il deficit si contrae ma troppo lentamente: “dal 2,3% del Pil nel 2017, all’1,9% dell’anno in corso, e all’1,4% nel prossimo.” Tenendo conto dell’annullamento della clausola di salvaguardia, per la quale, come si è accennato, andrà in compenso l’aumento delle imposte dirette e quelle in conto capitale.

 

Il Centro Studi Confindustria sostiene l’Europa e la sicurezza che rappresenta per il Paese: “un’opportunità per tutti i paesi membri, Italia in primis”, proprio per la vulnerabilità derivante dalla crescita troppo lenta, per ragioni di fluttuazioni del ciclo, e conseguenti turbolenze dei mercati finanziari. E’ necessario migliorare “questa” Europa, secondo gli economisti del Centro, ma allontanarsene sarebbe una follia.

 

Vincenzo Boccia, presidente della Confindustria, sostiene che è presto per giudicare le scelte del governo appena insediato, saranno i mercati, giudici severi, a esprimersi al riguardo. Intanto l’Italia è attualmente a rischio per la zona euro. Boccia fa diversi riferimenti al mercato del lavoro, e si riferisce con particolare preoccupazione ai contratti a termine: “non bisogna renderli più cari”.

 

Per quel che riguarda l’Ue, tante sono state le proposte del CsC, tutte volte all’integrazione dei paesi membri, alla luce del dibattito europeo, che vede dominante la visione tedesca e il suo rapporto di forza, in virtù della solidità della sua economia. E tuttavia, sostengono gli economisti, prima di richiedere una maggiore condivisione del rischio nell’area, è necessario operare e collaborare con serietà e rigore, per la riduzione stessa del rischio, responsabilità implicita per i paesi che presentano divergenze nei conti rispetto ai parametri previsti.

 

ANCORA UNA VOLTA I MERCATI RINGHIANO CONTRO I DAZI IMPOSTI DALL’ESTABLISHMENT USA

DI VIRGINIA MURRU

 

Le “incursioni” sui dazi imposti dal governo americano colpiscono ancora, ormai a livello globale, non si salva nessuno, dall’Europa all’Asia, a Wall Street: i mercati finanziari sono impietosi e rispondono per le rime alle insidie di destabilizzazione sul versante commerciale.
La minaccia sul fronte dei dazi riguarda ora l’import di automobili, comparto che verrà colpito del 20%, misure già peraltro annunciate le scorse settimane. Nemmeno l’Unione europea ha intenzione di subire passivamente questi ‘raid’ fortemente penalizzanti per l’Europa; le contromisure sarebbero in dirittura d’arrivo, c’è una vasta gamma di prodotti made in Usa, che subirà la legge del contrappasso in questo conflitto commerciale senza esclusione di colpi.
E’ stato il Wall Street Journal a darne l’annuncio, giustificando i provvedimenti del governo americano con l’intento di arginare lo strapotere della Cina nei settori dell’Hi- tech. Ci sono nuovi piani per contenere gli investimenti in aziende partecipate da azionisti cinesi. Restrizioni che non piacciono affatto al gigante delle economie emergenti..
E prima o poi si dovrà considerare il fatto che la Cina controlla ancora parte del debito americano. I cinesi continuano a ‘comprare’ il debito Usa: proprio nel mese di febbraio hanno acquistato Treasuries per un importo pari a 8,5 miliardi di dollari, portandosi dunque a quota 1.180 miliardi, e confermandosi pertanto il primo creditore degli States.
L’Amministrazione Trump non potrà prescindere a lungo da queste valutazioni.
Mentre all’inizio di luglio partiranno i dazi americani contro il dragone, sembra prossimo il ‘pacchetto’ di misure protezionistiche per colpire il settore automobilistico europeo, altra mossa avvertita dai mercati come un’insidia pericolosa.
Intanto la produzione di motociclette dirette verso il mercato dell’Ue, sarà portata fuori dagli States, lo ha dichiarato Harley-Davidson.
A risentire in borsa delle correnti contrarie che vengono da oltre Atlantico, sono soprattutto i settori azionari del tecnologico e dell’auto, risposte nella logica dei mercati, che hanno reagito con un’escalation di vendite.
A soffrire quindi sono i settori azionari dell’auto, tecnologici e finanza, mentre Cina e Unione Europea stanno valutando le contromisure da adottare. In Europa i paesi più colpiti sono Italia e Germania, ma anche a causa di un altro conflitto in corso, di matrice tutta europea: il braccio di ferro sui migranti.
Insomma, l’establishment di Donald Trump, con le scelte di politica economica spregiudicate, continua ad insidiare gli scambi commerciali, e nel mirino c’è soprattutto la Cina e l’Ue.
Oggi in borsa le recenti dichiarazioni del presidente Usa hanno avuto l’effetto di una tempesta, Piazza Affari è stata investita da queste raffiche d’instabilità, e il risultato è che il Ftse Mib cede il 2,44%. Lo spread riprende a salire, solo da due/tre settimane, con il raggiungimento della stabilità politica, aveva perso quota. Il differenziale di rendimento ora viaggia a 247 punti base.
Come si è accennato, i crolli si sono verificati un po’ ovunque, non solo nei listini europei; anche quelli asiatici hanno sofferto il clima assolutamente sfavorevole per le contrattazioni. Non ultima Wall Street, che cede l’1,4%, in piena sintonia con il trend globale. Giù dunque il Dow Jones, che lascia sul campo l’1,45%, il Nasdaq il 2,10%, lo S&P l’1,52%. Una sorta di boomerang per gli States.
L’euro si sta rafforzando sul biglietto verde.
La politica sui dazi non piace ai mercati, ma non siamo agli esordi, già da quando erano stati annunciati  quelli su acciaio e alluminio (misure che hanno preso avvio il primo giugno), le reazioni erano state forti, ora il clima di conflitto sul piano commerciale si fa più minaccioso, la conseguenza più ovvia è l’instabilità, l’incertezza, nebbia nei rivolgimenti politici dei prossimi mesi che si traduce in perdite ormai consistenti ovunque.

CROLLANO LE BORSE ASIATICHE DOPO L’ANNUNCIO DEI NUOVI DAZI CONTRO LA CINA

DI VIRGINIA MURRU
 
Un “dèjà vu” che i mercati non hanno gradito, era già accaduto il 23 marzo scorso del resto, dopo l’annuncio del presidente Usa d’introdurre i dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio, che avrebbero in particolare colpito quelle provenienti da Pechino.
 
Si ripropone lo stesso scenario, e non solo sulle piazze asiatiche e del Pacifico. In apertura di seduta anche Piazza Affari è in calo, effetto domino che perpetua una tendenza diventata norma per i mercati finanziari, i quali agiscono come obiettivi sensibili, su onde d’urto provenienti dalle scelte più incisive della politica economica. Incidono anche le recenti risoluzioni dell’Eurotower, che ha annunciato, alcuni giorni fa, lo stop al Quantitative Easing entro dicembre.
 
L’ultima incursione dell’establishment americano non è uno scherzo: i nuovi dazi colpiranno l’import dalla Cina per un valore di circa 200 miliardi di dollari, qualora i cinesi si azzardino a proteggere a loro volta le importazioni dagli States, attraverso contromisure.
 
Per il governo cinese, che ha minacciato ritorsioni, si tratta di un autentico “ricatto”, ma tant’è: Trump ha già dimostrato che gli interessi americani vengono prima dei rapporti diplomatici, prima della distensione nelle relazioni internazionali, prima del rischio di un conflitto commerciale.
I mercati lampeggiano in rosso, e reagiscono con perdite consistenti al clima d’instabilità proveniente dalla guerra commerciale tra Cina e Usa. A Piazza Affari il Ftse Mib sta cedendo l’1,44%, in rosso anche le altre piazze europee, ma i crolli più rilevanti si riscontrano nei mercati asiatici: Shanghai cede il 3,82%, Shenzhen il 5,30%, Hong Kong perde il 2,72%.
Il Nikkei ha chiuso la sessione con un calo dell’1,73%, sulla stessa linea Taiwan.
 
Diverso il clima a Wall Street, che non ha riportato grandi turbolenze dopo le dichiarazioni di Donald Trump. L’S&P ha registrato un lieve calo: -0,40%, e il Dow Jones -0,21%, il Nasdaq ha chiuso in positivo, sia pure lievemente.