“UE EQUAL PAY DAY”, PER RICORDARE CHE LE DONNE LAVORANO DUE MESI ALL’ANNO GRATIS

DI VIRGINIA MURRU
Non è esattamente una celebrazione, ma almeno, il 3 novembre, si rivolge lo sguardo verso l’altra metà del cielo, dove la “luce” giunge un po’ in diagonale, nel senso che i diritti non sono uguali all’altro “versante”: le donne, soprattutto in alcune aree del pianeta, sono ancora vite di serie ‘B’, e le disparità di trattamento rispetto al mondo maschile, sono veramente inconcepibili nel terzo millennio.
L’Ue allo scopo di favorire la parità di genere fra uomo e donna in ambito lavorativo, ha fissato nel calendario una data significativa, l’”Equal pay day”, che comincia proprio il 3 novembre; a partire da questo giorno, infatti, in media, la donna europea lavora gratis, fino al 31 dicembre.
Si parla della media europea, perché osservando la situazione di ciascun paese membro, ci troviamo davanti qualche sorpresa: per esempio le donne tedesche cominciano a lavorare gratis, a partire da metà ottobre, così come, accade alle donne in Estonia e Cecoslovacchia, queste lavoratrici prendono circa il 22% in meno rispetto agli uomini. Sorprendente (quasi un primato per i diritti civili) che le donne italiane invece, comincino a lavorare gratis da metà dicembre (fino al 31, periodo di riferimento).
Afferma il vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans, sostenuto dalla Commissaria Marianne Thyssen e Vera Jourova:
“Donne e uomini devono avere pari diritti, si tratta di un valore fondante dell’Unione europea. Nonostante questo le donne europee, in media, lavorano due mesi gratis rispetto ai loro colleghi, è una situazione inaccettabile, bisogna intervenire per tutelare le donne che lavorano.”
In media, le donne europee, secondo Eurostat, quanto a trattamento economico sul lavoro, prendono il 16,2% in meno rispetto agli uomini, e dunque a partire dal 3 novembre, lavorano gratis fino alla fine dell’anno. Se si volesse precisare meglio, per ogni euro che un uomo guadagna, la donna prende circa 16 centesimi in meno (in Italia, secondo i dati Eurostat, le donne prenderebbero invece il 5,3% in meno).
Questa data è diventata un simbolo, si spera di riscatto, Equal Pay Day, per indurre a riflettere, e soprattutto per restituire dignità e parità di diritti a tutte le donne che lavorano.
Le differenze sono comunque rilevanti, e parliamo dell’Occidente, dove i diritti civili e umani dovrebbero essere molto avanzati, e invece anche qui siamo ben lontani dal raggiungere il traguardo delle ‘pari opportunità’, sancite da princìpi giuridici contenuti nella Costituzione (e non solo in quella italiana).
Ben 3 articoli vi fanno infatti riferimento: il N. 3, il 37 e il 51.
Afferma l’Art. 3:
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
E potrebbe anche essere sufficiente ad eliminare qualsiasi forma di dubbio o discriminazione di genere, ma l’Art. 37 entra nello specifico, e recita:
“La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.
La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato.”
E infine è bene citare anche l’Art. 51:
“Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini.”
Eppure di fatto questi fondamentali princìpi della nostra Costituzione sono stati solo relativamente applicati, considerato che, ancora oggi, i risultati sono questi.
Si è detto che la parità di genere, anche in ambito lavorativo, è anche un diritto stabilito dell’Ue, e infatti, fin dalla sua istituzione, la Comunità europea, ha messo in rilievo l’importanza della parità di retribuzione, proprio come principio fondante, e sulla base di questa tutela ha promulgato una normativa che tende a garantire i medesimi diritti tra uomo e donna. Dunque stesse opportunità per l’accesso all’occupazione, condizioni di lavoro non discriminanti, diritto alla formazione professionale con gli stessi criteri dei colleghi maschi, e soprattutto attenzione per quel che concerne la protezione sociale, welfare..
A partire dal 1957, anno di fondazione della Comunità europea, troviamo nella normativa, un articolo che entra nello specifico, il N. 119 dei Trattati sostitutivi, che disciplina e sancisce il principio della parità di retribuzione tra lavoratori maschi e femmine, allorché svolgano lo stesso lavoro. Purtroppo, oggi sappiamo che non si è dato seguito a questi diritti fondamentali che caratterizzano una società evoluta sul piano sociale qual è quella europea.
Il concetto fu ripreso una ventina d’anni più tardi, ossia nel 1975, quando la Comunità europea emanò delle norme precise sulla parità di retribuzione, si trattava della Direttiva 75/117/CEE, che aveva il fine di ‘omologare’ il trattamento retributivo nell’ambito della legislazione degli stati membri. A questo intervento giuridico seguì un’altra Direttiva l’anno successivo, la 76/207/CEE, emanata dal Consiglio del 9 febbraio 1976, che riportava l’attenzione sulla parità di diritti nell’accesso al lavoro tra uomini e donne, formazione professionale e tutte quelle materie oggetto di discriminazione di genere, che restavano di fatto problematiche sociali ancora irrisolte.
Da allora le Direttive su questa materia sono state diverse, come quella del 1986 (e non certo l’ultima), ossia l’86/378/CEE, la quale ribadisce con eloquenza la necessità di stabilire il principio della parità di trattamento (richiamo in particolare al settore dei regimi professionali di sicurezza sociale, tutela della maternità, ecc.), e relativa applicazione da parte degli Stati membri, che dovevano, per ovvie ragioni, recepire la normativa.
Altri interventi di carattere normativo sono seguiti, ma siamo ancora qui, nel terzo millennio, a parlare e a scrivere di trattamento discriminatorio tra i due sessi, disparità di genere anche nell’ambiente di lavoro, ed è difficile essere ottimisti, pensare che nel volgere di pochi anni, alle donne, finalmente, nel lavoro saranno riconosciuti gli stessi diritti dei colleghi maschi.