IL MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA

MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA

 

Uno spettro s’aggira per l’Europa: – è lo spettro del comunismo1.

Tutte le potenze della vecchia Europa si alleano per dare santamente una spietata caccia a cotesto spettro: – e ossia il papa e lo czar, Metternich e Guizot, i radicali francesi e i poliziotti tedeschi.

Qual è il partito di opposizione, che i suoi avversarii al potere non abbiano colpito con la nota ingiuriosa di comunistico? e qual è il partito di opposizione, che alla sua volta non abbia ricambiata L’accusa, respingendo la infamante designazione del comunismo, O sugli elementi più avanzati della opposizione stessa, o su gli avversarii apertamente reazionarii?

Da questo fatto si viene a due conclusioni.

Il comunismo è oramai riconosciuto dalle potenze d’Europa quale un’altra potenza.

E tempo oramai che i comunisti espongano senz’altro innanzi a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro intenti, le loro tendenze e che allo spettro del comunismo contrappongano il manifesto del partito.

A tal fine dei comunisti di diversa nazionalità si son riuniti a Londra, e han redatto il manifesto, che qui segue, e che verrà alla luce in inglese, in francese, in tedesco, in italiano2, in fiammingo ed in danese.

1 «Non sono l’idea di repubblica e di democrazia che spaventino; è lo spettro del comunismo che tiene tanti animi dubbiosi e sospesi.» Da un articolo di Cavour apparso su Il Risorgimento del 6 marzo 1848; cfr. Camillo Cavour, Scrittìdi economia (1835-1850), Feltrinelli, Milano, l962, p. 320.

2 A questa traduzione italiana accenna Marx nello Herr Vogt (1860); tuttavia non se ne ha altra notizia.

 

  1. Borghesi e proletarii

La storia di tutta la società, svoltasi fin qui , è storia delle lotte delle classi.

Liberi e schiavi, patrizii e plebei, baroni e servi della gleba, maestri capi delle arti ed artigiani addetti alla compagnia, in una parola, oppressi ed oppressori, stettero continuamente in contrasto tra loro, e sostennero una lotta non mai interrotta, a volte palese a volte dissimulata; una lotta che è sempre finita, o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società, o con la totale rovina delle classi in contesa.

Nei periodi della storia anteriori al nostro, noi incontriamo quasi da per tutto una completa spartizione della società in ordini e ceti, e una minuta e varia gradazione delle posizioni sociali. Nell’antica Roma abbiamo i patrizii, i cavalieri, i plebei, gli schiavi; nel Medio-Evo i signori feudali, i vassalli, i maestri dei corpi, gli artigiani addetti alla compagnia, i servi della gleba, e per di più in ogni classe altre speciali gerarchie.

Questa moderna società borghese, sorta dalla rovina della società feudale, non ha già distrutte le opposizioni di classe. Essa ha soltanto introdotto nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta, sostituendole alle antiche.

Nondimeno quest’epoca nostra, quest’epoca della borghesia, presenta una notevole differenza rispetto alle altre, ed è che in essa le opposizioni di classe si son semplificate. L’intera società si va, e sempre di più in più, come scindendo in due campi nemici, in due classi direttamente opposte: la borghesia e il proletariato.

Dai servi del Medio-Evo procedettero i borghigiani ospitati nelle prime città, e da quelli si svolsero i primi elementi della borghesia vera e propria.

La scoverta dell’America, e la circumnavigazione dell’Africa, offersero alla borghesia, che veniva su, un nuovo terreno. Il mercato indiano e cinese, la colonizzazione dell’America, lo scambio con le colonie, l’aumento dei mezzi di scambio e delle merci, dettero impulso nuovo ed inaspettato al commercio, alla navigazione, all’industria, e insiememente favorirono il rapido sviluppo rivoluzionario in seno alla società feudale, che di già veniva sfasciandosi.

Da quel momento in poi il modo della produzione industriale propria del feudo, o della corporazione, non bastava più ai bisogni, che venian crescendo col crescere dei nuovi mercati. Subentrò la manifattura. Ai maestri delle corporazioni si venne sostituendo il medio ceto industriale: e la division del lavoro tra le diverse corporazioni cedette il posto alla division del lavoro per entro alle singole officine.

Ma i mercati crescevan di continuo; il bisogno si facea sempre maggiore. La manifattura non era sufficiente. Ed ecco che il vapore e le macchine rivoluzionano la produzione industriale. Alla manifattura subentrò la grande industria moderna, il posto del ceto medio industriale fu occupato dai milionarii dell’industria, dai capi di interi eserciti industriali, ossia dai moderni borghesi.

La grande industria ha messo effettivamente in essere quel mercato mondiale, che la scoverta dell’America avea predisposto. Il mercato mondiale ha procurato uno sviluppo oltre ogni misura al commercio, alla navigazione e alle comunicazioni per terra. Cotesto sviluppo reagì alla sua volta su la estensione della industria, e in quella medesima misura nella quale l’industria, il commercio, la navigazione e le ferrovie sono andate estendendosi, la borghesia s’è venuta sviluppando, ha aumentato i suoi capitali, e ha respinto indietro, allontanandole sempre più dai davanti della scena, quelle classi che eran residuo del Medio-Evo.

Noi vediamo, dunque, come la borghesia sia essa stessa il prodotto di un lungo processo di sviluppo, di una lunga serie di rivoluzioni nei modi della produzione e del traffico.

A ciascuna delle fasi di cotesto sviluppo corrispose un relativo progresso nell’ordine politico. Ceto oppresso sotto la signoria dei feudatarii, associazione armata e che si governa da sé nel comune, qui repubblica municipale, là terzo-stato che paga le imposte alla monarchia, e poi ai tempi della manifattura essa borghesia fa da contrappeso alla nobiltà nelle monarchie assolute, o in quelle limitate dalle diete, da per tutto pietra angolare delle grandi monarchie, da ultimo, col fermarsi e costituirsi della grande industria e del mercato mondiale, s’è impadronita in modo esclusivo del potere politico nel moderno stato rappresentativo. L’attuale potere politico dello stato moderno non è se non una giunta amministrativa degli affari comuni di tutta la classe borghese.

La borghesia ha avuto nella storia una parte essenzialmente rivoluzionaria.

Dovunque è giunta al dominio essa ha distrutto tutte quelle condizioni di vita, che eran feudali, patriarcali, idilliache. Essa ha distrutti senza pietà tutti quei legami multicolori, che nel regime feudale avvincevan gli uomini ai loro naturali superiori, e non ha lasciato fra uomo e uomo altri vincoli da quelli in fuori del nudo interesse, e dello spietato pagamento in contanti. Essa ha spento i santi timori dell’estasi religiosa, l’entusiasmo cavalleresco, e la sentimentalità del piccolo borghese dalle limitate abitudini, immergendo il tutto nell’acqua gelida del calcolo egoistico. Ha risolta la dignità personale in un semplice valore di scambio; ed alle molte e varie libertà bene acquisite e consacrate in documenti, essa ha sostituito la sola ed unica libertà del commercio, di dura e spietata coscienza. Al posto, in una parola, dello sfruttamento velato di illusioni religiose e politiche, essa ha messo lo sfruttamento aperto, senza pudori, diretto e brutale.

La borghesia ha spogliato della loro aureola le professioni, che per l’innanzi eran tenute per onorande e degne di rispetto. Essa ha fatto del medico, del giurista, del prete, del poeta, dello scienziato i suoi salariati.

La borghesia ha stracciato nel rapporto familiare il velo di commovente sentimentalismo riducendolo a un mero rapporto di denaro›.

La borghesia ha messo in chiaro come la brutale manifestazione della forza, che i nostri reazionarii ammirano nel Medio-Evo, avesse il suo appropriato complemento nella più dozzinale poltroneria. Essa per la prima ha dimostrato cosa possa l’attività umana. Essa ha creato ben altre maraviglie, che non le piramidi egiziane, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche; essa ha condotto ben altre imprese che non le migrazioni dei barbari o le crociate.

La borghesia non può esistere se non a patto di rivoluzionare di continuo gl’istrumenti della produzione, il che vuol dire i modi e rapporti della produzione, e ossia, in ultima analisi, tutto l’insieme dei rapporti sociali. La immutata conservazione dell’antica maniera del produrre era la prima condizione di esistenza delle antecedenti classi industriali. Cotesto continuato sovvertimento della produzione, cotesto ininterrotto scuotimento delle condizioni sociali, cotesto moto perpetuo, con la insicurezza che assidua l’accompagna, contraddistingue l’epoca borghese da tutte le altre che la precedettero. Tutti gli antichi e irrugginiti rapporti della vita, con tutto il loro seguito di opinioni e credenze ricevute e venerate per tradizione, si dissolvono; e i nuovi rapporti che subentrano passano fra le anticaglie, prima che abbiano avuto tempo di fissarsi e di consolidarsi. Tutto ciò che avea carattere di stabile e di rispondente a gerarchia di ceto, si svapora, tutto ciò che era sacro si profanizza, e gli uomini si trovano da ultimo a dover considerare le loro condizioni di esistenza con occhi liberi da ogni illusione.

Spinta dal bisogno di sempre nuovi sbocchi per le proprie merci, la borghesia corre, per invaderlo, tutto l’orbe terracqueo. Da per tutto le conviene di annidarsi e di stabilirsi, da per tutto le occorre di estendere le linee del commercio.

Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolitica la produzione e la consumazione di tutti i paesi. A gran cordoglio di tutti i reazionarii, essa ha tolto all’industria la base nazionale. Le antiche ed antichissime industrie nazionali furono, o sono, di giorno in giorno distrutte. Vengon soppiantate da industrie nuove, la cui adozione diviene question di vita o di morte per tutte le nazioni civili; da industrie, che non impiegan più le materie prime indigene, ma anzi adoperano quelle venute dalle più remote zone, e i cui prodotti si consumano non solo nel paese stesso, ma in tutte le parti del mondo. Ai bisogni, a soddisfare i quali bastavano un tempo i prodotti nazionali, ne succedono ora dei nuovi, che esigono i prodotti dei più remoti climi e paesi. All’isolamento locale e nazionale, per cui ciascun paese s’accontentava di sé stesso, succede un traffico multiforme e multilaterale, per cui le nazioni entrano in una condizione di interdipendenza. E come è dei prodotti materiali, cosi accade anche dei prodotti intellettuali. l prodotti intellettuali di ogni singola nazione divengono la proprietà comune di tutte. L’esclusivismo nazionale diviene sempre più impossibile, e dalle molte letterature nazionali e locali vien fuori una letteratura mondiale.

Per via del rapido perfezionamento di tutti gli istrumenti della produzione, e per le comunicazioni divenute infinitamente più facili, essa trascina per forza nella corrente della civiltà anche le nazioni più barbare. I bassi prezzi delle sue merci son la pesante artiglieria, con la quale atterra tutte le muraglie cinesi, e con la quale ha fatto capitolare i barbari più induriti nell’odio dello straniero. Costringe tutte le nazioni ad adottare le forme della produzione borghese, se pure non voglian perire, e le forza a ricevere ciò che dicesi civilizzazione, e ossia a farsi borghesi. A dirla in una sola espressione, crea un mondo a immagine e similitudine sua.

La borghesia ha fatto della città la signora assoluta della campagna. Ha creato delle città enormi; a confronto della popolazione rurale ha grandemente accresciuta la popolazione urbana, e così ha sottratta buona parte della popolazione stessa all’idiotismo della vita contadinesca. Come ha assoggettata la campagna alla città, cosi ha reso dipendenti dai popoli civili quelli barbarici o semibarbarici, e i popoli prevalentemente contadineschi ha sottoposto a quelli a predominio borghese, e l’Oriente all’Occidente.

La borghesia via via sempre più sopprime il frazionamento e lo sparpagliamento dei mezzi di produzione, del possesso e della popolazione. Essa ha agglomerata la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione, ha raccolta in poche mani la proprietà. Ne resultò come necessaria conseguenza la centralizzazione politica. Delle provincie indipendenti, ricollegate appena fra loro da vincoli federali, delle provincie con interessi difformi e con leggi, governi e dogane proprie, furono raccolte e ridotte in nazione unica, con governo unico, con legge unitaria, con un solo e collettivo interesse di classe, e con una sola linea doganale.

Nel suo dominio di classe, che dura appena da un secolo, la borghesia ha messo in essere delle forze produttive, il cui numero e la cui portata colossale supera quanto avesser mai fatto le passate generazioni tutte insieme. Aggiogamento delle forze naturali, le macchine, l’applicazione della chimica alla industria e all’agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, il telegrafo elettrico, la messa a cultura d’interi continenti, i fiumi resi navigabili, delle popolazioni intere

sorte quasi miracolosamente dal suolo: – ma quale dei secoli antecedenti avrebbe mai presentito che tali forze produttive giacessero latenti in seno al lavoro sociale?

Ecco quel che abbiam visto: i mezzi di produzione e di scambio valsi di fondamento allo sviluppo della borghesia, furon prodotti per entro alla società feudale. A un certo punto dello sviluppo dei mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava, ossia l’organizzazione feudale dell’agricoltura e della manifattura, o, in una parola, i rapporti feudali della proprietà, non corrispondevano più alle forze produttive venute a pieno sviluppo. Quelle condizioni, in luogo di favorire, impedivano la produzione. Divennero come delle catene. Bisognava spezzarle, e furono spezzate.

Subentrò la libera concorrenza, con la congrua costituzione sociale e politica, e con la signoria economica e politica della borghesia.

Sotto i nostri occhi si va compiendo un processo analogo. Le condizioni borghesi della produzione e dello scambio, i rapporti della proprietà borghese, o, in una sola espressione, la moderna società borghese, che ha evocato come per incanto cosi colossali mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che si trovi impotente a dominare le potenze sotterranee che lui stesso abbia evocate (questo appare come un chiaro riferimento alla ballata L’apprendista stregone di Wolfgang Goethe).

Già da qualche decennio la storia della industria e del commercio è ridotta ad essere la storia della ribellione delle forze moderne della produzione contro i rapporti moderni della produzione, e ossia contro i rapporti moderni di proprietà, che son le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basta di ricordare le crisi commerciali, le quali, col fatto del ripetersi periodicamente, sempre più minacciosamente mettono in forse l’esistenza di tutta la società borghese.

Ogni crisi distrugge regolarmente, non solo una gran fatta di prodotti, ma molte di quelle forze produttive, che erano state di già create.

Una epidemia, che in ogni altra epoca storica sarebbe parsa un controsenso, una epidemia nuova si rivela nelle crisi, ed è quella della soprapproduzione. La società ricade inaspettatamente in uno stato transitorio di vera barbarie. Si direbbe che la carestia, o una guerra generale di sterminio, l’abbia privata dei mezzi d’esistenza: il commercio e l’industria paiono annientati, e perché? Perché la società ha troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive di cui essa dispone, non giovan più a favorire lo sviluppo dei rapporti della proprietà borghese; anzi son troppo potenti per tali rapporti, che divengono per ciò degl’impedimenti; e tutte le volte che esse forze superano l’impedimento mettono in disordine l’intera società, e minacciano l’esistenza della proprietà borghese. Le condizioni del mondo borghese son diventate oramai troppo anguste per contenere la ricchezza, che esse stesse producono.

Per quali vie riesce la borghesia a vincere le crisi? Per un verso col farsi imporre dalle circostanze la distruzione di una grande quantità di forze produttive; e per un altro verso con la conquista di nuovi mercati, e col più intenso sfruttamento dei già esistenti. Per che via, dunque? Per quella di preparare nuove, più estese e più formidabili crisi, e di diminuire i mezzi per ovviare alle crisi future.

Quelle stesse armi, per mezzo delle quali la borghesia riuscì ad abbattere il feudalismo, si rivolgono ora contro di essa.

Ma la borghesia non ha soltanto ammannito le armi, che devono recarle la morte; perché essa ha anche prodotto gli uomini, che quelle armi han da portare, e sono gli operai moderni, i proletaríi.

Commisuratamente allo svolgersi della borghesia, ossia del capitale, di pari passo si svolge il proletariato, ossia la classe degli operai moderni, i quali intanto vivono in quanto trovan lavoro, e intanto trovan lavoro in quanto il lavoro loro accresce il capitale. Questi operai, che son costretti a vendersi giorno per giorno, non sono se non una merce come tutte le altre, e perciò una merce soggetta a tutte le vicende della concorrenza, e a tutte le fluttuazioni del mercato.

Con l’estendersi dell’uso delle macchine, e per effetto della division del lavoro, l’attività dell’operaio ha perduto ogni carattere d’indipendenza, e per ciò stesso ogni attrattiva. L’operaio diventa un semplice accessorio della macchina, né gli si chiede altro, dalla più semplice e dalla più monotona operazione in fuori, la quale del resto si apprende in assai breve tempo. Il costo dell’operaio si limita in conseguenza ai semplici mezzi di sussistenza, che gli occorrono per vivere, e per propagare la sua razza. Ora si sa che il prezzo d’ogni merce, compreso il lavoro, è eguale al costo di produzione; e per ciò a misura che il lavoro si fa più repugnante, il salario discende. E non basta; ché, anzi, a misura che l’uso delle macchine e la division del lavoro vanno crescendo, cresce la quantità del lavoro, sia per il prolungarsi delle ore di lavoro, sia per l’aumento del lavoro richiesto in una data unità di tempo, o sia per l’acceleramento delle macchine.

L’industria moderna ha trasformato la piccola officina del patriarcale maestro d’arte nella grande fabbrica del capitalista industriale. Delle masse di operai addensate nelle fabbriche ricevono una organizzazione militare. Come soldati semplici della industria vengono sottoposti ad una completa gerarchia di ufficiali e di sottufficiali. Non sono soltanto gli schiavi della classe borghese e dello stato borghese, perché son tutti i giorni e tutte l’ore gli schiavi della macchina, e del vigilatore, e soprattutto del singolo padrone della fabbrica. Cotesto dispotismo è tanto più misero, odioso, esasperante, in quanto che professa di non avere per obiettivo se non il semplice profitto.

Per quanto meno di abilità e di forza vien richiesto al lavoro, e ossia per quanto l’industria moderna sempre più si svolge, tanto più riesce cosa facile di sostituire al lavoro maschile quello delle donne.

Le differenze di sesso e di età non hanno oramai importanza sociale per la classe operaia. Non c’è che istrumenti di lavoro, varii di prezzo secondo il sesso e l’età.

Non appena l’operaio abbia finito di subire lo sfruttamento del fabbricante, ed abbia toccato il salario in contanti, eccolo a diventar subito preda degli altri membri della borghesia, il padron di casa, il bottegaio, il prestatore a pegno.

Quelle che furono fino ad orale piccole classi medie dei piccoli industriali, negozianti e rentiers (benestanti, coloro che vivono di una piccola rendita), degli artigiani e dei contadini proprietarii, finiscono per discendere al livello del proletariato; parte perché il piccolo capitale di cui dispongono non è sufficiente all’esercizio della grande industria, e quindi nella concorrenza coi grandi capitalisti soccombe; e parte perché le loro attitudini e abitudini tecniche perdon di valore al confronto coi nuovi metodi di produzione.

Ed ecco come il proletario si va reclutando da tutte le classi della popolazione.

Il proletariato percorre diverse fasi di evoluzione. La sua lotta contro la borghesia comincia dalla sua nascita.

Dapprima lottano un per uno i singoli operai, poscia gli operai di una sola fabbrica, e in seguito tutti gli operai di una data arte, in un dato luogo, e contro quel singolo borghese che direttamente li sfrutta. Non si limitano a rivolgere i loro attacchi contro il modo della produzione borghese, mali dirigono contro gli stessi istrumenti della produzione: distruggono le merci straniere, che fan loro concorrenza, infrangono le macchine, incendiano le fabbriche (tali fenomeni fecero la loro prima violenta apparizione nel 1811 a Nottingham, estendendosi ben presto ai distretti vicini; promossi da un certo Ned Lud, agitatore operaio, da cui ricavarono la denominazione di Movimento dei Luddisti, essi proseguirono fino al 1816, quando vennero definitivamente repressi. Rientrano in quel clima di tensione e di miseria che gravò sull’Inghilterra per la guerra e il blocco napoleonico prima e per i dazi in seguito), e si sforzano di riacquistare la perduta posizione dell’artigiano medioevale.

In cotesto primo grado dello sviluppo gli operai formano come una massa incoerente dispersa per tutto il paese, e che le ragioni della concorrenza tengono sparpagliata. Se qualche volta gli operai si raccolgono in massa compatta, ciò non è dovuto alla lor propria e spontanea azione, ma all’azione della borghesia raccolta in fascio, la quale per raggiungere i suoi proprii fini politici deve mettere in moto l’intero proletariato, e si trova ancora in grado di riuscirvi. In cotesta prima fase i proletarii non combattono i loro nemici, mai nemici dei loro nemici, e cioè gli avanzi della monarchia assoluta, i proprietarii fondiarii, i borghesi non industriali, i piccoli borghesi. Tutta l’azione storica è nelle mani della borghesia, ed ogni vittoria è vittoria sua.

Ma sviluppandosi l’industria, il proletariato non solo cresce di numero, ma si addensa in grandi masse, ond’è che la forza gli va crescendo, e con la forza la coscienza di essa. Gli interessi e i modi di vivere dei proletarii si vanno di giorno in giorno riavvicinando ad un tipo comune, perché la macchina cancella sempre di più le differenze del lavoro, e fa discendere quasi da per tutto il salario allo stesso livello. Per la concorrenza che cresce fra i borghesi, e per le crisi del commercio che da ciò resultano, il salario degli operai diventa, sempre più incerto; l’incessante miglioramento delle macchine, che diviene sempre più rapido, rende sempre più precaria tutta la condizione di vita dell’operaio; i conflitti fra operai e borghesi singoli vanno sempre più assumendo i caratteri di collisioni fra due classi. Ed è cosi che gli operai cominciano a fare delle coalizioni contro i borghesi, riunendosi per difendere i loro salarii. Fondando perfino delle associazioni permanenti (la prima di esse fu naturalmente clandestina, suo animatore fu Thomas Hardy [1752-1832]), per trovarsi provveduti dei mezzi di esistenza durante le lotte eventuali. Qualche volta la lotta diventa sommossa.

Di tanto in tanto gli operai vincono: ma è vittoria passeggiera. Il vero e proprio resultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma è la sempre crescente solidarietà dei lavoratori. Cotesta solidarietà è agevolata dai mezzi di comunicazione, che la grande industria ha bisogno di far crescere, e che pur riavvicinano gli operai di località diverse. Basta cotesta congiunzione, perché le molte e varie lotte locali di carattere omogeneo si raccolgano e concentrino in una sola lotta nazionale e di classe. Ma ogni lotta di classe è ima lotta politica: – e la unione per la quale occorrevano al borghese del Medio-Evo, con le sue strade vicinali, dei secoli di lavoro, viene ora in pochi anni a maturità, dato l’uso delle vie ferrate.

La organizzazione del proletariato in classe, e quindi in partito politico, è di continuo spezzata dalla concorrenza degli operai in fra loro stessi. Ma insorge sempre e di nuovo, più poderosa e più compatta. Essa forza al riconoscimento di certi interessi degli operai per via della legge (riferito ad una legge che venne votata dal parlamento nel 1847), perché s’avvantaggia delle discordie intestine delle diverse frazioni della borghesia. Cosi è stato ‘per la legge delle dieci ore di lavoro in Inghilterra°.

I conflitti in seno alla vecchia società favoriscono in genere in molti modi lo sviluppo progressivo del proletariato. La borghesia è di continuo in lotta, innanzi tutto e da principio con L’aristocrazia, poi più tardi con quelle parti della borghesia stessa, gl’interessi delle quali si trovano in conflitto col progresso dell’industria; e poi sempre e di continuo con la borghesia dei paesi stranieri. In tutte coteste lotte si trova nella necessità di appellarsi al proletariato, e di giovarsi del suo concorso, trascinandolo entro al moto politico. È essa stessa, dunque, che offre al proletariato gli elementi della sua propria cultura, il che vuol dire poi che gli offre le armi contro di sé stessa.

Accade inoltre, come abbiamo già detto, che, per effetto dei progressi dell’industria, intere frazioni della classe dominante, o precipitano nella condizione del proletariato, o sono per lo meno minacciate nella loro esistenza. Queste frazioni stesse recano al proletariato dei molteplici elementi di coltura.

Infine, quando la lotta di classe sta per venire al momento decisivo, il disgregamento della classe dominante per entro alla vecchia società assume un carattere così violento ed aspro, che una piccola parte della classe dominante stessa, abbandonando i suoi si allea alla classe rivoluzionaria, ossia a quella classe che ha nelle mani l’avvenire. E come già un tempo una parte della nobiltà passò dal lato della borghesia, cosi ora una parte della borghesia si unisce al proletariato, e segnatamente una parte degli ideologi borghesi, che son giunti ad intendere teoreticamente il tutto del movimento storico.

Di tutte le classi che presentemente stan di contro alla borghesia, il proletariato solo costituisce una classe rivoluzionaria. Le altre classi si corrompono e periscono sotto Fazione della grande industria, mentre il proletariato è e rimane il più genuino prodotto di essa.

I ceti medii, e ossia il piccolo industriale, il piccolo negoziante, l’artigianato, il contadino piccolo possidente, tutti costoro combattono la borghesia sì, ma per salvare dalla rovina l’esistenza loro di ceti medii appunto. E sono per di più reazionarii, e si provano a far girare indietro la ruota della storia. E se sono rivoluzionarii diventan tali in vista della loro prossima caduta nella massa del proletariato; e cioè non difendono i loro interessi presenti, ma difendono i loro interessi futuri, e cioè dire che abbandonano il loro attuale punto di vista per mettersi in quello del proletariato.

Quanto all’insieme degli straccioni e della canaglia (questa parola in tedesco è Lumpenproleturiat, oggi comunemente tradotta con «sottoproletariato»), che è ciò che rappresenta la putrefazione passiva degli strati infimi della società esistente, può darsi che qua e là, e cioè in parte, possa essere trascinato, dentro al movimento di una rivoluzione proletaria, ma il suo abituale genere di vita lo rende più disposto a farsi comprare, e a farsi mettere in servizio delle mene reazionarie.

Le condizioni di esistenza della vecchia società son come distrutte nelle condizioni di esistenza del proletariato. Il proletariato è senza proprietà; i suoi rapporti con la moglie e coi figliuoli non hanno più nulla di comune coi rapporti borghesi della famiglia; il moderno lavoro industriale, la moderna soggezione al capitale, che è la stessa in Francia come in Inghilterra, in Austria come in Germania, lo ha spogliato d’ogni carattere nazionale. Le leggi, la morale, la religione diventan per esso tanti pregiudizi borghesi, dietro ai quali si nascondono altrettanti interessi borghesi.

Tutte le classi, che fino ad ora s’impossessarono del potere, cercaron sempre di consolidare la posizione raggiunta, con l’assoggettare la società tutta intera alle condizioni del loro particolare modo di acquisizione. I proletarii, invece, solo per una via possono impossessarsi delle forze produttive sociali, ed è quella di abolire il modo col quale essi conseguiscono un provento, il che importa che si abolisca tutto l’attuale sistema di appropriazione. I proletarii non han nulla di proprio da assicurare, essi han solo da abolire ogni sicurtà privata, ed ogni privata guarentigia.

Tutti i movimenti avvenuti fin qui furon di minoranze, o nell’interesse delle minoranze. Il movimento proletario è il movimento spontaneo della gran maggioranza, nell’interesse della gran maggioranza.

Il proletariato, infimo strato della società attuale, non può sollevarsi, non può levarsi ritto, senza che tutti i sovrapposti strati della società ufficiale vadano in frantumi.

Non quanto all’intimo fondo, ma di certo quanto alla forma, la lotta del proletariato con la borghesia riveste alle prime un carattere nazionale. Gli è naturale che in prima il proletariato di ciascun paese la faccia finita con la sua propria borghesia.

Toccando a grandi tratti delle fasi generali dello sviluppo del proletariato, noi abbiam seguita la storia della più o meno occulta guerra civile che travaglia la società attuale, fino al momento che la lotta stessa si trasmuti in aperta rivoluzione, e che il proletariato stabilisca il suo dominio con la violenta rovina della borghesia.

La società, come abbiamo già visto, ha poggiato fino ad ora su la opposizione delle classi degli oppressi e degli oppressori. Ma, per potere opprimere una classe, bisogna pure assicurarle delle condizioni entro alle quali le sia dato di vivere almeno la misera vita degli schiavi. Il servo della gleba giungeva, in piena feudalità, a farsi faticosamente membro del comune, come il piccolo borghese protetto raggiungeva il grado di pieno borghese sotto il dominio dell’assolutismo feudale. L’operaio moderno, invece, anzi che salir di grado coi progressi dell’industria, discende sempre più in basso, e perfino al di sotto delle condizioni della sua propria classe. L’operaio diventa il povero, e il pauperismo si sviluppa più rapidamente che non la popolazione o la ricchezza. Gli è dunque da tutto ciò manifesto, che la borghesia è incapace di rimanere più a lungo nella posizione di classe dominante nella società, e d’imporre alla società come suprema legge le sue condizioni di esistenza, in quanto essa è classe. Essa è incapace di regnare, perché essa non è atta ad assicurare ai suoi schiavi la elementare esistenza nemmeno nei limiti della stessa schiavitù, e perché essa è costretta a farli discendere a tal condizione, da doverli poi nutrire, anzi che esserne nutrita. La società non può più vivere sotto al suo dominio; il che viene a dire, che la sua esistenza è incompatibile con quella della società.

È condizione essenziale alla esistenza e al dominio della classe borghese questa, che la ricchezza, cioè, si accumuli nelle mani dei privati, e che il capitale si formi e si aumenti: – ora è condizione del capitale il lavoro a salario. Questo riposa esclusivamente su la concorrenza in fra gli operai. Il progresso dell’industria, del quale la borghesia è come l’agente passivo, va intanto sostituendo all’isolamento degli operai, risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria per via dell’associazione. Lo sviluppo della grande industria va togliendo di sotto ai piedi della borghesia il terreno, sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa innanzi tutto produce i suoi proprii becchini. La rovina della borghesia e la vittoria del proletariato son del pari inevitabili.

  1. Proletarii e comunisti

Cosa sono i comunisti per rispetto ai proletarii in generale?

I comunisti non costituiscono un partito a sé, di fronte agli altri partiti operai.

Essi non hanno interessi proprii, che sian distinti da quelli del proletariato, nel suo insieme.

Non statuiscono dei principii a parte, sui quali vogliano poi modellare il movimento proletario.

I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletarii solo in questo, e cioè: che essi, in prima, date le differenti lotte nazionali dei proletarii, mettono in rilievo e fanno valere quei comuni interessi del proletariato tutto intero, che sono appunto indipendenti dalla nazionalità; e che essi, d’altra parte, nelle diverse fasi di sviluppo che la lotta fra il proletariato e la borghesia va percorrendo, rappresentano costantemente l’interesse del movimento complessivo.

I comunisti son dunque, in pratica, quella frazione di tutti i partiti operai di tutti i paesi, che è la più decisa, e che più spinge ad avanzare: ed essi poi s’avvantaggiano teoreticamente su la rimanente massa del proletariato per via dell’intendimento netto che hanno, così delle condizioni e dell’andamento, come dei resultati generali del movimento proletario.

L’intento prossimo dei comunisti è quel medesimo, che è proprio a tutti gli altri partiti proletarii: formazione del proletariato in classe, rovina della signoria borghese, conquista del potere politico da parte del proletariato.

Gli enunciati teoretici dei comunisti non poggiano punto sopra idee o principii, che questo, o quello frai rinnovatori del mondo abbia escogitati o scoverti.

Quegli enunciati son soltanto la espressione generalizzata delle condizioni di fatto di una lotta di classi che realmente esiste, e ossia di un movimento storico, che si svolge sotto ai nostri occhi. L’abolizione dei rapporti di proprietà fino ad ora esistiti non è la nota veramente caratteristica del comunismo.

Tutti i rapporti di proprietà andaron sempre soggetti a storiche vicende, e ad una continua trasformazione.

La rivoluzione francese, ad esempio, abolì la proprietà feudale in favore della proprietà borghese.

Ciò che caratterizza il comunismo non è l’abolizione della proprietà in genere, ma è l’abolizione della proprietà borghese.

Ma la moderna proprietà privata borghese è l’ultima e la più perfetta espressione di quella forma di produzione e di appropriazione, che poggia su gli antagonismi di classe, e su lo sfruttamento degli uni per opera degli altri.

E in questo senso i comunisti possono compendiare la loro dottrina in questa unica espressione: abolizione della proprietà privata.

È stato mosso rimprovero a noi comunisti, di voler noi abolire la proprietà personalmente acquisita per via di penoso lavoro: quella proprietà che dicesi costituisca il fondamento di ogni libertà, di ogni attività, e della indipendenza dell’individuo.

Proprietà acquistata col penoso lavoro, e individualmente meritata! Parlate voi forse della proprietà del piccolo borghese, o del piccolo possidente contadino, che fu anteriore alla proprietà borghese?

Noi quella non abbiamo bisogno di abolirla; ché lo sviluppo dell’industria l’ha già tolta di mezzo, o è su la via di distruggerla.

O parlate voi, invece, della moderna proprietà privata borghese?

O che il lavoro a salario, il lavoro del proletario, crea esso forse della proprietà per il proletario stesso? In nessun modo. Quel lavoro a salario non genera che capitale, ossia genera la proprietà che sfrutta il lavoro a salario, e che può accrescersi se non a patto di generare nuovo lavoro a salario, da sfruttare di bel nuovo. La proprietà, quanto alla sua forma presente, si muove entro la opposizione fra capitale e lavoro a salario. Esaminiamo i due termini di tale antinomia.

Esser capitalista non vuol dire soltanto che si occupi una semplice posizione privata, ma che anzi si tiene una posizione sociale nel sistema della produzione. Il capitale è un prodotto collettivo, e non può esser messo in movimento se non per l’attività concorrente di molti membri della società, e poi, in ultima istanza, solo per mezzo dell’attività combinata di tutti i membri della società stessa.

Il capitale non è una potenza personale: esso è una potenza sociale.

Se il capitale, dunque, vien trasformato in proprietà comune, che appartenga a tutti i membri della società, non avviene già perciò che una proprietà personale venga a trasformarsi in una proprietà sociale. Gli è solo il carattere sociale della proprietà che si cambia. Essa perde il carattere di proprietà di classe.

Veniamo al lavoro a salario.

Il prezzo medio del lavoro salariato è il minimo del salario, ossia la somma dei mezzi di esistenza occorrenti per mantenere in vita l’operaio in quanto è operaio. Ciò, dunque, che l’operaio salariato, mediante l’attività sua, fa suo, basta solo a mantenere e a riprodurre la sua magra esistenza. Cotesta appropriazione personale dei prodotti del lavoro, che è indispensabile alla conservazione e riproduzione della vita, noi non vogliamo punto abolirla; essa non reca alcun profitto netto, che dia potere sul lavoro altrui. Noi vogliamo soltanto abolire il tristo e misero modo di cotesta appropriazione, per cui l’operaio vive solo per aumentare il capitale, e quel tanto vive che è richiesto dall’interesse della classe dominante.

Nella società borghese il lavoro vivo è soltanto un mezzo per aumentare il lavoro accumulato. Nella società comunista il lavoro accumulato è soltanto un mezzo per rendere più largo, più ricco, più progredito il modo di esistenza dei lavoratori.

Nella società borghese il passato domina in sul presente, nella società comunistica il presente sarà signore del passato. Nella società borghese il capitale è personale ed indipendente mentre l’individuo operante è privo d’indipendenza e di personalità.

Ora l’abolizione di tale stato di cose vien detta dalla borghesia abolizione della personalità e della libertà. Ed a ragione. Prima si tratta per fermo di abolire la personalità, la indipendenza e la libertà del borghese.

Sotto il nome di libertà ora, per entro agli attuali rapporti borghesi della produzione, s’intende il libero commercio, e il libero comprare e vendere.

Caduto il mercantare, cade anche la libertà del mercantare. Le frasi risonanti del libero trafficare e mercanteggiare, come tutte le altre vanterie liberalesche della nostra borghesia, hanno in genere un qualche senso solo per rispetto e in contrapposto all’intralciato traffico ed alla vincolata cittadinanza del Medio-Evo, ma non ne hanno alcuno rispetto all’abolizione comunistica del commercio, delle forme borghesi della produzione, e della borghesia stessa.

Voi raccapricciate all’idea che noi vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nella società vostra attuale la proprietà fu già abolita per nove decimi dei membri suoi: e la proprietà esiste solo in quanto non esiste per quei nove su dieci. Voi dunque ci rimproverate che noi vogliamo abolire una forma di proprietà, la quale suppone come sua indispensabile condizione il tener privi di ogni proprietà il gran numero dei membri della società.

Voi ci rimproverate, insomma, di volere abolire la proprietà vostra. Senza dubbio, e per fermo, ciò noi vogliamo.

Dal momento che il lavoro non si presti più a lasciarsi trasformare in capitale, in danaro, in rendita della terra, ossia, a farla breve, non si presti più a farsi trasformare in una forza sociale monopolizzabile: il che vuol dire dal momento che la proprietà personale non può esser più trasformata in proprietà borghese, da quel momento voi dichiarate che la persona rimane soppressa.

Voi, dunque, confessate, che sotto al nome di persona non sia da intendere se non il borghese, ossia il proprietario borghese. E questa persona deve essere, non c’è dubbio, soppressa.

ll comunismo non toglie ad alcuno la facoltà di appropriarsi i prodotti sociali, ma toglie solo la facoltà di giovarsi di tale appropriazione per recare in soggezione il lavoro altrui.

Fu mossa questa obiezione, che, abolita che fosse la proprietà privata, cesserebbe ogni impulso di attività, e una generale inerzia invaderebbe il mondo.

Se tal ragionamento reggesse, da un pezzo già la società borghese avrebbe dovuto andare in rovina per effetto della indolenza; poiché quelli che in essa lavorano non raccolgono profitto, e quelli che in essa profittano non lavorano. Tutta la grave obiezione si riduce a questa tautologia: non c’è più lavoro a salario là dove non sia più il capitale.

Tutte coteste obiezioni, come furon mosse alla forma comunistica del produrre e dell’appropriarsi i prodotti materiali, così furono anche rivolte contro la produzione ed appropriazione dei prodotti intellettuali. Quello stesso borghese il quale ritiene, che, cessando la proprietà di classe, cessi la produzione, afferma del pari che cessando la coltura di classe la coltura tutta perirebbe.

La coltura, la cui perdita si rimpiange, non è per la maggior parte degli uomini se non l’avviamento a diventare delle macchine belle e buone.

Ma astenetevi dal discutere con noi, giacché voi applicate all’abolizione della proprietà borghese i vostri criterii borghesi della libertà, della coltura, del diritto e cosi via. Le vostre idee sono anch’esse un prodotto dei rapporti borghesi della proprietà e della produzione, come il vostro diritto non è se non il volere della vostra classe elevato a legge, un volere il cui contenuto è già dato dalle condizioni materiali d’esistenza della vostra stessa classe.

Cotesta interessata concezione, che vi fa elevare al grado di leggi eterne della natura e della ragione quei vostri rapporti della proprietà e della produzione, che son nati in verità storicamente nel corso della produzione stessa, voi l’avete di comune con tutte le classi dominanti che già perirono. Ciò che voi intendete ed ammettete per la proprietà antica, ciò che voi riconoscete per la proprietà feudale, voi non siete più in grado d’intenderlo e di riconoscerlo quando si tratti della proprietà borghese!

Ma volere abolire la famiglia! Perfino i più avanzati fra i radicali s’indignano per tale obbrobrioso proposito dei comunisti, Su che cosa riposa l’attuale famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno personale. Non esiste nel suo pieno sviluppo se non per la sola borghesia; ma essa trova il suo complemento nella forzata mancanza della vita di famiglia presso i proletarii, e nella prostituzione pubblica.

La famiglia del borghese cadrà naturalmente col venir meno di tale complemento: e famiglia borghese e suo complemento spariranno con lo sparire del capitale.

Voi ci rimproverate di voler noi abolire lo sfruttamento dei fanciulli da parte dei genitori? Noi questo delitto lo confessiamo volentieri.

Ma voi dite che noi infrangiamo i più sacri legami, perché alla educazione domestica noi sostituiamo quella sociale.

Ma la vostra educazione non è anch’essa determinata dalla società; e cioè dalle condizioni sociali, in mezzo alle quali voi educate, e dall’intervento più o meno diretto od indiretto della società stessa, per mezzo della scuola? Non sono i comunisti che inventino l’azione della società su l’educazione: – essi ne mutano soltanto il carattere, e sottraggono l’educazione all’influsso della classe dominante.

Le educazioni borghesi su la famiglia, su la educazione, e sui dolci legami che uniscono i figliuoli ai genitori, divengono sempre più nauseanti quanto più, per effetto della grande industria, i legami di famiglia si van perdendo del tutto trai proletarii, e i fanciulli si trasformano in articoli di commercio e in istrumenti di lavoro.

Ma voi comunisti, così grida in coro la borghesia tutta intera, voi volete introdurre la comunanza delle donne.

Il borghese non vede nella moglie se non un semplice istrumento di produzione. Ora nel sentire che gli istrumenti di produzione saranno sfruttati in comune, esso non può fare a meno di pensare, che la stessa sorte dell’uso in comune debba toccare anche alle donne. E non capisce punto, che si tratta precisamente di togliere alla donna il carattere di un istrumento di produzione.

Del resto non si dà nulla di tanto grottesco, quanto l’orrore da moralisti raffinati, col quale i nostri borghesi riguardano la pretesa comunanza delle donne, che avrebbe presso i comunisti carattere ufficiale. I comunisti non han per davvero bisogno d’introdurre la comunione delle donne, perché questa c’è stata quasi sempre.

I nostri borghesi, non paghi di avere a loro disposizione le mogli e le figlie dei loro proletarii, usano – per passar sopra qui alla prostituzione ufficiale – di tenere per loro principalissimo spasso quello della mutua seduzione delle consorti loro.

Il matrimonio borghese è in verità la comunanza delle donne. Tutto al più si potrebbe muovere questo rimprovero ai comunisti, che, essi, cioè, vogliono sostituire ad una comunione delle donne dissimulata con ipocrisia, un’altra che sarebbe ufficiale e sincera. Ma si capisce poi del resto, che aboliti che fossero i presenti rapporti della produzione, sparirebbe del pari la presente comunanza delle donne, che da quei rapporti deriva, e ossia la prostituzione ufficiale e la non ufficiale.

I comunisti vengono inoltre accusati di voler distruggere la patria, – la nazionalità.

Gli operai non hanno patria. Non si può toglier loro ciò che non hanno. Ma come il proletariato d’ogni paese deve innanzi tutto conquistare il potere politico, deve elevarsi a classe nazionale e deve costituirsi in nazione, così esso è e rimane ancora nazionale, sebbene sia tale in un senso affatto diverso da quello della borghesia.

Le delimitazioni e gli antagonismi dei popoli vanno via via sparendo, per lo stesso sviluppo della borghesia, per la libertà del commercio, per l’azione del mercato mondiale, per la uniformità della produzione industriale e per le condizioni di esistenza che da essa derivano.

Quelle differenze e quegli antagonismi spariranno ancor di più per effetto della supremazia del proletariato. L’azione combinata, per lo meno dei proletarii dei paesi civilizzati, è una delle condizioni prime della liberazione del proletariato.

A misura che verrà abolito lo sfruttamento dell’individuo, verrà anche meno lo sfruttamento di una nazione per mezzo di un’altra.

Caduto che sia il contrasto delle classi nell’interno delle nazioni, finirà anche l’antagonismo fra le nazioni stesse.

Le accuse contro il comunismo, che muovono da considerazioni religiose, filosofiche, o altrimenti ideologiche, non meritano si faccia intorno ad esse un accurato esame.

Occorre forse una grande profondità di mente per intendere, che mutandosi le condizioni di vita degli uomini, ei loro rapporti sociali e il modo d’essere della società, si mutano anche le vedute, le nozioni e le concezioni, il che vuol dire che si muta la coscienza degli uomini?

Che cos’altro mai dimostra la storia delle idee, se non che la produzione intellettuale s’è andata cambiando col rivoluzionarsi della produzione materiale? Le idee dominanti da un dato tempo non sono se non le idee della classe dominante.

Si sente a parlare d’idee che mettono in rivoluzione una intera società. Ebbene con ciò si viene semplicemente a dire, che in seno alla società preesistente si son già sviluppati gli elementi di una società nuova, e che la dissoluzione degli antichi rapporti di vita va di pari passo con la dissoluzione delle antiche idee.

Quando il mondo antico stava per declinare, le antiche religioni furon tutte vinte dalla religione cristiana. Nel secolo XVIII le idee cristiane soggiacquero alla corrente dei lumi, nel momento appunto che la società feudale sosteneva l’estrema lotta con la borghesia, allora rivoluzionaria. Le idee di libertà di coscienza e di libertà religiosa non valsero se non a proclamare il principio della libera concorrenza nel campo del sapere.

«Ma – si dirà – non c’è dubbio che le idee religiose, morali, filosofiche, politiche e giuridiche si vanno modificando nel corso degli svolgimenti storici. Se non che, però, la religione, la morale, la filosofia, la politica, il diritto si mantennero sempre in vita in tutti questi mutamenti.

Vi ha inoltre delle verità eterne, come la libertà, la giustizia, ecc. che son comuni a tutte le forme sociali. Il comunismo abolisce invece le verità eterne: esso abolisce la religione e la morale, in luogo di rinnovellarle, e con ciò contraddice a tutto lo svolgimento storico verificatosi fin qui.

A che si riduce cotesta accusa? Tutta la storia della società s’è mossa fin qui attraverso ai contrasti delle classi, i quali nelle diverse epoche assunsero forme diverse.

Ma quale che fosse pure la forma assunta da tali contrasti, lo sfruttamento di una parte della società per mezzo di un’altra fu il fatto costante in tutti i secoli passati. Non è per ciò da meravigliare, se in tutti codesti secoli, malgrado le diversità e le variazioni che pur essa mostra, la coscienza sociale si movesse sempre in certe forme comuni, in certe forme che andranno in dissoluzione solo col completo sparire dell’antagonismo delle classi.

La rivoluzione comunistica è la più radicale rottura con tutti i tradizionali rapporti della proprietà: e non è quindi da meravigliare se nel corso del suo sviluppo essa la rompe nel modo più radicale con le idee tradizionali.

Ma lasciamo ora da parte le obiezioni della borghesia contro il comunismo.

Noi abbiamo visto più su, che la prima tappa della rivoluzione operaia consiste nel fatto, che il proletariato si elevi a classe dominante, e ossia consiste nel raggiungere vittoriosamente la democrazia.

Il proletariato profitterà del suo dominio politico, per togliere via via alla borghesia tutto il capitale, per concentrare nelle mani dello stato, e ossia del proletariato organizzato qual classe dominante, tutti gl’istrumenti della produzione, e per aumentare con la massima celerità possibile le forze produttive.

Tutto ciò non può naturalmente accadere se non per via di dispotiche infrazioni al diritto di proprietà, e di violazioni ai rapporti borghesi della produzione, e ossia per mezzo di misure che appariranno quali economicamente insufficienti e insostenibili, ma che nel corso del movimento sorpasseranno sé stesse spingendo a nuove misure, e che per intanto son mezzi indispensabili per raggiungere la sovversione della intera forma di produzione.

Codeste misure saranno, s’intende, da paese a paese diverse.

Ma nei paesi più progrediti, quelle che qui appresso s’indicano potranno essere a un di presso generalmente applicate:

  1. Espropriazione della proprietà fondiaria, e impiego della rendita della terra per le spese dello stato;
  2. Tassa fortemente progressiva;
  3. Abolizione del diritto d’eredità;
  4. Confisca dei beni degli emigranti e dei ribelli;
  5. Centralizzazione del credito in mano allo stato, mediante una banca nazionale con capitale di stato e con monopolio esclusivo;
  6. Centralizzazione dei mezzi di trasporto in mano allo stato;
  7. Aumento delle fabbriche nazionali e degl’istrumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano generale;
  8. Eguale obbligo di lavoro per tutti, organizzazione di eserciti industriali specialmente in vista dell’agricoltura;
  9. Combinazione dell’esercizio del1’agricoltura e dell’industria, e misure atte a preparare la lenta sparizione della differenza fra città e campagna;
  10. Educazione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Abolizione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche, nella sua forma attuale. Combinazione dell’educazione con la produzione materiale.

Quando nel corso degli eventi le differenze di classe saranno sparite, e tutti i mezzi di produzione saran venuti nelle mani degli individui associati, il potere pubblico avrà naturalmente perduto ogni carattere politico. Il potere politico, nel senso vero e proprio della parola, non è se non il potere organizzato di una classe per la oppressione di un’altra. Ora se il proletariato nella lotta contro la borghesia è forzato a raccogliersi in classe, e se fattosi poscia per mezzo della rivoluzione classe dominante distrugge violentemente gli antichi rapporti della produzione, esso per tal modo abolendo cotali rapporti abolisce le condizioni di esistenza dell’antagonismo di classe, e cioè abolisce le classi in generale e il suo proprio dominio di classe.

Alla società borghese, con le sue classi e coi suoi antagonismi di classe, subentrerà una associazione, nella quale il libero sviluppo di ciascuno sarà la condizione del libero sviluppo di tutti.

 

 

  1. La letteratura del comunismo e del socialismo

 

  1. Il Socialismo reazìonarìo
  2. Il Socialismo feudale

Per effetto della lor propria situazione storica, l’aristocrazia inglese e quella francese eran come chiamate a lanciare dei libelli contro la moderna società borghese. Cosi nella rivoluzione francese del Luglio 1830, come nel movimento della riforma elettorale inglese, l’aristocrazia era di nuovo soggiaciuta all’aborrita classe dei nuovi venuti (con la insurrezione parigina del luglio 1830 veniva destituito dal trono Carlo x di Borbone, il cui potere aveva trovato l’appoggio dei grandi proprietari terrieri, e insediato al suo posto Luigi Filippo d’0rléans che difendeva gli interessi dell’alta borghesia finanziaria).

Non era più il caso di pensare ad una seria lotta politica, e rimaneva aperto il solo campo della lotta letteraria. Ma anche nell’ambito letterario la vecchia fraseologia del periodo della restaurazione (si tratta, precisa Engels in una nota all’ed.izione inglese del 1888, della restaurazione francese del 1814-1830, non di quella inglese del 1660-1689) era diventata cosa insostenibile. Per crearsi delle simpatie l’aristocrazia doveva ben darsi l’apparenza di perder di vista i suoi proprii interessi, formulando i suoi atti d’accusa contro la borghesia solo in difesa della sfruttata classe degli operai. Si procurava cosi il piacere d’intuonare dei canti ingiuriosi contro i suoi nuovi padroni, sussurrando loro negli orecchi delle profezie di più che sinistro augurio.

Per cotal via nacque il socialismo feudale, che è per metà geremiade e per metà pasquinata, parte è eco del passato e parte è paurosa minaccia del futuro, e poi al tempo stesso ferisce proprio al cuore la borghesia per via d’una critica mordace ed ingegnosa, ma riman sempre di effetto comico per la sua assoluta incapacità a comprendere l’andamento della storia moderna. ‘

Per raccogliere e trarsi dietro il popolo cotesti signori inalberarono a guisa di bandiera la bisaccia del proletariato mendicante. Ma quelli che si provavano a seguirli li videro per di dietro adorni dei vecchi blasoni feudali, e si dispersero dando in uno scoppio di rumorose e irriverenti risate (l’immagine è tratta dalla satira Germania, di Heinrich Heine – 1797-1856).

Una parte dei legittimisti francesi e la giovane Inghilterra dettero questo allegro spettacolo (l legittimisti erano per lo più aristocratici latifondisti fautori della dinastia dei Borbone. La Giovane Inghilterra venne creata nel 1842 da alcuni membri del partito conservatore (tory), tra cui fanno spicco Disraeli, Thomas Carlyle (1795-1881) e Lord Ashley. Il primo (futuro braccio destro della regina Vittoria), tipico rappresentante della politica imperialistica inglese, aveva pubblicato nel 1845 un romanzo, Sybil o Due Nazioni, in cui rimpiangeva l’antica unione tra popolo e signore feudale di contro all’attuale antagonismo tra le due «nazioni» di ricchi e di poveri. Del Carlyle si ricorda, a questo proposito significativi, Cartismo, del 1841, e Passato e Presente del 1842. Lord Ashley, conosciuto anche come conte di Shaftesbury, era stato il promotore del famoso bill delle dieci ore).

Quando cotesti campioni della feudalità dimostrano che il modo di sfruttare dei feudatarii era diverso da quello dei borghesi, essi dimenticano che quel modo di sfruttare si esercitava in condizioni e circostanze affatto diverse, ed ora del tutto superate. Quando notano, che sotto al loro regime non esisteva il proletariato moderno, dimenticano di osservare che la borghesia è un necessario derivato appunto di quello che fu il loro ordinamento sociale.

Del resto usano così poco di nascondere il carattere reazionario della loro critica, che il loro principale capo d’accusa contro la borghesia è appunto questo, che sotto il suo dominio si va sviluppando una classe, che manderà in aria tutto 1’ordine sociale esistente.

Muovon rimprovero alla borghesia, non d’aver prodotto un proletariato in genere, ma d’aver prodotto un proletariato rivoluzionario.

In pratica piglian parte attiva politica a tutte le misure violente contro la classe operaia, e nella vita di tutti i giorni, ad onta della lor gonfia fraseologia, s’accomodano a raccogliere gli aurei pomi, e a barattare mercantilmente tutta la cavalleria della fede, del1°amore e dell’onore con la lana di pecora, con la barbabietola e con l’acquavite.

Come preti e signori feudali s’accompagnaron sempre in passato, così accade ora del socialismo clericale e di quello feudale.

Non c’è cosa più facile del dare un po’ d’intonaco socialistico all’ascetismo cristiano. Non s’è forse espresso il cristianesimo contro la proprietà privata, contro il matrimonio e contro lo stato? E non ha esso predicato i sostitutivi della carità, del mendicare, del celibato, della mortificazione della carne, della vita monastica e della chiesa?

Il socialismo cristiano non è se non 1’acqua benedetta con la quale il prete consacra il rancore degli aristocratici.

 

  1. Il Socialismo piccolo-borghese

L’aristocrazia feudale non è la sola classe andata in rovina per opera della borghesia; e non è quella le cui condizioni di vita sole vengano a deperire, e spariscano, in seno alla moderna società borghese.

Nei piccoli borghesi del Medio-Evo e nei contadini piccoli possidenti erano come i precursori della borghesia moderna. Nei paesi, nei quali il commercio e l’industria son poco sviluppati, cotesta classe continua a vegetare, a canto alla borghesia che sviluppasi in grandezza.

Nei paesi, nei quali la civiltà moderna è fiorente, si è formata una nuova piccola borghesia, che di continuo oscilla fra il proletariato e la borghesia, e come parte complementare della società borghese si va sempre di nuovo rifacendo. Gl’individui che la compongono vengon di continuo ricacciati dalla concorrenza giù tra le fila del proletariato, e veggono appressarsi il momento nel quale per effetto dello sviluppo della grande industria dovranno del tutto sparire come parte indipendente della società moderna, e saran surrogati, così nel commercio e nella manifattura, come nell’agricoltura, dai fattori, agenti e garzoni (si intende con ciò, in senso lato, la piccola borghesia impiegatizia).

Nei paesi nei quali, come in Francia, la classe dei contadini costituisce più della metà della popolazione, era naturale che quegli scrittori i quali scendevano in campo in favore del proletariato e contro la borghesia, usassero nella loro critica del regime borghese la stregua del piccolo borghese e del piccolo possidente contadino, e che pigliassero partito per gli operai da un punto di vista piccolo-borghese. Cosi si venne formando il socialismo piccolo-borghese. Sismondi è il capo di cotesta letteratura, così per l’Inghilterra, come per la Francia.

Cotesto socialismo analizzò con grande acume le contraddizioni che sono inerenti ai rapporti moderni della produzione. Mise a nudo la ipocrisia, che è in fondo alle ottimistiche esposizioni degli Economisti. Dimostrò in modo irrefutabile gli effetti deleterii delle macchine e della divisione del lavoro, e poi la concentrazione dei capitali e della proprietà fondiaria, la soprapproduzione, le crisi, la inevitabile sparizione dei piccoli borghesi e dei piccoli possidenti, la miseria del proletariato, la anarchia nella produzione, le stridenti sproporzioni nella distribuzione della ricchezza, la guerra industriale fra le nazioni portata fino all’esterminio, la dissoluzione degli antichi costumi, degli antichi rapporti familiari, delle nazionalità antiche.

Ma quanto al contenuto positivo di ciò che vuole cotesto socialismo, o mira a ristabilire gli antichi mezzi di produzione e di scambio, e con essi gli antichi rapporti di proprietà e la società antica, o pensa di far rientrare per forza i mezzi moderni della produzione e dello scambio nel ristretto quadro degli antichi rapporti di proprietà, che quei mezzi appunto spezzarono, e doveano spezzare! In tutti due i casi esso è al tempo stesso reazionario ed utopistico.

Per la manifattura la corporazione, per l’agricoltura le condizioni patriarcali: ecco la sua ultima parola.

Da ultimo, e ossia alla fine del suo svolgimento, cotesta tendenza mette capo nella prostrazione mentale di chi abbia un triste incubo.

 

  1. Il socialismo tedesco, ossia il Socialismo «vero»

La letteratura socialistica e comunistica della Francia, che nacque sotto la pressione di una borghesia dominante, e quale espressione letteraria appunto di una effettiva lotta contro di quella signoria, principiò ad aver diffusione in Germania proprio nel momento nel quale la borghesia incominciava a lottare con l’assolutismo feudale.

Dei filosofi tedeschi, dei semifilosofi e dei bellimbusti dell’amena coltura s’impadronirono avidamente di cotesta letteratura, dimenticando solo questo, che mentre immigravano di Francia in Germania cotesti scritti, non perciò immigravano dall’un paese all’altro le condizioni di vita propriamente francesi. Per rispetto alle condizioni tedesche quegli scritti francesi vennero a perdere ogni immediato carattere pratico, e assunsero Paria di una pura e semplice manifestazione polemico-letteraria. Quegli scritti furono intesi come una oziosa speculazione su la realizzazione della vera natura umana. Cosi era un’altra volta accaduto, quando nel secolo diciottesimo i filosofi tedeschi ridussero i postulati della rivoluzione francese a semplici esigenze della ragion pratica (Riferimento alla Critica della ragion pratica di Immanuel Kant (1724-1804). «La situazione della Germania alla fine del secolo passato si rispecchia completamente nella Critica della ragion pratica di Kant. Mentre la borghesia francese si innalzava al dominio, con la più grande rivoluzione che la storia conosca e conquistava il continente europeo, mentre la borghesia inglese, già emancipata politicamente, rivoluzionava l’industria e si assoggettava l’India politicamente e tutto il resto del mondo commercialmente, gli impotenti borghesi tedeschi riuscirono ad arrivare soltanto alla “buona volontà”[…] Questa buona volontà di Kant corrisponde complessivamente all’impotenza, alla depressione e alla miseria dei borghesi tedeschi, i cui meschini interessi non furono mai capaci di svilupparsi in interessi comuni nazionali, di una classe e quindi furono continuamente sfruttati dai borghesi di tutte le altre nazioni […]›› K. Marx- F. Engels, L’Ideología tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1958, pp. 187 ss.)  in universale, e interpretarono la volontà effettiva della borghesia francese come le leggi del volere puro, del volere quale esso dev’essere, del vero volere umano.

Il vero e proprio lavoro di cotesti letterati tedeschi consistette soltanto in questo, che essi cioè procurarono di mettere in accordo le nuove idee francesi con la loro antecedente coscienza filosofica, e ossia, a dir meglio, s’impegnarono di appropriarsi le nuove idee dal loro punto di vista filosofico.

Cotesta appropriazione s’andò compiendo a quel medesimo modo nel quale in generale si giunge ad appropriarsi una lingua straniera… e ossia traducendo.

Gli è noto in che modo i monaci del Medio-Evo usassero di raschiare i manoscritti contenenti le classiche scritture del mondo pagano antico, per poi scrivervi novellamente su le assurde leggende dei santi cattolici.

I letterati tedeschi operarono in senso inverso nel maneggiare cotesti profani scritti francesi. Essi fecero scivolare la loro insensataggine su l’originale francese, e ve l’appiccicarono. Là dove, per es., la critica francese si aggira su i rapporti e su le funzioni della moneta, essi scrivono «alienazione della natura umana», e là dove la critica francese concerne lo stato borghese, essi scrivono «abolizione del dominio dell’universale astratto».

Coteste viziate sostituzioni della fraseologia filosofica agli svolgimenti critici dei francesi, furono dagli autori stessi battezzate per «filosofia dell’azione», per «socialismo vero», per «scienza tedesca del socialismo», per «dimostrazione filosofica del socialismo».

Per cotal via la letteratura francese socialistico-comunistica rimase evirata. E come essa cessava, in mano ai tedeschi, di esprimere la lotta di una classe contro di un’altra, così a ragione i tedeschi si vantano di aver superata «la unilateralità francese» e di rappresentare invece dei bisogni veri il bisogno della verità, e in cambio degli interessi del proletariato quelli della natura umana, dell’uomo in generale, dell’uomo che non appartiene a nessuna classe, e anzi non appartiene punto alla realtà, ma solo al vaporoso cielo della fantasia filosofica. Cotesto socialismo tedesco, che pigliava cosi solennemente sul serio le sue goffe esercitazioni da scolaro, e ne menava vanto all’uso dei ciarlatani, andò poco per volta e via via perdendo la sua innocenza da pedanti.

La lotta della borghesia contro la feudalità e contro la monarchia assoluta, e ossia, in una parola, il movimento liberale, s’andò facendo più serio in Germania, e specie in Prussia.

Il socialismo «vero›› ebbe così la fortunata occasione di contrapporre al movimento politico le rivendicazioni socialistiche, e di lanciare i già noti anatemi contro il liberalismo, contro lo stato rappresentativo, contro la concorrenza borghese, e così di seguito contro tutte le altre cose borghesi, libertà di stampa, diritto comune, libertà in genere, eguaglianza, e di andar predicando al popolo come esso per tal movimento borghese abbia tutto da perdere e nulla da guadagnare. Molto a proposito il socialismo tedesco seppe dimenticare, come quella critica francese, di cui esso era una misera eco, supponesse come esistente di fatto la società borghese moderna con le sue materiali condizioni di vita, e con la congrua costituzione politica; presupposti cotesti a raggiungere i quali occorreva in Germania di lottare ancora come per una conquista.

I governi assoluti di Germania, con tutto il loro codazzo di preti, di maestri di scuola, di nobiluzzi rurali e di burocratici si giovarono di tale socialismo come di spauracchio contro la borghesia, che si levava minacciosa.

Quel socialismo fu come il dolce complemento alle amare sferzate e fucilate con le quali i governi tedeschi han trattato le sommosse degli operai (si riferisce alle insurrezioni degli operai dell’industria tesile avvenute in Boemia e Slesia nella primavera del 1844).

Cotesto socialismo «vero» mentre diventava un’arma dei governi contro la borghesia tedesca, rappresentava anche direttamente un interesse reazionario, e cioè quello dei piccoli borghesi, che così come furono tramandati dal secolo sedicesimo, e così come da quel tempo in poi son sempre riapparsi in nuove forme, costituiscono il vero e proprio fondamento sociale delle presenti condizioni della Germania.

Conservare la piccola borghesia gli è come conservare il presente assetto sociale tedesco. Cotesta piccola borghesia vede nel dominio della borghesia politica ed industriale la sua sicura rovina, e ciò per due ragioni: da una parte per la concentrazione del capitale, e da un’altra parte per il venir su di un proletariato rivoluzionario. Il socialismo «vero›› le parve mezzo sicuro per ovviare d’un colpo ai due pericoli. E quello si diffuse come un’epidemia.

Quella veste intessuta di ragnatela speculativa, ricamata di fiori di pomposa retorica, satura di rugiada sentimentale, quella veste si direbbe quasi trascendentale, della quale i socialisti tedeschi ricoversero quel po’ di loro «verità eterne›› ischeletrite, valse ad aumentare lo spaccio della merce in mezzo a cotal pubblico.

E dal canto suo cotesto socialismo tedesco andò via via riconoscendo la sua propria missione, che è quella di rappresentare in istile pomposo gl’interessi della piccola borghesia.

Elevò al grado di nazione normale la nazione tedesca, e fece del piccolo borghese tedesco l’uomo normale. A tutte le bassezze delle quali cotesto uomo normale è capace dette una significazione occulta, superiore, socialistica, in guisa che appariscono tutto il contrario di quel che sono. Venne alle sue ultime conseguenze col mettersi contro alle tendenze «brutalmente distruttive›› del comunismo, e col proclamarsi imparzialmente superiore alle lotte di classe. Tranne poche eccezioni, tutto ciò che circola in Germania di scritti socialistici e comunistici rientra in cotesta letteratura sudicia e snervante.

 

  1. Il Socialismo conservativo, ossia dei borghesi

Una parte della borghesia cerca di portar rimedio ai mali sociali, per mettere in sicuro l’esistenza della società borghese.

Entrano in cotesta categoria degli economisti, dei filantropi, degli umanitarii, dei miglioratori della sorte delle classi operaie, gli organizzatorí della beneficenza, i protettori degli animali, i fondatori dei circoli di temperanza, e tutta la variopinta genia dei minuti riformatori. E cotesto socialismo borghese è stato per fino ridotto nella forma del sistema bello e compiuto.

Citiamo ad esempio la Philosophie de Ia Mìsère di Proudhons.

I socialisti borghesi vogliono le condizioni di vita della società moderna, senza i danni e le lotte che da essa inevitabilmente derivano. Vogliono la società attuale, sottrazione fattane degli elementi che la rivoluzionano e dissolvono. Vogliono la borghesia senza il proletariato. La borghesia, come è ben naturale, si rappresenta il mondo, nel quale essa domina, come l’ottimo dei mondi possibili. Il socialismo borghese elabora cotesta confortante immagine nella forma di un sistema, o di un quasi sistema. Invitando il proletariato a realizzare i suoi sistemi, e ad entrare nella nuova Gerusalemme, esso non intende se non d’impegnare i proletarii a starsene in questa società attuale, ma rinunciando alle odiose opinioni che di essa si van facendo.

Una seconda forma di questo socialismo, che è meno sistematica ma è di certo più pratica, cerca d’ispirare nella classe operaia il disgusto d’ogni movimento rivoluzionario, procurando di provare, come non questa o quella mutazione politica, ma solo la mutazione delle condizioni materiali, e ossia dei rapporti economici, possa tomarle di giovamento.

Ma sotto al nome di mutazione dei rapporti materiali della vita cotesto socialismo non intende già, e in nessun modo, l’abolizione dei rapporti borghesi della produzione, il che non può aver luogo se non per le vie rivoluzionarie, ma intende solo delle riforme amministrative eseguite sul terreno stesso dei presenti rapporti della produzione, le quali per ciò nulla cambiano nei rapporti fra capitale e lavoro, e che nel caso più favorevole rendono meno costoso alla borghesia l’esercizio del potere, e semplificano l’assetto della sua finanza.

Tale socialismo borghese non raggiunge la sua vera espressione se non quando diviene una mera figura retorica.

Libero scambio! e nell’interesse della classe lavoratrice; dazii protettori! e nell’interesse dei lavoratori; carcere cellulare! e nell’interesse degli operai: – ecco l’ultima parola del socialismo borghese, e la sola pensata e detta sul serio.

Perché il socialismo della borghesia consiste appunto in questo enunciato: che i borghesi sono borghesi nell’interesse dei lavoratori.

 

  1. II Socialismo e il Comunismo critico-utopici

Non intendiamo qui di discorrere di quella letteratura, che in tutte le grandi rivoluzioni moderne si fece rappresentante delle esigenze del proletariato. (Gli scritti di Babeuf e simili.)

I primi tentativi fatti dal proletariato, per dar prevalenza ai suoi proprii interessi di classe, in tempi di generale effervescenza e mentre precipitava la società feudale, dovean di necessità fallire, e così per la condizione poco sviluppata del proletariato stesso, come per la mancanza di quelle condizioni materiali della sua emancipazione, le quali non sono se non un resultato della epoca borghese. La letteratura rivoluzionaria, che accompagnava questi primi movimenti del proletariato, è nel suo contenuto di necessità reazionaria. Essa preconizza un ascetismo generale e una rozza tendenza a tutto agguagliare.

I veri e propri sistemi socialistici e comunistici, ì sistemi di Saint- Simon, Fourier, Owen, ecc. , appariscono in quel primo e poco sviluppato periodo della lotta fra il proletariato e la borghesia, che abbiamo tratteggiato di sopra.

I ritrovatori di tali sistemi riconoscono la opposizione delle classi, e anche l’azione dell’elemento dissolvente nella società dominante. Ma non scorgono dalla parte del proletariato nessuna azione storica, nessun movimento politico che gli sia proprio.

E poiché lo sviluppo dell’antagonismo di classe va di pari passo con lo sviluppo della industria, gli autori di quei sistemi, non trovando già belle e date le condizioni materiali per la emancipazione del proletariato, si mettono in cerca di una scienza sociale, o di certe leggi sociali, come per creare quelle condizioni che non esistono ancora.

La loro personale attività inventiva deve tenere il posto dell’attività sociale, delle condizioni fantastiche devono essere sostituite alle condizioni storiche della emancipazione, a quella organizzazione del proletariato in classe, che si forma poco per volta, vien surrogata una organizzazione della società tutta nuova di sana pianta. La storia del mondo di là da venire si risolve per essi nella propaganda e nella messa in azione dei loro piani sociali.

Sanno si di rappresentare nei loro disegni gl’interessi delle classi dei lavoratori, in quanto son le classi di quelli che soffrono; ma il proletariato non esiste per essi se non sotto questo punto di vista della classe dei sofferenti.

Ma, come è naturale in uno stadio di poco sviluppo della lotta di classe, e data la condizione sociale di cotesti autori, accade che essi si credano come superiori a tutti i contrasti di classe. Essi vogliono migliorare la situazione di tutti i membri della società, compresa quella delle persone che vivono nelle condizioni più vantaggiose. Per ciò richiamano di continuo all’intera società senza far differenze, e anzi si appellano principalmente alla classe dominante. Poiché in fondo basta di aver capito il loro sistema per riconoscerlo come il miglior disegno fra tutti i possibili della miglior serietà fra tutte le possibili.

Rigettano qualsiasi azione politica, e segnatamente ogni azione rivoluzionaria; mirano a raggiungere i loro intenti per le vie pacifiche; e cercano di aprirla via al nuovo evangelo sociale per mezzo di piccoli esperimenti, che secondo l’opinione loro dovrebbero avere forza e valore di esempio, ma che in fatti, com’è naturale, falliscono.

La descrizione fantastica della società futura nasce quando il proletariato è ancor troppo poco sviluppato; cosicché esso si rappresenta appunto in modo fantastico la sua stessa situazione, secondo l’impulso primo verso una totale trasformazione della società, il quale impulso è accompagnato da vaghi presentimenti.

Cotesti scritti socialistici e comunistici contengono anche molti elementi critici. Essi attaccano tutti i fondamenti della società esistente.

Per ciò hanno offerto del materiale di gran valore per illuminare gli operai. I loro enunciati positivi su la società futura, e p.e. l’abolizione del contrasto fra città e campagna, L’abolizione della famiglia, del profitto privato, del salariato, e poi l’annunzio dell’armonia sociale, e la trasformazione dello stato in una semplice amministrazione della produzione – tutti cotesti enunciati non esprimono che lo sparire dell’antagonismo di classe, di quell’ antagonismo che comincia appena a precisarsi nel suo sviluppo, e del quale gli autori di quei sistemi hanno notizia solo nelle sue prime forme indistinte e indeterminate. Per ciò quegli enunciati hanno ancora un senso puramente utopistico.

L’importanza di cotesto socialismo e di cotesto comunismo utopistico è in ragione inversa al fatto dello sviluppo storico. A misura che la lotta di classe svolge e si precisa, cotesto fantastico disegno della lotta, cotesta fantastica opposizione alla lotta, perde ogni valore pratico ed ogni giustificazione teorica. Gli è per ciò, che, mentre gli autori di questi sistemi erano per molti rispetti dei rivoluzionarii, i loro scolari formano sempre delle sette reazionarie. Questi scolari tengon fermo alle opinioni dei maestri anche in opposizione allo sviluppo storico del proletariato, e cercano in conseguenza di smussare il contrasto di classe, e di conciliare gli antagonismi. Sognano sempre la realizzazione sperimentale delle loro utopie sociali, e cioè di stabilire falansterii (erano cosi chiamati i «palazzi sociali» ideali da Fourier), di creare colonie domestiche (Home-Colonies chiamava Owen le sue società modello di tipo comunistico), e di edificare una piccola Icaria (lcaria: il fantastico paese utopistico le cui istituzioni comuniste furono descritte da Cabet [cfr. aggiunte di Engels, in nota, all’edizione tedesca del 1890]) – rifacimento minuscolo della nuova Gerusalemme! – e per costruire cotesti castelli in aria devono fare appello alla filantropia dei cuori e delle tasche borghesi. Poco per volta discendono nella categoria dei socialisti conservatori e reazionari da noi descritti più sopra, e da quelli si distinguono solo per una più sistematica pedanteria, e per la fede da fanatici e da superstiziosi che ripongono nell’azione miracolosa della loro scienza sociale.

Si levano quindi accanitamente contro qualunque movimento politico dei lavoratori, stimando che in quel movimento si riveli una cieca incredulità rispetto al nuovo evangelo.

Così ora si vede che gli Owenisti reagiscono in Inghilterra contro i Cartisti, e i Fourieristi reagiscono in Francia contro i Riformistil (sono i radicali repubblicani francesi che facevano capo al giornale La Réforme).

 

 

  1. Posizione dei comunisti di fronte ai diversi partiti di opposizione

Per quel che abbiamo detto al capo ri, quale sia la posizione dei comunisti di fronte ai partiti operai di già costituiti s’intende da sé; e così è il caso per rispetto ai Cartisti in Inghilterra, e ai riformatori agrarii nel Nord-America (si tratta dei National Reformers, riunitisi nell’Anti-rent League (Lega anti-rendita), i quali chiedevano la distribuzione gratuita delle terre di proprietà dello Stato tra quanti fossero disposti a lavorarle).

Quei partiti combattono per fini ed interessi prossimi ed immediati, ma nel moto attuale rappresentano già il moto dell’avvenire. In Francia i comunisti si ricongiungono al partito socialista-democratico, contro la borghesia conservativa e radicale; ma non rinunziano al diritto di serbare un contegno affatto critico di fronte alle frasi ed alle illusioni, che in quel partito derivano dalla tradizione rivoluzionaria.

Nella Svizzera i comunisti sostengono i radicali, pur riconoscendo che quel partito consta di elementi contraddittorii, e cioè in parte di socialisti democratici alla francese, e in parte di radicali borghesi (i liberali-radicali svizzeri avevano appena contribuito a determinare una svolta decisiva nella vita politica del loro paese, con la vittoria riportata contro i conservatori cattolici del Sonderbund, che cercavano di impedire, anche tramite aiuti dall’estero, l’evoluzione della borghesia in senso liberale).

Fra i Polacchi i comunisti appoggiano quel partito, che fa della rivoluzione agraria la condizione per venire alla emancipazione nazionale, e cioè quel medesimo partito che promosse la insurrezione di Cracovia del 1846 (l’insurrezione di Cracovia del febbraio-marzo 1846, dai conservatori definita «comunista» ebbe in realtà, come sottolineo Marx nella sua commemorazione del 1848, carattere democratico interclassista. Lo czar Nicola I la represse ferocemente).

Tutte le volte che la borghesia proceda in Germania in modi rivoluzionarii, il partito comunistico le sarà compagno di lotta contro la monarchia assoluta, contro la proprietà feudale, e contro la piccola borghesia.

Ma mai e in nessun momento il partito comunista tralascia di risvegliare negli operai la coscienza chiara e precisa dell’antagonismo dominante, quale vera e propria ostilità, fra borghesia e proletariato; perché gli operai tedeschi sappiano subito convertire in armi dirette contro la borghesia le condizioni sociali e politiche messe in essere dal dominio borghese, onde, precipitate che siano le classi reazionarie dalla Germania, cominci senza indugio la lotta contro la borghesia.

I comunisti rivolgono i loro occhi principalmente verso la Germania, che è alla vigilia di una rivoluzione borghese: e poiché essa compirà tale rivoluzione in condizioni generalmente più progredite della civiltà europea, e con un proletariato assai più sviluppato di quel che non fosse il caso dell’Inghilterra nel secolo diciassettesimo e della Germania nel diciottesimo, così cotesto moto borghese sarà l’immediato preludio di una rivoluzione proletaria.

In una parolai comunisti appoggiano da per tutto ogni movimento rivoluzionario, che sia diretto contro il presente stato di cose politico e sociale.

In cotesti movimenti essi mettono principalmente in rilievo, come fondamento del tutto, la questione della proprietà, quale che sia la forma più o meno sviluppata, che essa questione possa avere assunto.

Infine i comunisti lavorano all’intesa ed all’unione dei partiti democratici d’ogni paese.

I comunisti disdegnano di celare le loro vedute ei loro intendimenti. Essi confessano apertamente, che i loro intenti non possono esser raggiunti se non per via della violenta sovversione del tradizionale ordinamento sociale. Che le classi dominanti paventino lo scoppio di una rivoluzione comunista. I proletarii non ci han da perdere che le loro catene. Hanno da guadagnarci tutto un mondo.

PROLETARII Dl TUTTO IL MONDO UNITEVI

Londra, febbraio 1848

LA LEGGE DI PARKINSON

LA LEGGE DI PARKINSON

C. Northcote Parkinson

LA LEGGE DI PARKINSON
ovvero 1:2

Illustrazioni di Osbert Lancaster

Titolo originale

PARKINSON’S LAW OR THE PURSUIT OF PROGRESS

1957 C. Northcote Parkinson

 

 

PREFAZIONE

Agli occhi dei giovanissimi, dei maestri di scuola, ed anche agli occhi di coloro che compilano i testi di storia costituzionale, di politica e di attualità il mondo si presenta, più o meno, come un luogo razionale. Costoro si raffigurano l’elezione dei deputati come una libera scelta fra gli uomini in cui il pubblico ripone fiducia. Costoro ci dipingono il sistema grazie al quale divengono ministri di Stato solo i più saggi, i migliori. Costoro immaginano che i capitani d’industria, liberamente eletti dagli azionisti, scelgano per i posti di maggiore responsabilità solo quelli che in più umile mansione han dato prova della loro capacità. Sono presupposti che ritroviamo, esplicitamente affermati o anche solo sottintesi, in parecchi libri. Sono presupposti, d’altro canto, che appaiono ridicoli a quelli che per esperienza diretta sanno come vanno le cose. Tutte queste solenni adunanze di saggi e di probi esistono solo nella fantasia dei maestri di scuola. Penso quindi che non sia male, di tanto in tanto, esprimere qualche avvertimento in proposito. Dio non voglia che gli studenti smettano di leggere i testi che insegnano la scienza del governo delle cose pubbliche e di quelle private. Basta solo che tali testi si collochino fra le opere di fantasia. Collocateli fra i romanzi di Rider Haggard e di H. G. Wells, fra le opere sull’uomo scimmia e sulle navi spaziali, e quei testi non faranno alcun male a nessuno. Ma se invece li collocate altrove, fra i libri che si consultano e si citano, allora vedrete che possono far più danno di quel che a prima vista non appaia.

Dopo aver constatato con sgomento che cosa gli altri credono sia la verità, in merito ai funzionari dello Stato o ai progetti edilizi, tentai, di tanto in tanto, di mostrare al mio prossimo almeno uno squarcio della realtà vera. Il lettore ai/veduto intenderà subito che tali brani di verità non si fondano su di un’esperienza ordinaria. Ma poiché ritengo che qualche lettore sarà meno avveduto di altri, mi son dato la pena di accennare, di tanto in tanto, alla mole di ricerche su cui si fondano le mie teorie. Immagini pure, chi legge, le tabelle appese al muro, gli schedari, le macchine addizionatrici, i regoli calcolatori, le opere consultate, tutto insomma l’armamentario indispensabile per la preparazione di uno studio qual e il presente. E sia pur certo, il lettore, che la realtà giganteggia su quel che egli ha immaginato, e che le verità che qui si rivelano son frutto, oltre che di una mente dotata (e lo riconoscono in molti) anche di un’attrezzatura grandiosa e costosissima, indispensabile a svolgere le indagini necessarie. Qualcuno forse penserà che sarebbe stato meglio dare più vasta informazione circa gli esperimenti ed i calcoli su cui si fondano le mie teorie.” a costui voglio far osservare che un volume cosi complesso avrebbe richiesto pizi tempo per la lettura e più denaro per l’acquisto. È innegabile che ciascun mio saggio rappresenta il risultato di anni di paziente indagine. Ma bisogna dir subito che non si È raccontato tutto. Una recente scoperta, in un settore specifico dell’arte bellica, apre il terreno a nuove ricerche: la scoperta cioè del fatto che il numero dei nemici uccisi e inversamente proporzionale al numero dei generali di parte amica. Recentissime son pure le osservazioni sull’illeggibilità delle firme, e si È tentato di stabilire a quale livello, nella carriera di un dirigente, la scrittura perde significato anche per il dirigente in parola. Giorno per giorno insomma si annunciano scoperte nuove, ed ho quindi ragione di credere che le prossime edizioni di quest’opera supereranno rapidamente la prima.

Desidero ringraziare i direttori dei periodici i quali hanno consentito alla ristampa di alcuni saggi. Il posto d’onore spetta al direttore di The Economist, la rivista su cui per la prima volta l’umanità ebbe notizia della Legge di Parkinson. Voglio ringraziare il suddetto direttore che ha permesso la ristampa di altri due saggi, “Della comitologia”, e sulle “Pensioni”. Alcuni altri articoli erano già comparsi su Harper’s Magazine e su The Reporter.

Desidero inoltre esprimere la mia profonda gratitudine a Osbert Lancaster, autore dei disegni, i quali danno un tocco di simpatia a quest’opera, che altrimenti il lettore medio avrebbe trovato troppo arida e tecnica. Ringrazio infine i signori della Houghton Miffli Co., editrice negli Stati Uniti dell’opera originaria, per il loro cortese incoraggiamento, senza il quale ben poco avrei osato, ed ancor meno realizzato. E finalmente sia resa nota la gratitudine che io nutro per il grande matematico, che con la sua scienza mi consente di abbagliare talvolta il lettore. A lui, anzi a lei, ma per altro motivo, dedico questo libro.

Singapore, 1958

C. Northcote Parkinson

 

 

LA LEGGE DI PARKINSON

ossia

LA COSTRUZIONE DELLA PIRAMIDE

 

Il lavoro dura sempre quel tanto che è necessario a colmare il tempo disponibile per compierlo. Tutti riconoscono questo semplice assioma quando dicono, secondo il vecchio proverbio, che “l’uomo più affaccendato è quello che ha tempo da perdere”. A una vecchia signora, che in vita sua non ha mai avuto molto da fare, può occorrere una giornata intera per scrivere e spedire una cartolina alla nipote che vive a Bognor Regis. Le ci vorrà un’ora a scovare la cartolina, un’altra ora per rintracciare gli occhiali, mezz’ora per ritrovare l’indirizzo, un’ora e un quarto per scrivere, e venti minuti per risolversi sull’opportunità di prendere o no l’ombrello, quando andrà ad imbucare alla cassetta postale, all’angolo della via. Un’operazione che richiederebbe tre minuti in tutto a un uomo che ha da fare, può all’opposto mettere a terra un’altra persona, dopo una giornata di dubbio, di ansietà e di fatica.

Ammesso che il lavoro (e soprattutto il lavoro cartaceo) è assai elastico, per ciò che riguarda il tempo, apparirà subito chiaro che quasi non esiste alcun rapporto fra il lavoro da svolgere e il numero delle persone a cui tale lavoro è affidato. Non necessariamente l’assenza di attività concreta significa ozio. Non necessariamente la mancanza di un’occupazione effettiva si manifesta coi sintomi della inazione palese. Il lavoro da svolgere si gonfia – e per importanza e per complessità – in proporzione al tempo da occupare. Quasi tutti riconosceranno che questo è vero, ma pochi, all’opposto, riescono a trarne le conseguenze, specie nel campo della burocrazia statale. Sia gli uomini politici che i semplici contribuenti han sempre (con qualche fase di dubbio, bisogna dirlo) presupposto che crescendo il numero complessivo dei funzionari dello Stato debba crescere anche il volume del lavoro da svolgere. Qualche osservatore cinico, opponendosi a quella convinzione, è giunto a pensare che, moltiplicandosi i funzionari dello Stato, qualcuno fra essi possa permettersi di non lavorare affatto o che tutti siano in condizione di ridurre il proprio orario d’ufficio. Ma è un problema di fronte al quale sia la fede che il dubbio son fuori posto. La verità è un’altra, e cioè: non esiste alcun rapporto fra il numero dei funzionari e la quantità del lavoro da compiere. L’aumento del numero totale degli impiegati dipende da una legge, detta Legge di Parkinson. Tale aumento continua invariato, sia che il lavoro cresca, diminuisca o addirittura scompaia. L’importanza della Legge di Parkinson risiede nel fatto che essa è una legge della crescita basata su di un’analisi dei fattori da cui tale crescita è controllata. La validità di questa legge – scoperta di recente – deve basarsi su prove di ordine statistico, che seguiranno. Al lettore medio interesserà tuttavia di più la spiegazione dei fattori che stanno sotto alla tendenza generale definita mediante questa legge. Se ignoriamo per un momento i particolari d’ordine tecnico (e non sono pochi) possiamo distinguere inizialmente due forze motrici, le quali, per quanto ci riguarda, possono esprimersi mediante due asserzioni pressoché assiomatiche, e cioè: I. “Il funzionario vuole moltiplicare i subordinati, e non i concorrenti” e Il. “I funzionari lavorano l’uno per l’altro.”

Per meglio intendere il fattore I figuriamoci un funzionario dello Stato che chiameremo A, il quale si trovi sovraccarico di lavoro. Non ci interessa sapere se l’eccesso di lavoro è reale o immaginario. (Potremmo osservare, en passant, che la sensazione, o anche l’illusione, del signor A, può configurarsi anche come sintomo di diminuita energia: abbastanza normale col sopraggiungere dell’età di mezzo.)

A tale eccesso di lavoro vi sono, in senso lato, tre rimedi possibili. Il funzionario può dimettersi; chiedere di dividere il lavoro con un collega, che chiameremo B; chiedere l’aiuto di due subordinati, i signori C e D. Credo che in tutta la storia non sia mai accaduto che A abbia scelto alternativa diversa dalla numero tre. Dimettendosi infatti egli perderebbe ogni diritto alla pensione. Se lasciasse salire B fino al suo livello nella scala gerarchica, egli altro non farebbe che crearsi un rivale alla promozione al posto di W, quando W (finalmente) andrà in pensione. Perciò A preferisce sempre avere sotto di sé C e D, funzionari di ruolo e di anzianità inferiore. Essi contribuiranno ad accrescere il prestigio di A, il quale, dividendo il lavoro in due categorie, conquisterà il merito d’essere il solo a sussumerle ambedue. Si faccia attenzione a questo punto: C e D sono, per cosi dire, inseparabili. Impossibile assumere C soltanto. Perché? Perché C, preso da solo, dividerebbe il lavoro a metà con A, acquistando di fatto un prestigio eguale a quello che A non ha voluto lasciar assumere a B, e che acquista tanto maggior rilievo se C è l’unico possibile successore di A. Così i subordinati debbono essere sempre almeno due, e ciascuno sarà tenuto in buon ordine dal timore che il collega venga promosso. Quando poi C a sua volta lamenterà d’essere stracarico di lavoro (e lo farà di certo), il signor A, naturalmente spalleggiato da C, consigliera la nomina di altri due funzionari che aiutino C. Ma per impedire attriti interni, A può far questo solo consigliando la nomina di altri due funzionari, che aiutino D, il quale si trova in posizione pressoché identica. A questo punto è scontata, in pratica, la nomina dei signori E, F, G, H e la promozione di A.

Così per compiere il lavoro che prima spettava a una persona soltanto, abbiamo ben sette funzionari. Ed ora interviene il fattore Il. Infatti questi sette svolgono una tale mole di lavoro, l’uno per l’altro, che sono pienamente occupati, ed in effetti A lavora più di prima. Può darsi benissimo che un documento in arrivo passi sul tavolo di ciascuno di essi. Il funzionario E stabilisce che esso documento ricade sotto la competenza di F, il quale presenta una minuta di risposta a C, il quale la corregge drasticamente prima di consultare D, il quale chiede a G di occuparsene. Ma a questo punto G va in ferie, e passa la pratica a H, il quale redige una minuta che vien firmata da D e restituita a C, il quale rivede la minuta da par suo e la presenta ad A nella nuova versione.

Che cosa fa AP Nessuno gli direbbe nulla se firmasse il documento senza nemmeno leggerlo, perché ha in mente un sacco di altre cose. Sapendo che con l’anno prossimo egli prenderà il posto di W, deve stabilire se C o D occuperanno il posto suo. Ha dovuto concedere le ferie a G, anche se costui a rigore non ne aveva diritto. e chiesto se per caso la precedenza non andasse ad H, per motivi di salute. Era pallido in quegli ultimi giorni, anche, ma non soltanto, per certi guai di famiglia. Poi c’è la questione della gratifica speciale a F durante il periodo del congresso e la domanda di E, il quale chiede d’essere trasferito al ministero delle pensioni. A ha sentito dire che D è innamorato di una dattilografa, la quale ha marito, e che G e F non si rivolgono più la parola, e nessuno a quanto pare ne sa il motivo. Perciò A avrebbe una gran voglia di firmare la minuta di C e di farla finita. Ma A è uomo di coscienza. Oppresso com’è dai problemi che i suoi colleghi han creato a se stessi ed a lui – problemi che consistono semplicemente nell’esistenza di questi funzionari – non è tuttavia uomo da trascurare il suo dovere. Legge con cura tutta la minuta, toglie perché inutili le aggiunte di C e di H, e riporta ogni cosa alla forma che aveva dato all’inizio F, un funzionario capace, anche se litigioso. Corregge la lingua – questi giovani non sanno scrivere correttamente – e insomma la risposta che ne vien fuori è esattamente quella che sarebbe stata se i funzionari da C ad H compresi non fossero nemmeno mai venuti al mondo. Un numero di persone di gran lunga maggiore ha impiegato un tempo di gran lunga superiore per giungere allo stesso identico risultato. Nessuno è rimasto con le mani in mano. Tutti han fatto del loro meglio. Ed è sera inoltrata quando finalmente A esce dall’ufficio e parte per il suo viaggio di ritorno a Ealing. Si spegne l’ultima lampada dell’ufficio mentre si addensa l’oscurità che segna la fine di un’altra giornata di fatica burocratica. Fra gli ultimi ad andarsene, le spalle curve e un sorriso sbieco, A pensa che le ore della sera e i capelli bianchi fan parte dello scotto che deve pagare chi ambisca al successo.

Dalla descrizione che abbiamo qui data dei fattori operanti, lo studioso di scienze politiche comprenderà che i burocrati sono, in misura maggiore o minore, destinati a moltiplicarsi. Però non abbiamo ancora detto nulla del lasso di tempo che probabilmente passerà fra la data della nomina di A e la data del probabile congedo di H. A questo proposito si è raccolta gran mole di prove statistiche e la Legge di Parkinson è dedotta appunto da questi dati. Non c’è posto in questa sede per un’analisi più minuta; ma al lettore interesserà sapere che le ricerche ebbero inizio dai dati relativi alla marina di Sua Maestà. Si scelse questo settore perché è più facile commisurare le responsabilità dell’Ammiragliato che non quelle, diciamo, della Camera di Commercio. Ecco alcuni dati tipici. Nel 1914 la Marina aveva una forza complessiva di 146.000 fra ufficiali e marinai, 3.249 fra funzionari e impiegati in servizi portuali, e 57.000 operai portuali. Nel 1928 c’erano soltanto 100.000 tra ufficiali e marinai e soltanto 62.439 operai, ma i funzionari e gli impiegati in servizi portuali a quell’epoca eran saliti a 4.558. In quanto alle navi da guerra, nel 1928 il totale era assai ridotto rispetto al 1914: meno di 20 grandi vascelli in servizio attivo, contro i 62 degli anni bellici. Nel medesimo lasso di tempo i funzionari dell’Ammiragliato eran cresciuti da 2.000 a 3.569, e costituivano, come qualcuno osservò, “una poderosa flotta a terra”. Sarà meglio, per chiarezza, esporre questi dati in una tabella.

STATISTICHE DELL’AMMIRAGLIATO

Anno Aumento o diminuzione percentuale
1914 1928
Grandi vascelli in servizio attivo 62 20 – 67,74
Ufficiali e marinai 146.000 100.000 – 31,5
Operai portuali 57.000 62.439 + 9,54
Funzionari e impiegati in servizio portuale 3.249 4.558 + 40,28
Funzionari dell’Ammiragliato 2.000 3.569 + 78,45

A quell’epoca le critiche eran centrate sulla proporzione fra il numero degli uomini disponibili per il combattimento e il numero di quelli disponibili per compiti amministrativi. Ma tale raffronto non serve agli scopi nostri. A noi interessa osservare che i 2.000 funzionari del 1914 eran diventati 3.569 nel 1928; e che tale aumento non aveva alcun rapporto con un possibile aumento del loro lavoro. Durante quegli anni la marina si era ridotta, in realtà, di un terzo per ciò che riguarda gli uomini e di due terzi per ciò che riguarda le navi. Né c’è da credere che dopo il 1922 i totali potessero crescere; infatti l’accordo navale di Washington limitava il numero complessivo delle navi (ma non limitava il numero complessivo dei funzionari). In quanto a questi ultimi abbiamo un aumento del 78 per cento durante un periodo di quattordici anni; cioè un aumento medio annuo del 5,6 per cento rispetto ai dati del 1914. In realtà il tasso di incremento non fu, come vedremo, così regolare. Ma a noi interessa, in questa sede, considerare solo lo incremento percentuale in un determinato periodo.

Si può dunque spiegare questo aumento del numero complessivo dei funzionari statali in altro modo che partendo dal presupposto che detto totale debba sempre crescere secondo una legge determinante? Qualcuno potrebbe osservare che il periodo di cui parliamo vide un rapido sviluppo della tecnica navale. L’impiego di macchine volanti non cm più un fatto straordinario, sporadico. Si andavano moltiplicando e complicando le attrezzature elettriche. I sottomarini, anche se non approvati, erano tollerati. Gli ufficiali di macchina cominciavano a considerarsi esseri pressoché umani. Essendo questa un’epoca rivoluzionaria, non è facile supporre che i magazzinieri avessero da compilare inventari più complessi. Né ci sarebbe da meravigliarsi nel trovare sul libro paga un maggior numero di disegnatori, di progettisti, di tecnici e di scienziati. Ma tutti costoro, cioè i funzionari in servizio a terra, aumentarono solo del 40 per cento, mentre il totale degli uomini di Whitehall crebbe di quasi l’80 per cento. Per ogni nuovo caposquadra, per ogni nuovo elettricista a Portsmouth dovevano per forza esserci due impiegati nuovi a Charing Cross. Da questa osservazione qualcuno potrebbe essere tentato di concludere momentaneamente che il tasso di incremento del personale amministrativo raddoppia, rispetto al personale tecnico, nei periodi in cui la gente che davvero serve (nel nostro caso i marinai) si riduce del 31,5 per cento. Le statistiche tuttavia provano che quest’ultimo dato percentuale non ha per noi alcun significato. I funzionari si sarebbero moltiplicati secondo lo stesso tasso anche se marinai non ne fossero esistiti affatto.

Sarebbe interessante seguire la fase ulteriore, per la quale il personale dell’Ammiragliato (8.118 nel 1935) sali nel 1954 a 33.788. Ma un miglior settore di indagine ci vien offerto dal personale del Ministero delle Colonie, se lo esaminiamo in un periodo di declino del nostro Impero. Infatti le statistiche dell’Ammiragliato son complicate da alcuni fattori (per esempio i reparti d’aviazione annessi alla marina) che rendono più difficile il confronto fra un anno e il successivo. Invece l’incremento del personale al Ministero delle Colonie è per noi più interessante in quanto ha carattere puramente amministrativo. Ecco qui di seguito i dati che ci interessano.

STATISTICHE DEL MINISTERO DELLE COLONIE

Anno

1935

1939

1943

1947

1954

Personale

372

450

817

1.139

1.661

Prima di calcolare quale sia il tasso di incremento, osserviamo che l’ambito delle responsabilità ministeriali non fu sempre lo stesso in questo periodo di venti anni. Fra il 1935 e il 1939 i territori coloniali non mutarono di molto, né da un punto di vista territoriale, né dal punto di vista del numero degli abitanti. Nel 1943 vi fu una notevole diminuzione, perché certe zone caddero in mano nemica. Nel 1947 invece ci fu un aumento, ma dopo quell’anno avvenne una rapida e progressiva contrazione territoriale, perché molte colonie si diedero l’autogoverno. Sarebbe logico supporre che tali mutamenti dell`estensione dell’Impero, si riflettano nella mole dell’amministrazione centrale. Ma basta dare un’occhiata a quelle cifre per convincersi che il numero totale degli impiegati altro non rappresenta che una serie di stadi dello stesso processo di incremento. E tale incremento, anche se ha rapporti con quello già osservato in altri ministeri, non ha invece rapporto alcuno con la grandezza – e neanche con l’esistenza – dell’Impero. Qual è il tasso di incremento? Ignoriamo, a tale scopo, il rapido aumento del personale che si accompagno alla diminuzione delle responsabilità, durante la seconda guerra mondiale. Bisogna piuttosto osservare il tasso di incremento negli anni di pace: oltre il 5,24 per cento fra il 1935 e il 1939, e un 6,55 per cento fra il 1947 e il 1954. L’incremento medio annuo è pari così al 5,89 per cento, cifra spiccatamente simile a quella già rilevata per l’incremento del personale dell’Ammiragliato fra il 1914 e il 1928.

Un’ulteriore e minuziosa analisi statistica del personale burocratico in altri settori, non si conviene alla presente opera. Noi speriamo tuttavia di poter giungere a una conclusione provvisoria per ciò che riguarda il lasso di tempo che probabilmente passerà fra prima nomina di un determinato funzionario e la nomina successiva dei suoi assistenti, due o più.

Considerando il problema dell’accumulazione del personale puro e semplice, le statistiche finora compiute indicano un incremento medio annuo del 5,75 per cento. Ciò stabilito, ci sarà possibile esprimere in forma matematica la Legge di Parkinson: in qualsiasi ministero, eccezion fatta per i periodi bellici, l’aumento del personale avverrà secondo la formula:

dove k indica il numero di coloro che perseguono la

promozione attraverso la nomina di subordinati; l rappresenta la differenza fra l’età della nomina e quella della pensione; m è il numero delle ore lavorative dedicate a rispondere alle comunicazioni interne; n infine è il numero delle entità effettive da amministrare. La x rappresenterà il numero dei funzionari nuovi necessari ogni anno. I matematici naturalmente sanno che per trovare l’incremento occorre moltiplicare x per I00 e dividerlo per il totale dell’anno precedente così:

e il risultato sarà invariabilmente compreso fra 5,17 e 6,56 per cento, senza alcun nesso con le variazioni nella mole del lavoro (ammesso che ce ne sia) da compiere.

La scoperta di questa formula e dei principi generali su cui essa si basa non ha naturalmente alcun valore politico. Non ci siamo nemmeno pro vati a chiederci se i ministeri debbano aumentar di mole. Se qualcuno ritiene che tale aumento sia indispensabile per ottenere piena occupazione, è padronissimo di pensarlo. E se qualcuno invece mette in dubbio la stabilità di una economia basata sulla lettura delle minute altrui, anch’egli è padronissimo della sua opinione. A questo livello sarebbe prematuro svolgere una ricerca circa il rapporto quantitativo desiderabile fra amministratori e amministrati. Tuttavia, ammesso che esista un rapporto massimo, non sarebbe difficile esprimere con una formula il numero degli anni che dovranno passare prima di raggiungere, in un determinato paese, quel massimo. Ma neanche questa previsione avrebbe valore politico. E vogliamo insistere a dire che la Legge di Parkinson è una scoperta puramente scientifica, e non si applica, se non in teoria, alla politica dei giorni nostri. Sradicare le erbacce non è compito del botanico. Egli ha già fatto abbastanza quando ci dice con che velocità crescono.

 

 

LA TERNA DEI CANDIDATI

ossia

I PRINCIPI DELLA SELEZIONE

La burocrazia moderna, sia essa pubblica o privata, ha di fronte a sé un problema costante: la scelta del personale. La Legge di Parkinson, inesorabile, fa sì che di continuo si debba assumere gente nuova. Bisogna perciò, fra tutti quelli che si presentano, scegliere il candidato giusto. Esaminando i principi sulla base dei quali dovrebbe avvenire la scelta, sarà opportuno considerare separatamente i metodi del passato e quelli del presente.

I metodi del passato (ma non del tutto disusati) si dividono in due categorie generalissime: metodo britannico e metodo cinese. L’uno e l’altro meritano attento esame, se non altro perché essi ebbero, al tempo loro, un successo di gran lunga maggiore, rispetto a quelli di moda oggi. Il metodo britannico (vecchia maniera) si fondava su di un colloquio nel quale il candidato doveva dichiarare la propria identità. Si trovava di fronte alcuni anziani signori, seduti attorno a un tavolo di mogano, i quali gli chiedevano quale fosse il suo nome. Supponiamo che il candidato rispondesse: “John Seymour.” Allora uno dei signori diceva: “Parente forse del duca di Somerset?” Probabile che a questa domanda il candidato rispondesse: “No, signore. ” E allora un altro signore chiedeva: “ln tal caso, lei è parente forse del vescovo di Watminster? ” Se il giovane rispondeva ancora di no, un terzo signore, disperato, chiedeva alfine: “ Insomma, lei di chi è parente? ” Se il candidato rispondeva: “ Ecco, mio padre fa il pescivendolo a Cheapside,” il colloquio era sostanzialmente finito. I signori della commissione si scambiavano occhiate d’intesa, uno suonava un campanello e un altro diceva all’usciere: “Butti fuori quest’individuo.” Potevano cancellare senz’altro dalla lista dei candidati un nome. Se il candidato successivo era Henry Molineux, nipote del conte di Sefton, c’erano per lui buone possibilità, almeno fino al momento in cui giungeva George Howard e dimostrava d’essere nipote del duca di Norfolk. Non c’erano per la commissione serie difficoltà, fino a quando quei signori non si trovassero a dover decidere tra il terzogenito di un baronetto e il secondogenito (ma illegittimo) di un visconte. Ma si cavavano d’impaccio consultando un manuale di etichetta. ln tal modo la scelta era fatta. e spesso con ottimi risultati.

Il metodo britannico (vecchia maniera) ha una variante nel metodo dell’Ammiragliato, ma una variante di poco conto, e determinata solo dal più ristretto ambito delle responsabilità. Il consiglio degli ammiragli non si lasciava commuovere da parentele titolate. Il candidato ideale era quello che alla seconda domanda rispondeva: “ Sì, mio zio è l’ammiraglio Parker. Mio padre è il capitano Foley, mio nonno il commodoro Foley. L’ammiraglio Hardy era mio nonno materno. Altro mio zio è il comandante Hardy. Il maggiore dei miei fratelli è tenente dei fucilieri di marina, il secondogenito è guardiamarina a Dartmouth e il fratellino mio più piccolo va vestito alla marinara.” “ Ah! ”osservava allora il più alto in grado fra gli ammiragli. “E, mi dica, perché vuole entrare in marina? ” La risposta a questa domanda tuttavia contava poco, giacché il segretario aveva di già scritto che il candidato era degno. Nel caso di una scelta fra due candidati egualmente degni per motivo di parentela, uno degli ammiragli chiedeva all’improvviso: “Mi dica il numero del tassi su cui lei è venuto fin qua. ” Se il candidato affermava d’essere venuto con l’autobus, subito lo buttavano fuori. Il candidato che rispondesse: “ No lo so, ” veniva respinto. Quello infine che dichiarava (mentendo) “numero 2351” era assunto immediatamente, perché si era dimostrato giovane di bella iniziativa. Tale metodo ha dato quasi sempre buoni risultati.

Il metodo britannico (nuova maniera) fu elaborato alla fine del secolo decimonono, secondo criteri più confacenti a un paese democratico. La commissione preposta alla scelta dei candidati chiedeva all’improvviso: “Che scuole ha frequentato?” e il giovane rispondeva, a seconda dei casi, Harrow, Haileybury, Rugby. La domanda successiva era questa, invariabilmente: “E che sport ha praticato?” Buone possibilità aveva il giovane in grado di rispondere: “Ho giocato a tennis, a cricket, a rugby, a palla-a-mano,” precisando anche le squadre di cui aveva fatto parte. In questo caso la domanda successiva era: “Lei gioca al polo? ” e la domanda mirava a impedire che il candidato si facesse una opinione eccessiva di sé. Ma anche senza il polo, quel giovane era degno di seria considerazione. Quasi non si sprecava tempo, all’opposto, col candidato il quale dichiarasse d’aver fatto i suoi studi a Wiggleworth. “Dove?” chiedeva il presidente sbalordito, e poi, dopo aver risentito il nome: “Ma dove si trova? Ah, nel Lancashire!”, ma la risposta “Ping-pong, ciclismo e boccette ” eliminava definitivamente dalla lista il nome del giovane provinciale. Anzi, qualcuno borbottava contro quei bei tipi che venivan lì a far perdere tempo alla commissione. Anche questo metodo ha dato buoni risultati.

Il metodo cinese (vecchia maniera) fu ricopiato in misura tale dalle altre nazioni che pochi ormai ne intendono l’origine cinese. È il metodo dell’esame di concorso scritto. In Cina, sotto la dinastia Ming, si solevano sottoporre gli studenti migliori all’esame provinciale, che si teneva ogni tre anni. L’esame consisteva di tre sedute, di tre giorni ciascuna. Nella prima seduta il candidato scriveva tre saggi e componeva una poesia di otto distici. Nella seconda seduta scriveva cinque saggi su di un tema classico. Nella terza scriveva cinque saggi sull’arte di governo. Ai candidati promossi (meno del due per cento) toccava l’onore dell’esame finale, nella capitale dell’impero. Questo esame consisteva di una sola seduta, e il candidato scriveva un saggio su un problema d’attualità politica. I promossi in maggioranza diventavano funzionari dello Stato, e l’importanza dell’incarico era proporzionata al voto ottenuto. Questo sistema funzionava bene.

Il sistema cinese fu studiato dagli europei fra il 1815 e il 1830 e nel 1832 lo adottò la Compagnia delle Ind-ie Orientali. Un’apposita commissione, nel 1854 (ne era presidente il Macaulay) studiò la bontà del metodo, che fu poi introdotto, nel 1855, nella nostra burocrazia. Aspetto essenziale degli esami alla maniera cinese è il loro carattere letterario. I candidati dovevano dar prova di buona conoscenza dei classici, di capacità di scrivere in modo elegante (sia in prosa che in poesia). Dovevano inoltre dimostrare d’aver il fiato occorrente a terminare la lunga prova. Il Rapporto Trevelyan-Northcote faceva sue tali caratteristiche, e cosi pure il sistema che da quel rapporto nacque. Si partiva insomma dal presupposto che la cultura classica e la bravura letteraria mettessero qualsiasi candidato in grado di occupare qualsiasi posto nella nostra burocrazia. Si partiva dal presupposto (certo non errato) che una cultura scientifica non serve a nulla – tranne, forse, alla scienza. Si partiva infine dal presupposto che fosse impossibile stabilire una graduatoria di merito fra candidati esaminati in discipline diverse. Giacché è impossibile stabilire se è migliore A in geologia o B in fisica, è pratico, almeno, poterli escludere ambedue perché non servono. Ma se invece tutti i candidati debbono, come esame, scrivere versi in greco o in latino, diventa relativamente facile stabilire chi ha scritto i versi migliori. Cosi uomini scelti in base alla loro bravura nelle materie classiche venivano poi mandati a governare l’India. Quelli che si classificavano subito dopo i primi, restavano in Inghilterra, a governarla. Gli altri o venivano respinti oppure mandati in colonia. Certo, sarebbe ingiusto affermare che questo sistema sia stato un fallimento, ma esso non può certo vantare la fortuna che toccò agli altri sistemi sin allora in uso. Intanto niente poteva garantire che il candidato coi voti migliori non si dimostrasse poi completamente scemo; ciò che non di rado avvenne veramente. Perché la capacità di scrivere versi in greco può essere anche l’unica di cui un individuo è provvisto. Si è dato anche il caso di candidati vittoriosi che all’esame si eran fatti impersonare da qualcun altro, dimostrandosi poi del tutto incapaci di scrivere, all’occorrenza, poesie in greco. Insomma la scelta basata sull’esame di concorso ha avuto un successo non mai più che modesto.

Ma per quanto il sistema suddetto sia difettoso, è certo che esso ha dato risultati migliori, rispetto ad ogni altro sistema escogitato dopo di allora. I metodi moderni si basano sulla prova dell’intelligenza e sul colloquio psicologico. La prova dell’intelligenza ha un difetto: quelli che meglio la superano si rivelano poi analfabeti o quasi. Si spreca infatti tanto di quel tempo a studiare l’arte di farsi esaminare che al candidato non ne resta per studiare altro. Il colloquio psicologico è ormai diventato, come molti sanno, una sorta di casalingo giudizio di Dio. I candidati vanno tutti assieme a trascorrere la domenica in un bel posto, sotto l’osservazione continua degli esperti. Se uno di loro inciampa sullo stuoino, davanti all’uscio, e dice “accidenti!” gli esaminatori, che stanno in agguato nascosti, levan di tasca il taccuino e annotano: “ Scarsa coordinazione fisica” e “ Carenza di autocontrollo”. Non occorre descrivere questo metodo in tutti i particolari, ma i risultati di esso li abbiamo sott’occhio ed è inutile dire che sono quanto mai deplorevoli. Gli individui che riescono in esami di questo tipo hanno di solito temperamento cauto e sospettoso, pedantesco e mediocre: parlano poco e non fanno nulla. Assai usuale, quando si assume gente con questo metodo, che l’unico fra cinquecento candidati sia poi messo da parte dopo poche settimane perché è inutile e perfino inferiore al livello dei suoi colleghi al ministero. Insomma tra i vari metodi di scelta finora sperimentati, l’ultimo è senza dubbio il peggiore.

E in avvenire quale metodo si dovrà usare? Una indicazione per le nostre ricerche ci può venire da un aspetto poco reclamizzato della tecnica selettiva contemporanea. Accade così di rado di dover assumere al ministero degli Esteri un traduttore dal cinese che il metodo usato in tali casi lo conoscono pochissimi. Si fa il bando per quel posto e le domande vengono esaminate (è un nostro esempio) da una commissione di cinque individui, dei quali tre sono funzionari dello Stato e due studiosi cinesi eminentissimi. Ammucchiate sul tavolo dinanzi alla commissione ci sono 483 domande con allegate le referenze. Tutti i candidati sono cinesi e tutti, senza eccezione, hanno almeno la laurea all’Università di Pechino o di Amoy e la libera docenza in filosofia a Cornell o alla John Hopkins. Non ce n’era neanche uno che non fosse stato ministro nel governo di Formosa. Alcuni hanno allegato la fotografia, altri (forse han fatto bene) se ne son ben guardati. Il presidente si rivolge al più autorevole fra i due esperti cinesi e dice: “Penso che il dottor Wu possa dirci quali tra i candidati debbano costituire la terna. ” Il dottor Wu ha un sorriso enigmatico e indica il mucchio delle domande. “Nessuno di questi va bene,” si limita a dire. E il presidente, sorpreso; “Ma come… voglio dire, perché no?” “Perché un vero studioso non avrebbe mai fatto domanda, nel timore di perdere la sua reputazione, una volta respinto.” “E allora cosa dobbiamo fare?” chiede il Presidente. “Forse,” dice il dottor Wu, “convinceremo il dottor Lim ad accettare questo posto. Cosa ne pensa lei, dottor Li?” “Sì, credo di sì,” dice il dottor Li, “ma non possiamo naturalmente avvicinarlo di persona. Chiederemo al dottor Tan se a suo avviso il posto può interessare al dottor Lim.” “Io non conosco il dottor Tan,” dice il dottor Wu, “ma conosco il suo amico, dottor Wong.” A questo punto il presidente ha in capo una tale confusione che non sa chi bisogna avvicinare e chi deve compiere l’avvicinamento. Ma la cosa importante è che tutte le do mande finiscono nel cestino, che si prende in considerazione solo un candidato, il quale non ha neppure fatto domanda.

Noi non consigliamo l’adozione generale del metodo cinese moderno, ma da esso possiamo trarre una conclusione utile: il fallimento degli altri metodi è dovuto soprattutto al fatto che ci sono troppi candidati. Tutti sanno che con qualche accorgimento iniziale se ne può subito ridurre il numero. Ormai è d’uso comune la formula “esclusi quelli in età superiore ai cinquanta, più tutti quelli in età inferiore ai venti, più tutti gli irlandesi”. Applicando questa formula si riduce notevolmente la lista, ma i nomi che restano son pur sempre troppi. È veramente impossibile scegliere tra trecento persone tutte ben, come suol dirsi, “referenziate”, e tutte egualmente raccomandate. Siamo quindi indotti a pensare che lo sbaglio stia nel bando di concorso. Esso ha invogliato troppa gente a far domanda, e questo tè un inconveniente di cui pochi si rendono conto, tanto vero che si redigono bandi in termini tali che inevitabilmente le domande piovono a migliaia. Si annuncia per esempio che è disponibile un posto di responsabilità, perché chi lo occupava è entrato a far parte della Camera dei Lords: ricco stipendio, ottima pensione, compiti nominali, privilegi immensi, incerti apprezzabili, alloggio gratuito, macchina ministeriale e illimitate agevolazioni di viaggio. I candidati facciano domanda immediata ma precisa accludendo copie (mai gli originali) di non oltre tre referenze. Risultato? Un diluvio di domande: parecchie sono di pazzi, altrettante di maggiori dell’esercito a riposo, ma abilissimi (lo affermano sempre) nell’arte di trattare gli uomini. In questo caso non c’è altro da fare che dar fuoco al mucchio delle domande e riflettere daccapo sulla questione. Si sarebbe risparmiato tempo e fastidio riflettendo prima di emanare il bando.

Ci vuol poco a comprendere che il bando di concorso, quando è perfetto, provocherà una sola domanda, e cioè quella dell’unico uomo adatto ad occupare quel posto. Cominciamo con un esempio paradossale :

Cercasi acrobata capace di camminare su un filo teso a 60 metri di altezza sopra un falò ardente. Due volte per sera, il sabato tre volte. Offresi salario 25 sterline settimanali. Non esiste pensione né indennità in caso di incidenti. Presentarsi personalmente al Circo del Gatto Selvatico fra le 9 e le lo del mattino.

La redazione di questo bando forse non è perfetta, ma lo scopo e quello: trovare il punto preciso di equilibrio tra l’attrattiva dello stipendio e il rischio, in modo che si presenti un solo candidato. Il posto non interesserebbe certo a chi non è pratico della danza sul filo. È inutile aggiungere che il candidato deve essere sano nel fisico, astemio e non soggetto a vertigini. È inutile aggiungerlo perché il candidato lo sa. È anche inutile precisare che sono esclusi quelli che non sopportano le grandi altezze. Essi si escluderanno da sé. L’abilità di chi redige il bando sta nel bilanciare lo stipendio con il pericolo. Se offrisse 1.000 sterline alla settimana avrebbe una decina di domande. Se ne offrisse 15 non ne avrebbe alcuna. La somma esatta da specificare, la cifra minima capace di attrarre chi davvero sa compiere l’impresa sta fra le 15 e le 1.000 sterline. Se c’è più di un candidato, ciò significa che la cifra è un pochino troppo alta. E ora, all’opposto, prendiamo un altro esempio, meno paradossale:

Cercasi archeologo fornito di grandi titoli accademici, desideroso di trascorrere quindici anni agli scavi delle Tombe Inca, a Helsdump sul fiume degli Alligatori. Si garantisce croce di cavaliere ufficiale o titolo equipollente. Stipendio 2.000 sterline annue. Prevista la pensione, che sinora però nessuno ha riscosso. Domanda in triplice copia al direttore dell’Istitut0 Grubbenburrow, Sickdale, III., U.S.A.

In questo bando c’è un perfetto equilibrio fra vantaggi e svantaggi. Non c’è bisogno di precisare che i candidati dovranno essere resistenti, coraggiosi e scapoli. È anche inutile aggiungere che i candidati debbono andar pazzi per le tombe, perché certamente essi dovranno essere pazzi. Avendo così ridotto a un massimo di circa tre il numero dei candidati, il bando ha avuto l’accortezza di proporre uno stipendio troppo esiguo per lusingare due di essi e una onorificenza esattamente bastevole a interessare il terzo. È lecito supporre che offrendo la commenda si sarebbero avute due domande, mentre offrendo la croce di cavaliere semplice non ce ne sarebbe stata alcuna; il bando di cui abbiamo dato esempio invece provoca un solo candidato, il quale è certamente pazzo. Ma questo non importa: abbiamo trovato l’uomo che cercavamo.

Qualcuno dirà che È poco probabile il caso di dover assumere un danzatore su filo o uno scavatore di tombe, e che ben più spesso invece si presenta il problema di trovare candidati a posti molto meno esotici. Questo è vero, ma certi principi restano validi. Supponiamo ora che il posto messo a concorso sia quello di Primo Ministro. Oggi si tende ad accettare con fiducia vari metodi elettivi, con risultati che quasi invariabilmente sono disastrosi. Ma se invece noi ripensassimo alle favole della nostra infanzia ci accorgeremmo che all’epoca a cui tali favole si riferiscono usavano metodi assai più soddisfacenti. Quando il re doveva scegliere l’uomo che sposasse la sua figlia maggiore (o l’unica sua figlia) per ereditare il regno, egli di solito preparava una sorta di corsa ad ostacoli dalla quale usciva con onore solo l’uomo adatto. (Anzi, in molti casi da tale corsa usciva soltanto l’uomo adatto.) Per apparecchiare la prova i re di quell’epoca, non troppo nettamente definita, erano ben provvisti di personale e di attrezzature: maghi, demoni, fate, vampiri, lupi, mannari, giganti e nani. I loro reami erano provvisti di montagne magiche, fiumi di fuoco, tesori nascosti e foreste incantate. Qualcuno dirà che sotto questo aspetto gli attuali governanti sono meno fortunati, ma questo in realtà è tutt’altro che certo. Chi ha ai suoi ordini psicologi, psichiatri, alienisti, esperti di statistica, tecnici dell’efficienza, non si trova in condizione peggiore (e nemmeno migliore) di chi una volta poteva contare sull’intervento di orrende streghe e di provvide fate. Chi può disporre di macchine fotografiche, impianti televisivi, reti radiofoniche, apparecchi radiologici non si trova in condizione peggiore (e nemmeno migliore) di chi un tempo usava bacchette magiche, globi di cristallo, pozzi del desiderio e mantelli dell’invisibilità. O almeno è possibile il raffronto fra i mezzi rispettivi di cui gli uni e gli altri dispongono o disponevano. Occorre solo tradurre la tecnica delle fiabe in una forma che vada bene per il mondo moderno. E questo, come vedremo, può farsi senza sostanziali difficoltà.

Per prima cosa occorrerà stabilire quali doti si richiedono al Primo Ministro, doti che non in tutti i casi saranno le medesime, ma dovranno essere stabilite ed espresse volta per volta. Supponiamo che le doti fondamentali siano: 1. energia, 2. coraggio, 3. patriottismo, 4. esperienza, 5. popolarità e 6. eloquenza. Il lettore noterà subito che tali doti sono generiche e che forse tutti i candidati riterranno di possederle. Sarebbe facile restringere il campo chiedendo “esperienza come domatore di leone” ed “eloquenza in lingua mandarina”. Ma non È in questo modo che noi vogliamo restringere il campo. Noi non vogliamo chiedere una qualità in forma specifica, ma piuttosto ciascuna qualità in altissimo grado. In altre parole il candidato vittorioso dovrà essere l’uomo più energico, più coraggioso, più patriottico, più esperto, più popolare e più eloquente del paese. Solo un uomo evidentemente può essere tale, e noi appunto vogliamo avere la sua domanda. Il bando deve essere redatto in modo tale da escludere tutti gli altri. Ecco un esempio di come dovrebbe suonare.

Cercasi Primo Ministro di Ruritania. Orario di lavoro: dalle 4 del mattino alle 11,59 della sera. I candidati dovranno battersi in tre riprese contro il campione dei pesi massimi (con guanti regolamentari). I candidati moriranno per la patria, con mezzi indolori, una volta raggiunta l’età della pensione (65). Dovranno sostenere un esame di procedura parlamentare e ove non ottengano una votazione di almeno 95/ 100 saranno liquidati. Saranno liquidati anche non ottenendo almeno il 75 per cento di voti favorevoli da una inchiesta condotta col metodo Gallup per stabilire la loro popolarità. Infine dovranno dar prova di eloquenza in una chiesa Battista, pronunciandovi una predica allo scopo di convincere i presenti a ballare il rock and roll. Saranno liquidati tutti quelli che non riusciranno nella prova. I candidati si presentino al Circolo Sportivo (entrata laterale) alle 11,15, la mattina del 19 settembre. Saranno loro forniti i guanti da pugilato, ma dovranno provvedere da sé alle scarpe gommate, alla maglietta e ai calzoncini.

Il lettore noterà che questo bando elimina l’impiccio dei moduli, delle referenze, delle fotografie e delle terne di candidati. Se il bando è redatto in modo giusto, ci sarà solo un candidato, il quale potrà insediarsi al suo posto immediatamente o quasi. Ma cosa succede se non ci saranno candidati? Questo è segno che occorre redigere il bando in forma nuova, e che noi abbiamo evidentemente chiesto qualcosa che non esiste. Perciò si può utilizzare lo stesso bando (che dopotutto occupa poco spazio) con qualche lieve modifica. Per esempio si può ridurre il voto richiesto da 95 a 85/100, oppure contentarsi di un 65 per cento nell’inchiesta sulla popolarità, o di due sole riprese per l’incontro di pugilato col campione dei pesi massimi. Si può insomma mitigare le condizioni fino a che non compare una domanda.

Ma supponiamo invece che si presentino due o anche tre candidati. Questo sarà segno della nostra insufficienza scientifica. Sarà segno che abbiamo abbassato troppo il voto richiesto, e che dovevamo fissarlo all’87/100 con un 66 per cento di popolarità. Qualunque sia la causa, ormai il danno è fatto. In sala d’aspetto ci sono due, e magari tre candidati. A noi tocca scegliere e non possiamo buttar via tutta la mattinata. Qualcuno consiglierà di avviare il duello all’ultimo sangue eliminando i candidati di minor merito. Ma non è questa la maniera più sbrigativa. Supponiamo che tutti e tre i candidati abbiano le doti da noi considerate essenziali. La cosa migliore È chieder loro un’altra dote e ricorrere alla più semplice fra le prove. Cioè chiedere alla signorina più a portata di mano (una segretaria o una dattilografa, secondo il caso): “Lei quale preferisce?” La signorina indicherà subito uno dei candidati e la storia sarà finita. Qualcuno ha obiettato che questo equivale a lanciare in aria la monetina o comunque a lasciar che decida il caso. Invece il caso non c’entra. Si tratta solo di un’ulteriore dote, entrata in ballo all’ultimo momento, e che finora non avevamo tenuto in nessun conto, la dote del sex appeal.

 

 

DELLA COMITOLOGIA

ossia

IL COEFFICIENTE DI INEFFICIENZA

Il ciclo vitale del comitato ha una importanza tale per la nostra conoscenza dei problemi d’attualità che c’è da meravigliarsi del fatto che cosi scarsa attenzione sia stata dedicata a quella scienza che si chiama comitologia. Tale scienza si basa su un principio primo ed elementarissimo: ogni comitato, ogni consiglio, ha carattere organico e non meccanico: esso non è una struttura, ma una pianta. Esso mette radici e cresce, fiorisce appassisce e muore, spargendo il seme da cui a loro volta fioriranno altri consigli, altri comitati. Solo coloro che tengono in mente tale principio possono sperare di procedere nella comprensione della struttura e della storia del governo moderno.

I consigli (oggi tutti lo riconoscono) si dividono all’ingrosso in due categorie: a. Quelli da cui i singoli membri hanno qualcosa da guadagnare; b. Quelli a cui i singoli membri hanno qualcosa da dare. Per il nostro scopo, i casi che appartengono al secondo gruppo hanno un’importanza molto relativa; alcuni anzi non credono nemmeno che possano chiamarsi consigli. Dal primo gruppo, di gran lunga il più numeroso, è più facile apprendere i principi che, con qualche lieve modifica, valgono in tutti i casi. Fra i consigli del primo gruppo i più lussureggianti e i più profondamente radicati son quelli che danno ai propri membri maggior potenza e maggior prestigio. Quasi in ogni parte del mondo tali consigli si chiamano consigli di stato o “gabinetti”. Questo capitolo si fonda su un ampio studio dei gabinetti di varie nazioni, nello spazio e nel tempo.

I comitologi e gli storici, ma anche le persone ordinarie che nominano i gabinetti, ritengono, dopo un attento esame al microscopio, che la grandezza ideale di un gabinetto non debba superare il numero di cinque. Entro questi limiti la pianta è vitale, giacché consente che due dei cinque siano ammalati o assenti contemporaneamente. È facile convocare cinque persone le quali, una volta riunite, possono funzionare con competenza, segretezza e velocità. Di questi cinque membri, quattro saranno versati, rispettivamente, nelle finanze, in politica estera, in problemi relativi alla difesa, e nell’amministrazione della giustizia. Il quinto, non essendo riuscito a impadronirsi di nessuna di queste scienze di solito vien nominato Presidente o Primo Ministro.

Pur essendo chiaro che è meglio limitare il numero dei membri a cinque, l’osservazione ci insegna che assai presto tale numero sale a sette o nove. Tale aumento, pressoché inevitabile (fanno eccezione tuttavia il Lussemburgo e l’Honduras), si giustifica con il pretesto che occorre una competenza specifica in più che quattro argomenti soltanto. Ma la ragione, potentissima, per cui la squadra si amplia è un’altra. Infatti in un gabinetto di nove ministri si noterà che tre prendono le decisioni, due forniscono informazioni, uno dà consigli d’ordine finanziario. Il Presidente è neutrale e lui compreso i membri che funzionano sono sette. Gli altri due – lo si capisce a prima vista – son lì per motivi meramente ornamentali. Questa divisione di compiti si manifestò per la prima volta in Inghilterra verso il 1639, ma non c’è dubbio che già da molto tempo si era manifestata la pazzia di includere più di tre uomini capaci ed eloquenti in un consiglio. Noi non sappiamo nulla sulla funzione degli altri due membri, quelli che tacciono, ma c’è motivo di credere che un gabinetto, al secondo stadio del suo sviluppo, non possa funzionare senza di loro.

Esistono gabinetti (vengono subito in mente alcuni esempi: Costarica, Equador, Irlanda del Nord, Liberia, Filippine, Uruguay e Panama) che sono rimasti al secondo stadio, cioè hanno limitato a nove il numero dei propri membri. Ma si tratta comunque di una piccola minoranza. Altrove, in paesi più vasti, in genere tutti i gabinetti sono andati soggetti alla legge della crescita. Si ammettono nuovi membri, alcuni a motivo della loro competenza specifica, altri – e sono i più – perché darebbero troppo fastidio restando fuori. Si può vincere la loro opposizione solo compromettendoli nelle decisioni che si prendono. Man mano che essi entrano (e si calmano) il numero totale dei membri cresce da dieci a venti. In questa terza fase già si presentano notevoli svantaggi.

Lo svantaggio più evidente è la difficoltà di riunire tante persone nello stesso posto, lo stesso giorno, alla stessa ora. Uno parte il 18, un altro sarà di ritorno solo il 21. Un terzo non è mai libero di giovedì, un quarto irreperibile prima delle cinque pomeridiane. Ma questo è solo l’inizio dei guai perché una volta che la maggioranza sia riunita, assai grande è la possibilità che alcuni membri siano troppo vecchi, stanchi, sordi o incapaci di farsi ascoltare. Pochi son stati scelti col presupposto che siano, siano stati, possano essere utili. Magari molti di essi sono stati accolti nel gabinetto solo per cattivarsi la simpatia di un gruppo che sta al di fuori del gabinetto. Essi perciò tendono a riferire tutto ciò che accade al gruppo di cui sono rappresentanti. Va così perduta la segretezza e, quel che è peggio, i singoli membri cominciano a prepararsi in anticipo i discorsi che faranno. Pronunciano la loro orazione e dopo raccontano agli amici quello che immaginano di aver detto. Ma quanto più chiacchierano questi membri meramente ornamentali, tanto più i gruppi esterni insistono a chiedere nuovi membri che li rappresentino. Si formano così fazioni interne le quali cercano di acquistare forza reclutando elementi nuovi. Si raggiunge e si sorpassa il traguardo dei venti. E così, all’improvviso, il gabinetto entra nella fase numero quattro, quella finale, della sua storia.

A questo livello di evoluzione del gabinetto (cioè fra i 20 e i 22 membri) tutto il consiglio va soggetto a un improvviso mutamento chimico, anzi organico. Facile discernere e intendere la natura di questo mutamento. In primo luogo i 5 membri che contano davvero si riuniscono per conto proprio prima che si raduni il consiglio. Essendo già state prese le decisioni, agli altri resta poco da fare. Di conseguenza cessa ogni resistenza all’ulteriore aumento del consiglio. Crescendo il numero dei membri non si sprecherà tempo in più; infatti le riunioni del consiglio sono sostanzialmente tempo sprecato. Perciò la pressione di gruppi esterni viene temporaneamente soddisfatta accettando i loro rappresentanti, e passeranno decine d’anni prima che essi comprendano quanto sia illusorio questo vantaggio. Spalancate le porte, il numero dei membri sale da 20 a 30 e poi da 30 a 40. Può darsi che presto ci capiti di vedere un gabinetto che raggiunge il traguardo dei 1000 membri. Ma questo non importa. Infatti il gabinetto ha cessato di essere un gabinetto vero, e le sue vecchie funzioni sono passate a qualche altro organo.

Cinque volte, nella storia d’Inghilterra, la pianta ha percorso il suo ciclo vitale. Sarebbe certo difficile dimostrare che la prima incarnazione del gabinetto – il Consiglio della Corona che oggi si chiama Camera dei Lords – abbia mai avuto solo cinque membri. All’epoca di cui abbiamo qualche notizia, si era già perso il carattere originario di quel consiglio e il numero dei membri, tali in linea ereditaria, variava già da 29 a 50. In seguito il numero crebbe, di pari passo con la perdita del potere effettivo. Facciamo cifre tonde: nel 1601 60 membri, 140 nel 1661, 220 nel 1760, 400 nel 1850, 650 nel 1911 e 850 nel 1952.

Ma quando si formò l’embrione nel grembo della nobiltà inglese? Verso il 1257, quando i membri del consiglio, ristrettissimo, si chiamavano Lords del Consiglio del Re, ed erano meno di 10. Nel 1378 erano 11, e tanti rimasero fino al 1410. Poi, dopo il regno di Enrico IV, cominciarono a moltiplicarsi. I 20 del 1433 erano diventati 41 nel 1504, e giunsero ad essere 172 quando alla fine il consiglio smise di riunirsi.

All’interno del Consiglio del Re si sviluppò la terza incarnazione del gabinetto – si chiamava Consiglio Privato – che all’inizio contava nove membri. Sali a 20 nel 1540, a 29 nel 1547 e a 44 nel 1558. Il Consiglio Privato, man mano che perdeva in efficienza, cresceva di mole. Nel 1679 erano 47 i suoi membri, 67 nel 1723, 200 nel 1902 e 300 nel 1951.

All’interno del Consiglio Privato si formò il Consiglio di Gabinetto, che verso il 1615 si sostituì al primo. Erano solo otto membri all’epoca di cui abbiamo le prime notizie, ma nel 1700 si era già a 12, e a 20 nel 1725. Al Consiglio di Gabinetto si sostituì un gruppo nato nel suo grembo, che si chiamò semplicemente Gabinetto. Sullo sviluppo di quest’ultima pianta sarà bene esprimersi mediante una tabella. Eccola:

Tavola I

IL GABINETTO INGLESE

Anno 1740 1784 1801 1841 1885
Numero dei membri 5 7 12 14 16

 

Anno 1900 1915 1935 1939 1945
Numero dei membri 20 22 22 23 16

 

Anno 1945 1949 1954
Numero dei membri 20 17 18 00 00

 

Chiaro che dopo il 1939 si è cercato in ogni modo di salvare questa istituzione: qualcosa di simile ai tentativi che si fecero per salvare il Consiglio Privato durante il regno della Regina Elisabetta I. La fine del Gabinetto parve imminente nel 1940, poiché era sorto un gabinetto ad esso interno (5,7 o 9 membri) e pronto a prenderne il posto. È tuttavia un punto controverso. Può anche darsi che il gabinetto britannico .abbia ancora la sua importanza.

Rispetto al gabinetto britannico quello americano ha dimostrato straordinaria resistenza all’inflazione politica. Nel 1789 aveva cinque membri, il numero perfetto, ancora 7 soltanto nel 1840, 9 nel 1901, 10 nel 1913, 11 nel 1945, e poi – contro la tradizione – di nuovo 10 nel 1953. Non sappiamo quale sarà il successo di questo tentativo, avviato nel 1947, di ridurre il numero dei membri. L’esperienza starebbe a dimostrare che inevitabilmente si riprenderà la vecchia tendenza. Sia detto fra parentesi, gli Stati Uniti hanno un invidiabile primato, a mezzo col Guatemala e con El Salvador: un gabinetto con un numero di membri inferiore a quello del Nicaragua e del Paraguay.

E gli altri paesi? Quelli non totalitari hanno in maggioranza gabinetti varianti fra i 12 e i 20 membri. La media, su 60 paesi, è superiore a 16; più frequenti i gabinetti di 15 membri (se ne annoverano sette esempi) e di 9 (ancora sette esempi). Di gran lunga il più strano è il gabinetto neozelandese: uno dei suoi membri si proclama “ministro dell’agricoltura e delle foreste, ministro degli affari Maori, incaricato della conservazione del paesaggio”. Ai banchetti ufficiali neozelandesi il capotavola darà la parola al “ministro della Sanità, vice primo ministro, ministro incaricato delle aziende statalizzate, del censo e delle statistiche, della pubblicità e delle informazioni”. Per fortuna in altri paesi è assai rara una simile orientale abbondanza. Dagli esempi britannici par lecito dedurre che il livello dell’inefficienza si raggiunge quando il numero complessivo dei membri supera i 20 o forse i 21. Il Consiglio della Corona, il Consiglio del Re e il Consiglio Privato avevano tutti passato il segno dei 20 quando ne cominciò il declino. Il gabinetto inglese è oggi al di sotto di quel numero, essendosi appena salvato dall`abisso in cui stava precipitando. Da questi esempi saremmo tentati di dedurre che i gabinetti – come qualsiasi altro consiglio – con un numero di membri superiore ai 21 stanno già perdendo la realtà del potere, mentre quelli anche più numerosi l`hanno di già perduta. Ma una teoria siffatta non può reggere senza il sostegno delle prove statistiche. Eccone un esempio, solo parziale, sempre sotto forma di tabella.

 

Tavola II

MOLE DEI GABINETTI

Numero dei membri

Paesi

6

Honduras, Lussemburgo

7

Haiti, Islanda, Svizzera

9

Costarica Equador, Irlanda del Nord, Liberia, Panama, Uruguay

10

Guatemala, El Salvador, Stati Uniti

11

Brasile, Nicaragua, Pakistan, Paraguay

12

Bolivia, Cile, Perù

13

Columbia, Repubblica Domenicana, Norvegia, Tailandia

14

Danimarca, India, Sudafrica, Svezia

15

Austria, Belgio, Finlandia, Iran, Nuova Zelanda, Portogallo, Venezuela

16

Irak, Olanda, Turchia

17

Irlanda, Israele, Spagna

18

Egitto, Gran Bretagna, Messico

19

Germania Occidentale, Grecia, Indonesia, Italia

20

Australia, Formosa, Giappone

21

Argentina, Birmania, Canada, Francia

22

Cina

24

Germania Orientale

26

Bulgaria

27

Cuba

29

Romania

32

Cecoslovacchia

35

Iugoslavia

38

URSS

Non sarebbe forse lecito tracciare una linea sotto la parola Francia (21 membri di gabinetto) e spiegare che il consiglio dei ministri non ha più alcun potere nei paesi elencati al disotto di quella linea? Certi comitologi paion propensi ad accettare tale conclusione senza discutere più oltre. Altri invece consigliano maggiore prudenza, specialmente quando si esamini la situazione ai confini del 21. Ma ormai quasi tutti ammettono che il coefficiente di inefficienza deve trovarsi fra 19 e 22.

Possiamo tentare una spiegazione di questa ipotesi? Occorre però anzitutto fare una netta distinzione fra realtà e teoria, fra sintomo e malattia. Circa il sintomo più ovvio quasi tutti son d’accordo. Sappiamo infatti che una riunione a cui partecipino più di 21 persone comincia a cambiare carattere. All’uno e all’altro capo della tavola la conversazione si scinde e continua divisa in due tronconi. Per farsi sentire quindi chi parla all’intero uditorio deve alzarsi in piedi. Una volta ritto, non può evitare il discorso, se non altro per forza d’abitudine. “Signor presidente,” comincerà, “penso di poter affermare senza tema di smentita – e parlo sulla base di venticinque anni (potrei quasi dire ventisette) di esperienza – che la questione deve essere affrontata con la massima considerazione. Una pesante responsabilità incombe su di noi, signori, e per mia parte io… ”

In mezzo a tante chiacchiere inutili, quelli fra i presenti – se ce ne sono – che vogliono essere utili a qualcosa, si scambiano bigliettini su cui è scritto: “Vieni a desinare a casa mia, domani. Ne discuteremo.”

E cos’altro dovrebbero fare? Continua il ronzio interminabile di quella voce: l’oratore potrebbe anche parlare nel sonno. Il consiglio, di cui egli è il membro meno utile, ha smesso di contare qualcosa. È finito, disperato, morto.

Su questo non ci son dubbi. Ma la causa radicale dell’inconveniente va più a fondo, ed in qualche misura deve ancora essere messa in luce. Troppi fattori vitali restano sconosciuti. Per esempio: qual è la forma, quale la grandezza della tavola, in sala di consiglio? Quale l’età media dei presenti? A che ora si riunisce il consiglio? In un capitolo come è questo, dedicato cioè al lettore non specializzato, sarebbe assurdo ripetere i calcoli grazie ai quali si è stabilito un primo coefficiente di inefficienza. Basti quindi sapere che dopo lunghe ricerche l’Istituto di Comitologia ha stabilito una formula ormai largamente (anche se non universalmente) accettata dagli esperti del ramo. Non sarà male premettere che i tecnici i quali hanno svolta l’inchiesta presupponevano clima temperato, poltrone di cuoio, astemia quasi completa. Ciò premesso, ecco la formula

Nella nostra formula m indica il numero medio dei membri presenti; ° il numero dei membri che

subiscono l’influenza di pressioni esterne; d la distanza, espressa in centimetri, fra i due membri che seggono più lontani l’uno dall’altro; p la pazienza del presidente, misurata secondo la scala Peabody; b la pressione sanguigna media dei tre membri più anziani, rilevata poco prima della riunione. In tal modo X ci darà il numero dei membri presenti nel momento in cui è manifestamente impossibile che il consiglio possa più funzionare. Ciò dà in altre parole il coefficiente di inefficienza, che dovrebbe stare fra il 19,9 e 22,4. (Si scusino i decimali, i quali stanno a indicare le assenze parziali; cioè i membri che non hanno partecipato a parte della seduta.)

Non sarebbe giusto concludere, dopo solo una rapida occhiata all’equazione, che la scienza comitologica è molto progredita. I comitologi e i subcomitologi non oserebbero mai vantarsene, se non altro per timore della disoccupazione. Anzi, essi affermano che i loro studi sono appena agli inizi, e che siamo alle soglie di formidabili sviluppi. Facendo perciò la tara dell’interesse personale – cioè diminuendo del 90 per cento quel che essi affermano – possiamo tuttavia concludere che c’è ancora molto lavoro da svolgere.

Volendo, potremmo indicare la formula grazie alla quale si determina il numero perfetto dei membri di un consiglio. Il numero aureo giace fra il 3 (sotto del quale non esiste più il quorum) ed il 21 circa (oltre il quale l’organismo comincia a morire). Qualcuno ha avanzato l’ipotesi, di per sé interessante, secondo la quale il numero perfetto sarebbe otto. Perché? Perché, come si vede dalla nostra Tabella II, è l’unico numero che tutti gli stati esistenti hanno unanimemente evitato. Teoria affascinante, certo, ma che offre il fianco a una grave obiezione. Re Carlo I preferì proprio il numero otto per il suo Consiglio di Stato. E avete visto che bella fine ha fatto?

 

 

 

LA VOLONTÀ DEL POPOLO

ossia

IL GRANDE RADUNO

 

Tutti vedono la differenza fondamentale fra le istituzioni parlamentari inglesi e francesi, poi copiate da tutte le altre assemblee che da quelle due derivano. E tutti intendono che tale differenza, nettissima, non ha nulla a che fare con il temperamento dei due popoli. Deriva invece dai criteri con cui si mettono seduti i membri dei due parlamenti. Gli inglesi, che hanno alle spalle un’educazione sportiva, entrano nella Camera dei Comuni con lo stato d’animo di chi preferirebbe fare qualcosa d’altro. Se là dentro non possono giocare a tennis o a golf, per lo meno possono far conto che la politica sia un gioco, con regole molto simili a quelle che governano tutti i giochi. Senza questo trucco della fantasia, il Parlamento avrebbe un interesse anche minore di quello che ha. Cosi gli inglesi, quasi per istinto, formano due squadre contrapposte. con tanto di arbitro e di segnalinee, e si battono, a parole, fino all’esaurimento. La camera dei Comuni è fatta in modo tale che il singolo Membro è costretto, in pratica, a schierarsi da una parte o dall’altra, prima ancora di sapere di che cosa si parla. L’inglese è stato educato, sin dalla nascita, a giocare a pro della sua squadra, e questo fatto gli risparmia ogni indebito sforzo mentale. Quando in punta di piedi va a sedersi al suo posto (l’oratore ha quasi finito) egli sa esattamente come intervenire nella discussione, proprio in quel momento. Se chi parla e della parte sua dirà. “Bene, bene.” Se invece della Parte opposta, potrà dire senza paura: “Vergogna! o anche solo: “Oh!” In seguito, se gli va, può anche chiedere al suo vicino di che cosa, secondo lui, si sta parlando. A rigore però non e indispensabile. In ogni caso il Membro ne sa quanto basta per non calciare la palla verso la porta propria. Gli uomini seduti dalla parte. opposta hanno sempre torto, e tutto quel che dicono sono chiacchiere inutili. Invece gli uomini che sian seduti dalla parte sua son tutti grandi statisti, e i loro discorsi una felice miscela di saggezza, eloquenza e moderazione. Non conta sapere dove abbia fatto i suoi studi politici, il nostro Membro: qualunque sia la sua università, vi avrà imparato soprattutto questo: quando è il momento di applaudire e quando invece di disapprovare. Comunque il sistema britannico, come già abbiamo detto, dipende solo dalla disposizione dei seggi. Se le panche non fossero disposte in due file, l`una di fronte all’altra, nessuno più distinguerebbe il vero dal falso, la saggezza dalla pazzia. Occorrerebbe in questo caso stare a sentire quel che dice il prossimo, cosa quanto mai ridicola perché una metà dei discorsi sono necessariamente privi di significato.

L’errore francese fu quello di disporre i seggi dei rappresentanti a semicerchio, tutti fronte alla presidenza. Non dico immaginatevi la confusione che ne deriva, perché immaginarsi è inutile: sanno tutti come stanno le cose. In tal modo risulta impossibile formare due squadre contrapposte e stabilire (se non ascoltando i discorsi altrui) qual è l’argomentazione più convincente. Ulteriore svantaggio: la lingua francese (gli Stati Uniti ebbero l’accortezza di non seguire tale esempio). Ma anche senza difficolta di ordine linguistico, il sistema francese e già di per sé scadente. Invece di costituire due parti (quella giusta e quella sbagliata), in modo che sia subito chiaro come stanno le cose, i francesi formano una moltitudine di squadre, fronte da ogni parte. C’è in campo una tale confusione che nemmeno può cominciare il gioco. I rappresentanti si distinguono, sostanzialmente, in una destra e in una sinistra, a seconda del posto in cui siedono. Ottimo criterio: peccato che i francesi non abbiano pensato anche a disporre i loro rappresentanti in ordine alfabetico. Infatti la forma semicircolare della camera consente infinite sottili sfumature nei vari gradi di destrismo e di sinistrismo. Non c’è la netta divisione britannica fra destra e sinistra, fra giusto e torto. Si dirà, in Francia, che quel deputato è a sinistra di monsieur Untel, ma a destra di monsieur Quelquechose. Cosa possono fare i francesi? Cosa faremmo noi in Inghilterra con un sistema siffatto? La risposta è: “Nulla.”

Del resto lo sanno tutti. Si sa meno invece quale grande importanza abbia la disposizione dei seggi in altre assemblee, in altre riunioni, internazionali, nazionali, locali. Il discorso vale anche per le riunioni che avvengono attorno a un tavolo, come la famosa Conferenza della Tavola Rotonda. Basta pensarci un attimo e si comprenderà che una Conferenza della Tavola Quadrata sarebbe cosa totalmente diversa, e una Conferenza della Tavola Rettangolare sarebbe altra cosa ancora. Tali differenze non influiscono soltanto sulla lunghezza e sull’acrimonia della discussione; influiscono anche sulle decisioni (ammesso che se ne prendano). Assai di rado, come tutti sanno, la votazione ha qualche rapporto col merito della questione trattata. La decisione ultima dipende da molti fattori, alcuni dei quali occorre esaminare subito. Ma diciamo peraltro questo: la decisione vien sempre, di fatto, presa in base ai voti del blocco di centro. E questo non potrebbe accadere alla Camera dei Comuni, dove non si consente che nasca un blocco di centro. ll blocco di centro invece ha un’importanza decisiva nelle assemblee dell’altro tipo, ed è composto dagli elementi qui sotto indicati:

  1. Quelli che non han letto i documenti, le relazioni, i memorandum preparati prima della riunione e spediti da tempo a tutti coloro che dovrebbero parteciparvi.
  2. Quelli che son troppo stupidi per seguire la discussione. È facile distinguerli perché di solito costoro si dicono l’un l’altro: “Ma questo, di che cosa sta parlando?”
  3. I sordi. Tengono le mani a coppa sulle orecchie e borbottano: “Dovrebbero alzare la voce.”
  4. Quelli che a tarda notte erano ubriachi e si sono alzati (Dio sa perché) con un tremendo mal di capo, convinti che al mondo nulla più conta.
  5. I vegliardi, che si fanno un punto d’orgoglio d’essere sempre in gamba, più in gamba di parecchi fra questi giovani. “Son venuto a piedi,” bisbigliano. “A ottantadue anni è una bella impresa, non le pare?”
  6. I deboli, che per tale debolezza hanno promesso all’una e all’altra parte di dare il proprio voto, e non sanno come comportarsi. Sono indecisi: o astenersi o fingersi ammalati.

Chi vuol conquistare i voti del blocco di centro dovrà in primo luogo individuare e contare i membri che lo compongono. Ciò fatto, tutto il resto dipende solo dal posto in cui essi si metteranno a sedere. La cosa migliore è dare incarico a un amico (in senso politico) fidato e vigoroso di attaccare discorso, prima che cominci il dibattito, coi suddetti tipi del blocco di centro. In questa chiacchierata preliminare l’amico starà ben attento a non far parola della questione su cui si svolgerà il dibattito. Ci sono alcune mosse d’apertura che sarà bene insegnargli. Eccone sei, una per ogni tipo indicato sopra:

  1. “Tempo perso, dico io, tutta questa carta stampata. Io ho buttato ogni cosa nel cestino.”
  2. “Con tutte queste chiacchiere tra poco mi addormento. lo vorrei che la gente chiacchierasse meno e venisse subito al dunque. A me non la fanno, mi creda.”
  3. “L’acustica di questa sala è tremenda. Ma questi famosi tecnici che ci stanno a fare? NON SENTO NEMMENO LA METÀ DI QUEL CHE DICONO. E LEI?”
  4. “Che posto disgraziato! Secondo me dipende dalla ventilazione. Quasi mi sento male. E lei come si sente?”
  5. “ Davvero, ma come fa? Mi dica il segreto. Forse l’alimentazione?”
  6. “Ci sono tanti argomenti pro e contro che io non so davvero a chi dare il voto. Lei cosa mi consiglia?”

Se l’amico sa far bene queste mosse iniziali, riuscirà a intavolare una vivace conversazione, e intanto piloterà il suo uomo, quello del blocco di centro, verso l’aula. Intanto un altro compare si metterà davanti alla coppia, e avanzerà nella loro stessa direzione. Ma sarà meglio ricorrere a un esempio concreto. Supponiamo che l’amico (politico naturalmente) signor Gagliardi piloti il signor Malcerti (blocco di centro, tipo ƒ) verso un seggio che sta quasi dinanzi alla presidenza. Davanti a loro avanza l’altro amico, il signor Fedeli, il quale si mette a sedere, facendo finta di non aver veduti i due che lo seguono. Fedeli infatti si volge dall’altra parte e saluta con la mano qualcuno, distante. Poi si sporge verso il seggio anteriore e dice qualcosa all’uomo che ci è sopra. Solo dopo che Malcerti si è messo a sedere, Fedeli si volgerà per dirgli: “Caro amico, son contento di vederla. ”Lascerà passare qualche minuto ancora, poi scorgerà Gagliardi e fingendosi sorpreso dirà: “Salve, Gagliardi, non credevo di incontrarla qua dentro!” E Gagliardi risponde: “Sto meglio, grazie. Era solo un raffreddore.” In tal modo la disposizione sui seggi apparirà casuale, e amichevole. Termina così la prima fase dell’operazione, che sarà la medesima indipendentemente dalla categoria a cui appartiene l’uomo del blocco di centro. La seconda fase invece muterà a seconda del carattere dell’uomo che bisogna influenzare. Nel caso del signor Malcerti (tipo ƒ) scopo della seconda fase è di evitare qualsiasi discussione sul problema in esame, e dargli l’impressione che ogni cosa è ormai già decisa. Seduto nelle prime file, Malcerti non può guardare i suoi colleghi, ed è quindi facile fargli credere che in pratica tutti la pensano allo stesso modo.

Gagliardi dirà: “Proprio non so cosa ci son venuto a fare. Mi par di capire che sul punto quattro son tutti d’accordo. Tutti quelli con cui ho parlato paiono decisi a votare a favore.” (O contro, a seconda del caso.)

“ Strano,” disse Fedeli. “Stavo appunto per dirlo. Ormai pare proprio che non ci siano dubbi.”

“Io non avevo ancora deciso,” dice Gagliardi. “Si posson dire tante cose pro le contro. Ma mettersi all’opposizione sarebbe proprio tempo sprecato. Lei cosa ne pensa, Malcerti?”

“Be’,” dice Malcerti, “ammetto che il problema mi sembra arduo. Da un lato ci sono buoni motivi per votare a favore… Ma d’altro canto… Lei crede che la mozione passerà? ”

“Caro Malcerti, le dirò che mi fido del suo giudizio. Lei mi diceva poco fa che sono già tutti d’accordo.”

“ Davvero le ho detto questo? Be”… pare che ci sia una maggioranza costituita… Ma d’altronde…”

“La ringrazio, Malcerti,” dice Gagliardi, “del consiglio. Anch’io la penso cosi, ma son contento di sentire che lei è dello stesso parere. Mi preme molto la sua opinione.”

Intanto Fedeli si è voltato a parlare con un tizio, seduto alle sue spalle. Gli dice, a bassa voce: “Come sta sua moglie? È uscita dalla clinica?” Ma quando si volge ancora, comunica che anche quelli di dietro la pensano allo stesso modo. Ormai in pratica la mozione è approvata. E se il piano d’azione è ben condotto, il voto sarà favorevole senz’altro.

Mentre la parte avversa si affatica a preparare discorsi e a redigere emendamenti, la parte nostra, superiore per tecnica, si sarà dedicata invece all’incastro di ciascun membro del blocco di centro fra due amici fidati. Quando si arriva al momento cruciale, la vista del collega di destra e di quello di sinistra che alzano la mano costringe il malcerto a fare il medesimo. Nel caso che si fosse addormentato (ciò che sovente accade ai membri del blocco di centro, categorie d ed e) provvederà il collega seduto alla sua destra ad alzargli la mano. Questo per non alzare tutte e due le mani, gesto riprovevole, a quanto dicono. Assicurato l’appoggio del blocco di centro, la mozione verrà approvata con un comodo margine; o respinta, se questo volevamo ottenere. Per ciò che riguarda le questioni controverse da dirimere secondo la volontà del popolo, possiamo dar per scontato che a decidere saranno i membri del blocco di centro. I discorsi rappresentano una palese perdita di tempo. Una fazione non sarà mai d’accordo, l’altra è d’accordo in partenza. Resta il blocco di centro, i cui rappresentanti si dividono in due gruppi: quelli che non sentono cosa si dice, quelli che, se anche sentissero, non capirebbero nulla. Per guadagnarsi i loro voti occorre soprattutto l’esempio di altri che, al loro fianco, votano in un certo modo. Son voti in mano al caso. Non è dunque meglio che li prenda chi sa il suo mestiere?

 

 

 

LO SCHERMO DELLA PERSONALITÀ

ovverossia

LA FORMULA DEL COCKTAIL

 

Il cocktail party è un elemento fondamentale della vita moderna. È un’istituzione su cui s’imperniano tutti i congressi: quello internazionale, quello di cultura, quello industriale. Tutti sanno che un congresso è impossibile senza almeno un cocktail party. Fino a questo momento però non se ne sono studiate scientificamente le funzioni ed i possibili usi. È quindi tempo di dedicare all’argomento un po’ di vigile attenzione. Innanzi tutto: quando si prepara un cocktail party, quali fini abbiamo in mente?

Alla domanda si risponderà in vari modi, e così appar subito chiaro che uno stesso party può servire a diversi scopi. Scegliamone uno a caso e vediamo come si possa raggiungerlo in modo più rapido e completo, applicando il metodo scientifico. Supponiamo che lo scopo sia quello di scoprire l’importanza relativa della gente invitata. Presupponiamo di conoscere già, di ciascuno, posizione sociale e anzianità di servizio. Ma noi vogliamo sapere l’importanza relativa al lavoro in corso. Spesso infatti accade che l`uomo, o la donna, chiave, non sia quello che ufficialmente sta più in alto, e che la sua effettiva influenza appaia chiara solo alla fine del congresso. Quanto più utile sarebbe stato saperlo prima che cominciasse! In tal senso assume importanza vitale il cocktail party, che si terrà il secondo giorno del congresso.

Essendo il nostro scopo d’ordine investigativo, presupponiamo che lo spazio in cui si svolge il cocktail party giaccia tutto al medesimo livello, e che ci sia un solo ingresso. Presupponiamo inoltre che il ricevimento durerà in effetti due ore e venti, anche se sui biglietti d’invito si parla di due ore esatte. Ultimo presupposto: i beveraggi circoleranno liberamente in tutta la zona che ci interessa: un bar visibilmente in funzione cambierebbe infatti la natura del nostro problema. Ciò premesso, come si può distinguere l’importanza reale da quella teorica degli ospiti che sono intervenuti?

La nostra indagine si baserà in primo luogo su di un fatto accertato: cioè la direzione della corrente umana. Sappiamo infatti che gli ospiti, arrivando, si dirigeranno automaticamente verso il lato sinistro della sala. Questo scivolamento a sinistra ha una sua spiegazione, molto interessante e, in parte, biologica. Il cuore è (o meglio, sembra essere) nella parte sinistra del corpo umano. Nelle forme primitive assunte dall’arte bellica si usa perciò uno scudo che protegga il lato sinistro del corpo, lasciando alla mano destra il compito di usare l’arma offensiva. L’arma offensiva più diffusa era un tempo la spada, riposta in una guaina o fodero. Giacche ad estrarre la spada provvede la mano destra, il fodero deve collocarsi a sinistra. Con il fodero a sinistra era fisicamente impossibile montare a cavallo dal lato destro dell’animale, a meno di non voler stare in groppa con la faccia alla coda, sistema non normale. Ma per montare a cavallo dal lato sinistro bisogna spostare la bestia sul lato sinistro della strada, in modo da non impacciare il traffico. Diventa perciò naturale, e giusto, tenersi a sinistra: chi fa il contrario (succede in taluni paesi arretrati) va nettamente contro i più profondi istinti storici. Se togliamo ogni arbitraria norma del traffico, un essere umano normale pende a sinistra.

Secondo fatto notorio: la gente preferisce tenersi alle pareti, anziché al centro della sala. Ciò appar chiaro se si osserva il modo in cui si riempie un ristorante. Per primi vengono occupati i tavoli lungo la parete di sinistra, poi quelli in fondo, poi quelli lungo la parete destra e infine (non senza riluttanza) quelli di centro. Tale è l’avversione umana allo spazio centrale, che certe imprese non sperano più ormai di colmarlo, e per questo creano la cosiddetta pista da ballo. Il lettore comprenderà che questo tipo di comportamento può essere sovvertito da qualche fattore estraneo: per esempio dal bel panorama che si ammira dalle finestre della parete di fondo. Se escludiamo cattedrali, ghiacciai, cascate, il ristorante si empirà necessariamente secondo lo schema suddetto, da sinistra a destra. Questa avversione per lo spazio centrale deriva da istinti preistorici. L’uomo delle caverne che entrava in casa, ossia in caverna, altrui, non era mai certo d’essere bene accolto e quindi voleva avere le spalle al muro, e spazio dinanzi a sé per muoversi. Al centro della caverna si sentiva troppo esposto. Perciò girava tutt’intorno alle pareti della caverna, grugnendo e brandendo la clava. L’uomo moderno si comporta pressoché allo stesso modo: anche lui borbotta fra sé e tormenta la cravatta. Il moto degli ospiti, all’interno di una sala, è identico a quello che abbiamo descritto al ristorante. C’è la tendenza alle pareti. Ma non, si badi bene, sino a toccarle.

Combinando questi due fatti noti, cioè la tendenza a sinistra e l’altra, a evitare lo spazio centrale, ecco la spiegazione biologica del fenomeno che tante volte abbiamo osservato coi nostri occhi: cioè la tendenza oraria del flusso umano. Può esserci qualche vortice, qualche mulinello di minor conto. Per esempio una donna che cerca di evitare l’amica che odia, oi che corre incontro a un’altra amica – anche più odiata della precedente – strillando “Cara!”: comunque il flusso generale è quello, attorno alla stanza, inesorabilmente. La gente che conta, la gente che, come suol dirsi “è nel giro”, sta di solito nel punto dove la corrente è più forte, ed avanza col moto generale a velocità media. Quelli invece che paiono risucchiati contro le pareti, assorti in profonda conversazione con persone che poi incontrano ogni settimana, non contano invece un fico secco. Quelli che si ficcano negli angoli della stanza sono i timidi, i deboli. Quelli che avanzano fino al centro della sala sono gli stravaganti o, più semplicemente, gli sciocchi.

Occorre poi studiare l’ora d’arrivo degli invitati. Possiamo senz’altro presupporre che la gente che conta arriva all’ora che essa stima più utile. Costoro non commetteranno mai l’errore di sopravvalutare la lunghezza del tragitto, arrivando dieci minuti prima che cominci il ricevimento. Né commetteranno l’errore di arrivare ansimanti quando la festa è già finita, perché si è loro fermato l’orologio. No, le persone che noi intendiamo identificare sanno scegliere il momento giusto. Quale momento? Quello nettamente stabilito da due considerazioni. I nostri individui non vorranno mai fare entrata prima che ci sia un certo numero di persone pronte a notarli. Ma nemmeno arriveranno dopo che gli atri individui importanti se ne sono andati (come spesso fanno) a un altro ricevimento, ed almeno un’ora prima della fine di esso. In tal modo potremmo concludere che il momento ideale per presentarsi a un ricevimento è tre quarti d’ora dopo l’inizio segnato sull’invito. Se per esempio il biglietto dice 6,30, l’ora ideale sarà 7,15. Il lettore forse avrà voglia di concludere che una volta scoperto questo, il nostro problema sia risolto. Qualcuno magari dirà: “Non importa quel che succede dopo. Basta guardare la porta, consultare l’orologio, ed ecco la risposta.” Ma il vero esperto sorriderà con benevola ironia. Chi può garantirci infatti che la persona la quale arriva alle 7,15 lo abbia fatto di proposito? Può darsi che qualcuno avesse intenzione di giungere alle 6,30 precise, ma ha fatto tardi perché ha sbagliato indirizzo, o perché l’orologio suo va indietro. Può darsi persino che qualcuno intervenga senza nemmeno l’invito, avendo sbagliato giorno e luogo. È lecito concludere che i personaggi importanti arriveranno fra le 7,10 e le 7,20, ma sarebbe errato ritener vero l’opposto, che cioè siano importanti tutti gli ospiti che si presentano a quell’ora.

A questo stadio della nostra ricerca bisogna pertanto sperimentare e completare la nostra teoria con mezzi empirici. Per intendere in pieno il comportamento delle correnti sociali, dovremo appunto ricorrere alla tecnica in uso nei laboratori di idraulica. Cosa fa lo scienziato? Se per esempio vuole rendersi conto del flusso dell’acqua attorno a un pilone di una data forma, aggiunge all’acqua un colorante, che poi fa scorrere su di una lastra di vetro. Sul vetro pone un modellino del pilone. Poi, dall’alto, fotografa il disegno tracciato dal colorante. Noi dovremmo pertanto marcare le persone notoriamente importanti – macchiarle insomma – e fotografare dall’alto il tragitto che compiono. Qualcuno dirà che non tè facile svolgere una ricerca con questi criteri. Ma per nostra fortuna sappiamo che un’esperienza del genere – “macchiare” le persone importanti – è già avvenuta, in una colonia inglese.

Successe questo: un ex governatore, circa un secolo fa, cercò di convincere tutti i maschi di qualche prestigio a indossare l’abito da sera nero, invece di quello bianco. Non accettarono i suoi consigli e il suo esempio mercanti, banchieri, avvocati, ma rispettarono il suo tacito ordine i funzionari dello stato, che non avevano in proposito opinione alcuna. Risultato: si stabili una tradizione che è continuata fino ai giorni nostri. Gli alti funzionari del governo vanno vestiti di nero, tutti gli altri di bianco. Ora, essendo i funzionari dello stato ancora importanti in quella particolare società, fu facile ai ricercatori seguirne i movimenti dall’alto di una balconata. Poterono addirittura fotografare, e non in una sola occasione, i loro movimenti. Ne venne fuori la conferma alle teorie sinora enunciate, e fu possibile giungere alle conclusioni che oggi finalmente possiamo rendere di pubblico dominio. I rilevamenti – attentissimi – provarono, senza più ombra di dubbio, che le giacche nere arrivavano fra le 7,10 e le 7,20; che circolavano attorno alla stanza in senso orario; che evitavano sia gli angoli che le pareti della stanza, che avevano addirittura orrore dello spazio centrale. Fino a questo punto il comportamento di questi individui conferma in pieno la nostra teoria. Ma poi si è rilevato, durante quelle indagini, un ulteriore e inatteso fenomeno. Una volta giunti a un punto di estrema destra della sala – occorreva una mezz’ora – per dieci minuti e più sostavano in quel punto. Poi se ne andavano, quasi all’improvviso. Solo dopo lungo ed attento studio delle pellicole impressionate si comprese il significato del loro comportamento. La pausa – questa fu la conclusione – serviva a consentire alle altre persone importanti di unirsi al gruppo. Insomma quelli che eran giunti alle 7,10 attendevano gli altri, giunti alle 7,20. Non occorreva molto tempo perché si compisse la radunata degli importanti. Essi desideravano solo farsi vedere dagli altri, come prova che erano in sala. Ciò fatto, cominciava la ritirata, che inevitabilmente era compiuta alle 8,15.

Le nostre osservazioni in quel limitato settore paiono potersi applicare ad ogni altro caso; e non è difficile applicare la formula. Per scoprire gli individui che veramente contano occorre dividere (solo mentalmente) il pavimento in quadrati, contrassegnarli, da sinistra a destra entrando, con le lettere A, B, C, D, E, ed F. Dall’ingresso all’estremità della sala, nel senso della profondità insomma, si marchino i numeri da 1 a 8. L’ora d’inizio del ricevimento si chiami H. Dal momento in cui arriva il primo ospite a quello in cui l’ultimo se ne va trascorreranno due ore e venti circa. Diciamo dunque H+140. Ormai è semplicissimo scoprire quali sono gli ospiti che davvero contano. Sono quelli che troviamo raggruppati nel quadrato E/7 fra l’ora H+75 e l’ora H+90. La persona più importante di tutte si troverà al centro del gruppo.

Il lettore comprenderà che l’efficacia di questa regola sta nel fatto che essa è poco nota. Perciò le cose descritte in questo capitolo si considerino segrete. Non sarà male riporle sotto chiave. Gli studiosi di scienze sociali conservino per sé queste notizie. Il volgo può fare a meno di leggerle.

 

 

 

 

ALTA FINANZA

ovverossia

IL PUNTO DI CADUTA DELL’INTERESSE

 

La gente che s’intende di alta finanza va divisa in due gruppi: quelli che hanno una cospicua ricchezza personale, e quelli che non l’hanno. Per il miliardario un milione di sterline è una cifra reale, comprensibile. Lo studioso di matematica ed il libero docente di economia (partiamo dal presupposto che facciano la fame) considerano un milione di sterline qualcosa di reale, allo stesso titolo di mille sterline, proprio perché non hanno mai posseduto né la prima né la seconda somma di denaro. Ma il mondo è pieno di gente che non fra i miliardari e i matematici, gente Cioè che non sa niente a proposito dei milioni, ma è abituata a vivere e a pensare sulla base delle migliaia. Le assemblee finanziarie sono in larga misura composte da individui di quest’ultimo tipo. Ne consegue un fenomeno che sinora molti hanno osservato, ma studiato nessuno. Lo potremmo chiamare Legge della Non Importanza. Enunciata nella forma più semplice, questa legge suona così: il tempo impiegato a discutere i punti all’ordine del giorno è inversamente proporzionale alla somma implicata.

Ora che ci ripenso. non mi sembra del tutto giusta la mia affermazione, che nessuno cioè ha mai fatto studi su questa legge. Se ne sono fatti, ma con criteri tali che i ricercatori non sono mai giunti a capo di nulla. Essi partivano infatti dal presupposto che avesse grande importanza la successione dei vari punti all’ordine del giorno. Altro loro presupposto: gran parte del tempo libero sarà dedicata ai punti fra l’uno e il sette, lasciando poi automaticamente passare tutti gli altri. Tutti sanno quali furono le conseguenze di questo sbaglio. La conferenza del dottor Guggenheim al congresso di Muttworth fu accolta con uno scherno che a quei tempi forse parve eccessivo, ma le discussioni che sull’argomento si ebbero in seguito paiono dimostrare che le critiche erano giuste. Cosi si sono sprecati anni in ricerche che non potevano approdare a nulla perché partivano da presupposti sbagliati. Noi ora vediamo chiaramente che la successione dei punti all’ordine del giorno ha importanza molto relativa, per ciò che attiene al nostro problema. E pensiamo anche, ormai, che fu fortunato il dottor Guggenheim a poter fuggire, come gli accadde, in mutande. Se avesse osato proporre quella sua conclusione al successivo congresso, che avvenne nel settembre, sarebbe stato accolto con ben altro che scherno. Il pubblico avrebbe pensato che l’insigne studioso intendeva perder tempo di proposito.

Se vogliamo che la nostra ricerca vada avanti, bisognerà dimenticare tutto quel che si è fatto sinora. Ricominciare dall’inizio, per comprendere appieno come funziona in realtà un’assemblea di finanzieri. Ad uso e consumo del lettore comune, esporremo le cose in forma drammatica. Cosi:

Presidente: “Siamo giunti al punto numero nove. Ascoltiamo il rapporto del nostro tesoriere, signor McPhail.”

Signor McPhail: “I preventivi circa il reattore atomico sono dinanzi agli occhi di lor signori, nell’appendice H al rapporto del sottocomitato. Lor signori vedranno che il progetto generale e l’impianto son già stati approvati dal professor McFission. Il costo totale ammonterà a 10.000.000 di sterline. Gli appaltatori, signori McNab e McHash, stimano di poter ultimare i lavori per l’aprile 1963. Tuttavia il signor McFee, nostro consulente, ci avverte che non possiamo sperare che i lavori siano in realtà compiuti prima dell’ottobre. Dello stesso avviso è il signor McHeap, famoso geofisico il quale asserisce che occorreranno lavori di puntello all’estremità sud dell’impianto. Il progetto relativo all’edificio principale si trova davanti agli occhi di lor signori – vedano l’appendice IX – e l’intera cianografia sta sul tavolo. Sarò ben lieto di dare altri chiarimenti ai signori membri di questa assemblea che ne facciano richiesta.”

Presidente: “ Ringrazio il signor McPhail per la lucida esposizione del progetto. Vogliano ora gli altri membri esporre il proprio punto di vista.”

A questo punto fermiamoci e consideriamo quali possano essere le opinioni dei vari membri. Supponiamo che siano undici, compreso il presidente ma escluso il segretario. Di questi undici membri quattro – compreso il presidente – non sanno che cosa sia un reattore. Degli altri otto, tre non sanno a cosa serve. Dei cinque che lo sanno, solo due hanno qualche idea del suo possibile costo. Uno di loro si chiama signor Isaacson, l’altro signor Brickworth. Ambedue sono in grado di intervenire. Supponiamo che parli per primo Isaacson.

Signor Isaacson: “Ebbene, signor presidente, vorrei poter nutrire maggior fiducia negli appaltatori e nel nostro consulente. Se ci fossimo subito rivolti al professor Levi, e se avessimo concesso l’appalto ai signori David e Golia, mi sarei sentito più tranquillo, circa questo progetto. Il signor Lyon-Daniels non ci avrebbe fatto perdere tempo cercando di indovinare quali saranno i possibili ritardi nel compimento del lavoro, ed il dottor Moses Bullrush ci avrebbe detto se occorrono davvero i lavori di puntello. ”

Presidente: “Certamente tutti apprezziamo la preoccupazione del signor Isaacson circa il compimento dei lavori nella maniera migliore possibile. Ritengo tuttavia che, essendo ormai ora tarda, non ci sia più tempo per chiedere il parere di altri consulenti tecnici. Certo, il contratto principale non è ancora stato firmato, ma già abbiamo speso considerevoli somme. Se non accettiamo il consiglio dei tecnici, che ci è costato del denaro, dovremo pagarne altrettanto.”

(Mormorio di approvazione degli altri membri)

Signor Isaacson: “Desidererei che il mio intervento fosse messo a verbale.”

Presidente: “Ma certo. Il signor Brickworth ha forse qualcosa da dire?”

Ora, il signor Brickworth è quasi l’unico a sapere di che cosa si stia parlando, e potrebbe dire molte cose. Intanto non lo convince quella cifra tonda, 10.000.000 di sterline. Perché proprio una somma così esatta? E poi chi è McHeap? Non è per caso quel tipo che fu citato in tribunale dalla Società Petrolifera Sciutti e Seccati? Ma questo Brickworth non sa da che parte cominciare. Se per caso citasse la cianografia, gli altri non capirebbero. Dovrebbe addirittura principiare spiegando cos’è un reattore e nessuno dei presenti ammetterebbe di non saperlo già. Meglio dunque non dire nulla.

Signor Brichworth: “Non ho osservazioni da fare.”

Presidente: “Nessun altro chiede la parola? Benissimo. Possiamo quindi concludere che progetti e preventivi restano approvati? Grazie. Posso quindi firmare a vostro nome il contratto principale? (Mormorio di assenso.) Grazie. Possiamo passare al punto numero dieci.”

Considerati anche i pochi secondi necessari per sfogliare le carte e per spiegare i diagrammi, per il punto numero nove son bastati due minuti e mezzo. La riunione procede bene. Ma qualcuno è preoccupato per ciò che riguarda il punto numero nove. Dentro di sé si sta chiedendo se ha davvero fatto sentire il proprio peso. Ormai è tardi per discutere ancora del reattore, ma costui vorrebbe, prima che finisca la riunione, dimostrare d’esser desto e attento alle cose che si dicono.

Presidente: “Punto numero dieci. Ripostiglio per biciclette ad uso impiegati. I signori Bodger e Woodworm ci inviano un preventivo, e si impegnano a fornirci il lavoro per la somma di 350 sterline. Lor signori possono vedere i progetti in tutti i particolari.”

Signor Soƒtleigh: “Io penso, signor presidente, che la somma sia eccessiva. Vedo che il tetto sarà d’alluminio. Non sarebbe meglio farlo di asbesto, che è meno caro?”

Signor Holdƒast: “Sono d’accordo con il signor Softleigh, per ciò che riguarda il costo, ma a mio avviso il tetto dovrebbe essere di ferro galvanizzato. Ritengo che l’intero ripostiglio si potrebbe avere per 300 sterline, o anche meno.”

Signor Daring: “Dirò di più, signor presidente. Mi chiedo se questo ripostiglio è veramente necessario. Mi sembra che noi già facciamo abbastanza a pro del nostro personale. Non sono mai contenti, questo il guaio. La prossima volta vorranno addirittura l’autorimessa.”

Signor Holdƒast: “No, non posso appoggiare l’intervento del signor Daring. Ritengo che il ripostiglio sia necessario. È solo questione di materiali e di costi…”

La discussione è ben avviata. E questo perché tutti comprendono cosa sono 350 sterline, tutti immaginano un ripostiglio per le biciclette. La discussione continua per quarantacinque minuti, col risultato, forse, di risparmiare 50 sterline. Ma alla fine tutti hanno la sensazione di aver lavorato sul serio.

Presidente: “Punto numero undici. Rinfreschi durante le riunioni della commissione per i rapporti con le maestranze. Un mese, 35 scellini.”

Signor Soƒtleigh: “Che genere di rinfreschi furon serviti nel caso specifico?”

Presidente: “Caffè, credo.”

Signor Holdƒast: “E questo fa una spesa annua di… vediamo… 21 sterline?”

Presidente: “Esatto.”

Signor Daring: “Ebbene signor presidente, mi chiedo se la spesa è giustificata. Ma quanto durano queste riunioni?”

Ora la discussione si fa anche più aspra. Magari nella commissione ci sono membri che non intendono la differenza fra l’asbesto e il ferro galvanizzato, ma cosa sia il caffè lo sanno tutti – cos’è, come va fatto, dove va comprato e se deve comprarsi. Questo punto all’ordine del giorno tiene occupati i membri per un’ora e un quarto, ed essi finiranno col chiedere al segretario altre informazioni, rinviando le decisioni alla prossima seduta.

Giustamente il lettore si chiederà a questo punto se su di una somma anche inferiore – diciamo 10, o anche 5 sterline – l’assemblea dei finanzieri trascorrerebbe un lasso di tempo maggiore e proporzionato. A questo proposito dobbiamo ammettere la nostra ignoranza. Possiamo tuttavia affermare, provvisoriamente, che deve esserci un punto in cui il processo si capovolge, giacché i membri dell’assemblea considerano la somma all’esame troppo esigua per essere presa in considerazione. Le ricerche non hanno ancora stabilito quale sia il punto che segna l’inizio del rovesciamento. Il distacco fra i due tempi di discussione, due minuti e mezzo per i 10.000.000 di sterline, un’ora e un quarto per 20 sterline, è veramente marcato. Sarebbe utile e interessante stabilire con esattezza il punto di caduta dell’interesse. Supponiamo che tale punto sia al livello delle 15 sterline: il tesoriere, ove abbia all’ordine del giorno un punto che interessi la somma di 26 sterline, potrebbe scinderlo in due, di cui uno di 14, 1’altro di 12 sterline, con evidente risparmio di tempo e di fatica.

Ripetiamo, la nostra conclusione è solo ipotetica e provvisoria, ma c’è motivo di supporre che il punto di caduta dell’interesse equivalga alla somma che i singoli membri della riunione son disposti a spendere per una scommessa o per una impresa benefica. Un’inchiesta orientata verso gli ippodromi e verso le chiese metodiste, ci consentirebbe di avviare a soluzione l’intero problema. Assai più difficile sarebbe stabilire il punto esatto in cui la somma discussa è troppo grande per poterne parlare. Pare tuttavia che 10.000.000 di sterline e 10 sterline implichino lo stesso esatto tempo di discussione. La nostra stima, due minuti e mezzo, non pretende di essere esatta, ma deve pur esserci un lasso di tempo – fra i due minuti e i quattro minuti e mezzo – che basta per discutere sulle due somme, la massima e la minima.

C’è ancora gran mole di ricerche da svolgere, ma i risultati finali, una volta raggiunti, saranno di immenso interesse e di valore immediato per il bene dell’umanità.

 

 

 

 

LA CAPANNA E LA FUORISERIE

cioè

LA FORMULA DEL SUCCESSO

 

Al lettore che si interessa di antropologia piacerà certo sapere che per certe ricerche dei giorni nostri sono occorsi metodi completamente nuovi. L’antropologo, di solito, trascorre sei settimane, o sei mesi (e finanche sei anni) in mezzo alla tribù dei Boreyu (questo è solo un esempio) stanziata lungo il corso del Teedyas superiore, nella regione di Darndreey. Poi ritorna nel mondo civile carico di fotografie, nastri magnetici, taccuini di appunti, ansioso di cominciare il suo libro sulla vita sessuale e sulla superstizione. La vita dei poveri Boreyu diventa insopportabile, proprio a causa di quell’esploratore ficcanaso. Spesso questi indigeni si convertono al cristianesimo ed entrano nella chiesa presbiteriana nella speranza che, dopo, gli antropologi smetteranno di occuparsi di loro. Ed infatti pare che questo accorgimento abbia sempre funzionato. Ma a disposizione della scienza resta ancora un numero ragguardevole di popoli primitivi, i libri continuano a moltiplicarsi, e quando l’ultima delle tribù africane avrà deciso, per sopravvivere, di intonare gli inni sacri, ci saran sempre i poveri dei tuguri. A costoro, oltre la miseria, tocca anche il tormento dell’inchiesta, della macchina fotografica, del dittafono. Tutti noi sappiamo i risultati – ancora libri – di queste inchieste. La novità di cui parlavamo non sta nella tecnica dell’inchiesta, ma nella scelta dell’ambiente su cui l’inchiesta si svolge. Gli antropologi di questa scuola – recentissima – ignorano sia i primitivi che i poveri. Preferiscono scegliersi il campo di lavoro nel mondo dei ricchi.

L’équipe di cui parleremo – ne fa parte anche l’autore di queste pagine – ha svolto una certa mole di studi preliminari sui grandi armatori greci, e in un secondo tempo ha studiato, con maggiore minuzia, i padroni degli oleodotti in Arabia. Poi, costretta ad abbandonare questi studi per ragioni politiche e d’altro genere, l’équipe fece una inchiesta fra i milionari cinesi di Singapore. Durante quell’inch’iesta abbiamo scoperto l’“Enigma dei Lacchè”, ed abbiamo sentito parlare per la prima volta della Barriera dei cani da guardia Cinesi. Nelle prime fasi della nostra ricerca nemmeno conoscevamo il significato di quei due termini. Non sapevamo neppure se per avventura fossero due espressioni per dire la stessa cosa. Possiamo dire, a nostro onore, d’aver seguito subito la prima traccia che ci si presentò.

Tale traccia ci apparve durante una visita al signor Hu Got Dow, nel suo palazzo di Singapore. Volgendosi allo scudiero che ci aveva mostrato la bellissima collezione di giade il dottor Meddleton esclamò: “Caspita! E dicono che agli inizi della sua carriera era un coolie” ” E l’enigmatico cinese rispose: “Solo un coolie può diventale licco. Solo un coolie somiglia a un coolie. Solo uomo molto licco può pelmettelsi somigliale coolie.” Su queste poche enigmatiche parole (di cui l’uomo non ci dette più alcuna spiegazione) si basò il nostro sistema di ricerca. I risultati del nostro lavoro sono raccolti nel Rapporto Meddleton-Snooperage (1956) ma nulla vieta di riesporli in forma più semplice al lettore ordinario. Eccone dunque un riassunto. Si sono di proposito evitati i particolari di carattere tecnico.

In una certa misura – lo scoprimmo Subito – il problema del coolie-milionario non è poi tanto complesso. Il coolie cinese vive in una capanna dal tetto dl Palma, e campa d`una ciotola di riso Quando assume un occupazione migliore – andare in giro a vendere noccioline, per esempio – campa ancora di riso ed abita in una capanna. Quando fa un ulteriore passo avanti – vende, mettiamo, pezzi di ricambio per biciclette, magari rubati – non abbandona tuttavia né la capanna ne il riso. Risultato: ha soldi da investire. Su dieci coolies siffatti, nove perderanno i loro risparmi in speculazioni sbagliate. Il decimo avrà maggiore astuzia o maggiore fortuna, rispetto agli altri. Ma tuttavia continuerà a vivere nella sua capanna e a mangiare il suo riso. È una tecnica quanto mai degna di studio.

Se pensiamo alla storia americana, la storia delle capanne di tronchi di legno, arriva presto il momento in cui il futuro miliardario deve mettersi la cravatta. Dirà, per giustificarsi che altrimenti non riesce a ispirare fiducia al prossimo. Deve anche trovarsi un alloggio migliore, per motivi (dice lui) di puro prestigio. In realtà la cravatta se la mette per far contenta la moglie, e si trasferisce in una casa nuova per soddisfare l’orgoglio di sua figlia. I cinesi controllano assai meglio le loro donne. Infatti il coolie arricchito si sposta dalla capanna, e dal riso. È cosa nota a tutti, e che si spiega in due modi. In primo luogo la sua casa (a parte ogni altro svantaggio) gli ha portato fortuna, innegabilmente. In secondo luogo una casa più bella finirebbe inevitabilmente per richiamare l’attenzione dell’agente delle tasse. Perciò il cinese, saggio, decide di restarvi. Continuerà a tenersi la vecchia capanna per Il resto della sua vita magari mettendoci l’ufficio. È così restio ad abbandonarla che un trasloco sta a indicare una crisi fondamentale nella sua vita.

Se fa il trasloco, ciò avviene per’ sfuggire alle vessazioni delle società segrete, dei ricattatori, delle bande. Nascondere la crescente ricchezza all’esattore delle tasse non è difficile; ma nasconderla ai soci d’affari è praticamente impossibile. Una volta diffusa la voce che egli se la passa bene, gli “amici” suoi calcoleranno minuziosamente la “stoccata” che gli si può dare. Queste cose le sanno tutti, ma gli studiosi del passato son giunti, con troppa facilità, alla conclusione che la somma in questione è una sola. In realtà son tre: la somma che la vittima pagherebbe quale riscatto, se rapito; la somma che pagherebbe per evitare un articolo diffamatorio sui giornali cinesi; la somma che pagherebbe quale elemosina per salvare la faccia.

Nostro compito è cercar di stabilire la somma numero uno, media, pagabile nel momento in cui avviene il trasloco dall’originaria capanna alla casa nuova, ben recinta e guardata da un cane alsaziano. Questo trasferimento si è chiamato “effrazione della barriera dei cani da guardia”. Gli studiosi di scienze sociali ritengono che questo debba avvenire appena il riscatto esigibile superi il costo massimo del rapimento.

Quasi contemporaneo al trasloco, per un cinese ricco, è l’acquisto di una Chevrolet o di una Packard. Ma capita spesso che l’acquisto preceda nel tempo il trasloco. Ecco il motivo della macchina fuori serie davanti alla porta di un ufficio sordido: uno spettacolo così comune che quasi nessuno ci fa più caso. Finora del fenomeno non si è data spiegazione esauriente. Ammessa – il che è lecito – la necessità dell’automobile, sarebbe legittimo attendersi che anch’essa partecipasse dello squallore generale. Ma per motivi non ancora ben chiariti, la ricchezza, in Cina, si misura anzitutto in termini di cromature, tappezzeria, marca, anno di fabbricazione. E la Packard implica, quasi subito, recinto di rete metallica, finestre con inferriate, rimessa chiusa a chiave e cani da guardia. È avvenuto un mutamento di carattere rivoluzionario. Il proprietario di cani alsaziani non giungerà magari al punto di pagare le tasse, ma almeno deve essere in grado di spiegare i motivi per cui non gli è mai venuto in saccoccia un reddito tassabile. Ed anche se scampa al pagamento di 100.000 dollari ai gangsters, difficilmente eviterà di pagare in qualche modo un qualche ricatto. Inevitabile che gli si presentino, cerimoniosi, dei giornalisti, i quali si vantano di aver sempre rifiutato di pubblicare articoli a lui ostili su fogli di dubbia fama. Inevitabile che la settimana dopo gli stessi giornalisti si ripresentino, questa volta a raccogliere fondi per una qualche nebulosa opera pia. Inevitabile che vengano a trovarlo certi dirigenti sindacali proponendogli di far qualcosa per alleviare le agitazioni, che altrimenti lederebbero i suoi interessi. Insomma deve rassegnarsi, e rinunciare a una parte dei suoi profitti.

Fra i nostri compiti c’era anche quello di raccogliere qualche notizia precisa circa la frase “cane alsaziano” nella carriera di un uomo d’affari cinese. In certo senso questa è stata la parte più difficile di tutta l’inchiesta. Certe cognizioni infatti si raggiungono solo a costo di pantaloni a brandelli e caviglie ingessate. Ripensandoci Ora, possiamo andare orgogliosi, perché, laddove i rischi erano inevitabili, li abbiamo affrontati con animo fermo. Non occorse invece alcun lavoro campestre per scoprire le somme effettive pagate per un riscatto. Tali cifre infatti son note al pubblico e spesso compaiono sulla stampa locale, e sembrano essere esatte. Interessa notare, a proposito di queste somme, lo scarto lieve fra la minima e la massima. Lo scarto è dai 5.000 ai 200.000 dollari. Mai somme troppo esigue (2.000 dollari, per esempio) mai somme troppo alte (per esempio 500.000 dollari). E non c’è dubbio che l’ambito della maggioranza di tali estorsioni è anche più ristretto. Ulteriori indagini varranno senza dubbio a stabilire quale possa considerarsi somma media.

Supponendo che l’estorsione minima sia rappresentata da una cifra bastevole a consentire un margine di profitto, è facile concludere che l’estorsione massima rappresenta tutto quel che si può levar di tasca all’uomo più ricco che mai sia stato catturato per ottenerne il riscatto. Però è evidente che i ricchissimi non hanno mai subito trattamenti simili. Sembra esserci un livello oltre il quale il cinese diventa immune da ricatto. Non solo: in quest’ultima fase il miliardario pare che, anziché nasconderla, ostenti la sua ricchezza, quasi a dimostrare pubblicamente che ha raggiunto il livello dell’immunità. Sinora gli scienziati della nostra équipe non son riusciti a scoprire in che modo si raggiunga questa definitiva immunità. Alcuni che cercavano di documentarsi sull’argomento son stati buttati fuori dal Circolo dei Miliardari. Ma poiché tale livello di immunità deve avere qualche rapporto col numero degli scudieri, degli aiutanti di campo, dei camerieri, dei segretari e dei valletti (a questo livello si esibisce tale massa di persone) i nostri scienziati han definito il problema “Enigma del Lacchè” e l’hanno messo da parte.

C’è motivo però di credere che questo problema non resterà la lungo insoluto. Intanto già sappiamo che, grosso modo, la soluzione va scelta fra due ipotesi, e non è escluso che noi possiamo accettarle ambedue. Qualcuno ritiene infatti che i lacchè siano in realtà uomini armati che formano una impenetrabile guardia del corpo. Altri sostengono che il miliardario si è comprato una società segreta al completo, contro la quale le altre bande mai oserebbero scendere in campo. Verificare la prima teoria – mediante un sequestro di persona ben organizzato – sarebbe relativamente facile: sacrificando un paio di vite si potrebbe stabilire, senza più ombra di dubbio, la verità dei fatti. Per l’altra teoria invece occorrerebbe più cervello e forse anche più coraggio. Giacché abbiamo avuto di già dei feriti da morso di cane fra i membri della nostra équipe, non ce la sentiamo più di proseguire in quella direzione. Non abbiamo più né gli uomini né i fondi necessari a ultimare l’inchiesta. Ma poiché di recente abbiamo avuto certi aiuti dalla Miss Plaste Trust (settore Estremo Oriente) non disperiamo di trovare, e presto, la risposta.

Anche dopo la pubblicazione del nostro rapporto interno resta un problema: diciamo piuttosto l’enigma dell’evasione fiscale in Cina. Siamo riusciti a scoprire soltanto che i metodi occidentali non sono molto usati. Come tutti sanno la tecnica occidentale per non pagare le tasse si basa sulla scoperta del ritardo medio (R.M., come diciamo noi) vigente nell’ufficio imposte con cui dobbiamo trattare. Per ritardo medio si intende, naturalmente, il tempo che intercorre fra il momento in cui una lettera arriva e quello in cui il personale addetto comincia ad occuparsene. Più esattamente potremmo dire che per R.M. si intende il tempo necessario perché una pratica salga dal fondo alla cima del suo mucchio. Supponiamo che l’R.M. sia pari a 27 giorni. In tal caso l’evasore fiscale occidentale inizia la sua campagna con una lettera in cui chiede perché non ha ancora ricevuto l’avviso di pagamento. Potrebbe anche dire una qualsiasi altra cosa, ciò non importa. Egli vuole soltanto che la sua pratica, col nuovo inserto, finisca in fondo al mucchio. Venticinque giorni dopo egli scrive ancora, chiedendo perché non ha avuto risposta alla prima lettera. Cosi la sua pratica, che stava per arrivare in cima al mucchio, ritorna in fondo. Dopo venticinque giorni scrive ancora… Cosi nessuno si occupa veramente della sua pratica, la quale non sale mai in evidenza. Poichè questo modo è noto a tutti, e tutti sappiamo che rende, concludemmo ovviamente che doveva esser noto anche in Cina. Invece scoprimmo che l’R.M. non esiste nei paesi orientali. A causa di certe variazioni di clima e di astemia gli uffici delle imposte orientali non hanno quel ritmo ordinato degli occidentali e quindi non è possibile prevederne il comportamento. Una cosa e certa. qualunque sia il metodo che usano i cinesi, esso non dipende da alcun R.M. noto.

Per questo problema – sia ben chiaro – non abbiamo una soluzione definitiva. Abbiamo solo un’ipotesi, sulla validità della quale sarebbe prematuro pronunciarsi. Tale ipotesi fu avanzata da uno dei membri più brillanti della nostra équipe, e si basa su una felice ma non documentata ispirazione. Secondo tale ipotesi il miliardario cinese non aspetta l’avviso di pagamento, ma preferisce mandare in anticipo, all’agente delle tasse, un assegno, diciamo, di 329,83 dollari. Aggiunge una lettera in cui parla della corrispondenza già intercorsa e di una somma già pagata in contanti. Scopo di questa mossa è guastare il meccanismo della tassazione. Al disordine succede il caos quando arriva una seconda lettera, in cui il miliardario si scusa dell’errore e chiede che gli vengano restituiti 23 centesimi. Tale è lo sbalordimento e la confusione dei funzionari che essi non danno alcuna risposta per circa diciotto mesi. Poi, prima che sia trascorso quel periodo di tempo, ricevono un altro assegno, questa volta di 167,42 dollari. ln questo modo, secondo l’ipotesi, il miliardario in sostanza non paga niente e l’ispettore addetto alle tasse finisce al manicomio. Anche se questa teoria non ha prove, mi sembra degna di attento esame. Per lo meno potremmo sperimentarla.

 

 

 

 

LA LEGGE DEL DECLINO

ossia

L’EDILIZIA BUROCRATICA

 

Chi studi le istituzioni umane sa qual è il criterio tipico per stabilire l’importanza di un individuo. Una formula semplice e valida per qualsiasi parte del mondo si può ricavare conoscendo il numero delle porte da passare, il numero delle segretarie, il numero delle centraliniste e lo spessore, in centimetri, dei tappeti. Non tutti però sanno che questa formula si può applicare, ma a rovescio, per calcolare l’importanza delle istituzioni.

Si prenda per esempio una casa editrice. Come tutti sanno gli editori hanno una forte tendenza a vivere nello squallore e nel caos. L’ospite che imbrocchi quello che a lui pare l’ingresso buono, viene spedito fuori, poi fa il giro del palazzo, imbocca un andito e sale tre piani di scale. Cosi un laboratorio di ricerche di solito sarà alloggiato al pianterreno di quella che una volta era una casa d’affitto: c’è un corridoio di legno pericolante che porta a una baracca col tetto di lamiera, sita là dove una volta era il giardino. E chi non conosce l’aspetto esteriore di un aeroporto internazionale? Appena sceso dall’aereo il viaggiatore scorge (a destra o a sinistra) un grosso edificio in costruzione, tutto circondato dalle impalcature dei muratori. Poi la hostess lo guida a una baracca col tetto di asbesto. E nessuno dubita per un attimo che le cose possano andare altrimenti. All’epoca in cui l’edificio è ultimato, l’aeroporto si sarà spostato in altro luogo.

Le istituzioni di cui abbiamo fatto parola, per quanto attive e produttive esse siano, vegetano in un ambiente così trasandato che sarà bene dedicare subito la nostra attenzione a un qualche altro istituto, che ci mostri, anche nell’aspetto esteriore, decoro e proprietà. Il portone d’ingresso, di bronzo e vetro, è posto al centro di una facciata simmetrica. Scarpe lustre scivolano su lucida gomma verso l’ascensore, scintillante e silenzioso. La centralinista, fornita d’una cultura eccezionale, sussurra qualcosa con labbra al carminio in una cornetta celeste-ghiaccio. Con un gesto della mano ti invita a sedere su di una poltrona cromata, e ti consola della breve, inevitabile attesa, con un sorriso abbagliante. Alzando gli occhi dalla rivista patinata, scopri che i vasti corridoi si irradiano verso le divisioni A, B e C. Da dietro le porte chiuse ti giunge alle orecchie il rumore di un’ordinata attività. Ancora un minuto e ti trovi, immerso fino alla caviglia nel tappeto direttoriale, avviato sicuro e tranquillo verso la lontana nitida scrivania. Ipnotizzato dallo sguardo fermo del capo, intimidito dal Matisse che pende dalla parete di fondo, tu senti di aver trovato, finalmente, l’efficienza, quella vera.

Ma invece non hai scoperto proprio nulla. Noi sappiamo ormai che la perfezione dell’ambiente esteriore è caratteristica di quelle istituzioni che son giunte sull’orlo dello sfacelo. Conclusione che può sembrare paradossale, ma che invece si basa su vastissime ricerche archeologiche e storiche in questa sede possiamo trascurar-e i particolari più complessi, e comprensibili solo agli iniziati. Il criterio generale di indagine è stato il seguente: scegliere e datare gli edifici che appaiono perfetti per gli scopi a cui eran destinati. Lo studio comparativo di tali edifici par dimostrare che la perfezione edilizia è sintomo di decadenza. Nei periodi di reale progresso, nei periodi delle grandi invenzioni non c’è tempo per progettare ambienti perfetti. C’è tempo dopo, quando le cose che contano sono ormai compiute. La perfezione, come tutti sanno, e definitiva, come la morte.

Il turista inesperto, sbalordito dinanzi alla mole di San Pietro, a Roma, penserà che la Basilica e il Vaticano sono la sede ideale del Papato, al vertice della sua potenza e del suo prestigio. Qui, pensa il turista ingenuo, Innocenzo III ha scagliato il fulmine del suo anatema. Qui Gregorio VII ha pensato le sue leggi. Ma basta un’occhiata alla guida per convincersi che i papi davvero potenti regnarono prima della costruzione della chiesa; e che alcuni di essi, addirittura, neppure governarono da Roma. Anzi, i papi persero metà del loro potere proprio mentre l’edificio era in costruzione. Giulio II, che decise di costruire, e Leone X, che approvò il progetto di Raffaello, erano morti da un pezzo quando l’edificio assunse la forma attuale. Il palazzo del Bramante era ancora in costruzione nel 1565, la grande chiesa fu consacrata solo nel 1626, il colonnato fu compiuto solo nel 1667. Prima ancora che i progetti fossero pronti, erano già finiti i grandi giorni del papato. Una volta compiuti i lavori, di quei giorni di gloria si era perduto anche il ricordo.

Facile dimostrare che di solito le cose vanno così. Vediamo la storia della Lega delle Nazioni. Dal 1920, anno della sua creazione, al 1930, tutti riposero grandi speranze in questa istituzione. Ma nel 1933 – forse anche prima – si capì che l’esperimento era fallito. Ma l’incarnazione fisica di esso, il Palazzo delle Nazioni, fu terminato solo nel 1937. Fu un edificio ammirevole: uffici, aule dl riunione, buvette, ogni cosa fu progettata con la massima attenzione. C’era tutto ciò che può escogitare l’ingegno umano: mancava solo la Lega delle Nazioni. Nell’anno in cui fu inaugurato il Palazzo, la Lega in pratica non esisteva più.

Qualcuno dirà che il Palazzo di Versailles sta a dimostrare l’opposto: l’apogeo della monarchia di Luigi XIV si incarna in quell’edificio. Invece, ammettendo che Versailles caratterizzi il trionfo dello spirito di quell’epoca, noi sappiamo che i lavori furon condotti a termine verso la fine del regno; alcuni addirittura dopo la morte del Re Sole. I lavori per Versailles durarono dal 1669 al 1685. Il re vi si trasferì solo nel 1682, ed i lavori non erano ancora finiti. La famosa camera reale ospitò un sovrano solo nel 1701, e la cappella fu ultimata nove anni dopo. Se lo consideriamo non come alloggio del re, ma come sede del governo, Versailles esiste sostanzialmente solo dal 1756. E la massima fioritura del regno di Luigi XIV sta prima del 1679: l’apogeo nel 1682, mentre verso il 1685 comincia la decadenza. Afferma uno storico che Luigi, entrando a Versailles, in sostanza “seppelliva la sua discendenza e la sua razza”. E un altro storico aggiunge: “L’edificio fu ultimato quando cominciava il declino della potenza regale.” Un terzo storico dà sostegno, pur senza dirlo, a questa ipotesi quando chiama gli anni fra il 1685 e il 1713 “anni di decadenza”. In altre parole sbaglia il turista il quale pensa che da Versailles siano partiti gli eserciti vittoriosi di Turenne. Più giusto sarebbe, storicamente parlando, immaginare in quelle sale l’imbarazzo dei messi che venivano ad annunziare la sconfitta di Blenheim: non avranno saputo su cosa alzare lo sguardo, i poveretti, in quel palazzo scintillante di emblemi di vittoria.

Il nome di Blenheim certamente inviterà a pensare al palazzo (si chiama cosi) costruito per il vincitore, il duca di Marlborough. Anche in questo caso siamo di fronte a un edificio perfetto, progettato per ospitare l’eroe nazionale negli anni della pensione. Cosi gigantesco, il palazzo è forse più sensazionale che comodo, tuttavia l’architetto è riuscito a esprimere quel che voleva. Difficile pensare ambiente che meglio di quello possa accogliere in sé una leggenda. Difficile pensare luogo più adatto per le riunioni di vecchi compagni d’arme, il giorno anniversario. Ma la gioia che proviamo a raffigurarci quella scena, ci vien guastata dal pensiero che essa non ci fu mai. Il duca non ha mai abitato in quel palazzo, e non lo ha nemmeno visto compiuto. Egli in realtà abitava a Holywell, presso St. Alban e (durante i soggiorni in città) a Marlborough House. Morì poi a Windsor Lodge e i vecchi compagni d’arme, quando si riunivano, amavano cenare sotto la tenda. A costruire Palazzo Blenheim occorse molto tempo, ma non per la complessità del progetto – che era, per unanime riconoscimento, complesso abbastanza. Occorsero molti anni perché il duca fu in disgrazia e per due anni addirittura in esilio, e proprio quando avrebbe potuto assistere al compimento dell’edificio.

E che dire della monarchia al cui servizio fu il duca di Marlborough? Allo stesso modo che oggi i turisti vagano, guida alla mano, per l’Orangerie e per la Galerie des Glaces, così i futuri archeologi un giorno andranno a curiosare in quella città che si chiamava Londra. Ebbene, quegli archeologi vedranno nelle rovine di Buckingham Palace la vera espressione della monarchia inglese. Rintracceranno il grande viale fra l’Arco dell’Ammiragliato e l’ingresso del palazzo. Ricostruiranno il cortile e la balconata centrale, pensando quanto doveva esser adatto quell’edificio a un sovrano il cui dominio si estendeva alle più remote parti del mondo. Anche un americano dei giorni nostri avrebbe voglia di scuotere il capo dinanzi all’alterigia di un Giorgio III, che ebbe una reggia cosi fastosa. Ma anche in questo caso ecco la verità: i monarchi davvero potenti abitarono tutti in edifici da tempo scomparsi, a Greenwich, o a Nonesuch, a Kenilworth o a Whitehall. Il costruttore di Palazzo Buckingham fu Giorgio IV, sul cui architetto di corte, John Nash, grava la responsabilità di quella che ai suoi tempi si definì “diffusa debolezza e trivialità del gusto”. Ma nemmeno Giorgio IV, il quale abitò a Carlton House o a Brighton, vide mai l’opera compiuta; e neanche Guglielmo IV, il quale pure diede ordine che si completasse. Fu la regina Vittoria la prima a stabilirvisi, nel 1837. Ed anche il suo entusiasmo per Palazzo Buckingham durò poco: suo marito preferiva di gran lunga Windsor, e lei dal canto suo scelse in seguito Balmoral, oppure Osborne, Se quindi vogliamo essere esatti, Palazzo Buckingham, coi suoi splendori, va associato a una fase recente e costituzionale della monarchia inglese. Risale insomma a un’epoca in cui tutto il potere era già passato nelle mani del Parlamento.

È giusto, a questo punto, chiedersi se il Palazzo di Westminster, dove si riunisce la Camera dei Comuni, sia vera espressione del governo parlamentare. Bisogna riconoscere che quell’edificio è progettato splendidamente, come sede di dibattiti, e provvisto di spazio a dovizia per ogni altra cosa – riunioni di comitati, studi tranquilli, rinfreschi, e tè (in terrazza). C’è tutto quel che possa desiderare chi fa le leggi, e tutto È: racchiuso in un edificio straordinariamente comodo e dignitoso. Dovrebbe quindi risalire – ma noi ormai già sappiamo che questo non è vero – all’epoca di massimo fiore del governo parlamentare. Anche in questo caso, naturalmente, la cronologia non vuole darci ragione. L’edificio originario, dove Pitt e Fox gareggiarono in valentia oratoria, fu distrutto da un incendio nel 1834. Pare che sia stato famoso e per la sua scomodità, e per l’alto livello dei dibattiti che vi si svolsero. L’edificio che oggi ammiriamo fu iniziato nel 1840, occupato – ma solo in parte – nel 1852; e nel 1860, quando mori l’architetto, era ancora incompleto. Prese l’aspetto che ha oggi verso il 1868. Ora (e non ci si venga più a dire che si tratta di coincidenze) il declino del nostro parlamento risale, senza dubbio, al Reform Act, che è del 1867. Con l’anno successivo tutte le iniziative di carattere legislativo passarono dal Parlamento al Gabinetto. Il prestigio che si collegava alle due fatidiche lettere, M.P., e cioè Membro del Parlamento, cominciò rapidamente a declinare. Da allora si può dire, al massimo, che “ ai singoli membri restava tuttavia un compito, per quanto umile fosse”. Eran finiti i giorni belli.

Lo stesso può dirsi dei vari ministeri, che acquistarono importanza man mano che ne perdeva il Parlamento. Fatte le debite ricerche, si è appurato che il Ministero per le Indie raggiunse il massimo della sua efficienza quando era sistemato a Palazzo Westminster, in un’ala di esso. Assai più indicativo il caso del Ministero delle Colonie, nei suoi recenti sviluppi. Infatti gli inglesi si conquistarono un impero mentre il ministero competente (ammesso che ci fosse) era alloggiato in edifici di fortuna, a Downing Street. E quando esso si spostò in palazzi appositi, era già iniziata una fase nuova della nostra politica coloniale. Si era nel 1875 e l’edificio pare progettato apposta per far da sfondo alla disastrosa guerra contro i Boeri. Il Ministero delle Colonie ebbe nuovo impulso di vita durante la seconda guerra mondiale. Spostandosi in una sede provvisoria e scomodissima, a Great Smith Street – sede che fu prestata dalla Chiesa d’Inghilterra e che alla origine doveva servire a tutt’altro scopo – la politica coloniale britannica iniziò una fase nuova, di attività illuminata. Tale fase terminerà con il completamento del nuovo edificio progettato sul posto del vecchio Ospedale di Westminster. Per fortuna i lavori non sono ancora cominciati.

Ma nella storia d’Inghilterra non c’è esempio più illuminante di quello che ci offre Nuova Delhi. In nessun altro luogo gli architetti britannici si son visti affidare l’incarico di progettare una capitale altrettanto grande, come centro di un paese altrettanto popoloso. L’intenzione di fondare Nuova Delhi fu annunziata al Durbar Imperiale del 1911; a quell’epoca Giorgio V era successore del Mogul sul trono che si era chiamato, un tempo, del Pavone. Sir Edwin Lutyens si accinse allora a disegnare i progetti della Versailles britannica, un complesso splendido nella concezione, minuzioso nei particolari, magistrale nell’elaborazione e di proporzioni eroiche. I vari stadi dei lavori corrispondono ad altrettanti passi all’indietro nella politica coloniale. La legge del 1909 era solo il preludio di quel che doveva venire dopo: l’attentato alla vita del viceré (1912), la Dichiarazione del 1917, il Rapporto Montagu-Chelmsford (1918) e la traduzione di esso in legge (1920). Lord Irwin si trasferì nel nuovo palazzo nell’anno 1929, l’anno in cui il Congresso Indiano chiedeva l’indipendenza, Fanno in cui si aprì la Conferenza della Tavola Rotonda, l’anno prima dell’inizio della campagna per la Disobbedienza Civile. Se non fosse per il timore di annoiare chi legge, potremmo seguire l’intera storia fino al giorno in cui gli inglesi finalmente se ne andarono. Risulterebbe che ad ogni tappa della ritirata si accompagno la realizzazione di un’altra trionfale impresa urbanistica. Il risultato finale altro non fu, grosso modo, che un mausoleo.

Il (declino dell’imperialismo britannico cominciò di fatto con le elezioni del 1906 e con la vittoria di ideologie liberali e semisocialiste. Non c’è quindi da sorprendersi se proprio “1906” troviamo scolpito in pietra imperitura, a significare la fine dei lavori, sul portale del Ministero della Guerra. Forse la battaglia di Waterloo fu diretta da qualche oscuro ufficetto ricavato nelle caserme della cavalleria. Invece gli sciagurati piani di attacco ai Dardanelli furono emanati da un ambiente quanto mai decoroso. Non può darsi che i complessi edifici del Pentagono, ad Arligton in Virginia, debbano significare qualcosa per chi li ha progettati? Sarebbe ingiusto, certo, cercare un rapporto logico fra il Pentagono e il Cimitero Nazionale, che sorgono vicinissimi. Ma è un argomento che andrebbe preso in considerazione.

Non è affatto certo che un lettore di questo capitolo (ove ne abbia il mezzo) possa prolungare la vita di un istituto morente togliendolo dalla sua bella sede. Tuttavia noi possiamo sperare di impedire che una determinata organizzazione si strangoli con le proprie mani, nascendo. Abbiamo sott’occhio numerosissimi «esempi di istituti che vengono al mondo con un apparato completo di dirigenti, consulenti, funzionari, per i quali tutti c’è un edificio progettato appositamente. L’esperienza dimostra che l’istituto morirà, soffocato dalla propria perfezione, incapace di mettere radici per mancanza di terreno, impossibilitato a crescere perché è nato già grande, inetto a dare frutti e perfino fiori. L’esperto, di fronte a un esempio di simile progettazione – si veda a questo proposito il palazzo delle Nazioni Unite – scuoterà tristemente il capo, stenderà un lenzuolo sopra il cadavere e in punta di piedi uscirà all’aria aperta.

 

 

 

 

INCOMPOSITE

ovvero

DELLA PARALISI PROGRESSIVA

 

Ovunque si trovano organizzazioni (di tipo amministrativo, commerciale, accademico) nelle quali i funzionari più alti in grado sono lenti e ottusi, quelli sotto di loro attivi solo nel farsi le scarpe l’uno con l’altro, mentre i giovani sono psicologicamente frustati o poco seri. Poco si tenta di fare, meno ancora si conclude. E di fronte a questo quadro così triste, l’osservatore è indotto a credere che i responsabili hanno fatto del loro meglio, hanno lottato contro le avversità ed infine si son dichiarati sconfitti. Ma i risultati di certe recenti inchieste dimostrano che non necessariamente c’è stata la sconfitta. In parecchie istituzioni moribonde da noi esaminate, lo stato finale di coma è un obiettivo perseguito e raggiunto dopo sforzi prolungati. Lo stato di coma è palesemente conseguenza di una malattia, ma di una malattia che in larga misura il paziente ha provocato da sé. Appena essa si manifesta, il paziente ne favorisce il progresso, ne aggrava le cause, ne accoglie i sintomi con gioia. È una malattia di inferiorità indotta, e si chiama incomposite. E una infermità più comune di quel che si crede, e la diagnosi di essa è più facile della terapia.

Il nostro studio della paralisi organizzativa comincia ovviamente dalla descrizione del corso della malattia, dai primi sintomi al coma finale. La seconda parte della nostra inchiesta riguarderà i sintomi e la diagnosi. Nella terza fase diremo qualcosa sui possibili rimedi, argomento su cui però non sappiamo nulla. E non è probabile che altre scoperte avvengano nel futuro immediato, perché in Inghilterra la ricerca medica è tradizionalmente contraria a che si parli troppo dell’argomento. Infatti ai medici inglesi di solito basta individuare i sintomi e stabilire le cause. I francesi invece cominciano col parlare della terapia, lasciando la diagnosi (se pure se ne occupano) a più tardi. Questa volta ci sentiamo in obbligo di accettare il metodo inglese, certamente più scientifico anche se non utile al paziente. Meglio viaggiare tranquilli che arrivare alla meta.

Il primo segno di pericolo si ha quando nella gerarchia organizzativa compare un individuo il quale combina in sé in alto grado incompetenza e gelosia. Queste due doti, ciascuna presa da sé, non hanno molto interesse, e quasi tutti le possediamo in certa misura. Ma quando le due doti raggiungono quel certo grado di concentrazione – secondo la formula I3 G5 – avviene una reazione chimica. I due elementi si fondono producendo una sostanza nuova, che si chiama “incomposia”. La presenza di questa sostanza si può dedurre dal comportamento di qualsiasi individuo il quale, non essendo riuscito a far nulla nel suo settore, cerca di continuo di ficcare il naso negli altri settori e di prendere il controllo dell’amministrazione centrale. Lo specialista, osservando questo singolare miscuglio di inefficienza e ambizione, scuoterà il capo, mormorando: “Incomposia primaria o idiopatica.” I sintomi, come vedremo, sono inequivocabili.

Il secondo stadio della malattia si raggiunge quando l’ individuo infetto assume il controllo, parziale o completo, dell’organizzazione centrale. Spesso a tale stadio si giunge senza passare attraverso l’infezione primaria, giacché l’individuo è entrato nell’organizzazione al secondo livello. L’affetto da incomposite si riconosce facilmente, a questo stadio, per la tenacia con cui si batte di continuo per buttar fuori tutti quelli più capaci di lui, ed anche per la resistenza alla nomina o alla promozione di chiunque in seguito possa dimostrarsi più capace di lui. Non osa dire: “Il signor Asterisco è troppo capace.” Dirà: “Asterisco? Capace, certo ma anche quadrato? Io preferirei Virgoletta.” Il nostro uomo non osa nemmeno dire: “Di fronte al signor Asterisco mi sento piccolo.” E perciò dice: “Il signor Virgoletta mi pare più sensato.” “Sensato” è una parola interessante, che, nella frase suddetta, sta a significare l’opposto di intelligente; indica infatti l’individuo che fa come han sempre fatto gli altri. Cosi il signor Virgoletta è promosso e il signor Asterisco si cerca un altro posto. In tal modo l’amministrazione centrale a poco a poco si riempie di gente più stupida del presidente, del direttore, dell’amministratore. Se a capo dell’organizzazione c’è un uomo di second’ordine, costui farà in modo che i suoi subordinati siano individui di terz’ordine; e questi a loro volta vorranno avere dei collaboratori di quart’ordine. Ci sarà insomma una vera e propria gara di stupidità, e alcuni addirittura faranno finta di essere più cretini di quello che sono veramente.

Al terzo e ultimo stadio della malattia si giunge quando non esiste più la menoma scintilla di intelligenza in tutta l’organizzazione, da capo a fondo. È lo stato di coma di cui si è parlato all’inizio. Quando si giunge a questo stadio l’istituzione è praticamente morta. Essa può anche restare in coma per venti anni di seguito, Può disintegrarsi a poco a poco, ma può anche dar segni di miglioramento. I casi di guarigione sono pochissimi. A qualcuno sembrerà impossibile che avvenga guarigione senza terapia. Invece tutto il processo è naturale e rassomiglia molto a un altro processo, quello per cui certi organismi viventi divengono man mano più resistenti a veleni che in condizioni normali sarebbero letali. È come se tutta l’organizzazione fosse stata spruzzata di D.D.T., un D.D.T. capace di eliminare le capacità che incontra sul proprio cammino. Per qualche tempo questo sistema raggiunge i risultati che si volevano raggiungere. Ma poi alcuni individui divengono immuni a quel D.D.T. Essi nascondono tale prerogativa dietro una maschera di stolido buonumore, e gli addetti alle operazioni di spruzzamento, quelli cioè che hanno il compito di eliminare i capaci, non riescono, per stupidità propria, a riconoscere l’individuo capace (e mascherato), quando ne incontrano uno. Così un individuo sveglio riesce a penetrare nelle difese esterne dell’organizzazione e comincia ad avanzare in direzione del vertice. Costui par che non combini mai nulla, parla sempre di golf, ridacchia, perde le carte, dimentica i nomi, ha una faccia in tutto simile a quella degli altri. Solo quando è arrivato in alto getta la maschera all’improvviso ed appare come un demone in una pantomima di fate. Gli alti dirigenti scoprono, con grandi urla di disperazione, che la capacità è riuscita a insinuarsi in mezzo a loro. Ma è troppo tardi e non c’è nulla da fare. Il male è fatto, la malattia indietreggia, ed è anche possibile, entro dieci anni, una guarigione completa. Sia detto tuttavia che son rari questi casi di guarigione spontanea. Molto più spesso la malattia percorre i tre stadi or ora descritti e diviene incurabile.

Abbiamo visto dunque che cos’è questa incomposite. Restano da esaminare i sintomi che la distinguono. Una cosa è descrivere il diffondersi dell’infezione in un caso clinico immaginario, ben classificato sin dal suo inizio. Altra cosa è invece entrare in una fabbrica, in una caserma, in un ufficio, in una università e riconoscere i sintomi a prima vista. Sappiamo come si comporta l’agente immobiliare quando va a visitare una casa in vendita per conto dell’acquirente. Prima o poi lo vedrete aprire una credenza, o prendere a calci lo zoccolo di una parete ed esclamare: “Casca a pezzi!” Quando invece agisce per conto del venditore fa sparire la chiave della credenza, mentre distrae l’attenzione del compratore mostrandogli il panorama. Allo stesso modo lo studioso di scienze politiche può riconoscere i sintomi dell’incomposite, anche nello stadio primario. Sosta, annusa, scuote il capo con aria saputa, ma in modo che sia subito palese che egli sa. Come fa a sapere? Come può dire che l’incomposite si è già insinuata in quell’organismo? Facile sarebbe la diagnosi se egli avesse sott’occhio la sorgente primaria dell’infezione. La cosa diviene impossibile quando il germe è invece in vacanza. La sua influenza va rintracciata. Va rintracciata soprattutto in certe osservazioni che fanno gli altri. Per esempio: “Sarebbe un errore, da parte nostra, azzardar troppo. Non possiamo competere con Ottimania. Qui da noi, in Mediocrizia, noi svolgiamo un’opera assai utile, facciamo fronte alle necessità del paese. Contentiamoci dunque.” Oppure: “Non possiamo pretendere d’essere al primo posto. Assurdo stare a sentire quel che raccontano quelli di Doddaffare. Come se fossero gente di Ottimania.” O ancora: “Certi nostri giovani son stati trasferiti in Ottimania, un paio lavorano a Doddaffare. Facciano loro, e buona fortuna. Buon pro gli faccia. Gli scambi di idee e di personale son cosa ottima, anche se, a dire il vero, quei pochi che ci hanno mandato da Ottimania non eran proprio di prim’ordine. A noi toccano solo gli scarti. Ma non bisogna lamentarsi. Quando e possibile, evitare sempre gli attriti. E modestamente nel nostro piccolo anche noi svolgiamo il nostro lavoro, e bene.”

Cosa significano queste battute? Significano, anzi dimostrano che a questi uomini si è posto un livello di rendimento troppo basso. Si chiede appunto un livello di rendimento basso, e se ne tollera anche uno inferiore. Le direttive di un capo di second’ordine destinate a funzionari di terz’ordine parlano solo di risultati minimi e di mezzi idonei. Non si vuole un maggior livello di competenza perché il capo non riuscirebbe a controllare un’organizzazione efficiente. A lettere d’oro, sulla porta di ingresso, si è scritto: “Terz’ordine, sempre.” Il principio dominante è quello. Bisogna tuttavia riconoscere che si ammette ancora l’esistenza di un secondo e di un prim’ordine. Resta infatti un barlume di colpevolezza, una lieve sensazione di disagio quando qualcuno nomina Ottimania. Colpevolezza e disagio che però non durano a lungo, perchè presto sopravviene il secondo stadio della malattia, quello che ci accingiamo a descrivere.

Il secondo stadio si riconosce da taluni sintomi fondamentali , e uno di essi è il Compiacimento. Essendo limitati gli obiettivi che si posero nella prima fase, tutti son stati ampiamente raggiunti. Con un bersaglio a dieci passi dalla bocca del fucile, il punteggio e stato alto. I dirigenti han fatto quel che dovevano fare, e ciò li riempie di soddisfazione. Hanno eseguito il proprio compito, e dimenticato che lo sforzo è stato esiguo, esiguo essendo il risultato. Essi si accorgono soltanto d’esserci riusciti, a differenza di quei bei tipi di Doddaffare. Sempre più essi si compiacciono del proprio operato, ed il compiacimento si manifesta in frasi come le seguenti: “Il capo è un uomo quadrato, e molto abile, a conoscerlo bene. Non parla mai troppo – non è il tipo – ma di rado sbaglia.” (Queste ultime parole possono esser dette giustamente di uno che non fa mai nulla.) Oppure: “Non ci convincono i tipi cosiddetti brillanti. Gente troppo abile, che può diventare pericolosa, perché sconvolge i sistemi usuali di lavoro, e tira sempre fuori progetti nuovi, mai sperimentati. Noi ci fidiamo solo del buon senso e della collaborazione, con ottimi risultati.” E infine: “Noi siamo orgogliosi della nostra mensa. Chissà come riesce il responsabile a farci mangiare così, ed a quel prezzo. È una fortuna avere un uomo simile! ”Si noti che questa frase vien pronunciata mentre siam tutti seduti a una tavola coperta da un foglio sporco di carta oleata, dinanzi a certa roba immangiabile e innominabile, coi brividi nella schiena, alla vista e all’odore di quello che voglion far passare per caffè. Bisogna dire che la mensa è assai più rivelatrice dell’ufficio in sé. Come per giudicare alla svelta di una casa si va a guardare il gabinetto (e si bada se c’è il rotolo della carta igienica), come per giudicare un ristorante si verifica in che condizioni è l’ampollino dell’olio, allo stesso modo si giudicano queste organizzazioni badando a come funziona la mensa. Se i muri sono marroni o verdi, se le tende sono rosse (oppure non esistono), se nella minestra c’è l’orzo (con o senza mosca), se nella lista ci son polpette o patate, e se i dirigenti si dichiarano soddisfatti di ogni cosa – ebbene, allora l’istituto è in pessime condizioni. Perché il compiacimento, in questo caso, è arrivato a un punto tale che i responsabili non distinguono più fra cibo e spazzatura. Siamo al livello in cui il compiacimento domina assoluto.

Il terzo ed ultimo stadio è quello in cui al compiacimento subentra l’apatia. I dirigenti non si vantano più della loro efficienza, confrontandosi con altri istituti. Anzi, hanno dimenticato che gli altri esistono. Non mangiano più alla mensa, si portano un panino da casa e seminano briciole sul piano della scrivania. Al quadro murale c’è il manifesto di un concerto avvenuto quattro anni or sono. Sulla porta del signor Brown c’è la targa del signor Smith. Sulla porta del signor Smith c’è scritto “Signor Robinson” con inchiostro sbiadito sopra un’etichetta per la spedizione dei bagagli. Al posto dei vetri rotti c’è un pezzo di cartone. L’interruttore della luce dà la scossa, lieve ma dolorosa. Dal soffitto crollano calcinacci e la tappezzeria fa la muffa alle pareti. L’ascensore non funziona e ‘il rubinetto dello spogliatoio non si apre più. Dal lucernario viene acqua, che ha riempito il secchio e trabocca. Dagli scantinati giunge il miagolio di un gatto affamato. L’ultimo stadio della malattia ha portato l’intera organizzazione al collasso. I sintomi della malattia in questa forma acuta sono così numerosi e palesi che l’esperto li scopre anche al telefono, senza bisogno di recarsi di persona in visita. Quando una voce stanca risponde: “Pronto!” (la più inutile delle risposte) l’esperto ha già sentito abbastanza. Dirà fra di sé: “Be”, stadio terziario. Non c’e più nulla da fare.” È troppo tardi per tentare una qualsiasi terapia. In pratica l’istituto è morto.

Abbiamo descritto la malattia vista dal di dentro e vista dal di fuori. Conosciamo l’origine, gli sviluppi, i risultati dell’infezione ed anche i sintomi che ci avvertono della sua presenza. I medici inglesi di rado procedono oltre nella loro ricerca. Una volta che la malattia è identificata, descritta, il medico inglese si ritiene soddisfatto e si accinge a studiare un altro problema. Se gli chiedete quale può essere la cura, egli alza gli occhi sbalordito e suggerisce la penicillina, preceduta o seguita dall’estrazione completa dei denti del malato. Si capisce subito che tale aspetto della questione non gli interessa. Dobbiamo comportarci come lui? Oppure, in quanto studiosi di scienze politiche, considerare se e cosa si possa fare? Certo, sarebbe prematuro discutere nei particolari una possibile terapia, ma sarebbe anche utile indicare le linee generali che possono avviare ad una soluzione. Possiamo almeno esporre alcuni principi. Il primo è questo: un’istituzione ammalata non può cambiarsi da sé. Vi sono esempi, come già abbiamo detto, di malattie guarite senza cura alcuna, malattie che erano comparse senza alcun sintomo. Ma questi son casi rari che lo specialista considera anormali e in fondo nocivi. La cura, qualunque essa sia, deve venire dall’esterno. Un ammalato potrebbe anche dopo l’anestesia locale, operarsi da sé l’appendicite, ma questa è una pratica che molti considerano errata e contro la quale hanno molto da obiettare. Altre operazioni si prestano ancor meno all’abilità manuale del paziente Quando la malattia è in stadio avanzato bisogna ricorrere a uno specialista e in qualche caso addirittura alla massima autorità vivente, cioè a Parkinson. Certo, gli onorari sono altissimi, ma in un caso del genere non ci si può arrestare di fronte alla spesa, perché e questione di vita o di morte.

Il secondo principio potrebbe enunciarsi così: lo stadio primario della malattia si può curare mediante semplici iniezioni; per lo stadio secondario può giovare, in qualche caso, l’intervento chirurgico; lo stadio terziario infine deve considerarsi, almeno per il momento, incurabile. C’è stata una epoca in cui i medici ragionavano sempre di pozioni e di pillole, che ormai però son fuori moda, seguì un’epoca in cui essi parlavano – in termini assai più vaghi – di psicologia; ma anche questa usanza è ormai fuori moda, perché quasi tutti gli psicanalisti si son riconosciuti pazzi. La nostra è un’epoca di iniezioni e di incisioni è quindi necessario che lo studioso di scienze politiche si tenga al passo con gli sviluppi della medicina. Dinanzi a un caso di infezione primaria bisogna subito preparare la siringa, preoccupandoci solo di sapere cosa metterci dentro, oltre l’acqua. In linea di principio la siringa dovrebbe contenere una qualche sostanza attiva: ma dove dobbiamo prenderla? Ci sarebbe una cura del tipo “o la va o la spacca”: mettere nella siringa un’alta dose di Intolleranza, ma questa è una medicina difficile da trovare e troppo drastica. L’intolleranza si trova nelle vene dei sergenti maggiori ed è composta di due elementi chimici, cioè: L’ottimo non è buono abbastanza, e non si accettano scuse in nessun caso. L’ individuo intollerante, iniettato nell’ istituzione ammalata, ha un effetto tonico e può anche spingere l’organismo a ribellarsi contro il germe infettivo. La cura è buona certamente, ma non altrettanto certamente essa è definitiva. Non sappiamo cioè se la sostanza infetta sarà davvero espulsa dal sistema. Le cognizioni che abbiamo ci farebbero credere che in prima istanza la cura è solo palliativa, e la malattia rimane, latente seppur inattiva. Talune autorità ritengono che la cura sarebbe completa con successive iniezioni, ma altre autorità temono che una terapia continuata provocherebbe nuove irritazioni, quasi pericolose quanto la malattia originaria. L’intolleranza perciò è un medicamento da usare con cautela.

C’è un’altra medicina, alquanto più tenue, e si chiama Ridicolo, ma è malsicura, instabile, poco nota nei suoi effetti. Non c’è motivo di temere che una iniezione di Ridicolo possa causare danni allo organismo, ma non è nemmeno certo che essa abbia effetti curativi. ln genere si ritiene che gli individui affetti da incomposite hanno uno spesso strato di pelle e quindi sono insensibili al ridicolo. Può anche darsi che il ridicolo tenda a isolare l’infezione: questo e il massimo che si possa sperare, e finora nessuno ha attribuito al medicamento tanto valore.

Diremo infine che un terzo farmaco, la Punizione – facile a ritrovarsi – e stato sperimentato in casi del genere con qualche effetto. Ma anche qui si presentano certe difficoltà. Questo farmaco dà uno stimolo immediato, ma può anche produrre un risultato diametralmente opposto a quello che si prefiggeva lo specialista. Dopo un momentaneo spasmo d attività, il malato di incomposite ricadrà in uno stato di passività anche maggiore, diventando un pericoloso focolaio di infezione. Se la punizione entrerà nell’uso, vi dovrà entrare come elemento in un preparato che contenga anche intolleranza e ridicolo, e forse altre medicine finora mai sperimentate. Aggiungeremo che questo preparato non esiste ancora.

Riteniamo che al secondo stadio la malattia possa guarirsi con intervento chirurgico. Il lettore che se ne intende avrà certo sentito parlare del Sacco Nuciforme e dei lavori per cui va giustamente famoso il professor Tagliapanza. L’operazione che l’illustre chirurgo ha compiuto per primo consiste, semplicemente, nella rimozione delle parti infette e nella introduzione simultanea di sangue nuovo tratto da un organismo simile. Tale operazione ha avuto a volte successo. Bisogna però aggiungere che in altri casi e fallita, perché essa dà al sistema un urto troppo grave. In qualche caso è impossibile trovare sangue nuovo e può anche darsi che, una volta trovato, esso rifiuti di combinarsi con quello vecchio. D’altro canto questo sistema drastico offre senza dubbio le migliori speranze di guarigione completa.

Al terzo stadio non possiamo fare più nulla. La istituzione è in pratica morta. La si può fondare da capo, ma solo dopo averle cambiato nome, sito e personale. A quelli che badano all’economia verrà la voglia di trapiantare nell’istituzione nuova una parte della vecchia, magari il nome della tradizione. Il trapianto sarebbe mortale, e la tradizione e proprio ciò che bisogna evitare. Non c’è più parte del vecchio organismo ammalato che possa considerarsi immune da infezione. Non bisogna spostare dal luogo originario né il personale, né le attrezzature, né le tradizioni. Occorre una disinfezione completa seguita da un periodo di rigorosa quarantena. Il personale infetto va spedito, con referenze lusinghiere, alle istituzioni concorrenti che si considerino a noi particolarmente ostili. Attrezzature e archivi vanno distrutti senza esitare. In quanto agli edifici, la cosa migliore è contrarre una forte assicurazione e poi farli saltare in aria. Solo quando al posto dell’istituto ci sarà un ammasso di macerie nerastre potremo esser certi che i germi della malattia sono morti.

 

 

 

 

L’ETÀ DELLA PENSIONE

ovverossia

IL COEFFICIENTE DANZIANITÀ

Fra i molteplici problemi affrontati e risolti in quest’opera, è giusto lasciare per ultimo quello della pensione. Numerose commissioni d’inchiesta hanno studiato il problema, e ci hanno esposto un certo numero di dati tutti però disperatamente contraddittori; mentre i risultati finali sono stati confusi, vaghi e inconcludenti. L’età della pensione è fissata, a seconda dei casi, fra i 55 e i 75 anni con criteri arbitrari e poco scientifici. Qualunque sia l’età della pensione, fissata o a casaccio o secondo una qualche tradizione, è facile poi difenderla, usando sempre le medesime argomentazioni. Nel caso che l’età della pensione sia stabilita ai 65 anni, l’esperienza avrà insegnato che la capacità e l’energia del pensionando cominciano a decadere verso i 62. Sarebbe questa un’utilissima scoperta; purtroppo un fenomeno identico si è osservato in quelle organizzazioni che mandano a riposo i propri dipendenti a 60 anni. Costoro, così ci dicono, cominciano a mollare verso i 57. E ancora: chi deve andare in pensione a 55 anni comincia a non rendere più quando compie i 52. Parrebbe insomma che l’efficienza venga meno alla età di P-3, qualunque sia il valore di P. Il fatto in sé è interessante, ma non ci serve, se dobbiamo stabilire quale dev’essere il valore di P.

Ma se la formula P-3 non ci serve direttamente, può servire invece a stabilire che le indagini sinora svolte erano mal orientate. La vecchia osservazione, secondo la quale certi uomini son vecchi a 50 anni, altri invece ancora in gamba a 80 o 90, può anche esser giusta, ma non ci serve a niente. La verità è che l’età della pensione non deve tenersi in alcun rapporto con l’uomo che stiamo considerando. Bisogna invece badare a un altro uomo, cioè a quello che prenderà il suo posto. Quest’uomo (chiamiamolo Y), destinato a prendere il posto del primo (X) quando costui va ‘in pensione, percorrerà le seguenti fasi, nella sua carriera:

1)  Età dell’abilitazione (A)
2) Età della discrezione (D) = A + 3
3) Età della promozione (P) = D + 7
4) Età della responsabilità (R) = P + 5
5) Età dell’autorità (AA) = R + 3
6) Età della realizzazione (RR) = AA + 7
7) Età della distinzione (DD) = RR + 9
8) Età della dignità (DDD) = DD + 6
9) Età della saggezza (S) = DDD + 3
10) Età dell’ostruzione (O) = S + 7

La scala suesposta dipende dal valore numerico di A. Questo A è un termine tecnico. Non significa che un individuo, giunto in A, sappia alcunché delle cose di cui deve occuparsi. Gli architetti, per esempio, superano un certo esame, ma di rado a quel livello (e spesso a qualsiasi livello) sanno fare alcunché di utile. Il termine A indica l’età in cui inizia la carriera di un professionista, o di un uomo d’affari, di solito dopo un complesso periodo di addestramento che è stato fruttuoso solo a quelli che vengon pagati per organizzarlo. Il lettore vedrà che se A = 22, ‘il signor X giungerà in O (cioè nella fase finale, quella dell’ostruzione) a 72 anni. Per quanto riguarda la sua efficienza, non c`è motivo valido per sostituirlo fino a quando non sia giunto ai 71. Ma a noi, come si è detto, non interessa il comportamento di X, bensì quello di Y, il suo successore. In che rapporto stanno le rispettive età di X e di Y? O più precisamente, quanti anni avrà X quando Y sarà assunto nel ministero o nella ditta?

A questo problema si è dedicata attenta e lunga considerazione. Le nostre ricerche parrebbero dimostrare che lo scarto di età fra X ed Y è 15 anni esatti. (Di solito non accade che al padre succeda direttamente il figlio.) Se prendiamo questo scarto medio di 15 anni, e se presupponiamo A = 22, troveremo che Y avrà raggiunto RR (cioè l’età della realizzazione) a 47 anni, quando X ne ha 62. Ed è proprio a questo punto che avviene la crisi. Infatti Y, intralciato nei suoi propositi ambiziosi dal fatto che X controlla ancora la situazione, passa – fatto ormai provato – in una serie di stadi diversi da quelli descritti. Essi sono i seguenti:

6) Età della frustrazione (F) = AA + 7
7) Età della gelosia (G) = F + 4
8) Età della rassegnazione (R) = G + 9
9) Età dell’oblio (O) = R+5

Cosi quando X avrà raggiunto i 72 anni, Y ne avrà 57, e starà per entrare nell’età della rassegnazione. Se X va in pensione a quell’età, Y non è in grado di prendere il suo posto, poiché è rassegnato (dopo un decennio di frustrazione e di gelosia) a una carriera mediocre. Insomma per Y la buona occasione si presenta con dieci anni di ritardo.

L’età della frustrazione non sarà sempre la stessa, giacché dipende dal fattore A; i sintomi tuttavia son facili da riconoscersi. L’uomo a cui si nega la possibilità di prendere decisioni importanti, comincia a considerare importanti le decisioni che gli lasciano prendere. Diventa pignolo sulla tenuta dell’archivio, attento a che le matite abbiano la punta, preoccupato che le finestre siano aperte (o chiuse), capace di usare due o tre diversi colori d’inchiostro. L’età della gelosia si rivela per il fatto che il Nostro tende a vantarsi della propria anzianità. “Dopo tutto, sono ancora qualcuno,” oppure: “Non mi hanno mai chiesto un parere,” o ancora: “Il Tale non ha grande esperienza.” Ma a questa fase segue quella della rassegnazione: “Io non sono fatto come certi ambiziosi, ”ovvero: “E venga anche Caio in commissione: un altro fastidio che si poteva evitare, credete a me,” o ancora: “Meglio così; se mi avessero promosso, addio tempo libero per giocare a golf.” Qualcuno sostiene che l’età della frustrazione ha per sintomo anche uno spiccato interesse per i fatti politici locali. Ma noi sappiamo invece che questo è sintomo di un’altra malattia; matrimonio mal riuscito. Da questi sintomi, e dagli altri che abbiamo descritto, appar chiaro che l’uomo il quale a 47 anni sia ancora in posizione subordinata, non servirà più a nulla.

Il problema, mi par chiaro, e di fare in modo che X vada in pensione all’età di 60: cioè quando è capace di fare il suo lavoro meglio di chiunque altro. Tale brusco mutamento può essere negativo, ma in caso contrario c’è il rischio di non avere un uomo capace di succedere a X quando costui va in pensione. E quanto più bravo è stato X, quanto più lunga la sua carriera, tanto più disperata la possibilità di trovargli un rimpiazzo. Quelli che hanno un’anzianità di poco inferiore alla sua, sono già troppo vecchi e per troppo tempo son rimasti in posizione subordinata. Essi posson servire solo a sbarrare la strada ai più giovani; compito che certamente svolgeranno da par loro. Per anni non verrà fuori un successore degno, forse non verrà fuori mai, a meno che una crisi repentina abbia. portato alla ribalta un capo nuovo. Cosi bisogna prendere quella grave decisione. Se X non va in pensione presto, tutta l’organizzazione finirà per soffrirne. Ma come si può rimuovere X?

Per far questo (ma anche per molte altre cose) ci viene in soccorso la scienza moderna. Superati ormai i grossolani metodi del passato. Un tempo gli altri dirigenti parlavano a voce bassa, durante le riunioni, in modo da non farsi sentire; qualcuno addirittura apriva e chiudeva la bocca soltanto, mentre gli altri annuivano, così che il presidente doveva convincersi d’essere completamente sordo. Ma c’è una tecnica moderna più efficace e più sicura: si basa sui viaggi in aereo e sulla compilazione dei moduli. Viaggi e moduli, somministrati nella giusta dose, indurranno il dirigente a dimettersi. Certe tribù primitive africane usavano liquidare il re, o comunque il capo, a un certo punto della sua carriera, cioè Q dopo un numero prestabilito di anni, ovvero quando egli cominciava a dar segni di decadenza. La tecnica odierna la possiamo descrivere così: si presenta al grand’uomo un programma di congressi. Uno a Helsinki in giugno, l’altro ad Adelaide in luglio, un altro ancora a Ottawa in agosto: fra un congresso e l’altro tre settimane circa. Gli si fa notare che il prestigio del ministero o della ditta dipende dalla sua presenza in quei luoghi, e che i partecipanti si offenderebbero se egli delegasse qualcun altro a rappresentarlo. Il programma dei viaggi aerei, del resto, gli consente di tornare in ufficio per tre o quattro giorni, fra un congresso e l’altro. Ed ogni volta egli troverà ‘il cestino delle pratiche in arrivo ben colmo di moduli da riempire. Alcuni di questi moduli riguardano i viaggi, altri si riferiscono a richieste di permessi, altri ancora portano l’intestazione “tassa sul reddito”. Riempiti i moduli che aspettavano la sua firma dopo il congresso di Ottawa, subito gli sarà dato il programma di una nuova serie di congressi; uno a Manila in settembre, un altro al Messico in ottobre, un terzo a Quebec in novembre. Il Nostro ammetterà, verso dicembre, che è tempo per lui di andare in pensione. In gennaio lo annunzierà pubblicamente.

In sostanza questa tecnica si basa sull’organizzazione dei congressi in luoghi il più possibile distanti, e con la massima possibile variazione dal clima caldo a quello freddo. Bisogna assolutamente evitare qualsiasi tranquillo viaggio via mare. Aereo soltanto, sempre. Non conta quale sia la rotta, giacché tutte le rotte sono organizzate in vista delle necessità postali, e non di quelle dei passeggeri. Non c’è bisogno di indagini per sapere che, con ogni certezza, ogni volo implicherà la partenza alle 2,50 del mattino: necessario quindi presentarsi all’aeroporto alla 1,30. L’arrivo, così dire l’orario, è previsto per le 3,10 antimeridiane del giorno successivo. Invariabilmente l’aereo giungerà in ritardo, e toccherà terra, di fatto, alle 3,57. Cosi i passeggeri avran terminato di sbrigare le pratiche doganali verso le 4,35. Poiché il viaggio si svolge in una sola direzione, attorno al mondo, è tutt’altro che impossibile che il viaggiatore faccia colazione tre volte. Viaggiando invece nella direzione opposta, il passeggero resterà senza cibo per ore e ore, e si vedrà offrire un bicchierino di sherry proprio quando sta per crollare dallo sfinimento. Gran parte delle ore di viaggio saranno naturalmente occupate dalla compilazione di moduli, circa la valuta e circa le condizioni di salute del passeggero. Che somma si porta dietro, in dollari (USA), sterline, franchi, marchi, fiorini, yen, lire italiane, sterline (australiane); quanto in lettere di credito, quanto in travellers’ cheques, quanto in francobolli, quanto in vaglia postali. Dove ha dormito la notte scorsa, e dove la notte precedente a quella? (Questa È: una domanda facile, perché il viaggiatore d’aereo può in buona fede dichiarare che per una settimana non ha dormito affatto.) Quando è nato e qual è il nome di sua nonna, da ragazza? Quanti figli ha, e perché? Quanto durerà il soggiorno? Dove sarà alloggiato? Qual è lo scopo della sua visita? (C’è uno scopo? Il viaggiatore ormai può anche averlo dimenticato.) Ha avuto la varicella, e in caso negativo perché? Ha il visto per la Patagonia e il permesso di rientro via Hong Kong? Le dichiarazioni false saranno punite con l’ergastolo. Prego allacciare le cinture. Stiamo per atterrare sul campo di Rangoon. Ora locale 2,47 antimeridiane. Temperatura esterna 110° F. Ci fermeremo a Rangoon per un’ora circa. La colazione sarà servita a bordo cinque ore dopo la partenza. Grazie (Dio, di cosa?). Vietato fumare.

Il lettore avrà già capito che il viaggio in aereo, considerato come stimolo al ritiro in pensione, comprende una buona dose di moduli da compilare. Ma tale compilazione costituisce di per sé una prova, non necessariamente connessa col viaggio. L’arte di redigere i moduli da riempire si basa su tre elementi: oscurità, carenza di spazio, gravità delle minacce di ammenda per i trasgressori e gli incapaci. Nell`ufficio che redige i moduli, all’oscurità provvedono vari competenti, dei quali uno bada all’ambiguità, uno all’inutilità, un altro al gergo. Certi espedienti più semplici hanno ormai carattere di automatismo. Prediletta, come mossa iniziale, è quella dello spazio bianco, a destra in alto, su cui sta scritto

Riferimento relativo mese di …

Poiché il modulo è giunto il 16 febbraio, nessuno sa se esso si riferisce al mese scorso, a quello in corso o al prossimo. Lo sa solo chi ha mandato il modulo, ma a lui non si può chiedere l’informazione, perché solo lui ha il diritto di far domande. A questo punto interviene l’esperto in ambiguità, il quale ha chiesto prima il parere al consulente sullo spazio, anzi, sulla carenza di spazio. Ed ecco cosa ne vien fuori:

Cancellare la parola che non interessa

Nome completo

Indirizzo

Domicilio

Anno e

Motivo della naturalizzazione

Status

Sig.

Sig.ra

Sìg.na

 

Questo modulo è fatto apposta, naturalmente, per un tale che si chiami Colonnello, oppure Lord, oppure dottore Alexander Winthrop Percival Blenkishop-Fotheringay of Battleaxe Towers, Layer-dela-Haye, presso Newcastle-under-Lyme, provincia di Kesteven, Lancashire (ammesso che queste parole abbiano un significato). Accanto a “indirizzo” figura la parola “domicilio”, che può avere un significato solo per un esperto di diritto internazionale; poi viene quel misterioso accenno alla naturalizzazione. Infine la parola “status” dinanzi alla quale il compilatore si chiede se deve mettere “ammiraglio in pensione”, oppure “sposato”, oppure “cittadino americano”, oppure “direttore generale”.

All’esperto in ambiguità succede ora lo specialista in inutilità, il quale chiede il parere del consulente sullo spazio. Ed ecco cosa mettono insieme:

Numero della carta d’identità o del passaporto

Nome completo del nonno

Nome completo della nonna da ragazza

Se vaccinato quando e perchè

Altri particolari

N.B. – La pena per le dichiarazioni false è fissata in 5.000 sterline oppure un anno di prigione, o anche l’uno e l’altro

 

Il capolavoro, ormai quasi ultimato, passa allo specialista di gergo, il quale redige quanto segue:

Quali circostanze speciali (253) si adducano per giustificare l’assegnazione convenuta per cui si sia fatta richiesta relativa al periodo a cui si riferisce la precedente domanda (143), prescindendo dalla revisione della precedente quota, e in che senso ed a che fine e se l’attuale o una qualsiasi precedente domanda inoltrata da ogni e qualsiasi altra persona o persone sia stata respinta da qualsivoglia autorità della sottosezione VII (35) o per qualsivoglia altro motivo, indipendentemente da un eventuale ricorso contro detta decisione, di cui si esporrà motivo e risultato.

 

 

Infine il modulo passa al tecnico che vi aggiunge lo spazio per la firma, cioè il fastigio che corona l’opera:

 

Io / noi (maiuscolo stampatello) ……………………………………………………………

Dichiaro/iamo sotto mia/nostra responsabilità che le informazioni da me/noi fornite qua sopra sono, per mia/nostra conoscenza, vere, come testimonia la mia/nostra firma apposta addì …………………. del mese di ………… 19 …………

(Firma) ……………………………………………………..

TESTIMONE

Timbro ……………………………………

nome …………………………….

indirizzo ………………………..

occupazione ………………….

Fotografia formato passaporto

Impronta digitale indice

Quest’ultima parte potrebbe sembrare chiara, se non fosse per un ultimo motivo di incertezza: di chi si richiede la fotografia e l’impronta digitale? Di me/noi o del testimone? Tuttavia questo forse non importa.

Le esperienze sinora fatte dimostrano che un funzionario anziano che occupi un posto di responsabilità, è costretto a dimettersi dopo un congruo numero di moduli da riempire e di viaggi in aereo. Ci sono anche esempi di funzionari che decidono di andare in pensione prima ancora che sia cominciata la cura. Basta parlar loro di un congresso a Stoccolma o a Vancouver, ed essi comprendono che è giunta l’ora. Ai giorni nostri quasi mai occorre adottare metodi drastici. L’ultimo caso di cui si abbia memoria risale all’immediato dopoguerra. Il funzionario in questione era individuo particolarmente robusto, e si dovette ricorrere a un lungo giro, in visita a miniere di stagno e a piantagioni di gomma in Malacca. Tale metodo funziona meglio nel mese di gennaio, e su aerei a reazione, in modo che lo scarto climatico sia più netto. Sceso dall’aereo alle 5,52 (ora di Malacca) il funzionario fu subito trascinato a un cocktail party, poi a un altro ricevimento, che si tenne in una casa distante quindici miglia dall’albergo dove era avvenuto il primo, indi a una cena (altro viaggio di undici miglia, ma in direzione opposta). Andò a letto alle 2,30 del mattino, poi fu a bordo dell’aereo alle 7. Atterrò a Ipoh giusto in tempo per far colazione, poi fu condotto a visitare due piantagioni di gomma, una miniera di stagno, una piantagione di palme da olio e una fabbrica di ananas in scatola. Dopo il pranzo, offerto al Rotary Club, fu condotto a visitare una scuola, una clinica, e un centro comunitario. Seguirono due cocktail party, un banchetto cinese di venti portate, con numerosi brindisi a base di acquavite, servita dentro bicchieroni da acqua. Le discussioni aziendali cominciarono la mattina dopo e proseguirono per tre giorni: fra una riunione e l’altra ricevimenti e banchetti alla maniera indiana e di Sumatra. Al quinto giorno tutti videro che la cura era stata troppo drastica: quel pomeriggio infatti l’illustre ospite riusciva a stare in piedi solo se sostenuto dalla segretaria, a destra, e dal cameriere privato, a sinistra. Al sesto giorno mori, dando conferma alla diffusa opinione secondo la quale egli doveva essere ammalato o stanco. Oggi si sconsigliano metodi siffatti. anche perché non occorrono più. Infatti ormai la gente ha imparato ad andarsene in pensione quando è il momento.

Resta tuttavia un grave problema. Cosa faremo, personalmente, quando si avvicinerà per noi l’età della pensione, già indicata per il nostro prossimo? Il lettore intenderà subito che il caso nostro personale è completamente diverso da tutti quelli sinora considerati. Noi non diremo mai d’essere in alcun modo indispensabili, ma il fatto sta che non si è ancora delineato un possibile successore. Con sincera riluttanza accettiamo di rinviare di qualche anno il ritiro in pensione, e solo per l’interesse del pubblico. E quando un nostro dipendente si presenterà con un programma di congressi a Teheran o a Hobart, noi ci affretteremo a buttar via quel foglio di carta e ad avvertire che i congressi sono tempo perso. “E poi,” continueremo con bonomia, “ho già preso i miei impegni. Nei prossimi due mesi andrò a pesca di salmoni, e sarò di ritorno verso la fine di ottobre. Per quella data voglio che tutti i moduli siano riempiti. Arrivederci ad allora.”

Noi sappiamo i metodi occorrenti per mandare in pensione chi ci precede. Se vogliono che andiamo in pensione anche noi, quelli che ci seguono trovino loro un metodo nuovo.

LA DOTTRINA DEL FASCISMO

PREFAZIONE

I programmi scolastici approvati col R. D. 7 maggio 1936-XIV, n. 762, prescrivono, per i licei classici e scientifici e gli istituti magistrali, la conoscenza della « Dottrina del Fascismo ».

L’Editore è pertanto lieto di offrire agli insegnanti e agli alunni questo volume la cui parte fondamentale é costituita dallo scritto del DUCE, nel quale – son, parole Sue – « è stabilito nettissimamente il mio pensiero dal punto di vista filosofico e dottrinaIe ».

Segue una appendice che raccoglie le leggi più importanti, anche le recentissime, del Regime. Gli studenti meditino queste leggi che realizzano i postulati della dottrina mussoliniana. Diciamo realizzano, perché i provvedimenti legislativi sono la attuazione immediata dei principi del Fascismo e ne preparano gli sviluppi. Bisogna, interpretare al di là della lettera medesima — pur cosi esplicita — lo spirito delle leggi fasciste, si vedrà allora come la precisione e perfino l’aridità del linguaggio si animino di un’irresistibile eloquenza.

L’EDITORE

 

INDICE

LA DOTTRINA DEL FASCISMO
di Benito MUSSOLINI

CAPITOLO I

IDEE FONDAMENTALI

1] Il Fascismo come filosofia

2] Concezione spiritualistica

3] Concezione positiva della vita come lotta

4] Concezione etica

5] Concezione religiosa

6] Concezione etica e realistica

7] Antiindividualismo e libertà

8] Antisocialismo e corporativismo

9] Democrazia e Nazione

10] Concetto dello Stato

11] Stato etico

12] Contenuto dello Stato

13] Autorità

 

CAPITOLO II

DOTTRINA POLITICA E SOCIALE

1] Origini della dottrina

2] Svolgimento

3] Contro il pacifismo: la guerra, e la vita come dovere

4] La politica demografica e il “prossimo”

5] Contro il materialismo storico e il principio della lotta di classe

6] Contro le ideologie democratiche

7] Le menzogne della democrazia

8] Contro le dottrine liberali

9` Il Fascismo non torna indietro

10] Valore e missione dello Stato

11] L’unità dello Stato e le contraddizioni del capitalismo

12] Lo Stato fascista e la religione

13] Impero e disciplina

 

 

 

 

CAPITOLO I

IDEE FONDAMENTALI

1 – Il Fascismo come filosofia.

Come ogni salda concezione politica, il Fascismo è prassi ed è pensiero, azione a cui è immanente una dottrina, e dottrina che, sorgendo da un dato sistema di forze storiche, vi resta inserita e vi opera dal di dentro1.

Ha quindi una forma correlativa alle contingenze di luogo e di tempo, ma ha insieme un contenuto ideale che la eleva a formula di verità nella storia superiore del pensiero2. Non si agisce spiritualmente nel mondo come volontà umana dominatrice di volontà senza un concetto della realtà transeunte e particolare su cui bisogna agire, e della realtà permanente e universale in cui la prima ha il suo essere e la sua vita. Per conoscere gli uomini bisogna conoscere l’uomo; e per conoscere l’uomo bisogna conoscere la realtà e le sue leggi. Non c’è concetto dello Stato che non sia fondamentalmente concetto della vita: filosofia o intuizione, sistema di idee che si svolge in una costruzione logica o si raccoglie in una visione o in una fede, ma è sempre, almeno virtualmente, una concezione organica del mondo.

Ora, il Fascismo italiano, pena la morte o. peggio, il suicidio, deve darsi un “corpo di dottrine”. Non saranno, non devono essere delle camicie di Nesso che ci vincolino per l’eternità – poiché il domani è misterioso e impensato – ma devono costituire una norma orientatrice della nostra quotidiana attività politica e individuale.
Io stesso, che le ho dettate, sono il primo a riconoscere che le nostre modeste tavole programmatiche – gli orientamenti teorici e pratici del Fascismo – devono essere rivedute, corrette, ampliata, corroborate, perché qua e là hanno subito le ingiurie del tempo. Credo che il nocciolo essenziale sia sempre nei suoi postulati, che per due anni hanno servito come segnale di raccolta per le schiere del Fascismo italiano; ma, pur prendendo l’avvio da quel nucleo primigenio, è tempo di procedere ad una ulteriore, più ampia elaborazione dello stesso programma.
A quest’opera di vita per il Fascismo dovrebbero con particolare fervore concorrere tutti i fascisti d’Italia, specialmente in quelle zone, dove, col patto o senza, si è pervenuti ad una pacifica convivenza dei due movimenti antagonistici.
La parola è un po’ grossa; ma io vorrei che nei due mesi che ci separano dall’Adunata Nazionale si creasse la filosofia del Fascismo italiano. Milano con la sua prima scuola di propaganda e cultura concorre a questo scopo. Non si tratta soltanto di preparare gli elementi programmatici sui quali poggiare solidamente la organizzazione di quel partito nel quale dovrà sfociare ineluttabilmente il movimento fascista; si tratta anche di smentire la stupida fola, secondo la quale nel Fascismo ci sarebbero soltanto dei violenti e non anche, com’è in realtà, degli spiriti inquieti e meditativi.
Questo indirizzo nuovo dell’attività fascista non danneggia – ne sono certissimo – quel magnifico spirito e temperamento di bellicosità, caratteristica peculiare del Fascismo. Attrezzare il cervello di dottrine e di solidi convincimenti non significa disarmare, ma irrobustire, rendere sempre più cosciente l’azione. I soldati che si battono con cognizione di causa sono sempre i migliori. Il Fascismo può e deve prendere a divisa il binomio mazziniano: Pensiero e Azione. [Lettera a M. Bianchi, 27 agosto 1921, in occasione dell’apertura della Scuola di propaganda e cultura fascista in Milano; v.- Messaggi e Proclami, Milano, Libreria d’Italia, 1929, pag. 39.]
Bisogna mettere in contatto i fascisti, far si che la loro attività sia anche una attività di dottrina, una attività spirituale e di pensiero…
Ora, se i nostri avversari fossero stati presenti alla nostra- riunione, si sarebbero convinti che il Fascismo non è soltanto azione, è anche pensiero… [Scritti e Discorsi: 1924, edizione definitiva; Hoepli, Milano, vol. IV, pag. 243. Nelle note seguenti sarà indicata con “S. e D.°’ la edizione definitiva degli Scritti e Discorsi di Benito Mussolini.]

2 Oggi io affermo che il Fascismo in quanto idea, dottrina, realizzazione, e universale; italiano nei suoi particolari istituti, esso è universale nello spirito, né potrebbe essere altrimenti. Lo spirito è universale per la sua stessa natura. Si può quindi prevedere una Europa fascista, una Europa che inspiri le sue istituzioni alle dottrine e alla pratica del Fascismo. Una Europa cioè che risolva, in senso fascista, il problema dello Stato moderno, dello Stato del XX secolo, ben diverso dagli Stati che esistevano prima del 1789 o che si formarono dopo. Il Fascismo oggi risponde ad esigenze di carattere universale. Esso risolve infatti il triplice problema dei rapporti fra Stato e individuo, fra Stato e gruppi, fra gruppi e gruppi organizzati. [S. e D.: 1930; vol. VII, pag. 230.]

 

2 – Concezione spiritualistica.

Cosi il Fascismo non si intenderebbe in molti dei suoi atteggiamenti pratici, come organizzazione di partito, come sistema di educazione, come disciplina, se non si guardasse alla luce del suo modo generale di concepire la vita. Modo spiritualistico3.

Il mondo per il Fascismo non è questo mondo materiale che appare alla superficie, in cui l’uomo è un individuo separato da tutti gli altri e per sé stante, ed è governato da una legge naturale, che istintivamente lo trae a vivere una vita di piacere egoistico e momentaneo. L’uomo del Fascismo è individuo che è nazione e patria, legge morale che stringe insieme individui e generazioni in una tradizione e in una missione, che sopprime l’istinto della vita chiusa nel breve giro del piacere per instaurare nel dovere una vita superiore libera da limiti di tempo e di spazio: una vita in cui l’individuo, attraverso l’abnegazione di sé, il sacrificio dei suoi interessi particolari, la stessa morte, realizza quell’esistenza tutta spirituale in cui è il suo valore di uomo.

3 Questo processo politico è affiancato da un processo filosofico: se è vero che la materia è rimasta per un secolo sugli altari, oggi è lo spirito che ne prende il posto. Conseguentemente vengono ripudiate tutte le manifestazioni peculiari dello spirito democratico: il facilonismo, l’improvvisazione, la mancanza di senso personale di responsabilità, l’esaltazione del numero e di quella misteriosa divinità che si chiama “popolo”. Tutte le creazioni dello spirito – a cominciare da quelle religiose – vengono al primo piano, mentre nessuno osa più attardarsi nelle posizioni di quell’anticlericalismo che fu, per molti decenni, nel mondo occidentale, l’occupazione preferita della democrazia. Quando si dice che Dio ritorna, s’intende affermare che i valori dello spirito ritornano. [S. e D.: 1922; vol. II, pag. 264.]
Vi è una zona riservata, più che alla ricerca, alla meditazione dei supremi fini della vita. Quindi, la scienza parte dall`esperienza ma sbocca fatalmente nella filosofia e, a mio avviso, solo la filosofia può illuminare la scienza e portarla sul terreno dell’idea universale. [S. e D.: vol. V, pagina 464.]
Il movimento fascista per essere compreso deve essere considerato in tutta la sua vastità e profondità di fenomeno spirituale. Le sue manifestazioni sono state le più potenti e le più decisive, ma non bisogna fermarsi ad esse. Il Fascismo italiano non è stato infatti solamente una rivolta politica contro governi fiacchi e incapaci che avevano lasciato decadere l’autorità dello Stato e minacciavano di arrestare l’Italia sulla via del suo maggiore sviluppo, ma è stato una rivolta spirituale contro vecchie ideologie che corrompevano i sacri principi della religione, della patria e della famiglia. Rivolta spirituale dunque, il Fascismo è stato espresso direttamente dal popolo. [Un messaggio al pubblico inglese, 5 gennaio 1924; o.: Messaggi e Proclami, Milano, Libreria d’Italia, 1929, p. 107.]

 

3 – Concezione positiva della vita come lotta.

Dunque concezione spiritualistica, sorta anch’essa dalla generale reazione del secolo contro il fiacco e materialistico positivismo dell’Ottocento. Antipositivistica, ma positiva: non scettica, né agnostica, né pessimistica, né passivamente ottimistica, come sono in genere le dottrine (tutte negative) che pongono il centro della vita fuori dell’uomo, che con la sua libera volontà può e deve crearsi il suo mondo. Il Fascismo vuole l’uomo attivo e impegnato nell’azione con tutte le sue energie: lo vuole virilmente consapevole delle difficoltà che ci sono, e pronto ad affrontarle. Concepisce la vita come lotta, pensando che spetti all’uomo conquistarsi quella che sia veramente degna di lui, creando prima di tutto in sé stesso lo strumento (fisico, morale, intellettuale) per edificarla. Cosi per l’individuo singolo, così per la nazione, così per l’umanità 4.

Quindi l’alto valore della cultura in tutte le sue forme (arte, religione, scienza)5, e l’importanza grandissima dell’educazione. Quindi anche il valore essenziale del lavoro, con cui l’uomo vince la natura e crea il mondo umano (economico, politico, morale, intellettuale).

4 La lotta è l’origine di tutte le cose perché la vita è tutta piena di contrasti: c’è l’amore e l’odio, il bianco e il nero, il giorno e la notte, il bene e il male, e finché questi contrasti non si assommano in equilibrio, la lotta sarà sempre nel fondo della natura umana, come suprema fatalità. E del resto è bene che sia così. Oggi può essere la lotta di guerra economica, di idee, ma il giorno in cui piú non si lottasse, sarebbe giorno di malinconia, di fine, di rovina. Ora, questo giorno non verrà. Appunto perché la storia si presenta sempre come un panorama cangiante. Se si pretendesse di ritornare alla calma, alla pace, alla tranquillità, si combatterebbero le odierne tendenze dell’attuale periodo dinamico. Bisogna prepararsi ad altre sorprese, ad altre lotte. Non ci sarà un periodo di pace sino a quando i popoli si abbandoneranno ad un sogno cristiano di fratellanza universale e potranno stendersi la mano oltre gli oceani e le montagne. Io, per mio conto, non credo troppo a questi ideali, ma non li escludo perché io non escludo niente… [S. e D.: 1921; vol. II, pagg. 99-100.]

5 Intendo l’onore delle nazioni nel contributo che hanno dato alla cultura dell’umanità. [E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, 1932, pag. 199.]

 

4 – Concezione etica.

Questa concezione positiva della vita è evidentemente una concezione etica. E investe tutta la realtà, nonché l’attività umana che la signoreggia. Nessuna azione sottratta al giudizio morale; niente al mondo che si possa spogliare del valore che a tutto compete in ordine ai fini morali. La vita perciò quale la concepisce il fascista è seria, austera, religiosa: tutta librata in un mondo sorretto dalle forze morali e responsabili dello spirito. ll fascista disdegna la vita “comoda”6.

6 Chiamai invece questa organizzazione: « Fasci italiani di combattimento ». In questa parola dura e metallica c’era tutto il programma del Fascismo, così come io lo sognavo, così come io lo volevo, cosi come io l`ho fatto!
Ancora questo è il programma, o camerati: combattere.
Per noi fascisti la vita è un combattimento continuo, incessante che noi accettiamo con grande disinvoltura, con grande coraggio, con la intrepidezza necessaria. [S. e D.: 1926; vol. V, pagg. 297-98.]
Eccoci persino di nuovo al nocciolo della filosofia fascista. Quando un filosofo finlandese mi pregò recentemente di dargli il senso del Fascismo in una frase, io scrissi in lingua tedesca: « Noi siamo contro la vita comoda!› Ludwig, 1. c., pag. 190.]

 

5 – Concezione religiosa.

Il Fascismo è una concezione religiosa7, in cui l’uomo è veduto nel suo immanente rapporto con una legge superiore, con una Volontà obiettiva che trascende l’individuo particolare e lo eleva a membro consapevole di una società spirituale. Chi nella politica religiosa del regime fascista si è fermato a considerazioni di mera opportunità, non ha inteso che il Fascismo, oltre a essere un sistema di governo, è anche, e prima di tutto, un sistema di pensiero.

7 Se il Fascismo non fosse una fede, come darebbe lo stoicismo e il coraggio ai suoi gregari? Solo una fede, che ha raggiunto le altitudini religiose, solo una fede può suggerire le parole uscite dalle labbra ormai esangui di Federico Florio. [S. e D.: 1922; vol. ll, pag. 233.]

 

6 – Concezione etica e realistica.

Il Fascismo è una concezione storica, nella quale l’uomo non è quello che è se non in funzione del processo spirituale a cui concorre, nel gruppo familiare sociale, nella nazione e nella storia, a cui tutte le nazioni collaborano. Donde il gran valore della tradizione nelle memorie, nella lingua, nei costumi, nelle norme del vivere sociale8. Fuori della storia l’uomo è nulla. Perciò il Fascismo è contro tutte le astrazioni individualistiche, a base materialistica, tipo sec. XVIII; ed è contro tutte le utopie e le innovazioni giacobine. Esso non crede possibile la “felicità” sulla terra, come fu nel desiderio della letteratura economicistica del 700, e quindi respinge tutte le concezioni teleologiche per cui a un certo periodo della storia ci sarebbe una sistemazione definitiva del genere umano. Questo significa mettersi fuori della storia e della vita che è continuo fluire e divenire. Il Fascismo politicamente vuol essere una dottrina realistica; praticamente, aspira a risolvere solo i problemi che si pongono storicamente da sé e che da sé trovano o suggeriscono la propria soluzione9. Per agire tra gli uomini, come nella natura, bisogna entrare nel processo della realtà e impadronirsi delle forze in atto10.

8 La tradizione è certamente una delle più grandi forze spirituali dei popoli in quanto che è una creazione successiva e costante della loro anima. [S. e D.: 1922; vol. Il, pag. 235.]

9 Il nostro temperamento ci porta a valutare l’aspetto concreto dei problemi, non già le loro sublimazioni ideologiche o mistiche. Per questo ritroviamo facilmente l’equilibrio [S. e D.: 1917; vol. I, pag. 272.]
La nostra battaglia è più ingrata ma è più bella, perché ci impone di contare soltanto sulle nostre forze. Noi abbiamo stracciato tutte le verità rivelate, abbiamo sputato su tutti i dogmi, respinto tutti i paradisi, schernito tutti i ciarlatani – bianchi, rossi, neri – che mettono in commercio le droghe miracolosa per dare la “felicità” al genere umano. Non crediamo ai programmi, agli schemi, ai santi, agli apostoli: non crediamo soprattutto alla felicità, alla salvazione, alla terra promessa. Non crediamo a una soluzione unica – sia essa di specie economica o politica o morale – a una soluzione lineare dei problemi della vita, perché – o illustri cantastorie di tutte le sacristie – la vita non è lineare e non la ridurrete mai a un segmento chiuso fra bisogni primordiali. [S. e D.: 1920; vol. II, pagine 53-4.]

10 Noi non siamo, noi non vogliamo essere mummia perennemente immobili con la faccia rivolta allo stesso orizzonte, o rinchiuderci tra le siepi anguste della beghinitá sovversiva, dove si biascicano meccanicamente le formule corrispondenti alle preci delle religioni professate; ma siamo uomini e uomini vivi che vogliamo dare il nostro contributo, sia pure modesto, alla creazione della storia. [S. e D.: 1914; vol. I, pag. 8.]
Noi agitiamo dei valori morali e tradizionali che il socialismo trascura o disprezza; ma soprattutto lo spirito fascista rifugge da tutto ciò che è ipoteca arbitraria sul misterioso futuro. [S. e D.: 1921; vol. II, pagina 153.]
Davanti alle parole ed ai concetti che vi si riannodano, di destra e di sinistra, di conservazione e di rinnovazione, di tradizione e di progresso, noi non ci aggrappiamo disperatamente al passato, come a tavola suprema di salvezza, né ci lanciamo a capofitto fra le nebbie seducenti dell’avvenire. [S. e D.: 1922; vol. II, pag. 236.]
Il negativo, l’eterno immobile, è dannazione. Io sono per il movimento. Io sono un marciatore. [Ludwig, 1. c., pag. 204.]

 

7 – Antiindividualismo e libertà.

Antiindividualistica, la concezione fascista è per lo Stato; ed è per l’individuo in quanto esso coincide con lo Stato, coscienza e volontà universale dell’uomo nella sua esistenza storica11. È contro il liberalismo classico, che sorse dal bisogno di reagire all’assolutismo e ha esaurito la sua funzione storica da quando lo Stato si è trasformato nella stessa coscienza e volontà popolare. Il liberalismo negava lo Stato nell’interesse dell’individuo particolare; il Fascismo riafferma lo Stato come realtà vera dell’individuo12. E se la libertà dev’essere l’attributo dell’uomo reale, e non di quell’astratto fantoccio a cui pensava il liberalismo individualistico, il Fascismo è per la libertà. È per la sola libertà che possa essere una cosa seria, la libertà dello Stato e dell’individuo nello Stato13. Giacché, per il fascista, tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato. In tal senso il Fascismo è totalitario, e lo Stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo14.

11 Siamo i primi ad avere affermato, di fronte all’individualismo demoliberale, che l’individuo non esiste, se non in quanto è nello Stato e subordinato alle necessità dello Stato, e che, man mano che la civiltà assume forme sempre più complesse, la libertà dell’individuo sempre più si restringe. [S. e D.: 1929; vol. VII, pag. 147.]
Il senso dello Stato grandeggia nella coscienza degli Italiani, i quali sentono che solo lo Stato è la insostituibile garanzia della loro unità e della loro indipendenza; che solo lo Stato rappresenta la continuità nell’avvenire della loro stirpe e della loro storia! [Id., pag. 152.]
Se negli ottanta anni trascorsi abbiamo realizzato dei progressi cosi imponenti, voi pensate e potete supporre e prevedere che nei prossimi cinquanta od ottanta anni il cammino dell’Italia, di questa Italia che noi sentiamo cosi potente, cosi percorsa da linfe vitali, sarà veramente grandioso specialmente se durerà la concordia di tutti i cittadini, se lo Stato continuerà ed essere l’arbitro nelle contese politiche e sociali, se tutto sarà nello Stato e niente fuori dello Stato, perché oggi non si concepisce un individuo fuori dello Stato se non sia l’individuo selvaggio che non può rivendicare per sé che la solitudine e la sabbia del deserto. [S. e D.: 1928; vol. VI, pag. 173.]
Il Fascismo ha restituito allo Stato la sua attività sovrana – rivendicandone, contro tutti i particolarismi di classe e di categoria, l’assoluto valore etico; ha restituito al governo dello Stato, ridotto a strumento esecutivo dell’assemblea elettiva, la sua dignità di rappresentante della personalità dello Stato e la pienezza della sua potestà di imperio; ha sottratto l’amministrazione alle pressioni di tutte le faziosità e di tutti gli interessi. [S. e D.: 1928; vol. VI, pag. 292.]

12 Né si pensi di negare il carattere morale dello Stato fascista, perché io mi vergognerei di parlare da questa tribuna se non sentissi di rappresentare la forza morale e spirituale dello Stato. Che cosa sarebbe lo Stato se non avesse un suo spirito, una sua morale, che è quella che da la forza alle sue leggi, e per la quale esso riesce a farsi ubbidire dai cittadini?
… Lo Stato fascista rivendica in pieno il suo carattere di eticità: e cattolico, ma è fascista, anzi soprattutto, esclusivamente, essenzialmente fascista. Il Cattolicismo lo integra, e noi lo dichiariamo apertamente, ma nessuno pensi, sotto la specie filosofica e metafisica, di cambiarci le carte in tavola. [S. e D.: 1929; vol. VII, pag. 104-5.]
… uno Stato che è conscio della sua missione e che rappresenta un popolo che cammina, uno Stato che trasforma questo popolo continuamente, anche nel suo aspetto fisico. A questo popolo lo Stato deve dire delle grandi parole, agitare delle grandi idee e dei grandi problemi non fare soltanto dell’ordinaria amministrazione. [Id., pag. 105.]

13 Il concetto di libertà non è assoluto perché nella vita nulla vi è di assoluto. La liberta non è un diritto, è un dovere. Non è una elargizione: è una conquista; non è un’eguaglianza: è un privilegio. Il concetto di libertà muta col passare del tempo. C’è una liberta in tempo di pace che non è più la libertà in tempo di guerra. C’è una libertà in tempo di ricchezza che non può essere concessa in tempo di miseria. [S. e D.: 1924; volume IV, pag. 77.]
… nel nostro Stato la liberta all’individuo non manca. Egli la possiede più che l’uomo isolato: poiché lo Stato lo protegge, egli è una parte dello Stato. L’uomo isolato invece resta indifeso. [Ludwig, 1. c., pagina 129.]

14 Oggi preannunziamo al mondo la creazione del potente Stato unitario italiano, dall’Alpi alla Sicilia, e questo Stato si esprime in una democrazia accentrata, organizzata, unitaria, nella quale democrazia il popolo circola a suo agio, perchè, o signori, o voi immettete il popolo nella città della dello Stato, ed egli la difenderà, o sarà al di fuori, ed egli l’assalterà. [S. e D.: 1927; vol VI, pag. 77.]
Nel regime fascista l’unita di tutte le classi, l’unita politica, sociale e morale del popolo italiano si realizza nello Stato e soltanto nello Stato fascista. [S. e D.: 1928; vol. VI, pag. 282.]

 

8 – Antisocialismo e corporativismo.

Né individui fuori dello Stato, né gruppi (partiti politici, associazioni, sindacati, classi)15. Perciò il Fascismo è contro il socialismo che irrigidisce il movimento storico nella lotta di classe e ignora l’unità statale che le classi fonde in una sola realtà economica e morale; e analogamente, è contro il sindacalismo classista. Ma nell’orbita dello Stato ordinatore, le reali esigenze da cui trasse origine il movimento socialista e sindacalista, il Fascismo le Vuole riconosciute e le fa valere nel sistema corporativo degli interessi conciliati nell’unità dello Stato16.

15 Abbiamo creato lo Stato unitario italiano. Pensate che dall’Impero in poi, l’Italia non fu più uno Stato unitario. Noi qui riaffermiamo solennemente la nostra dottrina concernente lo Stato; qui riaffermo non meno energicamente la mia formula del discorso alla Scala di Milano «tutto nello Stato, niente contro lo Stato, nulla al di fuori dello Stato ›. [S. e D.: l92?; pol. VI, pag. 26.]

16 … siamo cioè in uno Stato che controlla tutte le forze che agiscono in seno alla nazione. Controlliamo le forze politiche, controlliamo le forze morali, controlliamo le forze economiche, siamo quindi in pieno Stato corporativo fascista…
Noi rappresentiamo un principio nuovo nel mondo, noi rappresentiamo la antitesi netta, categorica, definitiva di tutto il mondo della democrazia, della plutocrazia, della massoneria, di tutto il mondo, per dire in una parola, degli immortali principi dell’89. [S. E D.: 1926; pol. V, pagine 310-11.]
Il Ministero delle Corporazioni non è un organo burocratico e nemmeno vuole sostituirsi alle organizzazioni sindacali nella loro azione necessariamente autonoma, diretta ad inquadrare, selezionare, migliorare i loro aderenti. Il Ministero delle Corporazioni è l’organo per cui, al centro o alla periferia, si realizza la corporazione integrale, si attuano gli equilibri fra gli interessi e le forze del mondo economico. Attuazione possibile, sul terreno dello Stato, perché solo lo Stato trascende gli interessi contrastanti dei singoli e dei gruppi, per coordinarli ad un fine superiore, attuazione resa più spedita dal fatto che tutte le organizzazioni economiche riconosciute, garantite, tutelate nello Stato corporativo, vivono nell’orbita comune del Fascismo: accettano cioè la concezione dottrinale e pratica del Fascismo. [S. e D.: 1926; pol. V, pagg. 371-72.]
… abbiamo sostituito lo Stato corporativo e fascista, lo Stato della società nazionale, lo Stato che raccoglie, controlla, armonizza e contempera gli interessi di tutte le classi sociali, le quali si vedono egualmente tutelate. E mentre prima, durante gli anni del regime demo-liberale, le masse laboriose guardavano con diffidenza lo Sta-to, erano al di fuori dello Stato, erano contro lo Stato, consideravano lo Stato come un nemico d’ogni giorno e di ogni ora, oggi non c’è Italiano che lavori, che non cerchi il suo posto nelle Corporazioni, nelle federazioni, che non voglia essere una molecola vivente di quel grande, immenso organismo vivente che è lo Stato nazionale corporativo fascista. [S. e D.: 1926; vol. V, pag. 449.]

 

9 – Democrazia e Nazione.

Gli individui sono classi secondo le categorie degli interessi; sono sindacati secondo le differenziate attività economiche cointeressate; ma sono prima di tutto e soprattutto Stato. Il quale non è numero, come somma d’individui formanti la maggioranza di un popolo. E perciò il Fascismo è contro la democrazia che ragguaglia il popolo al maggior numero abbassandolo al livello dei piú17; ma è la forma più schietta di democrazia se il popolo è concepito, come dev’essere, qualitativamente e non quantitativamente, come l’idea più potente perché più morale, più coerente, più vera, che nel popolo si attua quale coscienza e volontà di pochi, anzi di Uno, e quale ideale tende ad attuarsi nella coscienza e volontà di tutti18. Di tutti coloro che dalla natura e dalla storia, etnicamente, traggono ragione di formare una nazione, avviati sopra la stessa linea di sviluppo e formazione spirituale, come una coscienza e una volontà sola. Non razza, né regione geograficamente individuata, ma schiatta storicamente perpetuantesi, moltitudine unificata da una idea, che è volontà di esistenza e di potenza: coscienza di sé, personalità19.

17 La guerra è stata “rivoluzionaria” nel senso che ha liquidato – tra fiumi di sangue – il secolo della democrazia, il secolo del numero, delle maggioranze, della quantità. [S. e D.: 1922; vol. Il, pag. 265.]

18 V. nota 13.

19 Razza: questo è un sentimento, non una realtà; il 95% è sentimento. [Ludwig, I. c., pag. 75.]

 

10 – Concetto dello Stato.

Questa personalità superiore è bensì nazione in quanto è Stato. Non è la nazione a generare lo Stato, secondo il vieto concetto naturalistico che servi di base alla pubblicistica degli Stati nazionali nel secolo XIX. Anzi la nazione è creata dallo Stato, che dà al popolo, consapevole della propria unità morale, una volontà, e quindi un’effettiva esistenza. Il diritto di una nazione all’indipendenza deriva non da una letteraria e ideale coscienza del proprio essere, e tanto meno da una situazione di fatto più o meno inconsapevole e inerte, ma da una coscienza attiva, da una volontà politica in atto e disposta a dimostrare il proprio diritto: cioè, da una sorta di Stato già in fieri. Lo Stato infatti, come volontà etica universale, è creatore del diritto20.

20 Una nazione esiste in quanto è un popolo. Un popolo ascende in quanto sia numeroso, laborioso e ordinato. La potenza è la risultante di questo fondamentale trinomio [S. e D.: 1929; vol. VII, pagg. 14-15.]
Il Fascismo non nega lo Stato; afferma che una società civica nazionale o imperiale non può essere pensata che sotto la specie di Stato. [S. e D.: 1922; val. II, pag. 294.]
Per noi la nazione è soprattutto’ spirito e non soltanto territorio. Ci sono Stati che hanno avuto immensi territori e che non lasciarono traccia alcuna nella storia umana. Non è soltanto numero, perché si ebbero, nella storia, degli Stati piccolissimi, microscopici, che hanno lasciato documenti memorabili, imperituri nell’arte e nella filosofia.
La grandezza della nazione è il complesso di tutte queste virtù, di tutte queste condizioni. Una nazione è grande quando traduce nella realtà la forza del suo spirito. [Id., pag. 346.]
Noi vogliamo unificare la nazione nello Stato sovrano, che è sopra di tutti e può essere contro tutti perché rappresenta la continuità morale della nazione nella storia. Senza lo Stato non c’è nazione. Ci sono soltanto degli aggregati umani, suscettibili di tutte le disintegrazioni che la storia può infliggere loro. [S. e D.: 1924; vol. IV, pagg. 244-5.]

 

11 – Stato etico.

La nazione come Stato è una realtà etica che esiste e vive in quanto si sviluppa. Il suo arresto è la sua morte. Perciò lo Stato non solo è autorità che governa e dà forma di legge e valore di vita spirituale alle volontà individuali, ma è anche potenza che fa valere la sua volontà all’esterno, facendola riconoscere e rispettare, ossia dimostrandone col fatto l’universalità in tutte le determinazioni necessarie del suo svolgimento21. È perciò organizzazione ed espansione, almeno virtuale. Cosi può adeguarsi alla natura dell’umana volontà, che nel suo sviluppo non conosce barriere, e che si realizza provando la propria infinità22.

21 Io credo che i popoli… se vogliono vivere, debbono sviluppare una certa volontà di potenza; altrimenti vegetano e vivacchiano e saranno preda di un popolo più forte che questa volontà di potenza ha maggiormente sviluppata. [Discorso al Senato, 28 maggio 1926.]

22 È il Fascismo che ha rifoggiato il carattere degli Italiani, scrostando dalle nostre anime ogni scoria impura, temprandolo a tutti i sacrifizi, dando al volto italiano il suo vero aspetto di forza e di bellezza. [S. e D.: 1926; vol. V, pag. 346.]
Non è fuor di luogo illustrare il carattere intrinseco, la significazione profonda della Leva fascista. Non si tratta soltanto di una cerimonia, ma di un momento importantissimo di quel sistema di educazione e preparazione totalitaria e integrale dell’uomo italiano che la Rivoluzione fascista considera come uno dei compiti fondamentali e pregiudiziali dello Stato, anzi il fondamentale. Qualora lo Stato non lo assolva o accetti comunque di discuterne, esso mette in gioco puramente e semplicemente il suo diritto di esistere. [S. e D.: 1928; vol. VI, pag. 156.]

 

12 – Contenuto dello Stato.

Lo Stato fascista, forma più alta e potente della personalità, è forza, ma spirituale. La quale riassume tutte le forme della vita morale e intellettuale dell’uomo. Non si può quindi limitare a semplici funzioni di ordine e tutela, come voleva il liberalismo. Non è un ‘semplice meccanismo che limiti la sfera delle presunte libertà individuali. È forma e norma interiore, e disciplina di tutta la persona; penetra la volontà come l’intelligenza. Il suo principio, ispirazione centrale dell’umana personalità vivente nella comunità civile, scende nel profondo e si annida nel cuore dell’uomo d’azione come del pensatore, dell’artista come dello scienziato: anima dell’anima.

 

13 – Autorità.

Il Fascismo insomma non è soltanto datore di leggi e fondatore d’istituti, ma educatore e promotore di vita spirituale. Vuol rifare non le forme della vita umana, ma il contenuto, l’uomo, il carattere, la fede. E a questo fine vuole disciplina, e autorità che scenda addentro negli spiriti, e vi domini incontrastata. La sua insegna perciò è il fascio littorio, simbolo dell’unità, della forza e della giustizia.

 

CAPITOLO II

DOTTRINA POLITICA E SOCIALE

1 -Origini della dottrina.

Quando, nell’ormai lontano marzo del 1919, dalle colonne del POPOLO D’lTALIA io convocai a Milano i superstiti interventisti intervenuti, che mi avevano seguito sin dalla costituzione dei Fasci di azione rivoluzionaria – avvenuta nel gennaio del 1915 –, non c’era nessuno specifico piano dottrinale nel mio spirito. Di una sola dottrina io recavo l’esperienza vissuta: quella del socialismo dal 1903-1904 sino all’inverno del 1914: circa un decennio. Esperienza di gregario e di capo, ma non esperienza dottrinale. La mia dottrina anche in quel periodo, era stata la dottrina dell’azione. Una dottrina univoca, universalmente accettata, del socialismo non esisteva più sin dal 1905, quando cominciò in Germania il movimento revisionista facente capo al Bernstein e per contro si formò, nell’altalena delle tendenze, un movimento di sinistra rivoluzionario, che in Italia non uscì mai dal campo delle frasi, mentre, nel socialismo russo, fu il preludio del bolscevismo. Riformismo, rivoluzionarismo, centrismo, di questa terminologia anche gli echi sono spenti, mentre nel grande fiume del Fascismo troverete i filoni che si dipartirono dal Sorel, dal Péguy, dal Lagardelle del Mouvement socialiste e dalla coorte dei sindacalisti italiani, che tra il 1904 e il 1914 portarono una nota di novità nell’ambiente socialistico italiano – svirilizzato e cloroformizzato dalla fornicazione giolittiana – con le PAGINE LIBERE di Olivetti, LA LUPA di Orano, il DIVENIRE SOCIALE di Enrico Leone.

Nel 1919, finita la guerra, il socialismo era già morto come dottrina: esisteva solo come rancore, aveva ancora una sola possibilità, specialmente in Italia, la rappresaglia contro coloro che avevano voluto la guerra e che dovevano “espiarla”. Il POPOLO D’ITALIA recava nel sottotitolo « quotidiano dei combattenti e dei produttori ». La parola “produttori” era già l’espressione di un indirizzo mentale. Il Fascismo non fu tenuto a balia da una dottrina elaborata in precedenza, a tavolino: nacque da un bisogno di azione e fu azione; non fu partito, ma nei primi due anni, antipartito e movimento. Il nome che io diedi all’organizzazione, ne fissava i caratteri. Eppure chi rilegga, nei fogli oramai gualciti dell’epoca, il resoconto dell’adunata costitutiva dei Fasci italiani di combattimento, non troverà una dottrina, ma una serie di spunti, di anticipazioni, di accenni, che, liberati dall’inevitabile ganga delle contingenze, dovevano poi, dopo alcuni anni, svilupparsi in una serie di posizioni dottrinali, che facevano del Fascismo una dottrina politica a sé stante, in confronto di tutte le altre e passate e contemporanee. « Se la borghesia – dicevo allora – crede di trovare in noi dei parafulmini si inganna. Noi dobbiamo andare incontro al lavoro… Vogliamo abituare le classi operaie alla capacità direttiva, anche per convincerle che non ‘è facile mandare avanti una industria o un commercio… Combatteremo il retroguardismo tecnico e spirituale… Aperta la successione del regime noi non dobbiamo essere degli imbelli. Dobbiamo correre; se il regime sarà superato saremo noi che dovremo occupare il suo posto. Il diritto di successione ci viene perché spingemmo il paese alla guerra e lo conducemmo alla vittoria! L’attuale rappresentanza politica non ci può bastare, vogliamo una rappresentanza diretta dei singoli interessi… Si potrebbe dire contro questo programma che si ritorna alle corporazioni. Non importa!… Vorrei perciò che l’assemblea accettasse le rivendicazioni del sindacalismo nazionale dal punto di vista economico… »

Non è singolare che sin dalla prima giornata di Piazza San Sepolcro risuoni la parola “corporazione” che doveva, nel corso della Rivoluzione, significare una delle creazioni legislative e sociali alla base del regime?

 

2 -Svolgimento.

Gli anni che precedettero la marcia su Roma, furono anni durante i quali le necessità dell’azione non tollerarono indagini o complete elaborazioni dottrinali. Si battagliava nelle città e nei villaggi. Si discuteva, ma – quel ch’è più sacro e importante – si moriva. Si sapeva morire. La dottrina – bell’e formata, con divisione di capitoli e paragrafi e contorno di elucubrazioni – poteva mancare; ma c’era a sostituirla qualche cosa di più decisivo: la fede. Purtuttavia, a chi rimemori sulla scorta dei libri, degli articoli, dei voti dei congressi, dei discorsi maggiori e minori, chi sappia indagare e scegliere, troverà che i fondamenti della dottrina furono gettati mentre infuriava la battaglia. È precisamente in quegli anni, che anche il pensiero fascista si arma, si raffina, procede verso una sua organizzazione. I problemi dell’individuo e dello Stato; i problemi dell’autorità e della libertà; i problemi politici e sociali e quelli più specificatamente nazionali; la lotta contro le dottrine liberali, democratiche, socialistiche, massoniche, popolaresche fu condotta contemporaneamente alle “spedizioni punitive”. Ma poiché mancò il “sistema”, si negò dagli avversari in malafede al Fascismo ogni capacità di dottrina, mentre la dottrina veniva sorgendo, sia pure tumultuosamente, dapprima sotto l’aspetto di una negazione violenta e dogmatica, come accade di tutte le idee che esordiscono, poi sotto l’aspetto positivo di una costruzione, che trovava, successivamente negli anni 1926, 1927 e 1928, la sua realizzazione nelle leggi e negli istituti del regime.

Il Fascismo è oggi nettamente individuato non solo come regime, ma come dottrina. Questa parola va interpretata nel senso che oggi il Fascismo, esercitando la sua critica su sé stesso e sugli altri, ha un suo proprio inconfondibile punto di vista, di riferimento – e quindi di direzione – dinnanzi a tutti i problemi che angustiano, nelle cose o nelle intelligenze, i popoli del mondo.

 

3 – Contro il pacifismo: la guerra, e la vita come dovere.

Anzitutto il Fascismo, per quanto riguarda, in generale, l’avvenire e lo sviluppo dell’umanità, e a parte ogni considerazione di politica attuale, non crede alla possibilità né all°uti1ità della pace perpetua. Respinge quindi il pacifismo che nasconde una rinuncia alla lotta e una viltà – di fronte al sacrificio. Solo la guerra porta al massimo di tensione tutte le energie umane e imprime un sigillo di nobiltà ai popoli che hanno la virtù di affrontarla. Tutte le altre prove sono dei sostituti, che non pongono mai l’uomo di fronte a sé stesso, nell’alternativa della vita e della morte. Una dottrina, quindi, che parta dal postulato pregiudiziale della pace, è estranea al Fascismo; così come estranee allo spirito del Fascismo, anche se accettate per quel tanto di utilità che possano avere in determinate situazioni politiche, sono tutte le costruzioni internazionalistiche e societarie, le quali, come la storia dimostra, si possono disperdere al vento quando elementi sentimentali, ideali e pratici, muovono a tempesta il cuore dei popoli. Questo spirito antipacifista, il Fascismo lo trasporta anche nella vita degli individui. L’orgoglioso motto squadrista “ me ne frego “, scritto sulle bende di una ferita, è un atto di filosofia non soltanto stoica, è il sunto di una dottrina non soltanto politica: è l’educazione al combattimento, l’accettazione dei rischi che esso comporta; è un nuovo stile di vita italiano. Cosi il fascista accetta, ama la vita, ignora e ritiene vile il suicidio; comprende la vita come dovere, elevazione, conquista: la vita che deve essere alta e piena: vissuta per sé, ma soprattutto per gli altri, vicini e lontani, presenti e futuri.

 

4 – La politica demografica e il “prossimo”.

La politica “demografica” del regime è la conseguenza di queste premesse. Anche il fascista ama infatti il suo prossimo, ma questo “prossimo” non è per lui un concetto vago e inafferrabile: l’amore per il prossimo non impedisce le necessarie educatrici severità, e ancora meno le differenziazioni e le distanze. Il Fascismo respinge gli abbracciamenti universali e, pur vivendo nella comunità dei popoli civili, li guarda vigilante e diffidente negli occhi, li segue nei loro stati d’animo e nella trasformazione dei loro interessi, né si lascia ingannare da apparenze mutevoli e fallaci.

 

5 – Contro il materialismo storico e il principio della lotta di classe.

Una siffatta concezione della vita porta il Fascismo a essere la negazione recisa di quella dottrina che costituì la base del socialismo cosiddetto scientifico o marxiano: la dottrina del materialismo storico, secondo il quale la storia delle civiltà umane si spiegherebbe soltanto con la lotta d’interessi fra i diversi gruppi sociali e col cambiamento dei mezzi e strumenti di produzione. Che le vicende dell’economia – scoperte di materie prime, nuovi metodi di lavoro, invenzioni scientifiche – abbiano una loro importanza, nessuno nega, ma che esse bastino a spiegare la storia umana escludendone tutti gli altri fattori, è assurdo: il Fascismo crede ancora e sempre nella santità e nell’eroismo, cioè in atti nei quali nessun motivo economico – lontano o vicino – agisce. Negato il materialismo storico, per cui gli uomini non sarebbero che comparse della storia, che appaiono e scompaiono alla superficie dei flutti, mentre nel profondo si agitano e lavorano le vere forze direttrici, è negata anche la lotta di classe, immutabile e irreparabile, che di questa concezione economicistica della storia è la naturale figliazione, e soprattutto è negato che la lotta di classe sia l’agente preponderante delle trasformazioni sociali. Colpito il socialismo in questi due capisaldi della sua dottrina, di esso non resta allora che l’aspirazione sentimentale – antica come l’umanità – a una convivenza sociale nella quale siano alleviate le sofferenze e i dolori della, più umile gente. Ma qui il Fascismo respinge il concetto di “felicità” economica, che si realizzerebbe socialisticamente e quasi automaticamente a un dato momento dell’evoluzione dell’economia, con l’assicurare a tutti il massimo di benessere. Il Fascismo nega il concetto materialistico di “felicità” come possibile e lo abbandona agli economisti della prima metà del 700; nega cioè l’equazione benessere = felicità, che convertirebbe gli uomini in animali di una cosa sola pensosi: quella di essere pasciuti e ingrassati, ridotti, quindi, alla pura e semplice vita vegetativa.

 

6 – Contro le ideologie democratiche.

Dopo il socialismo, il Fascismo batte in breccia tutto il complesso delle ideologie democratiche e le respinge, sia nelle loro premesse teoriche, sia nelle loro applicazioni o strumentazioni pratiche. Il Fascismo nega che il numero, per il semplice fatto di essere numero, possa dirigere le società umane; nega che questo numero possa governare attraverso una consultazione periodica; afferma la disuguaglianza irrimediabile e feconda e benefica degli uomini che non si possono livellare attraverso un fatto meccanico ed estrinseco com’è il suffragio universale. Regimi democratici possono essere definiti quelli nei quali, di tanto in tanto, si dà al popolo l’illusione di essere sovrano, mentre la vera effettiva sovranità sta in altre forze talora irresponsabili e segrete. La democrazia è un regime senza re, ma con moltissimi re talora più esclusivi, tirannici e rovinosi che un solo re che sia tiranno. Questo spiega perché il Fascismo, pur avendo prima del 1922 – per ragioni di contingenza – assunto un atteggiamento di tendenzialità repubblicana, vi rinuncio prima della marcia su Roma, convinto che la questione delle forme politiche di uno Stato non è, oggi, preminente e che studiando nel campionario delle monarchie passate e presenti, delle repubbliche passate e presenti, risulta che monarchia e repubblica non sono da giudicare sotto la specie dell’eternità, ma rappresentano forme nelle quali si estrinseca. l’evoluzione politica, la storia, la tradizione, la psicologia di un determinato paese. Ora il Fascismo supera l’antitesi monarchia-repubblica sulla quale si attardò il democraticismo, caricando la prima di tutte le insufficienze, e apologizzando l’ultima come regime di perfezione. Ora s’è visto che ci sono repubbliche intimamente reazionarie o assolutistiche, e monarchie che accolgono le più ardite esperienze politiche e sociali.

 

7 – Le menzogne della democrazia.

“ La ragione, la scienza – diceva Renan che ebbe delle illuminazioni prefasciste, in una delle sue MEDITAZIONI FILOSOFICHE – sono dei prodotti dell’umanità, ma volere la ragione direttamente per il popolo e attraverso il popolo è una chimera. Non è necessario per l’esistenza della ragione che tutto il mondo la conosca. ln ogni caso se tale iniziazione dovesse farsi non si farebbe attraverso la bassa democrazia, che sembra dover condurre all’estinzione di ogni cultura difficile, e di ogni più alta disciplina. Il principio che la società esiste solo per il benessere e la libertà degli individui che la compongono non sembra essere conforme ai piani della natura, piani nei quali la specie sola è presa in considerazione e l’individuo sembra sacrificato. È da fortemente temere che l’ultima parola della democrazia così intesa (mi affretto a dire che si può intendere anche diversamente) non sia uno stato sociale nel quale una massa degenerata non avrebbe altra preoccupazione che godere i piaceri ignorabili dell’uomo volgare. “

Fin qui Renan. ll Fascismo respinge nella democrazia l’assurda menzogna convenzionale dell’egualitarismo politico e l’abito dell’irresponsabilità collettiva e il mito della felicità e del progresso indefinito. Ma, se la democrazia può essere diversamente intesa, cioè se democrazia significa non respingere il popolo ai margini dello Stato, il Fascismo poté da chi scrive essere definito una “ democrazia organizzata, centralizzata, autoritaria “.

 

8 – Contro le dottrine liberali.

Di fronte alle dottrine liberali, il Fascismo è in atteggiamento di assoluta opposizione, e nel campo della politica e in quello dell’economia. Non bisogna esagerare – a scopi semplicemente di polemica attuale l’importanza del liberalismo nel secolo scorso, e fare di quella che fu una delle numerose dottrine sbocciate in quel secolo, una religione dell’umanità per tutti i tempi presenti e futuri. Il liberalismo non fiori che per un quindicennio. Nacque nel 1830 come reazione alla Santa Alleanza che voleva respingere l’Europa al pre-’89, ed ebbe il suo anno di splendore nel 1848 quando anche Pio IX fu liberale. Subito dopo cominciò la decadenza. Se il ’48 fu un anno di luce e di poesia, il ’49 fu un anno di tenebre e di tragedia. La repubblica di Roma fu uccisa da un’altra repubblica, quella di Francia. Nello stesso anno, Marx lanciava il vangelo della religione del socialismo col famoso Manifesto dei comunisti. Nel 1851 Napoleone III fa il suo illiberale colpo di Stato e regna sulla Francia fino al 1870, quando fu rovesciato da un moto di popolo, ma in seguito a una disfatta militare fra le più grandi che conti la storia. Il vittorioso è Bismarck, il quale non seppe mai dove stesse di casa la religione della libertà e di quali profeti si servisse. È sintomatico che un popolo di alta civiltà, come il popolo tedesco, abbia ignorato in pieno, per tutto il sec. XIX, la religione della libertà. Non c’è che una parentesi. Rappresentata da quello che è stato chiamato il “ ridicolo parlamento di Francoforte “, che durò una stagione. La Germania ha raggiunto la sua unità nazionale al di fuori del liberalismo, contro il liberalismo, dottrina che sembra estranea all’anima tedesca, anima essenzialmente monarchica, mentre il liberalismo è l’anticamera storica e logica dell’anarchia. Le tappe dell’unità tedesca sono le tre guerre del ’64, ‘66, ’70, guidate da “liberali” come Moltke e Bismarck. Quanto all’unità italiana, il liberalismo vi ha avuto una parte assolutamente inferiore all’apporto dato da Mazzini e da Garibaldi che liberali non furono. Senza l’intervento dell’illiberale Napoleone, non avremmo avuto la Lombardia, e senza l’aiuto dell’illiberale Bismarck a Sadowa e a Sedan, molto probabilmente non avremmo avuto, nel ‘66, la Venezia; e nel 1870 non saremmo entrati a Roma. Dal 1870 al 1915, corre il periodo nel quale gli stessi sacerdoti del nuovo credo accusano il crepuscolo della loro religione: battuta in breccia dal decadentismo nella letteratura, dall’attivismo nella pratica. Attivismo: cioè nazionalismo, futurismo, Fascismo. Il secolo “liberale” dopo avere accumulato un’infinità di nodi gordiani, cerca di scioglierli con l’ecatombe della guerra mondiale. Mai nessuna religione impose così immane sacrificio. Gli dèi del liberalismo avevano sete di sangue? Ora il liberalismo sta per chiudere le porte dei suoi templi deserti perché i popoli sentono che il suo agnosticismo nell’economia, il suo indifferentismo nella politica e nella morale condurrebbe, come ha condotto, a sicura rovina gli Stati. Si spiega con ciò che tutte le esperienze politiche del mondo contemporaneo sono antiliberali ed è supremamente ridicolo volerle perciò classificare fuori della storia; come se la storia fosse una bandita di caccia riservata al liberalismo e ai suoi professori, come se il liberalismo fosse la parola definitiva e non più superabile della civiltà.

 

9 – Il Fascismo non torna indietro.

Le negazioni fasciste del socialismo, della democrazia, del liberalismo, non devono tuttavia far credere che il Fascismo voglia respingere il mondo a quello che esso era prima di quel 1789, che viene indicato come l’anno di apertura del secolo demo-liberale. Non si torna indietro. La dottrina fascista non ha eletto a suo profeta De Maistre. L’assolutismo monarchico, fu, e così pure ogni ecclesiolatria. Cosi “furono” i privilegi feudali e la divisione in caste impenetrabili e non comunicabili fra di loro. Il concetto di autorità fascista non ha niente a che vedere con lo Stato di polizia. Un partito che governa totalitariamente una nazione, è un fatto nuovo nella storia. Non sono possibili riferimenti e confronti. Il Fascismo dalle macerie delle dottrine liberali, socialistiche, democratiche, trae quegli elementi che hanno ancora un valore di vita. Mantiene quelli che si potrebbero dire i fatti acquisiti della storia, respinge tutto il resto, cioè il concetto di una dottrina buona per tutti i tempi e per tutti i popoli.

Ammesso che il sec. XIX sia stato il secolo del socialismo, del liberalismo, della democrazia, non è detto che anche il sec. XX debba essere il secolo del socialismo, del liberalismo, della democrazia. Le dottrine politiche passano, i popoli restano. Si può pensare che questo sia il secolo dell’autorità, un secolo di “destra”, un secolo fascista; se il XIX fu il secolo dell’individuo (liberalismo significa individualismo), si può pensare che questo sia il secolo “collettivo” e quindi il secolo dello Stato. Che una nuova dottrina possa utilizzare gli elementi ancora vitali di altre dottrine è perfettamente logico. Nessuna dottrina nacque tutta nuova, lucente, mai vista. Nessuna dottrina può vantare una “originalità” assoluta. Essa è legata, non fosse che storicamente, alle altre dottrine che furono, alle altre dottrine che saranno. Cosi il socialismo scientifico di Marx è legato al socialismo utopistico dei Fourier, degli Owen, dei Saint-Simon: cosi il liberalismo dell’800 si riattacca a tutto il movimento illuministico del 700. Cosi le dottrine democratiche sono legate all’Enciclopedia. Ogni dottrina tende a indirizzare Fattività degli uomini verso un determinato obiettivo; ma 1°.-attività degli uomini reagisce sulla dottrina, la trasforma, l’adatta alle nuove necessità o la supera. La dottrina, quindi, dev’essere essa stessa non un’esercitazione di parole, ma un atto di vita. In ciò le venature pragmatistiche del Fascismo, la sua volontà di potenza, il suo volere essere, la sua posizione di fronte al fatto “violenza” e al suo valore.

 

10 – Valore e missione dello Stato.

Caposaldo della dottrina fascista è la concezione dello Stato, della sua essenza, dei suoi compiti, delle sue finalità. Per il Fascismo lo Stato è un assoluto, davanti al quale individui e gruppi sono il relativo. Individui e gruppi sono “pensabili” in quanto siano nello Stato. Lo Stato liberale non dirige il giuoco e lo sviluppo materiale e spirituale delle collettività, ma si limita a registrare i risultati; lo Stato fascista ha una sua consapevolezza, una sua volontà, per questo si chiama uno Stato “etico”. Nel 1929 alla prima assemblea quinquennale del regime io dicevo:1 “ Per il Fascismo lo Stato non è il “guardiano notturno” che si occupa soltanto della sicurezza personale dei cittadini; non è nemmeno una organizzazione a fini puramente materiali, come quella di garantire un certo benessere e una relativa pacifica convivenza sociale, nel qual caso a realizzarlo basterebbe un consiglio di amministrazione; non à nemmeno una creazione di politica pura, senza aderenze con la realtà materiale e complessa della vita dei singoli e di quella dei popoli. Lo Stato così come il Fascismo lo concepisce e attua è un fatto spirituale e morale, poiché concreta organizzazione politica, giuridica, economica della Nazione, e tale organizzazione è, nel suo sorgere e nel suo sviluppo, una manifestazione dello spirito. Lo Stato è garante della sicurezza interna ed esterna, ma è anche il custode e il trasmettitore dello spirito del popolo così come fu nei secoli elaborato nella lingua, nel costume, nella fede.

Lo Stato non è soltanto presente, ma è anche passato e soprattutto futuro. È lo Stato che trascendendo il limite breve delle vite individuali rappresenta la coscienza immanente della nazione. Le forme in cui gli Stati si esprimono, mutano, ma la necessità rimane. È lo Stato che educa i cittadini alla virtù civile, li rende consapevoli della loro missione, li sollecita all’unità; armonizza i loro interessi nella giustizia; tramanda le conquiste del pensiero nelle scienze, nelle arti, nel diritto, nell’umana solidarietà; porta gli uomini dalla vita elementare della tribù alla più alta espressione umana di potenza che è l’Impero; affida ai secoli i nomi di coloro che morirono per la sua integrità o per obbedire alle sue leggi; addita come esempio e raccomanda alle generazioni che verranno i capitani che lo accrebbero di territorio e i geni che lo illuminarono di gloria. Quando declina il senso dello Stato e prevalgono le tendenze dissociatrici e centrifughe degli individui o dei gruppi, le società nazionali volgono al tramonto. “

1 Scritti e Discorsi: 1929; vol. VII, pagg. 26-7.

 

11 – L’unità dello Stato e le contraddizioni del capitalismo.

Dal 1929 a oggi, l’evoluzione economica politica universale ha ancora rafforzato queste posizioni dottrinali. Chi giganteggia è lo Stato. Chi può risolvere le drammatiche contraddizioni del capitalismo è lo Stato. Quella che si chiama crisi, non si può risolvere se non dallo Stato, entro lo Stato. Dove sono-le ombre dei ]ules Simon, che agli albori del liberalismo proclamavano che “ lo Stato deve lavorare a rendersi inutile e a preparare le sue dimissioni”? Dei Mac-Culloch, che nella seconda metà del secolo scorso affermavano che lo Stato deve astenersi dal troppo governare? E che cosa direbbe mai dinnanzi ai continui, sollecitati, inevitabili interventi dello Stato nelle vicende economiche, l’inglese Bentham, secondo il quale l’industria avrebbe dovuto chiedere allo Stato soltanto di essere lasciata in pace, o il tedesco Humboldt, secondo il quale lo Stato “ozioso” doveva essere considerato il migliore? Vero è che la seconda ondata degli economisti liberali fu meno estremista della prima e già lo stesso Smith apriva – sia pure cautamente – la porta agli interventi dello Stato nell’economia. Se chi dice liberalismo dice individuo, chi dice Fascismo dice Stato. Ma lo Stato fascista è unico ed è una creazione originale. Non è reazionario, ma rivoluzionario, in quanto anticipa le soluzioni di determinati problemi universali quali sono posti altrove nel campo politico dal frazionamento dei partiti, dal prepotere del parlamentarismo, dall’irresponsabilità delle assemblee, nel campo economico dalle funzioni sindacali sempre più numerose e potenti sia nel settore operaio come in quello industriale, dai loro conflitti e dalle loro intese; nel campo morale dalla necessità dell’ordine, della disciplina, dell’obbedienza a quelli che sono i dettami morali della patria. Il Fascismo vuole lo Stato forte, organico e al tempo stesso poggiato su una larga base popolare. Lo Stato fascista ha rivendicato a sé anche il campo dell’economia e, attraverso le istituzioni corporative, sociali, educative da lui create, il senso dello Stato arriva sino alle estreme propaggini e nello Stato circolano, inquadrate nelle rispettive organizzazioni, tutte le forze politiche, economiche, spirituali della Nazione. Uno Stato che poggia su milioni di individui che lo riconoscono, lo sentono, sono pronti a servirlo, non è lo Stato tirannico del signore medievale. Non ha niente di comune con gli Stati assolutistici di prima o dopo l’89. L’individuo nello Stato fascista non è annullato, ma piuttosto moltiplicato, cosi come in un reggimento un soldato non è diminuito, ma moltiplicato per il numero dei suoi camerati. Lo Stato fascista organizza la Nazione, ma lascia poi agli individui margini sufficienti; esso ha limitato le libertà inutili o nocive e ha conservato quelle essenziali. Chi giudica su questo terreno non può essere l`individuo, ma soltanto lo Stato.

 

12 – Lo Stato fascista e la religione.

Lo Stato fascista non rimane indifferente di fronte al fatto religioso in genere e a quella particolare religione positiva che è il cattolicismo italiano. Lo Stato non ha una teologia, ma ha una morale. Nello Stato fascista la religione viene considerata come una delle manifestazioni più profonde dello spirito; non viene, quindi, soltanto rispettata, ma difesa e protetta. Lo Stato fascista non crea un suo “Dio” così come volle fare a un certo momento, nei deliri estremi della Convenzione, Robespierre; né cerca vanamente di cancellarlo dagli animi come fa il bolscevismo; il Fascismo rispetta il Dio degli asceti, dei santi, degli eroi e anche il Dio cosi com’è visto e pregato dal cuore ingenuo e primitivo del popolo.

 

13 – Impero e disciplina.

Lo Stato fascista è una volontà di potenza e d’imperio. La tradizione romana è qui un’idea di forza. Nella dottrina del Fascismo non è soltanto una espressione territoriale o militare o mercantile, ma spirituale 0 morale. Si può pensare a un Impero, cioè a una Nazione che direttamente o indirettamente guida altre Nazioni senza bisogno di conquistare un solo chilometro quadrato di territorio. Per il Fascismo la tendenza all’Impero, cioè all’espansione delle Nazioni, è una manifestazione di vitalità: il suo contrario, o il piede di casa, è un segno di decadenza: popoli che sorgono o risorgono sono imperialisti, popoli che muoiono sono rinunciatari. Il Fascismo è la dottrina più adeguata a rappresentare le tendenze, gli stati d’animo di un popolo come l’italiano che risorge dopo molti secoli di abbandono o di servitù straniera. Ma l’Impero chiede disciplina, coordinazione degli sforzi, dovere e sacrificio; questo spiega molti aspetti dell’azione pratica del regime e l’indirizzo di molte forze dello Stato e la severità necessaria contro coloro che vorrebbero opporsi a questo moto spontaneo e fatale dell’Italia nel sec. XX e opporsi agitando le ideologie superate del sec. XIX, ripudiate dovunque si siano osati grandi esperimenti di trasformazioni politiche e sociali. Non mai come in questo momento i popoli hanno avuto sete di autorità, di direttive, di ordine. Se ogni secolo ha una sua dottrina, da mille indizi appare che quella del secolo attuale è il Fascismo. Che sia una dottrina di vita, lo mostra il fatto che ha suscitato una fede: che la fede abbia conquistato le anime, lo dimostra il fatto che il Fascismo ha avuto i suoi caduti e i suoi martiri.

Il Fascismo ha oramai nel mondo l’universalità di tutte le dottrine che, realizzandosi, rappresentano un momento nella storia dello spirito umano.

IL DECRETO DEL S. UFFIZIO CONTRO IL COMUNISMO

IL DECRETO DEL S. UFFIZIO CONTRO IL COMUNISMO

COMMENTO AD USO DEI PARROCI E CONFESSORI

Sac. ERBERTO d’AGNESE

Professore di Teologia Morale nella Pontificia Facoltà Teologica del Seminario Arcivescovile di Napoli

Nihil obstat quominus imprimatur: Joseph Can. PETRICCIONE Cens. Theol.

Imprimatur Jos. M. De Nicola Ep. Tit. Pergamen. V. G

1949

 

PREFAZIONE

Quest’opuscolo, piccolo di mole ma veramente prezioso. lo si deve alla competenza non comune di Mons. Erberto d’Agnese, Professore di Teologia Morale nella facoltà Teologica di Napoli.

L’Autore – che insegna Morale da quindici anni – si è deciso a commentare il DECRETO DEL S. UFFIZIO SUL COMUNISMO, dopo le vive premure di amici ed ex-alunni, che si sono rivolti a lui per avere schiarimenti, c dopo che la Rev.ma Curia di Napoli ha voluto che tenesse su detto Decreto il « caso morale » del 21 luglio u. s.

Mons. d’Agnese, con chiarezza, precisione e brevità – doti abituali delle sue lezioni – ha trattato, in modo esauriente, il difficile argomento, e vi ha aggiunto una « casistica » molto utile per i Pastori di anime.

Sono stati proposti i casi più frequenti, e peraltro l’Autore non ha presunto affatto esaurire tutta la « casistica » che può sorgere dall’applicazione del Decreto; ed e disposto a rispondere, ben volentieri, a quanti gli proporranno nuovi casi specifici.

Possa questo lavoro di Mons. D’Agnese essere di aiuto al Rev. Clero, ed apportare luce al laicato cattolico, affinché, con la persuasione, si possano ricondurre alla Madre Chiesa tanti figli ingannati dall’errore comunista.

Napoli, 9 agosto 1949.

Mons. EGIDIO JOVINE

Vice-Direttore del Settimanale « La Croce »

 

 

Suprema Sacra Congregatio Sancti Officii

DECRETUM

Quaesitum est ab hac Suprema Sacra Congregatione :

  1. utrum licituin sit partibus communistarum nomen dare vel eisdem favorem praestare;
  2. utrum licitum sit edere, propagare vel legere libros, periodica, diaria vel folia, quae doctrinae vel actioni connnunistarurn patrocinantur, vel in eis scribere;
  3. utrunl christifideles, qui actus de quibus in nn. 1 et 2 scienter et libere posuerint, ad Sacramenta admitti possint;
  4. utrum christifideles, qui communistarum doctrinam materialisticam et antichristianam profitentur, et in primis qui eam defendunt vel propagant, ipso facto, tamquam apostatae a fide catholica, incurrant in excommunicationem speciali modo Sedi Apostolicae reservatam.

Resp.

Ad 1. Negative: communismus enim est materialisticus et antichristianus; communistarum autem duces, etsi verbis quandoque profitentur se Religionem non oppugnare, re tamen, sive doctrina sive actione, Deo veraeque Religioni et Ecclesiae Christi sese infensos esse ostendunt;

Ad 2. Negative: prohibentur enim ipso iure (cfr. can. 1399 C. I. C.);

Ad 3. Negative, secundum ordinaria principia de Sacramentis denegandis iis qui non sunt dispositi;

Ad 4. Affirmative.

Datum Romae, die 1 Iulii 1949.

 

Traduzione italiana del Decreto stesso.

A questa Suprema Sacra Congregazione sono stati fatti i seguenti quesiti:

  1. se sia lecito iscriversi a Partiti Comunisti o dare ad essi appoggio;
  2. se sia lecito pubblicare, diffondere o leggere libri, periodici, giornali o fogli volanti, che sostengono la dottrina o la prassi del comunismo, o collaborare in essi con degli scritti;
  3. se i fedeli, che compiono consapevolmente e liberamente atti di cui ai nn. 1 e 2 possano essere ammessi ai Sacramenti;
  4. se i fedeli che professano ‘la dottrina del Comunismo, materialista e anticristiano, ed anzitutto coloro che la difendono o se ne fanno propagandisti, incorrano « ipso facto », come apostati dalla fede cattolica, nella scomunica in modo speciale riservata alla Sede Apostolica.

Risp.

al 1°- Negativamente: il Comunismo, infatti, è materialista e anticristiano; i dirigenti, poi, del Comunismo, benché a parole dichiarino qualche volta di non combattere la Religione, di fatto però, con la teoria e con l’azione, si dimostrano ostili a Dio, alla vera Religione e alla Chiesa di Cristo;

al 2°- Negativamente: perché proibiti dallo stesso diritto canonico (can. 1399);

al 3°- Negativamente: secondo i principii riguardanti il rifiuto dei Sacramenti a coloro che non hanno le necessarie disposizioni;

al 4° – Affermativamente.

Roma, 1 luglio 1949.

 


Circa il decreto del S. Uffizio, che riguarda il comunismo, diamo il presente commento ad uso dei parroci e confessori.

Distinguiamo questo commento in quattro parti, seguendo le risposte ai quattro quesiti rivolti alla Suprema Sacra Congregazione del Santo Uffizio.

 

È lecito iscriversi al partito comunista o favorirlo?

  1. È ILLECITO «iscriversi a partiti comunisti », perché: « il comunismo… è materialista e anticristiano: i dirigenti, poi, del comunismo, benché a parole dichiarino qualche volta di non combattere la Religione, di fatto però, con la teoria e con Fazione, si dimostrano ostili a Dio, alla vera Religione e alla Chiesa di Cristo».
  2. Iscriversi al partito comunista, per sé, è GRAVEMENTE illecito; perché il decreto, nella risposta al terzo quesito, parla di « rifiuto dei Sacramenti ». Ora è evidente che i Sacramenti possono essere negati soltanto a coloro che sono, e vogliono restare, in peccato mortale.

Per lo stesso motivo deve ritenersi che, per sé, è GRAVEMENTE illecito « dare appoggio » al partito comunista; nonché « pubblicare, diffondere o leggere libri, periodici, giornali o fogli volanti, che sostengono la dottrina o la prassi del comunismo, o collaborare in essi con degli scritti ».

  1. Quanto è stato precedentemente osservato si applica anche a quelle « associazioni che sono organizzate direttamente dal comunismo, per esempio, la Gioventù Comunista, i Sindacati propriamente comunisti ecc. Chi si inscrive a queste associazioni pone un atto per sé illecito » (dall’articolo – Il decreto sul comunismo – de L’ Osservatore Romano, n. 172, del 27-7-1949).
  2. È GRAVEMENTE ILLECITO « dare appoggio » al partito comunista. Ogni « apporto diretto o indiretto.. ai partiti comunisti, vale a dire ai nemici di Dio, di Nostro Signore Gesù Cristo, della Chiesa Cattolica » (Oss. Rom. l. c.) è certamente peccato grave; come, per esempio: dare al partito comunista il voto, sia nelle elezioni politiche che nelle comunali e regionali; partecipare attivamente ai suoi convegni o cortei; offrire ad essi i mezzi per la propaganda; ecc.
  3. « Tutti sanno che vi sono varie forme di socialismo, tra loro ben diverse. Qui basti dire che un partito socialista, il quale fa assolutamente causa comune con i partiti comunisti e unisce direttamente le sue forze a quelle del comunismo, favorendolo in modo esplicito, è già condannato nella prima parte del Decreto » (Oss. Rom l. c.).

È lecito pubblicare, diffondere, leggere pubblicazioni comuniste o scrivere in esse?

È gravemente illecito, cioè, per sé, è peccato mortale:

  1. « pubblicare »,
  2. o « diffondere »,
  3. o « leggere libri, periodici, giornali o fogli volanti, che sostengono la dottrina o la prassi del comunismo »,
  4. o « collaborare in essi con degli scritti ».

Osserviamo:

  1. « Pubblicare »: Peccano coloro che sono la causa primaria e principale della pubblicazione, cioè l’AUTORE (o il DIRETTORE), l’ EDITORE ed il TIPOGRAFO.Gli operai od impiegati della casa editrice o della tipografia, per sé, non peccano, perché di loro non si può dire che « pubblicano »: sottostanno, peraltro, alla legge naturale che proibisce la cooperazione al male, e perciò il loro peccato può essere più o meno grave secondo che la loro cooperazione è formale o semplicemente materiale: possono essere del tutto scusati da colpa, se vi è un motivo proporzionatamente grave; e purché non si tratti della pubblicazione di un argomento intrinsecamente cattivo, come sarebbe un argomento direttamente ed esplicitamente contrario alla fede e alla morale cattolica (COCCHI: Commentarium in C.J.C. – Vol. VI – N. 67 – Ed. III. – a. 1933).
  2. « Diffondere »: Peccano certamente quelli che spontaneamente diffondono pubblicazioni comuniste, e quelli che, invitati a far ciò, scientemente e liberamente accettano.
  3. « Leggere »: Se trattasi di libri, la lettura di essi costituisce peccato grave se NOTEVOLE è la parte che viene letta: notevole, o qualitativamente (è proprio la parte che contiene l’errore condannato), o quantitativamente (6-10 pagine).Se, invece, trattasi di periodici, giornali o fogli volanti:
    1. peccano gravemente quelli che ABITUALMENTE li leggono e quelli che, anche UNA SOLA VOLTA, leggono in essi un tratto NOTEVOLE che sia DIRETTAMENTE contrario alla fede od ai costumi;
    2. peccano venialmente quelli che, DI TANTO IN TANTO, leggono in essi ciò che, SOLO DI PASSAGGIO, si riferisce a quanto è contrario alla fede od ai costumi;
    3. non commettono alcuna colpa quelli che leggono in essi un articolo INNOCUO, in una circostanza PARTICOLARE, per un RAGIONEVOLE ed URGENTE MOTIVO, e quando NON si sia potuto FACILMENTE chiedere il permesso (Cocchi, l. c): il permesso, nella vigente prassi e disciplina, può chiedersi ed ottenersi dall’Ordinario diocesano.
  4. « Libri, periodici, giornali o fogli volanti, che sostengono la dottrina o la prassi del comunismo »: il decreto del S. Uffizio ricorda che detti libri sono « proibiti dallo stesso diritto canonico (can. 1399) ».

Infatti, il can. 1399 proibisce, fra gli altri:

    1. i libri che difendono eresie, scismi o sono contro i fondamenti della fede e della religione o il buon costume (numeri 2° e 3°);
    2. i libri che attaccano il domma, diffondono errori condannati, e che sono contro la disciplina e la gerarchia ecclesiastiche, nonché contro lo stato clericale o religioso (numero 6°).

Orbene, tutti possono rendersi conto che i « libri… che sostengono la dottrina o la prassi del comunismo » sono libri che cadono nella proibizione dei numeri 2°, 3° e 6° del can. 1399.

Si noti che, quanto dal can. 1399 è detto dei libri, è detto pure, a norma del paragrafo 2 del can. 1384, dei giornali, periodici ed altri scritti.

Ossia, quando il Codice di Diritto Canonico tratta della proibizione dei libri, alla parola « libro » si dà un’interpretazione ESTENSIVA; non cosi, quando il Codice di Diritto Canonico tratta dei libri in ordine alla scomunica (Cocchi, op. cit. Vol. VIII –  N, 143. Arregui: Summ. Theol. Mor – N. 919- Ed. 9° – a. 1925).

E qui è opportuno ricordare ai confessori – benché il decreto del S. Uffizio non parli di ciò – che se si tratta di libri (non giornali, periodici 0 fogli volanti) di comunisti apostati, eretici e scismatici che – sostenendo la dottrina o la prassi del comunismo-difendono l’apostasia, l’eresia o lo scisma, in tal caso gli editori, i difensori, i lettori ed i possessori di quei libri non solo peccano, ma, a norma del paragrafo 1 del can. 2318, cadono anche nella scomunica in modo speciale riservata alla Sede Apostolica. Si faccia attenzione a non confondere questa scomunica con quella cui allude il decreto del S. Uffizio nella risposta al quarto quesito. La scomunica, di cui s’è trattato ora, ed alla quale non allude il decreto del S. Uffizio, è comminata dal paragrafo 1 del can. 2318; mentre la scomunica, cui allude il decreto del S. Uffizio nella risposta al quarto quesito, è comminata dal numero 1° del paragrafo 2 del can. 2314.

  1. « Collaborare in essi con degli scritti »: Peccano tutti coloro che scrivono in quei libri, periodici, giornali o fogli volanti; anche se gli scritti non sono marxisti, perché la dizione (in eis scribere) usata dal decreto del S. Uffizio è molto generica.

« Chi scrive in un giornale comunista, anche se tratta di cronaca teatrale, letteraria, sportiva, SCRIVE sempre nei giornali elencati, COLLABORA CON LO SCRIVERE IN ESSI, mette il suo talento, la sua riputazione al servizio del partito. E ciò è illecito » (Oss. Rom. l. 0.).

 

Condizioni per l’ammissione ai SS. Sacramenti.

I fedeli – che, CONSAPEVOLMENTE e LIBERAMENTE,

  1. sono iscritti ai partiti comunisti,
  2. o danno ad essi appoggio;
  3. o pubblicano,
  4. o diffondono,
  5. o leggono libri, periodici, giornali o fogli volanti, che sostengono la dottrina o la prassi del comunismo,
  6. o scrivono in essi –

non possono essere ammessi ai Sacramenti, e ciò in forza degli « ordinari principii riguardanti il rifiuto dei Sacramenti a coloro che non hanno le necessarie disposizioni ».

I sei atti precedentemente elencati costituiscono impedimento alla lecita ricezione dei Sacramenti, quando sono compiuti CONSAPEVOLMENTE e LIBERAMENTE, cioè con perfetta conoscenza della malizia dell’atto e con deliberato consenso. Si ricordi, a tal proposito, che la consapevolezza e la libertà dell’atto umano sono certamente soppressi ‘dall’ignoranza invincibile, dalla violenza assoluta, nonché dalla passione antecedente e dal timore che tolgano lo uso di ragione.

Ma il decreto del S. Uffizio, quando usa l’espressione « scienter et libere », vuole riferirsi non tanto ai principii etici secondo i quali l’atto è o non umano (il che è evidente) ma quanto a situazioni di fatto che possono menomare la libertà dell’agente. Queste situazioni di fatto possono verificarsi specialmente per quanto riguarda l’appartenenza ad un partito comunista sotto l’influsso di una violenza morale (timore grave) o fisica.

La Chiesa « sa bene che vi sono dei fedeli che contro la loro volontà, per una violenza morale – e forse talora anche fisica – sono forzati ad inscriversi ad un partito comunista. Il Sacerdote dovrà essere in tal caso il giudice delle circostanze, nelle quali il penitente è costretto a prendere la tessera di un partito, che nel proprio cuore egli detesta e condanna » (Oss. Rom. l. c.).

È logico, però, che se coloro i quali pongono i sei atti precedentemente elencati commettono peccato mortale, si devono debitamente disporre per poter lecitamente ricevere i Sacramenti.

  1. Per quanto riguarda il Sacramento della Penitenza, il confessore, per poter assolvere il penitente, dovrà principalmente avere la morale certezza della serietà del proposito.

Secondo i casi, poi, e secondo i generali principii della Teologia Morale, il confessore impartirà subito l’assoluzione o la differirà ad avvenuta esecuzione del proposito stesso.

In genere, allo scopo di dare un orientamento ai confessori, possiamo dire che se il peccato è costituito da un fatto transeunte e sporadico (per esempio: aver dato appoggio al partito comunista, aver letta o diffusa la stampa comunista, aver talvolta scritto nelle pubblicazioni comuniste, ecc.), in tal caso il confessore potrà, ordinariamente, assolvere subito il penitente; se, invece, il peccato è costituito da un fatto abituale e di natura sua permanente (per esempio: iscrizione al partito comunista; ufficio di direttore, editore o tipografo di pubblicazioni comuniste; ecc.), in tal caso il confessore, ordinariamente, esigerà prima l’attuazione del proposito, e poi impartirà l’assoluzione.

  1. Circa il matrimonio, che i fedeli desiderano eventualmente contrarre con comunisti – i quali o, per l’appartenenza al partito comunista, son divenuti PUBBLICI peccatori; o, per la professione, difesa e propaganda della dottrina comunista (come si dirà a proposito della risposta del S. Uffizio al quarto quesito), hanno NOTORIAMENTE rinunziato alla fede cattolica, e sono divenuti NOTORIAMENTE scomunicati – i parroci abbiano presenti i canoni 1065 e 1066 del Codice di Diritto Canonico.

Secondo i citati canoni:

  1. I fedeli siano dissuasi dal contrarre matrimonio con quelli che notoriamente hanno rinunziato alla fede cattolica.
  2. Il parroco non assista a detto matrimonio senza consultare l’Ordinario, il quale, considerate tutte le circostanze, può permettere al parroco di assistere al matrimonio, purché ve ne sia urgente e grave motivo, e purché prudentemente giudichi che sia sufficientemente assicurata l’educazione cattolica di tutta la prole e sia rimosso ogni pericolo di perversione dell’altro coniuge.
  3. Se il pubblico peccatore o il notoriamente scomunicato, prima della celebrazione del matrimonio, ricusa di confessarsi o riconciliarsi con la Chiesa, il parroco non assista al matrimonio, eccetto che non vi sia in contrario un grave ed urgente motivo, circa il quale, possibilmente, consulti l’Ordinario.

Se il comunista, quale apostata, è stato dichiarato INFAME (infamia jurís ferendae sententiae) – numero 2° del paragrafo 1 del can. 2314 – NON può VALIDAMENTE essere ammesso all’ufficio di padrino, sia nel Sacramento del Battesimo che in quello della Cresima, a norma del numero 2° del can, 765 e numero 2° del can. 795.

Se poi il delitto di apostasia, per cui il comunista è caduto nella scomunica, è NOTORIO; o se il comunista, a norma del paragrafo 3 del can. 2293, è divenuto INFAME DI INFAMIA DI FATTO; in tali casi – a norma del numero 2° del can. 766 e del numero 3” del can. 796 – il comunista NON può LECITAMENTE essere ammesso all’ufficio di padrino sia nel Sacramento del Battesimo che in quello della Cresima.

 

Scomunica contro i comunisti.

I fedeli – che:

  1. « professano »,
  2. o « difendono »,
  3. o si « fanno propagandisti » della « dottrina del comunismo, materialistica ed anticristiana » – divengono, per ciò stesso, apostati, e, in quanto tali, a norma del can. 2314 (numero 1° del paragrafo 1 e paragrafo 2), incorrono nella scomunica in modo speciale riservata alla Sede Apostolica.

 

  1. Apostata – a norma del paragrafo 2 del can. 1325 – è chi, dopo aver ricevuto il S. Battesimo, totalmente recede dalla fede cristiana.Ora è evidente che chi professa, difende, propaga una dottrina, qual è quella comunista, materialistica ed anticristiana, non si limita a negare questa o quella verità di fede (il che costituirebbe eresia, contro la quale è comminata la stessa scomunica di cui stiamo trattando), ma nega tutto il complesso della fede ed i fondamenti stessi della fede, per cui diviene apostata, e, in quanto tale, cade nella scomunica in modo speciale riservata alla Sede Apostolica.
  2. Notiamo che, come risulta dal modo di esprimersi del decreto, per cadere nella scomunica, basta soltanto professare la dottrina materialistica ed anticristiana del comunismo, anche se non la si difende o propaga, perché la sola professione di tale dottrina è già apostasia.
  3. Però cade nella scomunica non chi semplicemente commette il peccato (che può essere anche interno) della professione della dottrina comunista, ma chi commette il DELITTO di tale professione.

Mentre il peccato può essere anche solo interno, il delitto è sempre ESTERNO.

Per delitto – secondo il paragrafo 1 del can 2195 – s’intende l’esterna e moralmente imputabile violazione di una legge, alla quale (violazione) sia annessa una sanzione canonica.

Perché, dunque, si abbia il delitto, richiedesi un atto che, sebbene possa anche restare occulto (non pubblico), tuttavia sia compiuto così che possa essere percepito sensibilmente dagli altri. Nel nostro caso, basta che la professione dell’apostasia sia costituita da un atto esternamente manifestato con segni o parole o fatti; anche se nessuno abbia ascoltato o visto, e quindi anche se il delitto sia rimasto del tutto occulto (Cocchi: op. cit – Vol. VIII – nn. 1 e 135).

Per quanto riguarda la difesa e la propaganda della dottrina comunista, è chiaro che tali atti, per la loro stessa natura, sono esterni.

  1. Per incorrere nella scomunica, non è necessario essere iscritto al partito comunista, ma basta professare o difendere o propagare la dottrina comunista.

Per contrario, chi, benché iscritto al partito comunista, non professa o difende o propaga la dottrina comunista, non cade nella scomunica.

  1. A norma del paragrafo 2 del can. 2314, l’assoluzione dalla scomunica, annessa al delitto di apostasia, è riservata alla Sede Apostolica; ma il confessore può regolarsi anche a norma del paragrafo 1 e 3 del can. 2254.

Secondo il paragrafo 1 del can. 2254, nei casi più urgenti, e cioè per evitare scandalo o infamia, ovvero se è di angustia al penitente rimanere in istato di grave peccato per il tempo necessario perché il superiore competente provveda, qualunque confessore può assolvere nel foro sacramentale dalla scomunica riservata, imponendo sotto pena di reincidenza di ricorrere dentro un mese, almeno per lettera o per il confessore, se ciò è possibile senza grave incomodo, e tacendo il nome del reo, alla S. Penitenzieria o al Vescovo o ad altro Superiore che abbia la facoltà, e di stare ai loro ordini.

Secondo, poi, il paragrafo 3 del can. 2254, se, in qualche caso straordinario, questo ricorso è moralmente impossibile, il confessore può assolvere senza onere di ricorrere, imponendo quanto è di dovere oltre le penitenze e soddisfazioni per la scomunica, sotto pena di reincidenza se il penitente non adempie ciò, nel tempo stabilito dal confessore.

Però, a norma del paragrafo 2 del can. 2314, se il delitto di apostasia è portato al foro esterno dell’ Ordinario, anche per libera confessione, lo stesso Ordinario, ma non il Vicario Generale senza mandato speciale, può, previa giuridica abiura, assolvere il delinquente in foro esterno; ed il delinquente, così assolto dalla scomunica in foro esterno, può ricevere da qualunque confessore l’assoluzione dal peccato nel foro interno sacramentale. L’abiura giuridicamente si compie davanti all’Ordinario, o un suo delegato, e davanti ad almeno due testimoni.

Finalmente – a norma dei canoni 882 e 2252 – se l’assoluzione, dalla scomunica in modo speciale riservata alla Sede Apostolica per il delitto di apostasia commesso da un comunista, è stata impartita in pericolo di morte; e se, in seguito, il moribondo così assolto guarisce; non è necessario il ricorso alla S. Penitenzieria o al Vescovo o ad altro Superiore che abbia la facoltà, perché il ricorso, per l’assoluzione dalla scomunica impartita in pericolo di morte, è necessario solo per le scomuniche ab homine e per quelle riservate in MODO SPECIALISSIMO alla Sede Apostolica, mentre quella in esame è riservata in MODO SPECIALE.

Però, anche per quest’ultimo caso, riteniamo prudente regolarsi secondo quanto dice Prümmer (Man. Theol. Mor. – Tom. III- N. 424, nota, b –  Ed. VI- VII – a. 1933), e cioè che il ricorso è tuttavia necessario se lo scomunicato (comunista apostata) moribondo, che poi guarisce, era NOTORIAMENTE scomunicato; giacché bisognerà riparare lo scandalo, nel modo che sarà indicato dal legittimo Superiore.

Nel concludere queste modeste note di commento, ci permettiamo esortare i nostri confratelli ad evitare ogni difetto ed ogni eccesso nella spiegazione ed applicazione del decreto del S. Uffizio.

Noi sacerdoti non dobbiamo dire o fare né meno, né più di quanto la Chiesa ha detto, e di quanto la Chiesa vuole che facciamo all’ unico scopo della salvezza delle anime.

Riflettiamo che anche il recente decreto non è ad destructionem, ma ad aedificationem.

Dobbiamo rifuggire da ogni rispetto umano e da ogni timore nella spiegazione ed applicazione del decreto, ma dobbiamo anche evitare ogni indiscreto e falso zelo.

Nella predicazione dobbiamo essere oggettivi, brevi, calmi; evitando ogni attacco personale, ogni esagerazione, ogni asprezza.

Nel Sacramento della Penitenza dobbiamo essere pazienti, comprensivi, lungimiranti; evitando ogni nervosismo, ogni grettezza, ogni miopia.

Nella cura delle anime in genere – e specialmente per ciò che riguarda il Sacramento del Matrimonio e l’ufficio di padrino nei Sacramenti del Battesimo e della Cresima – dobbiamo essere paterni, rispettosi, cortesi; evitando ogni posa, ogni offesa, ogni sgarbo.

Sempre ed in tutto, senz’ alcun tradimento della verità, trionfi la carità.

 

 

APPENDICE I

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Osservazione preliminare.

Quanto si è detto finora in quest’ opuscolo corrisponde, secondo il nostro modesto parere, a ciò che può ritenersi con MORALE CERTEZZA circa l’argomento trattato.

Abbiamo voluto evitare, nell’esposizione precedente, ogni DISCUSSIONE, e guardarci dal sollevare DUBBI, e proporre OPINIONI, che potrebbero essere probabili almeno di probabilità intrinseca.

Abbiamo seguito questo metodo, allo scopo di offrire ai parroci e confessori soltanto PRINCIPII ed APPLICAZIONI di DOTTRINA CERTA: in tal modo, essi sono in grado di sapere con CERTEZZA, almeno nei CASI PIU COMUNI, come debbono regolarsi.

Ma possono darsi casi di coscienza, in cui NON sia CERTO se e come debba applicarsi il decreto del S. Uffizio ?… Senza dubbio.

Possono, inoltre, darsi casi di coscienza, per la soluzione dei quali non basta il decreto del S. Uffizio, ma bisogna appellarsi al Codice di Diritto Canonico o ai principii generali della Teologia Morale ?… Certamente.

A tal proposito ricordiamo di aver già sentito dire, più volte, da non pochi sacerdoti, che il S. Uffizio dovrebbe dire esplicitamente questo e quest’altro, chiarire questo e quel dubbio, ecc. Ma non è questa la prassi delle Congregazioni Romane!

È già troppo, forse, che il S. Uffizio, dopo il decreto, abbia pubblicato una DICHIARAZIONE circa il matrimonio dei comunisti.

Che pretenderemmo ?… Che il S. Uffizio pubblicasse un nuovo decreto o una ulteriore dichiarazione per ogni dubbio che può sorgere ?…

Il S. Uffizio ha enunciato i principii generali: secondo tali principii possono risolversi, senza alcun dubbio, i casi più comuni: il resto è lasciato allo studio dei moralisti e canonisti, e quindi alle correnti di pensiero che finiscono con lo sfociare in opinioni più o meno probabili.

Chiunque è anche solo iniziato agli studi di Teologia Morale sa che la Morale è costituita di dottrina certa, e di dottrina semplicemente probabile: la Chiesa non interviene sempre ed in tutte le questioni: lascia spesso ampio respiro alle libere discussioni.

Riteniamo, perciò, opportuno proporre alcuni quesiti pratici, e le risposte che a noi sembrano intrinsecamente probabili; pronti a riformare le nostre opinioni, se e quando la Chiesa si pronunzierà diversamente; ovvero se le ragioni, che, in seguito, potranno addurre gli studiosi di Teologia Morale, avranno un valore tale, da distruggere la probabilità delle opinioni, che noi timidamente stiamo per proporre.

Aggiungeremo anche alcuni quesiti, che vanno risolti non semplicemente appellandosi al decreto del S. Uffizio, ma applicando disposizioni del Codice di Diritto Canonico e principii generali di Teologia Morale.

Osserviamo infine che non ci sembra possano sorgere dubbi positivi circa la scomunica: ci limitiamo, perciò, ad esaminare soltanto alcuni casi circa la liceità di determinati atti o atteggiamenti.

 

  1. È lecito, in Italia, iscriversi alla C. G. I. L. ?

A rigore, ci sembra ancora lecito, perché, nonostante il continuo frantumarsi della C.G.I.L., essa non può dirsi ancora un sindacato « propriamente comunista » (come si esprime l’articolo citato de L’ Osservatore Romano).

Inoltre, la C.G.I.L è ancora, GIURIDICAMENTE, APARTITICA.

Ma, DI FATTO, chi ad essa è iscritto, non dà, almeno indirettamente, « appoggio » al partito comunista ?..

Ci sembra trattarsi di un appoggio molto indiretto e remoto, e quindi NON IMPUTABILE AL SINGOLO ISCRITTO.

A proposito di appoggio indiretto, ricordiamo che, anche riguardo al comunismo, può verificarsi, secondo i noti principii della Teologia Morale, un VOLONTARIO INDIRETTO NON IMPUTABILE, ovvero la liceità del porre una CAUSA CHE PRODUCE DUE EFFETTI uno buono ed un altro cattivo.

È chiaro, peraltro, che i fedeli vanno esortati ad iscriversi ai sindacati liberi; ed è augurabile che questi sappiano e vogliano difendere i diritti dei lavoratori più e meglio di quanto non facciano i sindacati rossi.

In tale settore, noi sacerdoti facciamo appello alla sensibilità sociale dei cattolici sindacalisti, affinché quando consigliamo i nostri fedeli di iscriversi ai sindacati liberi, non ci si possa rispondere: « Nessuno – meglio della C. G. I. L. – difende i nostri diritti» !..

 

  1. È lecito iscriversi al P. S. L. l.?

A tutto rigore, ci sembra ancora lecito.

Secondo, infatti, 1′ articolo citato de L’Osservatore Romano (articolo che, evidentemente, non è una risposta del S. Uffizio, ma che ci sembra ispirato dall’Autorità Ecclesiastica), il P.S.L.I. non « fa assolutamente causa comune » col partito comunista, nè « unisce direttamente le sue forze a quelle del comunismo, favorendolo in modo esplicito ».

Non nascondiamo che, nel dare questa risposta, restiamo molto perplessi, perché anche il P. S. L. I. è marxista. Tuttavia, sul terreno pratico, sappiamo pure che, finora, il P. S. L. I. non si è mostrato troppo marxista, ed è restato un partito socialdemocratico.

Certamente i fedeli vanno sconsigliati dall’appartenere a questo partito, nonché dal dargli il voto nelle elezioni, perché esso non dà sicura garanzia alla difesa dei principii cristiani nella vita sociale.

Se, infatti, almeno sul terreno pratico, è vero che il P. S. L. I. è restato un partito democratico più che marxista o bolscevico, è anche vero che, sul piano speculativo e pratico, s’è dimostrato pregno di deprecabile laicismo.

 

  1. È lecito ‘iscriversi all’ U. D. I.?

Non è lecito, perche l’Unione Donne Italiane (U.D.I.) fa parte di quelle « associazioni che sono organizzate direttamente dal comunismo » (Oss. Rom. l. c.).

 

  1. L’ iscrizione ad un partito comunista è un atto intrinsecamente cattivo?

Molto abbiamo sentito discutere su questo scabroso e penoso argomento.

Il quesito è della massima importanza, perché se l’iscrizione ad un partito comunista è un atto INTRINSECAMENTE cattivo, neppure il timore (grave incomodo) scusa dalla colpa di iscriversi ad esso; se, invece, è un atto NON INTRINSECAMENTE cattivo, il timore grave (grave incomodo) può scusare dalla colpa.

Alla prima e semplice lettura del decreto del S. Uffizio si poteva, forse, rimanere perplessi intorno a tale questione; ma, poi, il citato articolo de L’ Osservatore Romano ha fatto molta luce su di essa.

Perciò, al quesito proposto, possiamo rispondere:

  1. Il comunismo è DOTTRINA INTRINSECAMENTE CATTIVA.
  2. Un partito comunista è DOTTRINA e PRASSI INTRINSECAMENTE CATTIVA.
  3. L’ appartenenza FORMALE – cioè SPONTANEA e con PADESIONE alla dottrina ATEA, MATERIALISTICA, ANTICRISTIANA del comunismo – ad un partito comunista è AZIONE INTRINSECAMENTE CATTIVA.
  4. L’iscrizione MATERIALE o PASSIVA ad un partito comunista può NON essere un atto INTRINSECAMENTE CATTIVO, quando ci sia un MOTIVO GRAVE.

L’articolo citato de L’Osservatore Romano precisa molto bene che cosa si richiede perché si verifichi il fatto MATERIALE dell’ iscrizione ad un partito comunista, e cioè si richiede che coloro i quali vi si iscrivono, lo facciano « contro la loro volontà », e siano « forzati » a farlo; ossia richiedesi che colui il quale vi si iscrive sia « COSTRETTO a prendere la tessera di un partito, che NEL PROPRIO CUORE egli DETESTA e CONDANNA ».

Come si vede, trattasi di un’iscrizione semplicemente MATERIALE, sia perché è CONTRARIA alla propria volontà, e sia perché si limita al SOLO fatto MATERIALE di «prendere la tessera ».

Questo fatto materiale, inoltre, dev’essere giustificato – come si esprime lo stesso articolo de L’Osservatore Romano -da « una VIOLENZA MORALE », che potrebbe essere « forse talora anche FISICA ».

Può, dunque, essere ammesso ai Sacramenti, e sopratutto può ricevere l’assoluzione, un lavoratore che sta per iscriversi al partito comunista – o, già iscritto, dice di non potersi da esso dimettere – perché agendo diversamente perderebbe il lavoro, con tutte le gravi conseguenze per sé e per la sua famiglia

Rispondiamo che tale lavoratore può essere assolto – o essere ammesso ai Sacramenti – se si verificano le seguenti condizioni, di cui il sacerdote dovrà essere giudice:

  1. L’ iscrizione – o la continuata appartenenza al partito comunista – dev’esser un fatto CONTRARIO ALLA VOLONTÀ del lavoratore.
  2. Il lavoratore deve, nel proprio cuore, DETESTARE e CONDANNARE il partito comunista.
  3. L’iscrizione o appartenenza al partito comunista deve limitarsi al SOLO fatto di PRENDERE LA TESSERA.
  4. Il motivo, per cui il lavoratore è costretto a prendere la tessera del partito comunista, dev’essere CERTO (di certezza morale) e GRAVE

 

  1. E’ lecito ai giornalai vendere pubblicazioni comuniste?

Il decreto del S. Uffizio parla di coloro che «diffondono » libri, periodici, giornali o fogli volanti, ecc.

Ora, il giornalaio può essere considerato come uno che « diffonde » le pubblicazioni comuniste?..

Ci sembra di no.

« Diffondere » è diverso dal « vendere ».

« Diffondere » indica un atto positivo; mentre « vendere » indica, se così possiamo esprimerci, un atto semplicemente negativo Possiamo, dunque, noi sacerdoti assolvere il giornalaio, il quale ci dice: « Ho presso di me, e non posso farne a meno, anche giornali comunisti: li vendo a chi me li chiede »?..

Riteniamo che questo giornalaio possa essere assolto.

Il caso in esame ci sembra simile, o quasi, a quello dei venditori di armi, di vino, ecc. di cui conosciamo la soluzione.

Ma il « vendere » i giornali comunisti se non equivale a « diffonderli », equivale almeno a « dare appoggio » al partito comunista ?..

Rispondiamo che può equivalere a « dare appoggio » al partito comunista, ma ricordiamo pure che può verificarsi, anche in questo caso – come abbiamo precedentemente osservato – un VOLONTARIO INDIRETTO NON IMPUTABILE, ovvero la liceità del porre una CAUSA CHE PRODUCE DUE EFFETTI…

Certamente poi il giornalaio peccherebbe, se attivamente diffondesse le pubblicazioni comuniste.

 

  1. E’ lecito far inserire nei giornali comunisti avvisi pubblicitario necrologici?

Rispondiamo che, per se, è lecito, perché chi fa inserire tali avvisi nei giornali comunisti non « scrive » in essi.

Il decreto del S. Uffizio parla soltanto di coloro che SCRIVONO nelle pubblicazioni comuniste: « in eis scribere ».

Però, se il giornale comunista è espressione politica e finanziaria del partito comunista, come spesso avviene, in tal caso le inserzioni in esso costituiscono, per sé, un « dare appoggio » al partito: il che è illecito.

Tuttavia, anche su questo punto, si potrebbe fare della casistica

Per esempio: chi, UNA SOLA VOLTA, ha fatto inserire in un giornale comunista un avviso pubblicitario o necrologico, ha commesso peccato MORTALE – o VENIALE ?.. Ci sembra che abbia commesso soltanto peccato VENIALE, perché, nell’esempio addotto, l’ « appoggio » al partito comunista NON costituisce MATERIA né politicamente né finanziariamente GRAVE.

Altro sarebbe il caso di chi, ABITUALMENTE, inserisse nei giornali comunisti avvisi pubblicitari; perché in questo caso, l’ «appoggio » almeno finanziario al partito costituirebbe MATERIA GRAVE.

Comunque, i fedeli vanno esortati a non servirsi, in alcun modo, delle pubblicazioni comuniste.

 

  1. I comunisti possono essere ammessi alla Cresima ed alla S. Comunione?

Se sono comunisti FORMALI e NOTORII, non possono cresimarsi né comunicarsi, se prima non si riconciliano con la Chiesa.

 

  1. Possono essere assolti i comunisti moribondi destituiti dei sensi?

Se prima di perdere i sensi manifestarono il desiderio di riconciliarsi con Dio e con la Chiesa DEBBONO essere assolti, almeno CONDIZIONATAMENTE; meglio, però, ASSOLUTAMENTE, specialmente se consta con assoluta certezza che, prima di perdere i sensi, manifestarono il suddetto desiderio.

Se, invece, prima di perdere i sensi, non manifestarono detto desiderio, in tal caso, probabilmente, POSSONO, escluso lo scandalo, essere assolti CONDIZIONATAMENTE (Jorio: Theol. Mor. – Vol. III – N. 440, 2° e 5° – Ed. VI – a. 1940).

 

  1. Può amministrarsi I’Estrema Unzione ai comunisti destituiti dei sensi?

Se prima di perdere i sensi chiesero esplicitamente o implicitamente questo Sacramento; ovvero se si può presumere che, se ci avessero pensato, l’avrebbero chiesto; in tali casi l’Estrema Unzione DEVE essere amministrata ASSOLUTAMENTE a questi moribondi (Jorio, op. cit. – N. 866, quater. 1°).

Se, invece, quei comunisti perseverarono nella professione della dottrina materialistica ed anticristiana del comunismo (perseverarono cioè nell’apostasia) fino al momento della perdita dei sensi, in tal caso, se non consta con certezza la loro perseverante contumacia nel peccato (ed in pratica non può mai constare, trattandosi di destituiti dei sensi), e rimosso lo scandalo, a questi poveri moribondi, probabilmente, PUÒ essere amministrata l’Estrema Unzione CONDIZIONATAMENTE. La condizione, allo scopo di non impedire eventualmente la reviviscenza del Sacramento, dev’essere: SI CAPAX ES, e NON: si dispositus es (Jorio, op. cit – NN. 868 e 869).

 

  1. I comunisti debbono essere privati della sepoltura ecclesiastica?

Se i comunisti, prima di morire, hanno dato qualche segno di penitenza, possono avere la sepoltura ecclesiastica.

Si badi che il comunista, che ha ricevuto la assoluzione e l’Estrema Unzione quando era destituito di sensi, non può, solo per questo, avere la sepoltura ecclesiastica: è sempre, cioè, necessario, per ottenere la sepoltura ecclesiastica, aver dato, prima di perdere i sensi, qualche segno di penitenza.

Se, poi, non c’è stato nessun segno di penitenza, prima della morte, non possono avere la sepoltura ecclesiastica – a norma del can. 1240 – i comunisti che erano:

  1. notorii apostati,
  2. scomunicati con sentenza,
  3. o anche semplicemente pubblici e manifesti peccatori.

Per coloro i quali non ha avuto luogo la sepoltura ecclesiastica, non si può nemmeno – a norma del can. 1241 – celebrare la Messa esequiale, anche anniversaria, né si possono celebrare altri pubblici officii funebri.

 

  1. Possono essere benedette, specialmente con la Benedizione Pasquale del Parroco, le case dei comunisti?

Il decreto del S. Uffizio parla solo dei Sacramenti.

Il Codice di Diritto Canonico nulla dice circa la benedizione delle case dei cattivi cattolici.

Il quesito, quindi, va risolto coi principii morali generali.

Per sé, nulla osta alla benedizione delle suddette case.

Un ostacolo potrebbe derivare da un eventuale scandalo, o da una sentenza con la quale il comunista è stato scomunicato (can. 2260).

Il parroco valuti attentamente tutti i vantaggi e tutti gli svantaggi di una tale benedizione negata, e si regoli con ogni prudenza.

Poniamo il caso di una famiglia, in cui sia comunista solo il padre o qualche figlio, perché privare la casa di questa famiglia della benedizione pasquale ?..

E poi, escluso il caso di scandalo, non potrebbe la benedizione pasquale delle case costituire una chiamata di Dio per gli erranti ?..

Non potrebbe, il parroco zelante, profittare proprio di quest’ occasione per dire una buona parola ai comunisti ?..

Con queste riflessioni, abbiamo voluto esprimere soltanto il nostro modesto parere: i parroci ne sanno più di noi, e sanno regolarsi tenendo conto di tutte le circostanze.

 

  1. Possono essere battezzati I figli dei comunisti?

Se si tratta di comunisti MATERIALI, non v’è nessuna difficoltà al riguardo.

Se, invece, trattasi di comunisti FORMALI, cioè di comunisti (padre e madre) che son caduti nell’apostasia o nell’ eresia o nello scisma – i loro figli infanti (che non hanno cioè ancora raggiunto l’uso di ragione) lecitamente sono battezzati:

  1. in pericolo di morte, anche contro la volontà dei genitori;
  2. fuori del pericolo di morte- e purché si provveda per l’ avvenire alla loro educazione cattolica – se i genitori o tutori o almeno uno di loro sono consenzienti; ovvero se i genitori, i nonni o i tutori sono morti o smarriti, o se hanno perduto o non possono esercitare il loro diritto (can. 750 e can. 751).

 

  1. i figli dei comunisti possono essere ammessi alla Cresima?

Se questi figli non sono anch’essi comunisti, non c’è nessuna difficoltà, servatis servandis, a che siano ammessi al Sacramento della Cresima.

Anzi, appunto perché figli di comunisti, hanno maggior bisogno del Sacramento della Cresima, per ricevere dallo Spirito Santo quei doni soprannaturali, che sono necessari nella professione e difesa della fede cattolica.

 

  1. Possono essere ammessi ai Sacramenti coloro che convivono con

comunisti?

Abbiamo proposto questo quesito, non perché implichi qualche difficoltà, ma perché effettivamente ci è stato proposto da alcuni.

La risposta è ovviamente affermativa.

Quale colpa commettono, infatti, coloro che convivono con comunisti ?..

Qualsiasi motivo, non grave, ma semplicemente ragionevole, rende lecita detta convivenza.

Si abbia pure presente, ai giorni nostri, la crisi degli alloggi !..

Insomma, detta convivenza è, per sé, lecita: eccetto che non costituisca occasione libera e prossima di peccato.

 

***

 

Non crediamo affatto di aver esaurito tutti i casi che possono essere sottoposti al giudizio del sacerdote.

Abbiamo voluto soltanto accennare ad alcuni casi, per la soluzione dei quali, non basta semplicemente appellarsi al decreto del S. Uffizio né è ragionevole attendere dal S. Uffizio medesimo una risposta ufficiale ed esplicita.

Concludiamo questo modestissimo lavoro, col ricordare un principio GENERALE, ma PREZIOSISSIMO, per la direzione delle anime:

  1. Nei casi CERTI, regoliamoci come DI DOVERE, FORTITER ma anche SUAVITER.
  2. Nei casi DUBBI:
    1. NON IMPONIAMO una obbligazione, quando essa non consta con certezza;
    2. dolcemente insinuandoci nell’ animo dei fedeli, sappiamo CONSIGLIARE il più perfetto.

 

 

APPENDICE II.

Suprema Sacra Congregatio Sancti Offim

DE COMMUNISTARUM MATRIMONII CELEBRATlONE

D E C L A R A T I O

Quaesitum est utrum exclusio oommunistarum ab usu Sacramentorum in Decreto S. Officii diei 1 iulii 1949 statuta, secum ferat etiam exclusionem a celebrando matrimonio: et quatenus negative, an communistarum matrimonia regantur praescriptis canonum 1060-1061.

Ad rem Sacra Congregatio S. Officii declarat:

Attenta speciali natura sacramenti matrimonii, cuius ministri sunt ipsi contrahentes et in quo sacerdos fungitur nunere testis ex officio, sacerdos assistere potest matrimoniis communistarum ad normam canonum 1065, 1066.

In matrimoniis vero eorum, de quibus agit n. 4 praefati Decreti, servanda erunt praescripta canonum 1061, 1102, 1109 par. 3.

Datum ex Aedibus S. Officii die 11 augusti 1949.

 

COMMENTO ALLA DICHIARAZIONE DEL S. UFFIZIO

  1. Il matrimonio di una persona cattolica con una persona comunista è un matrimonio ostacolato dall’ impedimento proibente (impediente) di mista religione?

Rispondiamo NEGATIVAMENTE, perché, secondo la dichiarazione del S. Uffizio (11 agosto 1949), detto matrimonio è regolato dai canoni 1065 e 1066, come abbiamo già notato nella terza parte del commento al decreto del S. Uffizio.

 

  1. Ma se trattasi del matrimonio con un comunista apostata (e quindi scomunicato), bisogna osservare le cautele stabilite per l’impedimento di mista religione?

Rispondiamo AFFERMATIVAMENTE, a norma della dichiarazione del S. Uffizio.

Le cautele sono quelle stabilite dal can. 1061, e cioè:

  1. a) Non si permetta il matrimonio, se non per motivi urgenti, giusti e gravi.
  2. b) Il coniuge comunista dia cauzione che rimuoverà ogni pericolo di perversione dell’altro coniuge, ed entrambi i coniugi diano cauzione che faranno battezzare ed educheranno cattolicamente tutta la prole.
  3. c) Si abbia la morale certezza dell’adempimente delle cauzioni.
  4. d) Le cauzioni, regolarmente, siano scritte.

 

  1. Quando trattasi del matrimonio con un comunista apostata (e quindi scomunicato), che cosa si richiede, da parte delle interrogazioni circa il consenso matrimoniale, perché l’assistenza del parroco (o dell’ordinario) al matrimonio sia valida?

Si richiede, secondo la dichiarazione del S. Uffizio, ed a norma del paragrafo 1 del can. 1102 e del numero 3° del paragrafo 1 del can. 1095, che il parroco (o l’Ordinario) chieda e riceva il consenso dei contraenti SENZA ESSERE A CIÒ COSTRETTO DA VIOLENZA O TIMORE GRAVE.

 

  1. Quando trattasi del matrimonio con un comunista apostata (e quindi scomunicato), si possono permettere i Sacri Riti?

Secondo la dichiarazione del S. Uffizio, ed a norma del paragrafo 2 del can 1102, è PROIBITO OGNI RITO SACRO; che se da ciò si prevedono danni gravi, l’Ordinario può permettere qualcuna delle consuete cerimonie ecclesiastiche, mai però la celebrazione della Messa.

 

  1. Il matrimonio con un comunista apostata (e quindi scomunicato) può essere celebrato in Chiesa?

Secondo la dichiarazione del S. Uffizio, ed a norma del paragrafo 3 del can. 1109, detto matrimonio si celebri FUORI CHIESA; che se poi l’Ordinario prudentemente giudica che ciò non può osservarsi senza che ne derivino gravi danni, può, col suo prudente criterio, dispensare, ma sempre – com’ è detto sopra (paragrafo 2 del can. 1102) -con la proibizione di ogni rito sacro.