IL MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA

MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA

 

Uno spettro s’aggira per l’Europa: – è lo spettro del comunismo1.

Tutte le potenze della vecchia Europa si alleano per dare santamente una spietata caccia a cotesto spettro: – e ossia il papa e lo czar, Metternich e Guizot, i radicali francesi e i poliziotti tedeschi.

Qual è il partito di opposizione, che i suoi avversarii al potere non abbiano colpito con la nota ingiuriosa di comunistico? e qual è il partito di opposizione, che alla sua volta non abbia ricambiata L’accusa, respingendo la infamante designazione del comunismo, O sugli elementi più avanzati della opposizione stessa, o su gli avversarii apertamente reazionarii?

Da questo fatto si viene a due conclusioni.

Il comunismo è oramai riconosciuto dalle potenze d’Europa quale un’altra potenza.

E tempo oramai che i comunisti espongano senz’altro innanzi a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro intenti, le loro tendenze e che allo spettro del comunismo contrappongano il manifesto del partito.

A tal fine dei comunisti di diversa nazionalità si son riuniti a Londra, e han redatto il manifesto, che qui segue, e che verrà alla luce in inglese, in francese, in tedesco, in italiano2, in fiammingo ed in danese.

1 «Non sono l’idea di repubblica e di democrazia che spaventino; è lo spettro del comunismo che tiene tanti animi dubbiosi e sospesi.» Da un articolo di Cavour apparso su Il Risorgimento del 6 marzo 1848; cfr. Camillo Cavour, Scrittìdi economia (1835-1850), Feltrinelli, Milano, l962, p. 320.

2 A questa traduzione italiana accenna Marx nello Herr Vogt (1860); tuttavia non se ne ha altra notizia.

 

  1. Borghesi e proletarii

La storia di tutta la società, svoltasi fin qui , è storia delle lotte delle classi.

Liberi e schiavi, patrizii e plebei, baroni e servi della gleba, maestri capi delle arti ed artigiani addetti alla compagnia, in una parola, oppressi ed oppressori, stettero continuamente in contrasto tra loro, e sostennero una lotta non mai interrotta, a volte palese a volte dissimulata; una lotta che è sempre finita, o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società, o con la totale rovina delle classi in contesa.

Nei periodi della storia anteriori al nostro, noi incontriamo quasi da per tutto una completa spartizione della società in ordini e ceti, e una minuta e varia gradazione delle posizioni sociali. Nell’antica Roma abbiamo i patrizii, i cavalieri, i plebei, gli schiavi; nel Medio-Evo i signori feudali, i vassalli, i maestri dei corpi, gli artigiani addetti alla compagnia, i servi della gleba, e per di più in ogni classe altre speciali gerarchie.

Questa moderna società borghese, sorta dalla rovina della società feudale, non ha già distrutte le opposizioni di classe. Essa ha soltanto introdotto nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta, sostituendole alle antiche.

Nondimeno quest’epoca nostra, quest’epoca della borghesia, presenta una notevole differenza rispetto alle altre, ed è che in essa le opposizioni di classe si son semplificate. L’intera società si va, e sempre di più in più, come scindendo in due campi nemici, in due classi direttamente opposte: la borghesia e il proletariato.

Dai servi del Medio-Evo procedettero i borghigiani ospitati nelle prime città, e da quelli si svolsero i primi elementi della borghesia vera e propria.

La scoverta dell’America, e la circumnavigazione dell’Africa, offersero alla borghesia, che veniva su, un nuovo terreno. Il mercato indiano e cinese, la colonizzazione dell’America, lo scambio con le colonie, l’aumento dei mezzi di scambio e delle merci, dettero impulso nuovo ed inaspettato al commercio, alla navigazione, all’industria, e insiememente favorirono il rapido sviluppo rivoluzionario in seno alla società feudale, che di già veniva sfasciandosi.

Da quel momento in poi il modo della produzione industriale propria del feudo, o della corporazione, non bastava più ai bisogni, che venian crescendo col crescere dei nuovi mercati. Subentrò la manifattura. Ai maestri delle corporazioni si venne sostituendo il medio ceto industriale: e la division del lavoro tra le diverse corporazioni cedette il posto alla division del lavoro per entro alle singole officine.

Ma i mercati crescevan di continuo; il bisogno si facea sempre maggiore. La manifattura non era sufficiente. Ed ecco che il vapore e le macchine rivoluzionano la produzione industriale. Alla manifattura subentrò la grande industria moderna, il posto del ceto medio industriale fu occupato dai milionarii dell’industria, dai capi di interi eserciti industriali, ossia dai moderni borghesi.

La grande industria ha messo effettivamente in essere quel mercato mondiale, che la scoverta dell’America avea predisposto. Il mercato mondiale ha procurato uno sviluppo oltre ogni misura al commercio, alla navigazione e alle comunicazioni per terra. Cotesto sviluppo reagì alla sua volta su la estensione della industria, e in quella medesima misura nella quale l’industria, il commercio, la navigazione e le ferrovie sono andate estendendosi, la borghesia s’è venuta sviluppando, ha aumentato i suoi capitali, e ha respinto indietro, allontanandole sempre più dai davanti della scena, quelle classi che eran residuo del Medio-Evo.

Noi vediamo, dunque, come la borghesia sia essa stessa il prodotto di un lungo processo di sviluppo, di una lunga serie di rivoluzioni nei modi della produzione e del traffico.

A ciascuna delle fasi di cotesto sviluppo corrispose un relativo progresso nell’ordine politico. Ceto oppresso sotto la signoria dei feudatarii, associazione armata e che si governa da sé nel comune, qui repubblica municipale, là terzo-stato che paga le imposte alla monarchia, e poi ai tempi della manifattura essa borghesia fa da contrappeso alla nobiltà nelle monarchie assolute, o in quelle limitate dalle diete, da per tutto pietra angolare delle grandi monarchie, da ultimo, col fermarsi e costituirsi della grande industria e del mercato mondiale, s’è impadronita in modo esclusivo del potere politico nel moderno stato rappresentativo. L’attuale potere politico dello stato moderno non è se non una giunta amministrativa degli affari comuni di tutta la classe borghese.

La borghesia ha avuto nella storia una parte essenzialmente rivoluzionaria.

Dovunque è giunta al dominio essa ha distrutto tutte quelle condizioni di vita, che eran feudali, patriarcali, idilliache. Essa ha distrutti senza pietà tutti quei legami multicolori, che nel regime feudale avvincevan gli uomini ai loro naturali superiori, e non ha lasciato fra uomo e uomo altri vincoli da quelli in fuori del nudo interesse, e dello spietato pagamento in contanti. Essa ha spento i santi timori dell’estasi religiosa, l’entusiasmo cavalleresco, e la sentimentalità del piccolo borghese dalle limitate abitudini, immergendo il tutto nell’acqua gelida del calcolo egoistico. Ha risolta la dignità personale in un semplice valore di scambio; ed alle molte e varie libertà bene acquisite e consacrate in documenti, essa ha sostituito la sola ed unica libertà del commercio, di dura e spietata coscienza. Al posto, in una parola, dello sfruttamento velato di illusioni religiose e politiche, essa ha messo lo sfruttamento aperto, senza pudori, diretto e brutale.

La borghesia ha spogliato della loro aureola le professioni, che per l’innanzi eran tenute per onorande e degne di rispetto. Essa ha fatto del medico, del giurista, del prete, del poeta, dello scienziato i suoi salariati.

La borghesia ha stracciato nel rapporto familiare il velo di commovente sentimentalismo riducendolo a un mero rapporto di denaro›.

La borghesia ha messo in chiaro come la brutale manifestazione della forza, che i nostri reazionarii ammirano nel Medio-Evo, avesse il suo appropriato complemento nella più dozzinale poltroneria. Essa per la prima ha dimostrato cosa possa l’attività umana. Essa ha creato ben altre maraviglie, che non le piramidi egiziane, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche; essa ha condotto ben altre imprese che non le migrazioni dei barbari o le crociate.

La borghesia non può esistere se non a patto di rivoluzionare di continuo gl’istrumenti della produzione, il che vuol dire i modi e rapporti della produzione, e ossia, in ultima analisi, tutto l’insieme dei rapporti sociali. La immutata conservazione dell’antica maniera del produrre era la prima condizione di esistenza delle antecedenti classi industriali. Cotesto continuato sovvertimento della produzione, cotesto ininterrotto scuotimento delle condizioni sociali, cotesto moto perpetuo, con la insicurezza che assidua l’accompagna, contraddistingue l’epoca borghese da tutte le altre che la precedettero. Tutti gli antichi e irrugginiti rapporti della vita, con tutto il loro seguito di opinioni e credenze ricevute e venerate per tradizione, si dissolvono; e i nuovi rapporti che subentrano passano fra le anticaglie, prima che abbiano avuto tempo di fissarsi e di consolidarsi. Tutto ciò che avea carattere di stabile e di rispondente a gerarchia di ceto, si svapora, tutto ciò che era sacro si profanizza, e gli uomini si trovano da ultimo a dover considerare le loro condizioni di esistenza con occhi liberi da ogni illusione.

Spinta dal bisogno di sempre nuovi sbocchi per le proprie merci, la borghesia corre, per invaderlo, tutto l’orbe terracqueo. Da per tutto le conviene di annidarsi e di stabilirsi, da per tutto le occorre di estendere le linee del commercio.

Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolitica la produzione e la consumazione di tutti i paesi. A gran cordoglio di tutti i reazionarii, essa ha tolto all’industria la base nazionale. Le antiche ed antichissime industrie nazionali furono, o sono, di giorno in giorno distrutte. Vengon soppiantate da industrie nuove, la cui adozione diviene question di vita o di morte per tutte le nazioni civili; da industrie, che non impiegan più le materie prime indigene, ma anzi adoperano quelle venute dalle più remote zone, e i cui prodotti si consumano non solo nel paese stesso, ma in tutte le parti del mondo. Ai bisogni, a soddisfare i quali bastavano un tempo i prodotti nazionali, ne succedono ora dei nuovi, che esigono i prodotti dei più remoti climi e paesi. All’isolamento locale e nazionale, per cui ciascun paese s’accontentava di sé stesso, succede un traffico multiforme e multilaterale, per cui le nazioni entrano in una condizione di interdipendenza. E come è dei prodotti materiali, cosi accade anche dei prodotti intellettuali. l prodotti intellettuali di ogni singola nazione divengono la proprietà comune di tutte. L’esclusivismo nazionale diviene sempre più impossibile, e dalle molte letterature nazionali e locali vien fuori una letteratura mondiale.

Per via del rapido perfezionamento di tutti gli istrumenti della produzione, e per le comunicazioni divenute infinitamente più facili, essa trascina per forza nella corrente della civiltà anche le nazioni più barbare. I bassi prezzi delle sue merci son la pesante artiglieria, con la quale atterra tutte le muraglie cinesi, e con la quale ha fatto capitolare i barbari più induriti nell’odio dello straniero. Costringe tutte le nazioni ad adottare le forme della produzione borghese, se pure non voglian perire, e le forza a ricevere ciò che dicesi civilizzazione, e ossia a farsi borghesi. A dirla in una sola espressione, crea un mondo a immagine e similitudine sua.

La borghesia ha fatto della città la signora assoluta della campagna. Ha creato delle città enormi; a confronto della popolazione rurale ha grandemente accresciuta la popolazione urbana, e così ha sottratta buona parte della popolazione stessa all’idiotismo della vita contadinesca. Come ha assoggettata la campagna alla città, cosi ha reso dipendenti dai popoli civili quelli barbarici o semibarbarici, e i popoli prevalentemente contadineschi ha sottoposto a quelli a predominio borghese, e l’Oriente all’Occidente.

La borghesia via via sempre più sopprime il frazionamento e lo sparpagliamento dei mezzi di produzione, del possesso e della popolazione. Essa ha agglomerata la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione, ha raccolta in poche mani la proprietà. Ne resultò come necessaria conseguenza la centralizzazione politica. Delle provincie indipendenti, ricollegate appena fra loro da vincoli federali, delle provincie con interessi difformi e con leggi, governi e dogane proprie, furono raccolte e ridotte in nazione unica, con governo unico, con legge unitaria, con un solo e collettivo interesse di classe, e con una sola linea doganale.

Nel suo dominio di classe, che dura appena da un secolo, la borghesia ha messo in essere delle forze produttive, il cui numero e la cui portata colossale supera quanto avesser mai fatto le passate generazioni tutte insieme. Aggiogamento delle forze naturali, le macchine, l’applicazione della chimica alla industria e all’agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, il telegrafo elettrico, la messa a cultura d’interi continenti, i fiumi resi navigabili, delle popolazioni intere

sorte quasi miracolosamente dal suolo: – ma quale dei secoli antecedenti avrebbe mai presentito che tali forze produttive giacessero latenti in seno al lavoro sociale?

Ecco quel che abbiam visto: i mezzi di produzione e di scambio valsi di fondamento allo sviluppo della borghesia, furon prodotti per entro alla società feudale. A un certo punto dello sviluppo dei mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava, ossia l’organizzazione feudale dell’agricoltura e della manifattura, o, in una parola, i rapporti feudali della proprietà, non corrispondevano più alle forze produttive venute a pieno sviluppo. Quelle condizioni, in luogo di favorire, impedivano la produzione. Divennero come delle catene. Bisognava spezzarle, e furono spezzate.

Subentrò la libera concorrenza, con la congrua costituzione sociale e politica, e con la signoria economica e politica della borghesia.

Sotto i nostri occhi si va compiendo un processo analogo. Le condizioni borghesi della produzione e dello scambio, i rapporti della proprietà borghese, o, in una sola espressione, la moderna società borghese, che ha evocato come per incanto cosi colossali mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che si trovi impotente a dominare le potenze sotterranee che lui stesso abbia evocate (questo appare come un chiaro riferimento alla ballata L’apprendista stregone di Wolfgang Goethe).

Già da qualche decennio la storia della industria e del commercio è ridotta ad essere la storia della ribellione delle forze moderne della produzione contro i rapporti moderni della produzione, e ossia contro i rapporti moderni di proprietà, che son le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basta di ricordare le crisi commerciali, le quali, col fatto del ripetersi periodicamente, sempre più minacciosamente mettono in forse l’esistenza di tutta la società borghese.

Ogni crisi distrugge regolarmente, non solo una gran fatta di prodotti, ma molte di quelle forze produttive, che erano state di già create.

Una epidemia, che in ogni altra epoca storica sarebbe parsa un controsenso, una epidemia nuova si rivela nelle crisi, ed è quella della soprapproduzione. La società ricade inaspettatamente in uno stato transitorio di vera barbarie. Si direbbe che la carestia, o una guerra generale di sterminio, l’abbia privata dei mezzi d’esistenza: il commercio e l’industria paiono annientati, e perché? Perché la società ha troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive di cui essa dispone, non giovan più a favorire lo sviluppo dei rapporti della proprietà borghese; anzi son troppo potenti per tali rapporti, che divengono per ciò degl’impedimenti; e tutte le volte che esse forze superano l’impedimento mettono in disordine l’intera società, e minacciano l’esistenza della proprietà borghese. Le condizioni del mondo borghese son diventate oramai troppo anguste per contenere la ricchezza, che esse stesse producono.

Per quali vie riesce la borghesia a vincere le crisi? Per un verso col farsi imporre dalle circostanze la distruzione di una grande quantità di forze produttive; e per un altro verso con la conquista di nuovi mercati, e col più intenso sfruttamento dei già esistenti. Per che via, dunque? Per quella di preparare nuove, più estese e più formidabili crisi, e di diminuire i mezzi per ovviare alle crisi future.

Quelle stesse armi, per mezzo delle quali la borghesia riuscì ad abbattere il feudalismo, si rivolgono ora contro di essa.

Ma la borghesia non ha soltanto ammannito le armi, che devono recarle la morte; perché essa ha anche prodotto gli uomini, che quelle armi han da portare, e sono gli operai moderni, i proletaríi.

Commisuratamente allo svolgersi della borghesia, ossia del capitale, di pari passo si svolge il proletariato, ossia la classe degli operai moderni, i quali intanto vivono in quanto trovan lavoro, e intanto trovan lavoro in quanto il lavoro loro accresce il capitale. Questi operai, che son costretti a vendersi giorno per giorno, non sono se non una merce come tutte le altre, e perciò una merce soggetta a tutte le vicende della concorrenza, e a tutte le fluttuazioni del mercato.

Con l’estendersi dell’uso delle macchine, e per effetto della division del lavoro, l’attività dell’operaio ha perduto ogni carattere d’indipendenza, e per ciò stesso ogni attrattiva. L’operaio diventa un semplice accessorio della macchina, né gli si chiede altro, dalla più semplice e dalla più monotona operazione in fuori, la quale del resto si apprende in assai breve tempo. Il costo dell’operaio si limita in conseguenza ai semplici mezzi di sussistenza, che gli occorrono per vivere, e per propagare la sua razza. Ora si sa che il prezzo d’ogni merce, compreso il lavoro, è eguale al costo di produzione; e per ciò a misura che il lavoro si fa più repugnante, il salario discende. E non basta; ché, anzi, a misura che l’uso delle macchine e la division del lavoro vanno crescendo, cresce la quantità del lavoro, sia per il prolungarsi delle ore di lavoro, sia per l’aumento del lavoro richiesto in una data unità di tempo, o sia per l’acceleramento delle macchine.

L’industria moderna ha trasformato la piccola officina del patriarcale maestro d’arte nella grande fabbrica del capitalista industriale. Delle masse di operai addensate nelle fabbriche ricevono una organizzazione militare. Come soldati semplici della industria vengono sottoposti ad una completa gerarchia di ufficiali e di sottufficiali. Non sono soltanto gli schiavi della classe borghese e dello stato borghese, perché son tutti i giorni e tutte l’ore gli schiavi della macchina, e del vigilatore, e soprattutto del singolo padrone della fabbrica. Cotesto dispotismo è tanto più misero, odioso, esasperante, in quanto che professa di non avere per obiettivo se non il semplice profitto.

Per quanto meno di abilità e di forza vien richiesto al lavoro, e ossia per quanto l’industria moderna sempre più si svolge, tanto più riesce cosa facile di sostituire al lavoro maschile quello delle donne.

Le differenze di sesso e di età non hanno oramai importanza sociale per la classe operaia. Non c’è che istrumenti di lavoro, varii di prezzo secondo il sesso e l’età.

Non appena l’operaio abbia finito di subire lo sfruttamento del fabbricante, ed abbia toccato il salario in contanti, eccolo a diventar subito preda degli altri membri della borghesia, il padron di casa, il bottegaio, il prestatore a pegno.

Quelle che furono fino ad orale piccole classi medie dei piccoli industriali, negozianti e rentiers (benestanti, coloro che vivono di una piccola rendita), degli artigiani e dei contadini proprietarii, finiscono per discendere al livello del proletariato; parte perché il piccolo capitale di cui dispongono non è sufficiente all’esercizio della grande industria, e quindi nella concorrenza coi grandi capitalisti soccombe; e parte perché le loro attitudini e abitudini tecniche perdon di valore al confronto coi nuovi metodi di produzione.

Ed ecco come il proletario si va reclutando da tutte le classi della popolazione.

Il proletariato percorre diverse fasi di evoluzione. La sua lotta contro la borghesia comincia dalla sua nascita.

Dapprima lottano un per uno i singoli operai, poscia gli operai di una sola fabbrica, e in seguito tutti gli operai di una data arte, in un dato luogo, e contro quel singolo borghese che direttamente li sfrutta. Non si limitano a rivolgere i loro attacchi contro il modo della produzione borghese, mali dirigono contro gli stessi istrumenti della produzione: distruggono le merci straniere, che fan loro concorrenza, infrangono le macchine, incendiano le fabbriche (tali fenomeni fecero la loro prima violenta apparizione nel 1811 a Nottingham, estendendosi ben presto ai distretti vicini; promossi da un certo Ned Lud, agitatore operaio, da cui ricavarono la denominazione di Movimento dei Luddisti, essi proseguirono fino al 1816, quando vennero definitivamente repressi. Rientrano in quel clima di tensione e di miseria che gravò sull’Inghilterra per la guerra e il blocco napoleonico prima e per i dazi in seguito), e si sforzano di riacquistare la perduta posizione dell’artigiano medioevale.

In cotesto primo grado dello sviluppo gli operai formano come una massa incoerente dispersa per tutto il paese, e che le ragioni della concorrenza tengono sparpagliata. Se qualche volta gli operai si raccolgono in massa compatta, ciò non è dovuto alla lor propria e spontanea azione, ma all’azione della borghesia raccolta in fascio, la quale per raggiungere i suoi proprii fini politici deve mettere in moto l’intero proletariato, e si trova ancora in grado di riuscirvi. In cotesta prima fase i proletarii non combattono i loro nemici, mai nemici dei loro nemici, e cioè gli avanzi della monarchia assoluta, i proprietarii fondiarii, i borghesi non industriali, i piccoli borghesi. Tutta l’azione storica è nelle mani della borghesia, ed ogni vittoria è vittoria sua.

Ma sviluppandosi l’industria, il proletariato non solo cresce di numero, ma si addensa in grandi masse, ond’è che la forza gli va crescendo, e con la forza la coscienza di essa. Gli interessi e i modi di vivere dei proletarii si vanno di giorno in giorno riavvicinando ad un tipo comune, perché la macchina cancella sempre di più le differenze del lavoro, e fa discendere quasi da per tutto il salario allo stesso livello. Per la concorrenza che cresce fra i borghesi, e per le crisi del commercio che da ciò resultano, il salario degli operai diventa, sempre più incerto; l’incessante miglioramento delle macchine, che diviene sempre più rapido, rende sempre più precaria tutta la condizione di vita dell’operaio; i conflitti fra operai e borghesi singoli vanno sempre più assumendo i caratteri di collisioni fra due classi. Ed è cosi che gli operai cominciano a fare delle coalizioni contro i borghesi, riunendosi per difendere i loro salarii. Fondando perfino delle associazioni permanenti (la prima di esse fu naturalmente clandestina, suo animatore fu Thomas Hardy [1752-1832]), per trovarsi provveduti dei mezzi di esistenza durante le lotte eventuali. Qualche volta la lotta diventa sommossa.

Di tanto in tanto gli operai vincono: ma è vittoria passeggiera. Il vero e proprio resultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma è la sempre crescente solidarietà dei lavoratori. Cotesta solidarietà è agevolata dai mezzi di comunicazione, che la grande industria ha bisogno di far crescere, e che pur riavvicinano gli operai di località diverse. Basta cotesta congiunzione, perché le molte e varie lotte locali di carattere omogeneo si raccolgano e concentrino in una sola lotta nazionale e di classe. Ma ogni lotta di classe è ima lotta politica: – e la unione per la quale occorrevano al borghese del Medio-Evo, con le sue strade vicinali, dei secoli di lavoro, viene ora in pochi anni a maturità, dato l’uso delle vie ferrate.

La organizzazione del proletariato in classe, e quindi in partito politico, è di continuo spezzata dalla concorrenza degli operai in fra loro stessi. Ma insorge sempre e di nuovo, più poderosa e più compatta. Essa forza al riconoscimento di certi interessi degli operai per via della legge (riferito ad una legge che venne votata dal parlamento nel 1847), perché s’avvantaggia delle discordie intestine delle diverse frazioni della borghesia. Cosi è stato ‘per la legge delle dieci ore di lavoro in Inghilterra°.

I conflitti in seno alla vecchia società favoriscono in genere in molti modi lo sviluppo progressivo del proletariato. La borghesia è di continuo in lotta, innanzi tutto e da principio con L’aristocrazia, poi più tardi con quelle parti della borghesia stessa, gl’interessi delle quali si trovano in conflitto col progresso dell’industria; e poi sempre e di continuo con la borghesia dei paesi stranieri. In tutte coteste lotte si trova nella necessità di appellarsi al proletariato, e di giovarsi del suo concorso, trascinandolo entro al moto politico. È essa stessa, dunque, che offre al proletariato gli elementi della sua propria cultura, il che vuol dire poi che gli offre le armi contro di sé stessa.

Accade inoltre, come abbiamo già detto, che, per effetto dei progressi dell’industria, intere frazioni della classe dominante, o precipitano nella condizione del proletariato, o sono per lo meno minacciate nella loro esistenza. Queste frazioni stesse recano al proletariato dei molteplici elementi di coltura.

Infine, quando la lotta di classe sta per venire al momento decisivo, il disgregamento della classe dominante per entro alla vecchia società assume un carattere così violento ed aspro, che una piccola parte della classe dominante stessa, abbandonando i suoi si allea alla classe rivoluzionaria, ossia a quella classe che ha nelle mani l’avvenire. E come già un tempo una parte della nobiltà passò dal lato della borghesia, cosi ora una parte della borghesia si unisce al proletariato, e segnatamente una parte degli ideologi borghesi, che son giunti ad intendere teoreticamente il tutto del movimento storico.

Di tutte le classi che presentemente stan di contro alla borghesia, il proletariato solo costituisce una classe rivoluzionaria. Le altre classi si corrompono e periscono sotto Fazione della grande industria, mentre il proletariato è e rimane il più genuino prodotto di essa.

I ceti medii, e ossia il piccolo industriale, il piccolo negoziante, l’artigianato, il contadino piccolo possidente, tutti costoro combattono la borghesia sì, ma per salvare dalla rovina l’esistenza loro di ceti medii appunto. E sono per di più reazionarii, e si provano a far girare indietro la ruota della storia. E se sono rivoluzionarii diventan tali in vista della loro prossima caduta nella massa del proletariato; e cioè non difendono i loro interessi presenti, ma difendono i loro interessi futuri, e cioè dire che abbandonano il loro attuale punto di vista per mettersi in quello del proletariato.

Quanto all’insieme degli straccioni e della canaglia (questa parola in tedesco è Lumpenproleturiat, oggi comunemente tradotta con «sottoproletariato»), che è ciò che rappresenta la putrefazione passiva degli strati infimi della società esistente, può darsi che qua e là, e cioè in parte, possa essere trascinato, dentro al movimento di una rivoluzione proletaria, ma il suo abituale genere di vita lo rende più disposto a farsi comprare, e a farsi mettere in servizio delle mene reazionarie.

Le condizioni di esistenza della vecchia società son come distrutte nelle condizioni di esistenza del proletariato. Il proletariato è senza proprietà; i suoi rapporti con la moglie e coi figliuoli non hanno più nulla di comune coi rapporti borghesi della famiglia; il moderno lavoro industriale, la moderna soggezione al capitale, che è la stessa in Francia come in Inghilterra, in Austria come in Germania, lo ha spogliato d’ogni carattere nazionale. Le leggi, la morale, la religione diventan per esso tanti pregiudizi borghesi, dietro ai quali si nascondono altrettanti interessi borghesi.

Tutte le classi, che fino ad ora s’impossessarono del potere, cercaron sempre di consolidare la posizione raggiunta, con l’assoggettare la società tutta intera alle condizioni del loro particolare modo di acquisizione. I proletarii, invece, solo per una via possono impossessarsi delle forze produttive sociali, ed è quella di abolire il modo col quale essi conseguiscono un provento, il che importa che si abolisca tutto l’attuale sistema di appropriazione. I proletarii non han nulla di proprio da assicurare, essi han solo da abolire ogni sicurtà privata, ed ogni privata guarentigia.

Tutti i movimenti avvenuti fin qui furon di minoranze, o nell’interesse delle minoranze. Il movimento proletario è il movimento spontaneo della gran maggioranza, nell’interesse della gran maggioranza.

Il proletariato, infimo strato della società attuale, non può sollevarsi, non può levarsi ritto, senza che tutti i sovrapposti strati della società ufficiale vadano in frantumi.

Non quanto all’intimo fondo, ma di certo quanto alla forma, la lotta del proletariato con la borghesia riveste alle prime un carattere nazionale. Gli è naturale che in prima il proletariato di ciascun paese la faccia finita con la sua propria borghesia.

Toccando a grandi tratti delle fasi generali dello sviluppo del proletariato, noi abbiam seguita la storia della più o meno occulta guerra civile che travaglia la società attuale, fino al momento che la lotta stessa si trasmuti in aperta rivoluzione, e che il proletariato stabilisca il suo dominio con la violenta rovina della borghesia.

La società, come abbiamo già visto, ha poggiato fino ad ora su la opposizione delle classi degli oppressi e degli oppressori. Ma, per potere opprimere una classe, bisogna pure assicurarle delle condizioni entro alle quali le sia dato di vivere almeno la misera vita degli schiavi. Il servo della gleba giungeva, in piena feudalità, a farsi faticosamente membro del comune, come il piccolo borghese protetto raggiungeva il grado di pieno borghese sotto il dominio dell’assolutismo feudale. L’operaio moderno, invece, anzi che salir di grado coi progressi dell’industria, discende sempre più in basso, e perfino al di sotto delle condizioni della sua propria classe. L’operaio diventa il povero, e il pauperismo si sviluppa più rapidamente che non la popolazione o la ricchezza. Gli è dunque da tutto ciò manifesto, che la borghesia è incapace di rimanere più a lungo nella posizione di classe dominante nella società, e d’imporre alla società come suprema legge le sue condizioni di esistenza, in quanto essa è classe. Essa è incapace di regnare, perché essa non è atta ad assicurare ai suoi schiavi la elementare esistenza nemmeno nei limiti della stessa schiavitù, e perché essa è costretta a farli discendere a tal condizione, da doverli poi nutrire, anzi che esserne nutrita. La società non può più vivere sotto al suo dominio; il che viene a dire, che la sua esistenza è incompatibile con quella della società.

È condizione essenziale alla esistenza e al dominio della classe borghese questa, che la ricchezza, cioè, si accumuli nelle mani dei privati, e che il capitale si formi e si aumenti: – ora è condizione del capitale il lavoro a salario. Questo riposa esclusivamente su la concorrenza in fra gli operai. Il progresso dell’industria, del quale la borghesia è come l’agente passivo, va intanto sostituendo all’isolamento degli operai, risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria per via dell’associazione. Lo sviluppo della grande industria va togliendo di sotto ai piedi della borghesia il terreno, sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa innanzi tutto produce i suoi proprii becchini. La rovina della borghesia e la vittoria del proletariato son del pari inevitabili.

  1. Proletarii e comunisti

Cosa sono i comunisti per rispetto ai proletarii in generale?

I comunisti non costituiscono un partito a sé, di fronte agli altri partiti operai.

Essi non hanno interessi proprii, che sian distinti da quelli del proletariato, nel suo insieme.

Non statuiscono dei principii a parte, sui quali vogliano poi modellare il movimento proletario.

I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletarii solo in questo, e cioè: che essi, in prima, date le differenti lotte nazionali dei proletarii, mettono in rilievo e fanno valere quei comuni interessi del proletariato tutto intero, che sono appunto indipendenti dalla nazionalità; e che essi, d’altra parte, nelle diverse fasi di sviluppo che la lotta fra il proletariato e la borghesia va percorrendo, rappresentano costantemente l’interesse del movimento complessivo.

I comunisti son dunque, in pratica, quella frazione di tutti i partiti operai di tutti i paesi, che è la più decisa, e che più spinge ad avanzare: ed essi poi s’avvantaggiano teoreticamente su la rimanente massa del proletariato per via dell’intendimento netto che hanno, così delle condizioni e dell’andamento, come dei resultati generali del movimento proletario.

L’intento prossimo dei comunisti è quel medesimo, che è proprio a tutti gli altri partiti proletarii: formazione del proletariato in classe, rovina della signoria borghese, conquista del potere politico da parte del proletariato.

Gli enunciati teoretici dei comunisti non poggiano punto sopra idee o principii, che questo, o quello frai rinnovatori del mondo abbia escogitati o scoverti.

Quegli enunciati son soltanto la espressione generalizzata delle condizioni di fatto di una lotta di classi che realmente esiste, e ossia di un movimento storico, che si svolge sotto ai nostri occhi. L’abolizione dei rapporti di proprietà fino ad ora esistiti non è la nota veramente caratteristica del comunismo.

Tutti i rapporti di proprietà andaron sempre soggetti a storiche vicende, e ad una continua trasformazione.

La rivoluzione francese, ad esempio, abolì la proprietà feudale in favore della proprietà borghese.

Ciò che caratterizza il comunismo non è l’abolizione della proprietà in genere, ma è l’abolizione della proprietà borghese.

Ma la moderna proprietà privata borghese è l’ultima e la più perfetta espressione di quella forma di produzione e di appropriazione, che poggia su gli antagonismi di classe, e su lo sfruttamento degli uni per opera degli altri.

E in questo senso i comunisti possono compendiare la loro dottrina in questa unica espressione: abolizione della proprietà privata.

È stato mosso rimprovero a noi comunisti, di voler noi abolire la proprietà personalmente acquisita per via di penoso lavoro: quella proprietà che dicesi costituisca il fondamento di ogni libertà, di ogni attività, e della indipendenza dell’individuo.

Proprietà acquistata col penoso lavoro, e individualmente meritata! Parlate voi forse della proprietà del piccolo borghese, o del piccolo possidente contadino, che fu anteriore alla proprietà borghese?

Noi quella non abbiamo bisogno di abolirla; ché lo sviluppo dell’industria l’ha già tolta di mezzo, o è su la via di distruggerla.

O parlate voi, invece, della moderna proprietà privata borghese?

O che il lavoro a salario, il lavoro del proletario, crea esso forse della proprietà per il proletario stesso? In nessun modo. Quel lavoro a salario non genera che capitale, ossia genera la proprietà che sfrutta il lavoro a salario, e che può accrescersi se non a patto di generare nuovo lavoro a salario, da sfruttare di bel nuovo. La proprietà, quanto alla sua forma presente, si muove entro la opposizione fra capitale e lavoro a salario. Esaminiamo i due termini di tale antinomia.

Esser capitalista non vuol dire soltanto che si occupi una semplice posizione privata, ma che anzi si tiene una posizione sociale nel sistema della produzione. Il capitale è un prodotto collettivo, e non può esser messo in movimento se non per l’attività concorrente di molti membri della società, e poi, in ultima istanza, solo per mezzo dell’attività combinata di tutti i membri della società stessa.

Il capitale non è una potenza personale: esso è una potenza sociale.

Se il capitale, dunque, vien trasformato in proprietà comune, che appartenga a tutti i membri della società, non avviene già perciò che una proprietà personale venga a trasformarsi in una proprietà sociale. Gli è solo il carattere sociale della proprietà che si cambia. Essa perde il carattere di proprietà di classe.

Veniamo al lavoro a salario.

Il prezzo medio del lavoro salariato è il minimo del salario, ossia la somma dei mezzi di esistenza occorrenti per mantenere in vita l’operaio in quanto è operaio. Ciò, dunque, che l’operaio salariato, mediante l’attività sua, fa suo, basta solo a mantenere e a riprodurre la sua magra esistenza. Cotesta appropriazione personale dei prodotti del lavoro, che è indispensabile alla conservazione e riproduzione della vita, noi non vogliamo punto abolirla; essa non reca alcun profitto netto, che dia potere sul lavoro altrui. Noi vogliamo soltanto abolire il tristo e misero modo di cotesta appropriazione, per cui l’operaio vive solo per aumentare il capitale, e quel tanto vive che è richiesto dall’interesse della classe dominante.

Nella società borghese il lavoro vivo è soltanto un mezzo per aumentare il lavoro accumulato. Nella società comunista il lavoro accumulato è soltanto un mezzo per rendere più largo, più ricco, più progredito il modo di esistenza dei lavoratori.

Nella società borghese il passato domina in sul presente, nella società comunistica il presente sarà signore del passato. Nella società borghese il capitale è personale ed indipendente mentre l’individuo operante è privo d’indipendenza e di personalità.

Ora l’abolizione di tale stato di cose vien detta dalla borghesia abolizione della personalità e della libertà. Ed a ragione. Prima si tratta per fermo di abolire la personalità, la indipendenza e la libertà del borghese.

Sotto il nome di libertà ora, per entro agli attuali rapporti borghesi della produzione, s’intende il libero commercio, e il libero comprare e vendere.

Caduto il mercantare, cade anche la libertà del mercantare. Le frasi risonanti del libero trafficare e mercanteggiare, come tutte le altre vanterie liberalesche della nostra borghesia, hanno in genere un qualche senso solo per rispetto e in contrapposto all’intralciato traffico ed alla vincolata cittadinanza del Medio-Evo, ma non ne hanno alcuno rispetto all’abolizione comunistica del commercio, delle forme borghesi della produzione, e della borghesia stessa.

Voi raccapricciate all’idea che noi vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nella società vostra attuale la proprietà fu già abolita per nove decimi dei membri suoi: e la proprietà esiste solo in quanto non esiste per quei nove su dieci. Voi dunque ci rimproverate che noi vogliamo abolire una forma di proprietà, la quale suppone come sua indispensabile condizione il tener privi di ogni proprietà il gran numero dei membri della società.

Voi ci rimproverate, insomma, di volere abolire la proprietà vostra. Senza dubbio, e per fermo, ciò noi vogliamo.

Dal momento che il lavoro non si presti più a lasciarsi trasformare in capitale, in danaro, in rendita della terra, ossia, a farla breve, non si presti più a farsi trasformare in una forza sociale monopolizzabile: il che vuol dire dal momento che la proprietà personale non può esser più trasformata in proprietà borghese, da quel momento voi dichiarate che la persona rimane soppressa.

Voi, dunque, confessate, che sotto al nome di persona non sia da intendere se non il borghese, ossia il proprietario borghese. E questa persona deve essere, non c’è dubbio, soppressa.

ll comunismo non toglie ad alcuno la facoltà di appropriarsi i prodotti sociali, ma toglie solo la facoltà di giovarsi di tale appropriazione per recare in soggezione il lavoro altrui.

Fu mossa questa obiezione, che, abolita che fosse la proprietà privata, cesserebbe ogni impulso di attività, e una generale inerzia invaderebbe il mondo.

Se tal ragionamento reggesse, da un pezzo già la società borghese avrebbe dovuto andare in rovina per effetto della indolenza; poiché quelli che in essa lavorano non raccolgono profitto, e quelli che in essa profittano non lavorano. Tutta la grave obiezione si riduce a questa tautologia: non c’è più lavoro a salario là dove non sia più il capitale.

Tutte coteste obiezioni, come furon mosse alla forma comunistica del produrre e dell’appropriarsi i prodotti materiali, così furono anche rivolte contro la produzione ed appropriazione dei prodotti intellettuali. Quello stesso borghese il quale ritiene, che, cessando la proprietà di classe, cessi la produzione, afferma del pari che cessando la coltura di classe la coltura tutta perirebbe.

La coltura, la cui perdita si rimpiange, non è per la maggior parte degli uomini se non l’avviamento a diventare delle macchine belle e buone.

Ma astenetevi dal discutere con noi, giacché voi applicate all’abolizione della proprietà borghese i vostri criterii borghesi della libertà, della coltura, del diritto e cosi via. Le vostre idee sono anch’esse un prodotto dei rapporti borghesi della proprietà e della produzione, come il vostro diritto non è se non il volere della vostra classe elevato a legge, un volere il cui contenuto è già dato dalle condizioni materiali d’esistenza della vostra stessa classe.

Cotesta interessata concezione, che vi fa elevare al grado di leggi eterne della natura e della ragione quei vostri rapporti della proprietà e della produzione, che son nati in verità storicamente nel corso della produzione stessa, voi l’avete di comune con tutte le classi dominanti che già perirono. Ciò che voi intendete ed ammettete per la proprietà antica, ciò che voi riconoscete per la proprietà feudale, voi non siete più in grado d’intenderlo e di riconoscerlo quando si tratti della proprietà borghese!

Ma volere abolire la famiglia! Perfino i più avanzati fra i radicali s’indignano per tale obbrobrioso proposito dei comunisti, Su che cosa riposa l’attuale famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno personale. Non esiste nel suo pieno sviluppo se non per la sola borghesia; ma essa trova il suo complemento nella forzata mancanza della vita di famiglia presso i proletarii, e nella prostituzione pubblica.

La famiglia del borghese cadrà naturalmente col venir meno di tale complemento: e famiglia borghese e suo complemento spariranno con lo sparire del capitale.

Voi ci rimproverate di voler noi abolire lo sfruttamento dei fanciulli da parte dei genitori? Noi questo delitto lo confessiamo volentieri.

Ma voi dite che noi infrangiamo i più sacri legami, perché alla educazione domestica noi sostituiamo quella sociale.

Ma la vostra educazione non è anch’essa determinata dalla società; e cioè dalle condizioni sociali, in mezzo alle quali voi educate, e dall’intervento più o meno diretto od indiretto della società stessa, per mezzo della scuola? Non sono i comunisti che inventino l’azione della società su l’educazione: – essi ne mutano soltanto il carattere, e sottraggono l’educazione all’influsso della classe dominante.

Le educazioni borghesi su la famiglia, su la educazione, e sui dolci legami che uniscono i figliuoli ai genitori, divengono sempre più nauseanti quanto più, per effetto della grande industria, i legami di famiglia si van perdendo del tutto trai proletarii, e i fanciulli si trasformano in articoli di commercio e in istrumenti di lavoro.

Ma voi comunisti, così grida in coro la borghesia tutta intera, voi volete introdurre la comunanza delle donne.

Il borghese non vede nella moglie se non un semplice istrumento di produzione. Ora nel sentire che gli istrumenti di produzione saranno sfruttati in comune, esso non può fare a meno di pensare, che la stessa sorte dell’uso in comune debba toccare anche alle donne. E non capisce punto, che si tratta precisamente di togliere alla donna il carattere di un istrumento di produzione.

Del resto non si dà nulla di tanto grottesco, quanto l’orrore da moralisti raffinati, col quale i nostri borghesi riguardano la pretesa comunanza delle donne, che avrebbe presso i comunisti carattere ufficiale. I comunisti non han per davvero bisogno d’introdurre la comunione delle donne, perché questa c’è stata quasi sempre.

I nostri borghesi, non paghi di avere a loro disposizione le mogli e le figlie dei loro proletarii, usano – per passar sopra qui alla prostituzione ufficiale – di tenere per loro principalissimo spasso quello della mutua seduzione delle consorti loro.

Il matrimonio borghese è in verità la comunanza delle donne. Tutto al più si potrebbe muovere questo rimprovero ai comunisti, che, essi, cioè, vogliono sostituire ad una comunione delle donne dissimulata con ipocrisia, un’altra che sarebbe ufficiale e sincera. Ma si capisce poi del resto, che aboliti che fossero i presenti rapporti della produzione, sparirebbe del pari la presente comunanza delle donne, che da quei rapporti deriva, e ossia la prostituzione ufficiale e la non ufficiale.

I comunisti vengono inoltre accusati di voler distruggere la patria, – la nazionalità.

Gli operai non hanno patria. Non si può toglier loro ciò che non hanno. Ma come il proletariato d’ogni paese deve innanzi tutto conquistare il potere politico, deve elevarsi a classe nazionale e deve costituirsi in nazione, così esso è e rimane ancora nazionale, sebbene sia tale in un senso affatto diverso da quello della borghesia.

Le delimitazioni e gli antagonismi dei popoli vanno via via sparendo, per lo stesso sviluppo della borghesia, per la libertà del commercio, per l’azione del mercato mondiale, per la uniformità della produzione industriale e per le condizioni di esistenza che da essa derivano.

Quelle differenze e quegli antagonismi spariranno ancor di più per effetto della supremazia del proletariato. L’azione combinata, per lo meno dei proletarii dei paesi civilizzati, è una delle condizioni prime della liberazione del proletariato.

A misura che verrà abolito lo sfruttamento dell’individuo, verrà anche meno lo sfruttamento di una nazione per mezzo di un’altra.

Caduto che sia il contrasto delle classi nell’interno delle nazioni, finirà anche l’antagonismo fra le nazioni stesse.

Le accuse contro il comunismo, che muovono da considerazioni religiose, filosofiche, o altrimenti ideologiche, non meritano si faccia intorno ad esse un accurato esame.

Occorre forse una grande profondità di mente per intendere, che mutandosi le condizioni di vita degli uomini, ei loro rapporti sociali e il modo d’essere della società, si mutano anche le vedute, le nozioni e le concezioni, il che vuol dire che si muta la coscienza degli uomini?

Che cos’altro mai dimostra la storia delle idee, se non che la produzione intellettuale s’è andata cambiando col rivoluzionarsi della produzione materiale? Le idee dominanti da un dato tempo non sono se non le idee della classe dominante.

Si sente a parlare d’idee che mettono in rivoluzione una intera società. Ebbene con ciò si viene semplicemente a dire, che in seno alla società preesistente si son già sviluppati gli elementi di una società nuova, e che la dissoluzione degli antichi rapporti di vita va di pari passo con la dissoluzione delle antiche idee.

Quando il mondo antico stava per declinare, le antiche religioni furon tutte vinte dalla religione cristiana. Nel secolo XVIII le idee cristiane soggiacquero alla corrente dei lumi, nel momento appunto che la società feudale sosteneva l’estrema lotta con la borghesia, allora rivoluzionaria. Le idee di libertà di coscienza e di libertà religiosa non valsero se non a proclamare il principio della libera concorrenza nel campo del sapere.

«Ma – si dirà – non c’è dubbio che le idee religiose, morali, filosofiche, politiche e giuridiche si vanno modificando nel corso degli svolgimenti storici. Se non che, però, la religione, la morale, la filosofia, la politica, il diritto si mantennero sempre in vita in tutti questi mutamenti.

Vi ha inoltre delle verità eterne, come la libertà, la giustizia, ecc. che son comuni a tutte le forme sociali. Il comunismo abolisce invece le verità eterne: esso abolisce la religione e la morale, in luogo di rinnovellarle, e con ciò contraddice a tutto lo svolgimento storico verificatosi fin qui.

A che si riduce cotesta accusa? Tutta la storia della società s’è mossa fin qui attraverso ai contrasti delle classi, i quali nelle diverse epoche assunsero forme diverse.

Ma quale che fosse pure la forma assunta da tali contrasti, lo sfruttamento di una parte della società per mezzo di un’altra fu il fatto costante in tutti i secoli passati. Non è per ciò da meravigliare, se in tutti codesti secoli, malgrado le diversità e le variazioni che pur essa mostra, la coscienza sociale si movesse sempre in certe forme comuni, in certe forme che andranno in dissoluzione solo col completo sparire dell’antagonismo delle classi.

La rivoluzione comunistica è la più radicale rottura con tutti i tradizionali rapporti della proprietà: e non è quindi da meravigliare se nel corso del suo sviluppo essa la rompe nel modo più radicale con le idee tradizionali.

Ma lasciamo ora da parte le obiezioni della borghesia contro il comunismo.

Noi abbiamo visto più su, che la prima tappa della rivoluzione operaia consiste nel fatto, che il proletariato si elevi a classe dominante, e ossia consiste nel raggiungere vittoriosamente la democrazia.

Il proletariato profitterà del suo dominio politico, per togliere via via alla borghesia tutto il capitale, per concentrare nelle mani dello stato, e ossia del proletariato organizzato qual classe dominante, tutti gl’istrumenti della produzione, e per aumentare con la massima celerità possibile le forze produttive.

Tutto ciò non può naturalmente accadere se non per via di dispotiche infrazioni al diritto di proprietà, e di violazioni ai rapporti borghesi della produzione, e ossia per mezzo di misure che appariranno quali economicamente insufficienti e insostenibili, ma che nel corso del movimento sorpasseranno sé stesse spingendo a nuove misure, e che per intanto son mezzi indispensabili per raggiungere la sovversione della intera forma di produzione.

Codeste misure saranno, s’intende, da paese a paese diverse.

Ma nei paesi più progrediti, quelle che qui appresso s’indicano potranno essere a un di presso generalmente applicate:

  1. Espropriazione della proprietà fondiaria, e impiego della rendita della terra per le spese dello stato;
  2. Tassa fortemente progressiva;
  3. Abolizione del diritto d’eredità;
  4. Confisca dei beni degli emigranti e dei ribelli;
  5. Centralizzazione del credito in mano allo stato, mediante una banca nazionale con capitale di stato e con monopolio esclusivo;
  6. Centralizzazione dei mezzi di trasporto in mano allo stato;
  7. Aumento delle fabbriche nazionali e degl’istrumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano generale;
  8. Eguale obbligo di lavoro per tutti, organizzazione di eserciti industriali specialmente in vista dell’agricoltura;
  9. Combinazione dell’esercizio del1’agricoltura e dell’industria, e misure atte a preparare la lenta sparizione della differenza fra città e campagna;
  10. Educazione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Abolizione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche, nella sua forma attuale. Combinazione dell’educazione con la produzione materiale.

Quando nel corso degli eventi le differenze di classe saranno sparite, e tutti i mezzi di produzione saran venuti nelle mani degli individui associati, il potere pubblico avrà naturalmente perduto ogni carattere politico. Il potere politico, nel senso vero e proprio della parola, non è se non il potere organizzato di una classe per la oppressione di un’altra. Ora se il proletariato nella lotta contro la borghesia è forzato a raccogliersi in classe, e se fattosi poscia per mezzo della rivoluzione classe dominante distrugge violentemente gli antichi rapporti della produzione, esso per tal modo abolendo cotali rapporti abolisce le condizioni di esistenza dell’antagonismo di classe, e cioè abolisce le classi in generale e il suo proprio dominio di classe.

Alla società borghese, con le sue classi e coi suoi antagonismi di classe, subentrerà una associazione, nella quale il libero sviluppo di ciascuno sarà la condizione del libero sviluppo di tutti.

 

 

  1. La letteratura del comunismo e del socialismo

 

  1. Il Socialismo reazìonarìo
  2. Il Socialismo feudale

Per effetto della lor propria situazione storica, l’aristocrazia inglese e quella francese eran come chiamate a lanciare dei libelli contro la moderna società borghese. Cosi nella rivoluzione francese del Luglio 1830, come nel movimento della riforma elettorale inglese, l’aristocrazia era di nuovo soggiaciuta all’aborrita classe dei nuovi venuti (con la insurrezione parigina del luglio 1830 veniva destituito dal trono Carlo x di Borbone, il cui potere aveva trovato l’appoggio dei grandi proprietari terrieri, e insediato al suo posto Luigi Filippo d’0rléans che difendeva gli interessi dell’alta borghesia finanziaria).

Non era più il caso di pensare ad una seria lotta politica, e rimaneva aperto il solo campo della lotta letteraria. Ma anche nell’ambito letterario la vecchia fraseologia del periodo della restaurazione (si tratta, precisa Engels in una nota all’ed.izione inglese del 1888, della restaurazione francese del 1814-1830, non di quella inglese del 1660-1689) era diventata cosa insostenibile. Per crearsi delle simpatie l’aristocrazia doveva ben darsi l’apparenza di perder di vista i suoi proprii interessi, formulando i suoi atti d’accusa contro la borghesia solo in difesa della sfruttata classe degli operai. Si procurava cosi il piacere d’intuonare dei canti ingiuriosi contro i suoi nuovi padroni, sussurrando loro negli orecchi delle profezie di più che sinistro augurio.

Per cotal via nacque il socialismo feudale, che è per metà geremiade e per metà pasquinata, parte è eco del passato e parte è paurosa minaccia del futuro, e poi al tempo stesso ferisce proprio al cuore la borghesia per via d’una critica mordace ed ingegnosa, ma riman sempre di effetto comico per la sua assoluta incapacità a comprendere l’andamento della storia moderna. ‘

Per raccogliere e trarsi dietro il popolo cotesti signori inalberarono a guisa di bandiera la bisaccia del proletariato mendicante. Ma quelli che si provavano a seguirli li videro per di dietro adorni dei vecchi blasoni feudali, e si dispersero dando in uno scoppio di rumorose e irriverenti risate (l’immagine è tratta dalla satira Germania, di Heinrich Heine – 1797-1856).

Una parte dei legittimisti francesi e la giovane Inghilterra dettero questo allegro spettacolo (l legittimisti erano per lo più aristocratici latifondisti fautori della dinastia dei Borbone. La Giovane Inghilterra venne creata nel 1842 da alcuni membri del partito conservatore (tory), tra cui fanno spicco Disraeli, Thomas Carlyle (1795-1881) e Lord Ashley. Il primo (futuro braccio destro della regina Vittoria), tipico rappresentante della politica imperialistica inglese, aveva pubblicato nel 1845 un romanzo, Sybil o Due Nazioni, in cui rimpiangeva l’antica unione tra popolo e signore feudale di contro all’attuale antagonismo tra le due «nazioni» di ricchi e di poveri. Del Carlyle si ricorda, a questo proposito significativi, Cartismo, del 1841, e Passato e Presente del 1842. Lord Ashley, conosciuto anche come conte di Shaftesbury, era stato il promotore del famoso bill delle dieci ore).

Quando cotesti campioni della feudalità dimostrano che il modo di sfruttare dei feudatarii era diverso da quello dei borghesi, essi dimenticano che quel modo di sfruttare si esercitava in condizioni e circostanze affatto diverse, ed ora del tutto superate. Quando notano, che sotto al loro regime non esisteva il proletariato moderno, dimenticano di osservare che la borghesia è un necessario derivato appunto di quello che fu il loro ordinamento sociale.

Del resto usano così poco di nascondere il carattere reazionario della loro critica, che il loro principale capo d’accusa contro la borghesia è appunto questo, che sotto il suo dominio si va sviluppando una classe, che manderà in aria tutto 1’ordine sociale esistente.

Muovon rimprovero alla borghesia, non d’aver prodotto un proletariato in genere, ma d’aver prodotto un proletariato rivoluzionario.

In pratica piglian parte attiva politica a tutte le misure violente contro la classe operaia, e nella vita di tutti i giorni, ad onta della lor gonfia fraseologia, s’accomodano a raccogliere gli aurei pomi, e a barattare mercantilmente tutta la cavalleria della fede, del1°amore e dell’onore con la lana di pecora, con la barbabietola e con l’acquavite.

Come preti e signori feudali s’accompagnaron sempre in passato, così accade ora del socialismo clericale e di quello feudale.

Non c’è cosa più facile del dare un po’ d’intonaco socialistico all’ascetismo cristiano. Non s’è forse espresso il cristianesimo contro la proprietà privata, contro il matrimonio e contro lo stato? E non ha esso predicato i sostitutivi della carità, del mendicare, del celibato, della mortificazione della carne, della vita monastica e della chiesa?

Il socialismo cristiano non è se non 1’acqua benedetta con la quale il prete consacra il rancore degli aristocratici.

 

  1. Il Socialismo piccolo-borghese

L’aristocrazia feudale non è la sola classe andata in rovina per opera della borghesia; e non è quella le cui condizioni di vita sole vengano a deperire, e spariscano, in seno alla moderna società borghese.

Nei piccoli borghesi del Medio-Evo e nei contadini piccoli possidenti erano come i precursori della borghesia moderna. Nei paesi, nei quali il commercio e l’industria son poco sviluppati, cotesta classe continua a vegetare, a canto alla borghesia che sviluppasi in grandezza.

Nei paesi, nei quali la civiltà moderna è fiorente, si è formata una nuova piccola borghesia, che di continuo oscilla fra il proletariato e la borghesia, e come parte complementare della società borghese si va sempre di nuovo rifacendo. Gl’individui che la compongono vengon di continuo ricacciati dalla concorrenza giù tra le fila del proletariato, e veggono appressarsi il momento nel quale per effetto dello sviluppo della grande industria dovranno del tutto sparire come parte indipendente della società moderna, e saran surrogati, così nel commercio e nella manifattura, come nell’agricoltura, dai fattori, agenti e garzoni (si intende con ciò, in senso lato, la piccola borghesia impiegatizia).

Nei paesi nei quali, come in Francia, la classe dei contadini costituisce più della metà della popolazione, era naturale che quegli scrittori i quali scendevano in campo in favore del proletariato e contro la borghesia, usassero nella loro critica del regime borghese la stregua del piccolo borghese e del piccolo possidente contadino, e che pigliassero partito per gli operai da un punto di vista piccolo-borghese. Cosi si venne formando il socialismo piccolo-borghese. Sismondi è il capo di cotesta letteratura, così per l’Inghilterra, come per la Francia.

Cotesto socialismo analizzò con grande acume le contraddizioni che sono inerenti ai rapporti moderni della produzione. Mise a nudo la ipocrisia, che è in fondo alle ottimistiche esposizioni degli Economisti. Dimostrò in modo irrefutabile gli effetti deleterii delle macchine e della divisione del lavoro, e poi la concentrazione dei capitali e della proprietà fondiaria, la soprapproduzione, le crisi, la inevitabile sparizione dei piccoli borghesi e dei piccoli possidenti, la miseria del proletariato, la anarchia nella produzione, le stridenti sproporzioni nella distribuzione della ricchezza, la guerra industriale fra le nazioni portata fino all’esterminio, la dissoluzione degli antichi costumi, degli antichi rapporti familiari, delle nazionalità antiche.

Ma quanto al contenuto positivo di ciò che vuole cotesto socialismo, o mira a ristabilire gli antichi mezzi di produzione e di scambio, e con essi gli antichi rapporti di proprietà e la società antica, o pensa di far rientrare per forza i mezzi moderni della produzione e dello scambio nel ristretto quadro degli antichi rapporti di proprietà, che quei mezzi appunto spezzarono, e doveano spezzare! In tutti due i casi esso è al tempo stesso reazionario ed utopistico.

Per la manifattura la corporazione, per l’agricoltura le condizioni patriarcali: ecco la sua ultima parola.

Da ultimo, e ossia alla fine del suo svolgimento, cotesta tendenza mette capo nella prostrazione mentale di chi abbia un triste incubo.

 

  1. Il socialismo tedesco, ossia il Socialismo «vero»

La letteratura socialistica e comunistica della Francia, che nacque sotto la pressione di una borghesia dominante, e quale espressione letteraria appunto di una effettiva lotta contro di quella signoria, principiò ad aver diffusione in Germania proprio nel momento nel quale la borghesia incominciava a lottare con l’assolutismo feudale.

Dei filosofi tedeschi, dei semifilosofi e dei bellimbusti dell’amena coltura s’impadronirono avidamente di cotesta letteratura, dimenticando solo questo, che mentre immigravano di Francia in Germania cotesti scritti, non perciò immigravano dall’un paese all’altro le condizioni di vita propriamente francesi. Per rispetto alle condizioni tedesche quegli scritti francesi vennero a perdere ogni immediato carattere pratico, e assunsero Paria di una pura e semplice manifestazione polemico-letteraria. Quegli scritti furono intesi come una oziosa speculazione su la realizzazione della vera natura umana. Cosi era un’altra volta accaduto, quando nel secolo diciottesimo i filosofi tedeschi ridussero i postulati della rivoluzione francese a semplici esigenze della ragion pratica (Riferimento alla Critica della ragion pratica di Immanuel Kant (1724-1804). «La situazione della Germania alla fine del secolo passato si rispecchia completamente nella Critica della ragion pratica di Kant. Mentre la borghesia francese si innalzava al dominio, con la più grande rivoluzione che la storia conosca e conquistava il continente europeo, mentre la borghesia inglese, già emancipata politicamente, rivoluzionava l’industria e si assoggettava l’India politicamente e tutto il resto del mondo commercialmente, gli impotenti borghesi tedeschi riuscirono ad arrivare soltanto alla “buona volontà”[…] Questa buona volontà di Kant corrisponde complessivamente all’impotenza, alla depressione e alla miseria dei borghesi tedeschi, i cui meschini interessi non furono mai capaci di svilupparsi in interessi comuni nazionali, di una classe e quindi furono continuamente sfruttati dai borghesi di tutte le altre nazioni […]›› K. Marx- F. Engels, L’Ideología tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1958, pp. 187 ss.)  in universale, e interpretarono la volontà effettiva della borghesia francese come le leggi del volere puro, del volere quale esso dev’essere, del vero volere umano.

Il vero e proprio lavoro di cotesti letterati tedeschi consistette soltanto in questo, che essi cioè procurarono di mettere in accordo le nuove idee francesi con la loro antecedente coscienza filosofica, e ossia, a dir meglio, s’impegnarono di appropriarsi le nuove idee dal loro punto di vista filosofico.

Cotesta appropriazione s’andò compiendo a quel medesimo modo nel quale in generale si giunge ad appropriarsi una lingua straniera… e ossia traducendo.

Gli è noto in che modo i monaci del Medio-Evo usassero di raschiare i manoscritti contenenti le classiche scritture del mondo pagano antico, per poi scrivervi novellamente su le assurde leggende dei santi cattolici.

I letterati tedeschi operarono in senso inverso nel maneggiare cotesti profani scritti francesi. Essi fecero scivolare la loro insensataggine su l’originale francese, e ve l’appiccicarono. Là dove, per es., la critica francese si aggira su i rapporti e su le funzioni della moneta, essi scrivono «alienazione della natura umana», e là dove la critica francese concerne lo stato borghese, essi scrivono «abolizione del dominio dell’universale astratto».

Coteste viziate sostituzioni della fraseologia filosofica agli svolgimenti critici dei francesi, furono dagli autori stessi battezzate per «filosofia dell’azione», per «socialismo vero», per «scienza tedesca del socialismo», per «dimostrazione filosofica del socialismo».

Per cotal via la letteratura francese socialistico-comunistica rimase evirata. E come essa cessava, in mano ai tedeschi, di esprimere la lotta di una classe contro di un’altra, così a ragione i tedeschi si vantano di aver superata «la unilateralità francese» e di rappresentare invece dei bisogni veri il bisogno della verità, e in cambio degli interessi del proletariato quelli della natura umana, dell’uomo in generale, dell’uomo che non appartiene a nessuna classe, e anzi non appartiene punto alla realtà, ma solo al vaporoso cielo della fantasia filosofica. Cotesto socialismo tedesco, che pigliava cosi solennemente sul serio le sue goffe esercitazioni da scolaro, e ne menava vanto all’uso dei ciarlatani, andò poco per volta e via via perdendo la sua innocenza da pedanti.

La lotta della borghesia contro la feudalità e contro la monarchia assoluta, e ossia, in una parola, il movimento liberale, s’andò facendo più serio in Germania, e specie in Prussia.

Il socialismo «vero›› ebbe così la fortunata occasione di contrapporre al movimento politico le rivendicazioni socialistiche, e di lanciare i già noti anatemi contro il liberalismo, contro lo stato rappresentativo, contro la concorrenza borghese, e così di seguito contro tutte le altre cose borghesi, libertà di stampa, diritto comune, libertà in genere, eguaglianza, e di andar predicando al popolo come esso per tal movimento borghese abbia tutto da perdere e nulla da guadagnare. Molto a proposito il socialismo tedesco seppe dimenticare, come quella critica francese, di cui esso era una misera eco, supponesse come esistente di fatto la società borghese moderna con le sue materiali condizioni di vita, e con la congrua costituzione politica; presupposti cotesti a raggiungere i quali occorreva in Germania di lottare ancora come per una conquista.

I governi assoluti di Germania, con tutto il loro codazzo di preti, di maestri di scuola, di nobiluzzi rurali e di burocratici si giovarono di tale socialismo come di spauracchio contro la borghesia, che si levava minacciosa.

Quel socialismo fu come il dolce complemento alle amare sferzate e fucilate con le quali i governi tedeschi han trattato le sommosse degli operai (si riferisce alle insurrezioni degli operai dell’industria tesile avvenute in Boemia e Slesia nella primavera del 1844).

Cotesto socialismo «vero» mentre diventava un’arma dei governi contro la borghesia tedesca, rappresentava anche direttamente un interesse reazionario, e cioè quello dei piccoli borghesi, che così come furono tramandati dal secolo sedicesimo, e così come da quel tempo in poi son sempre riapparsi in nuove forme, costituiscono il vero e proprio fondamento sociale delle presenti condizioni della Germania.

Conservare la piccola borghesia gli è come conservare il presente assetto sociale tedesco. Cotesta piccola borghesia vede nel dominio della borghesia politica ed industriale la sua sicura rovina, e ciò per due ragioni: da una parte per la concentrazione del capitale, e da un’altra parte per il venir su di un proletariato rivoluzionario. Il socialismo «vero›› le parve mezzo sicuro per ovviare d’un colpo ai due pericoli. E quello si diffuse come un’epidemia.

Quella veste intessuta di ragnatela speculativa, ricamata di fiori di pomposa retorica, satura di rugiada sentimentale, quella veste si direbbe quasi trascendentale, della quale i socialisti tedeschi ricoversero quel po’ di loro «verità eterne›› ischeletrite, valse ad aumentare lo spaccio della merce in mezzo a cotal pubblico.

E dal canto suo cotesto socialismo tedesco andò via via riconoscendo la sua propria missione, che è quella di rappresentare in istile pomposo gl’interessi della piccola borghesia.

Elevò al grado di nazione normale la nazione tedesca, e fece del piccolo borghese tedesco l’uomo normale. A tutte le bassezze delle quali cotesto uomo normale è capace dette una significazione occulta, superiore, socialistica, in guisa che appariscono tutto il contrario di quel che sono. Venne alle sue ultime conseguenze col mettersi contro alle tendenze «brutalmente distruttive›› del comunismo, e col proclamarsi imparzialmente superiore alle lotte di classe. Tranne poche eccezioni, tutto ciò che circola in Germania di scritti socialistici e comunistici rientra in cotesta letteratura sudicia e snervante.

 

  1. Il Socialismo conservativo, ossia dei borghesi

Una parte della borghesia cerca di portar rimedio ai mali sociali, per mettere in sicuro l’esistenza della società borghese.

Entrano in cotesta categoria degli economisti, dei filantropi, degli umanitarii, dei miglioratori della sorte delle classi operaie, gli organizzatorí della beneficenza, i protettori degli animali, i fondatori dei circoli di temperanza, e tutta la variopinta genia dei minuti riformatori. E cotesto socialismo borghese è stato per fino ridotto nella forma del sistema bello e compiuto.

Citiamo ad esempio la Philosophie de Ia Mìsère di Proudhons.

I socialisti borghesi vogliono le condizioni di vita della società moderna, senza i danni e le lotte che da essa inevitabilmente derivano. Vogliono la società attuale, sottrazione fattane degli elementi che la rivoluzionano e dissolvono. Vogliono la borghesia senza il proletariato. La borghesia, come è ben naturale, si rappresenta il mondo, nel quale essa domina, come l’ottimo dei mondi possibili. Il socialismo borghese elabora cotesta confortante immagine nella forma di un sistema, o di un quasi sistema. Invitando il proletariato a realizzare i suoi sistemi, e ad entrare nella nuova Gerusalemme, esso non intende se non d’impegnare i proletarii a starsene in questa società attuale, ma rinunciando alle odiose opinioni che di essa si van facendo.

Una seconda forma di questo socialismo, che è meno sistematica ma è di certo più pratica, cerca d’ispirare nella classe operaia il disgusto d’ogni movimento rivoluzionario, procurando di provare, come non questa o quella mutazione politica, ma solo la mutazione delle condizioni materiali, e ossia dei rapporti economici, possa tomarle di giovamento.

Ma sotto al nome di mutazione dei rapporti materiali della vita cotesto socialismo non intende già, e in nessun modo, l’abolizione dei rapporti borghesi della produzione, il che non può aver luogo se non per le vie rivoluzionarie, ma intende solo delle riforme amministrative eseguite sul terreno stesso dei presenti rapporti della produzione, le quali per ciò nulla cambiano nei rapporti fra capitale e lavoro, e che nel caso più favorevole rendono meno costoso alla borghesia l’esercizio del potere, e semplificano l’assetto della sua finanza.

Tale socialismo borghese non raggiunge la sua vera espressione se non quando diviene una mera figura retorica.

Libero scambio! e nell’interesse della classe lavoratrice; dazii protettori! e nell’interesse dei lavoratori; carcere cellulare! e nell’interesse degli operai: – ecco l’ultima parola del socialismo borghese, e la sola pensata e detta sul serio.

Perché il socialismo della borghesia consiste appunto in questo enunciato: che i borghesi sono borghesi nell’interesse dei lavoratori.

 

  1. II Socialismo e il Comunismo critico-utopici

Non intendiamo qui di discorrere di quella letteratura, che in tutte le grandi rivoluzioni moderne si fece rappresentante delle esigenze del proletariato. (Gli scritti di Babeuf e simili.)

I primi tentativi fatti dal proletariato, per dar prevalenza ai suoi proprii interessi di classe, in tempi di generale effervescenza e mentre precipitava la società feudale, dovean di necessità fallire, e così per la condizione poco sviluppata del proletariato stesso, come per la mancanza di quelle condizioni materiali della sua emancipazione, le quali non sono se non un resultato della epoca borghese. La letteratura rivoluzionaria, che accompagnava questi primi movimenti del proletariato, è nel suo contenuto di necessità reazionaria. Essa preconizza un ascetismo generale e una rozza tendenza a tutto agguagliare.

I veri e propri sistemi socialistici e comunistici, ì sistemi di Saint- Simon, Fourier, Owen, ecc. , appariscono in quel primo e poco sviluppato periodo della lotta fra il proletariato e la borghesia, che abbiamo tratteggiato di sopra.

I ritrovatori di tali sistemi riconoscono la opposizione delle classi, e anche l’azione dell’elemento dissolvente nella società dominante. Ma non scorgono dalla parte del proletariato nessuna azione storica, nessun movimento politico che gli sia proprio.

E poiché lo sviluppo dell’antagonismo di classe va di pari passo con lo sviluppo della industria, gli autori di quei sistemi, non trovando già belle e date le condizioni materiali per la emancipazione del proletariato, si mettono in cerca di una scienza sociale, o di certe leggi sociali, come per creare quelle condizioni che non esistono ancora.

La loro personale attività inventiva deve tenere il posto dell’attività sociale, delle condizioni fantastiche devono essere sostituite alle condizioni storiche della emancipazione, a quella organizzazione del proletariato in classe, che si forma poco per volta, vien surrogata una organizzazione della società tutta nuova di sana pianta. La storia del mondo di là da venire si risolve per essi nella propaganda e nella messa in azione dei loro piani sociali.

Sanno si di rappresentare nei loro disegni gl’interessi delle classi dei lavoratori, in quanto son le classi di quelli che soffrono; ma il proletariato non esiste per essi se non sotto questo punto di vista della classe dei sofferenti.

Ma, come è naturale in uno stadio di poco sviluppo della lotta di classe, e data la condizione sociale di cotesti autori, accade che essi si credano come superiori a tutti i contrasti di classe. Essi vogliono migliorare la situazione di tutti i membri della società, compresa quella delle persone che vivono nelle condizioni più vantaggiose. Per ciò richiamano di continuo all’intera società senza far differenze, e anzi si appellano principalmente alla classe dominante. Poiché in fondo basta di aver capito il loro sistema per riconoscerlo come il miglior disegno fra tutti i possibili della miglior serietà fra tutte le possibili.

Rigettano qualsiasi azione politica, e segnatamente ogni azione rivoluzionaria; mirano a raggiungere i loro intenti per le vie pacifiche; e cercano di aprirla via al nuovo evangelo sociale per mezzo di piccoli esperimenti, che secondo l’opinione loro dovrebbero avere forza e valore di esempio, ma che in fatti, com’è naturale, falliscono.

La descrizione fantastica della società futura nasce quando il proletariato è ancor troppo poco sviluppato; cosicché esso si rappresenta appunto in modo fantastico la sua stessa situazione, secondo l’impulso primo verso una totale trasformazione della società, il quale impulso è accompagnato da vaghi presentimenti.

Cotesti scritti socialistici e comunistici contengono anche molti elementi critici. Essi attaccano tutti i fondamenti della società esistente.

Per ciò hanno offerto del materiale di gran valore per illuminare gli operai. I loro enunciati positivi su la società futura, e p.e. l’abolizione del contrasto fra città e campagna, L’abolizione della famiglia, del profitto privato, del salariato, e poi l’annunzio dell’armonia sociale, e la trasformazione dello stato in una semplice amministrazione della produzione – tutti cotesti enunciati non esprimono che lo sparire dell’antagonismo di classe, di quell’ antagonismo che comincia appena a precisarsi nel suo sviluppo, e del quale gli autori di quei sistemi hanno notizia solo nelle sue prime forme indistinte e indeterminate. Per ciò quegli enunciati hanno ancora un senso puramente utopistico.

L’importanza di cotesto socialismo e di cotesto comunismo utopistico è in ragione inversa al fatto dello sviluppo storico. A misura che la lotta di classe svolge e si precisa, cotesto fantastico disegno della lotta, cotesta fantastica opposizione alla lotta, perde ogni valore pratico ed ogni giustificazione teorica. Gli è per ciò, che, mentre gli autori di questi sistemi erano per molti rispetti dei rivoluzionarii, i loro scolari formano sempre delle sette reazionarie. Questi scolari tengon fermo alle opinioni dei maestri anche in opposizione allo sviluppo storico del proletariato, e cercano in conseguenza di smussare il contrasto di classe, e di conciliare gli antagonismi. Sognano sempre la realizzazione sperimentale delle loro utopie sociali, e cioè di stabilire falansterii (erano cosi chiamati i «palazzi sociali» ideali da Fourier), di creare colonie domestiche (Home-Colonies chiamava Owen le sue società modello di tipo comunistico), e di edificare una piccola Icaria (lcaria: il fantastico paese utopistico le cui istituzioni comuniste furono descritte da Cabet [cfr. aggiunte di Engels, in nota, all’edizione tedesca del 1890]) – rifacimento minuscolo della nuova Gerusalemme! – e per costruire cotesti castelli in aria devono fare appello alla filantropia dei cuori e delle tasche borghesi. Poco per volta discendono nella categoria dei socialisti conservatori e reazionari da noi descritti più sopra, e da quelli si distinguono solo per una più sistematica pedanteria, e per la fede da fanatici e da superstiziosi che ripongono nell’azione miracolosa della loro scienza sociale.

Si levano quindi accanitamente contro qualunque movimento politico dei lavoratori, stimando che in quel movimento si riveli una cieca incredulità rispetto al nuovo evangelo.

Così ora si vede che gli Owenisti reagiscono in Inghilterra contro i Cartisti, e i Fourieristi reagiscono in Francia contro i Riformistil (sono i radicali repubblicani francesi che facevano capo al giornale La Réforme).

 

 

  1. Posizione dei comunisti di fronte ai diversi partiti di opposizione

Per quel che abbiamo detto al capo ri, quale sia la posizione dei comunisti di fronte ai partiti operai di già costituiti s’intende da sé; e così è il caso per rispetto ai Cartisti in Inghilterra, e ai riformatori agrarii nel Nord-America (si tratta dei National Reformers, riunitisi nell’Anti-rent League (Lega anti-rendita), i quali chiedevano la distribuzione gratuita delle terre di proprietà dello Stato tra quanti fossero disposti a lavorarle).

Quei partiti combattono per fini ed interessi prossimi ed immediati, ma nel moto attuale rappresentano già il moto dell’avvenire. In Francia i comunisti si ricongiungono al partito socialista-democratico, contro la borghesia conservativa e radicale; ma non rinunziano al diritto di serbare un contegno affatto critico di fronte alle frasi ed alle illusioni, che in quel partito derivano dalla tradizione rivoluzionaria.

Nella Svizzera i comunisti sostengono i radicali, pur riconoscendo che quel partito consta di elementi contraddittorii, e cioè in parte di socialisti democratici alla francese, e in parte di radicali borghesi (i liberali-radicali svizzeri avevano appena contribuito a determinare una svolta decisiva nella vita politica del loro paese, con la vittoria riportata contro i conservatori cattolici del Sonderbund, che cercavano di impedire, anche tramite aiuti dall’estero, l’evoluzione della borghesia in senso liberale).

Fra i Polacchi i comunisti appoggiano quel partito, che fa della rivoluzione agraria la condizione per venire alla emancipazione nazionale, e cioè quel medesimo partito che promosse la insurrezione di Cracovia del 1846 (l’insurrezione di Cracovia del febbraio-marzo 1846, dai conservatori definita «comunista» ebbe in realtà, come sottolineo Marx nella sua commemorazione del 1848, carattere democratico interclassista. Lo czar Nicola I la represse ferocemente).

Tutte le volte che la borghesia proceda in Germania in modi rivoluzionarii, il partito comunistico le sarà compagno di lotta contro la monarchia assoluta, contro la proprietà feudale, e contro la piccola borghesia.

Ma mai e in nessun momento il partito comunista tralascia di risvegliare negli operai la coscienza chiara e precisa dell’antagonismo dominante, quale vera e propria ostilità, fra borghesia e proletariato; perché gli operai tedeschi sappiano subito convertire in armi dirette contro la borghesia le condizioni sociali e politiche messe in essere dal dominio borghese, onde, precipitate che siano le classi reazionarie dalla Germania, cominci senza indugio la lotta contro la borghesia.

I comunisti rivolgono i loro occhi principalmente verso la Germania, che è alla vigilia di una rivoluzione borghese: e poiché essa compirà tale rivoluzione in condizioni generalmente più progredite della civiltà europea, e con un proletariato assai più sviluppato di quel che non fosse il caso dell’Inghilterra nel secolo diciassettesimo e della Germania nel diciottesimo, così cotesto moto borghese sarà l’immediato preludio di una rivoluzione proletaria.

In una parolai comunisti appoggiano da per tutto ogni movimento rivoluzionario, che sia diretto contro il presente stato di cose politico e sociale.

In cotesti movimenti essi mettono principalmente in rilievo, come fondamento del tutto, la questione della proprietà, quale che sia la forma più o meno sviluppata, che essa questione possa avere assunto.

Infine i comunisti lavorano all’intesa ed all’unione dei partiti democratici d’ogni paese.

I comunisti disdegnano di celare le loro vedute ei loro intendimenti. Essi confessano apertamente, che i loro intenti non possono esser raggiunti se non per via della violenta sovversione del tradizionale ordinamento sociale. Che le classi dominanti paventino lo scoppio di una rivoluzione comunista. I proletarii non ci han da perdere che le loro catene. Hanno da guadagnarci tutto un mondo.

PROLETARII Dl TUTTO IL MONDO UNITEVI

Londra, febbraio 1848