PARADISO

PRESENTAZIONE

Dante aveva previsto tutto il futuro dell’umanità.

Il personaggi da lui citati nel suo Divino Messaggio sono l’esempio che indica all’uomo la via della redenzione.

Dante ci dimostra che un grande Piano Divino sovrasta tutte le creature esistenti nello sconfinato edificio cosmico; poiché l’Universo non è un casuale incontro di atomi, ma l’esecuzione di un grande disegno scaturito dalla Mente Creativa che l’uomo della Terra chiama “Dio”. Ogni galassia ha un garante spirituale, di fronte all’Equilibrio del Cosmo. Il Garante spirituale della Terra è il Cristo.

Una razza dopo l’altra, un’epoca dopo l’altra, le creature della Terra sono apparse e scomparse in un alternarsi di civiltà e culture che hanno visto l’umanità avanzare sul cammino della sofferenza nel Bene e nel Male, in obbedienza a certi schemi regolati da precise ed infallibili Leggi Universali.

Dante ci dimostra che, a tutela del divenire eterno della Creazione esistono dei responsabili della esecuzione di tale disegno, i quali, secolo dopo secolo, e senza che l’umanità se ne rendesse conto, l’anno attivamente guidata per ricondurla – cosciente – alla originaria fonte, dalla quale nella notte dei tempi ebbe il principio.

Ora, però, il valore dell’Amore come Egli lo intese, non è sul sentiero degli uomini. Conseguentemente l’uomo è in una situazione disperata, creata da lui stesso. L’aria, l’acqua, il suolo sono avvelenati, i mari inquinati, i cibi adulterati e, tragico su tutto e su tutti, l’incombente spettro atomico, batteriologico e chimico.

Tuttavia in tanta desolazione, altre forze, altri fattori ci indicano una via di salvezza. Creature intelligenti, provenienti dallo spazio esterno, sono pronte ad aiutarci. In tutto il mondo persone dotate di qualità sensoriali, derivanti dai poteri dello Spirito, sono state soggette di sondaggio animico e molte sono state scelte perché costituissero un anello di collegamento tra i fratelli della Terra e i fratelli del Cielo. Nel mondo intero, intanto, sono sorti dei centri per la divulgazione di tali messaggi, annunzianti questa operazione di soccorso.

Per necessità imposte dalla Divina Legge evolutiva, all’uomo è stato permesso di edificare, nel diritto concessogli dalla «Legge Cosmica del Libero Arbitrio», tutto ciò che ha edificato nel suo egoismo e nella sua cattiveria.

La legge di equilibrio impedisce ogni ingerenza negli affari altrui; perciò i nostri Fratelli del Cielo interverranno soltanto quando l’uomo sarà, in modo nefasto, per turbare anche la vita su altri pianeti.

 

Canto I

Ascensione di Dante e Beatrice verso il cielo e trasumanamento di Dante – impressioni e dubbi di Dante, risolti da Beatrice – Beatrice espone a Dante l’ordine dell’Universo
La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
3 in una parte più e meno altrove.

 

Canto II

Ammonimento di Dante ai lettori – ascesa di Dante e Beatrice al cielo della Luna (dove si trovano le anime di quelli che compirono i voti) – Beatrice spiega a Dante la vera origine delle macchie lunari
O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d’ascoltar, seguiti
3 dietro al mio legno che cantando varca,

 

Canto III

Anime di coloro che non compirono i voti – apparizione delle anime del cielo della Luna – Piccarda Donati – l’imperatrice Costanza – canto delle anime che si allontanano
Quel sol che pria d’amor mi scaldò ‘l petto,
di bella verità m’avea scoverto,
3 provando e riprovando, il dolce aspetto;

 

Canto IV

Anime di coloro che non compirono i voti – Beatrice spiega a Dante qual’è la vera sede dei beati e discute della volontà assoluta e di quella relativa – Dante ringrazia Beatrice e le espone un altro dubbio
Intra due cibi, distanti e moventi
d’un modo, prima si morria di fame,
3 che liber’omo l’un recasse ai denti;

 

Canto V

Anime di coloro che non compirono i voti – spiegazione di Beatrice circa l’essenza e il valore del voto – ammonimento di Beatrice ai cristiani sulla serietà dei voti – ascesa di Dante e Beatrice (dove si trovano le anime di coloro che operarono il bene per conseguire onore e fama) – apparizione festosa delle anime – Giustiniano
«S’io ti fiammeggio nel caldo d’amore
di là dal modo che ‘n terra si vede,
3 sì che del viso tuo vinco il valore,

 

Canto VI

Anime di coloro che operarono il bene per conseguire onore e fama – Giustiniano: sua vita, storia dell’aquila imperiale, invettiva contro guelfi e ghibellini, condizione delle anime, Romeo di Villanova
«Poscia che Costantin l’aquila volse
contr’al corso del ciel, ch’ella seguio
3 dietro a l’antico che Lavina tolse,

 

Canto VII

Anime di coloro che operarono il bene per conseguire onore e fama – canto e danza di Giustiniano – Beatrice spiega a Dante come furono giuste la morte di Cristo e la punizione di chi volle tale morte, nonché la ragione per cui sia stato redento il genere umano proprio con la morte di Cristo – Beatrice parla della corruttibilità degli elementi e della resurrezione della carne
«Osanna, sanctus Deus sabaòth,
superillustrans claritate tua
3 felices ignes horum malacòth!»

 

Canto VIII

Ascesa al cielo di Venere – apparizione di spiriti festanti – Carlo Martello – Dante domanda spiegazione di come i figli possono aver indoli diverse dai padri: risposte di Carlo Martello
Solea creder lo mondo in suo periclo
che la bella Ciprigna il folle amore
3 raggiasse, volta nel terzo epiciclo;

 

Canto IX

Carlo Martello – Cunizza da Romano – Folco da Marsiglia, che addita Raab a Dante e inveisce contro Firenze e contro la cupidigia degli ecclesiastici
Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza,
m’ebbe chiarito, mi narrò li ‘nganni
3 che ricever dovea la sua semenza;

 

Canto X

Digressione sull’ordine della creazione e ammonimento al lettore – ascesa al cielo del Sole (dove si trovano le anime dei sapienti) – canto e danza dei beati – san Tommaso d’Aquino
Guardando nel suo Figlio con l’Amore
che l’uno e l’altro etternalmente spira,
3 lo primo e ineffabile Valore

 

Canto XI

Cielo del Sole:
anime dei sapienti – vanità dei beni mondani – dubbi di Dante – san Tommaso d’Aquino narra a Dante la vita di san Francesco e spiega per quali motivi l’ordine domenicano sia andato degenerando
O insensata cura de’ mortali,
quanto son difettivi silogismi
3 quei che ti fanno in basso batter l’ali!

 

Canto XII

Cielo del Sole:
anime dei sapienti – apparizione di altre anime – san Bonaventura celebra la vita e l’opera di san Domenico, spiega le cause della degenerazione dell’ordine francescano e addita a Dante i beati della sua corona
Sì tosto come l’ultima parola
la benedetta fiamma per dir tolse,
3 a rotar cominciò la santa mola;

Canto XIII

Cielo del Sole:
anime dei sapienti – danza e canto dei beati – spiegazione di san Tommaso circa la sapienza d’Adamo, di Salomone e di Cristo e ammonimento agli uomini affinché siano guardinghi nel giudicare
Imagini, chi bene intender cupe
quel ch’i’ or vidi – e ritegna l’image,
3 mentre ch’io dico, come ferma rupe -,

 

Canto XIV

Cielo del Sole:
anime dei sapienti – Salomone scioglie a Dante un dubbio circa la luminosità dei beati dopo la resurrezione dei corpi – apparizione di una terza corona di spiriti – ascesa di Dante e Beatrice al cielo di Marte (dove si trovano le anime dei combattenti per la fede) – apparizione di spiriti luminosissimi dentro una croce bianca in cui lampeggia Cristo – rapimento estatico di Dante
Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro
movesi l’acqua in un ritondo vaso,
3 secondo ch’è percosso fuori o dentro:

 

Canto XV

Cielo di Marte:
anime dei combattenti per la fede – Festosa accoglienza a Dante, riconosciuto da un Essere superiore. Lodi di Firenze antica, narrazione della sua vita
Benigna volontade in che si liqua
sempre l’amor che drittamente spira,
3 come cupidità fa ne la iniqua,

 

Canto XVI

Qui viene espresso il misero valore della nobiltà di sangue e l’alto concetto della spiritualità, nel ricordo del ben vivere nell’umiltà delle illustri famiglie fiorentine del passato
O poca nostra nobiltà di sangue,
se glorïar di te la gente fai
3 qua giù dove l’affetto nostro langue,

 

Canto XVII

L’Anima superiore illuminata di sapienza divina, predice a Dante le dolorose vicende che lo attendono. Dante gli chiede consiglio ed egli lo esorta a non aver paura e di riferire al mondo terreno tutto ciò che ha veduto durante il suo viaggio ultramondano
Qual venne a Climené, per accertarsi
di ciò ch’avëa incontro a sé udito,
3 quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi;

 

Canto XVIII

Anime dei combattenti per la fede – Cacciaguida mostra a Dante le altre anime beate – ascesa al cielo – le lettere luminose e la figura dell’aquila imperiale – invettiva di Dante contro la Curia romana e l’avarizia degli ecclesiastici
Già si godeva solo del suo verbo
quello specchio beato, e io gustava
3 lo mio, temprando col dolce l’acerbo;

 

Canto XIX

L’aquila parla a Dante e gli dimostra che la giustizia divina è imperscrutabile ai mortali e gli spiega come per la salvezza siano necessarie la fede e le opere; poi accenna alla perversità dei regnanti cristiani in tutta Europa
Parea dinanzi a me con l’ali aperte
la bella image che nel dolce frui
3 liete facevan l’anime conserte;

 

Canto XX

Canto dei beati formanti l’aquila – le anime dei beati che formano l’occhio dell’aquila – l’aquila spiega a Dante perché le anime dei pagani Traiano e Rifeo si trovino in Paradiso e disserta sulla predestinazione
Quando colui che tutto ‘l mondo alluma
de l’emisperio nostro sì discende,
3 che ‘l giorno d’ogne parte si consuma,

 

Canto XXI

Ascesa di Dante e Beatrice – san Pier Damiani parla della sua vita e biasima il lusso degli ecclesiastici – alto grido delle anime
Già eran li occhi miei rifissi al volto
de la mia donna, e l’animo con essi,
3 e da ogne altro intento s’era tolto.

 

Canto XXII

Stupore di Dante e conforti di Beatrice – san Benedetto parla di sé e della corruzione dei monasteri – ascesa di Dante e Beatrice – invocazione di Dante ai Gemelli – sguardo ai sette cieli percorsi e alla terra
Oppresso di stupore, a la mia guida
mi volsi, come parvol che ricorre
3 sempre colà dove più si confida;

 

Canto XXIII

Visione del trionfo di Cristo – bellezza ineffabile di Beatrice – Maria illuminata dall’arcangelo Gabriele e inno dei beati in suo onore
Come l’augello, intra l’amate fronde,
posato al nido de’ suoi dolci nati
3 la notte che le cose ci nasconde,

 

Canto XXIV

Preghiera di Beatrice ai Beati per Dante – san Pietro esamina Dante sulla fede – calorosa approvazione di san Pietro alle risposte di Dante
«O sodalizio eletto a la gran cena
del benedetto Agnello, il qual vi ciba
3 sì, che la vostra voglia è sempre piena,

 

Canto XXV

Desiderio di Dante di rivedere la patria – san Giacomo esamina Dante intorno alla speranza – approvazione generale – apparizione di san Giovanni Evangelista – momentanea cecità di Dante
Se mai continga che ‘l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra,
3 sì che m’ha fatto per molti anni macro,

 

Canto XXVI

San Giovanni Evangelista esamina Dante sulla carità – Dante riacquista la vista – L’anima prima
Mentr’io dubbiava per lo viso spento,
de la fulgida fiamma che lo spense
3 uscì un spiro che mi fece attento,

 

Canto XXVII

Inno dei beati a Dio – invettiva di san Pietro contro la corruzione dei papi – ritorno dei beati – sguardo alla terra – ascesa al cielo – Beatrice dà spiegazioni e lamenta la cupidigia degli uomini
«Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo»,
cominciò, ‘gloria!’, tutto ‘l paradiso,
3 sì che m’inebrïava il dolce canto.

 

Canto XXVIII

Il punto luminosissimo (Dio) e i nove cerchi di fuoco (cori angelici) che vi girano attorno – spiegazione di Beatrice intorno ai nove cieli e ai nove cerchi angelici – ordinamento dei cori angelici
Poscia che ‘ncontro a la vita presente
d’i miseri mortali aperse ‘l vero
3 quella che ‘mparadisa la mia mente,

 

Canto XXIX

Beatrice spiega a Dante l’essenza degli angeli e la loro creazione e condanna le dottrine false di numerosi teologi – altre osservazioni di Beatrice sulle creature angeliche
Quando ambedue li figli di Latona,
coperti del Montone e de la Libra,
3 fanno de l’orizzonte insieme zona,

 

Canto XXX

Sparizione del punto e dei nove cerchi luminosi – ascesa all’Empireo – fiume di luce, faville e fiori – la candida rosa e le due corti celesti – il seggio preparato per Arrigo VII
Forse semilia miglia di lontano
ci ferve l’ora sesta, e questo mondo
3 china già l’ombra quasi al letto piano,

 

Canto XXXI

La candida rosa – stupore di Dante – Beatrice lascia Dante e va a sedere nel suo seggio – san Bernardo: suoi conforti e consigli – Dante ha la visione di Maria, Regina del cielo
In forma dunque di candida rosa
mi si mostrava la milizia santa
3 che nel suo sangue Cristo fece sposa;

 

Canto XXXII

San Bernardo mostra a Dante i beati della candida rosa e gli risolve un dubbio circa la varia beatitudine dei pargoli innocenti – Maria glorificata dall’arcangelo Gabriele, da tutti gli angeli e dai beati – altri beati della rosa – san Bernardo s’appresta a rivolgere la preghiera a Maria perché procuri a Dante la grazia
Affetto al suo piacer, quel contemplante
libero officio di dottore assunse,
3 e cominciò queste parole sante:

 

Canto XXXIII

Preghiera di san Bernardo alla Vergine – Dante ha la visione di Dio, della Trinità, dell’Incarnazione
«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
3 termine fisso d’etterno consiglio,

 

Canto I

La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
3 in una parte più e meno altrove.

Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
6 né sa né può chi di là sù discende;

perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
9 che dietro la memoria non può ire.

Veramente quant’io del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro,
12 sarà ora materia del mio canto.

O buono Appollo, a l’ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
15 come dimandi a dar l’amato alloro.

Infino a qui l’un giogo di Parnaso
assai mi fu; ma or con amendue
18 m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso.

Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsïa traesti
21 de la vagina de le membra sue.

O divina virtù, se mi ti presti
tanto che l’ombra del beato regno
24 segnata nel mio capo io manifesti,

vedra’mi al piè del tuo diletto legno
venire, e coronarmi de le foglie
27 che la materia e tu mi farai degno.

Sì rade volte, padre, se ne coglie
per triunfare o cesare o poeta,
30 colpa e vergogna de l’umane voglie,

che parturir letizia in su la lieta
delfica deità dovria la fronda
33 peneia, quando alcun di sé asseta.

Poca favilla gran fiamma seconda:
forse di retro a me con miglior voci
36 si pregherà perché Cirra risponda.

Surge ai mortali per diverse foci
la lucerna del mondo; ma da quella
39 che quattro cerchi giugne con tre croci,

con miglior corso e con migliore stella
esce congiunta, e la mondana cera
42 più a suo modo tempera e suggella.

Fatto avea di là mane e di qua sera
tal foce, e quasi tutto era là bianco
45 quello emisperio, e l’altra parte nera,

quando Beatrice in sul sinistro fianco
vidi rivolta e riguardar nel sole:
48 aguglia sì non li s’affisse unquanco.

E sì come secondo raggio suole
uscir del primo e risalire in suso,
51 pur come pelegrin che tornar vuole,

così de l’atto suo, per li occhi infuso
ne l’imagine mia, il mio si fece,
54 e fissi li occhi al sole oltre nostr’uso.

Molto è licito là, che qui non lece
a le nostre virtù, mercé del loco
57 fatto per proprio de l’umana spece.

Io nol soffersi molto, né sì poco,
ch’io nol vedessi sfavillar dintorno,
60 com’ ferro che bogliente esce del foco;

e di subito parve giorno a giorno
essere aggiunto, come quei che puote
63 avesse il ciel d’un altro sole addorno.

Beatrice tutta ne l’etterne rote
fissa con li occhi stava; e io in lei
66 le luci fissi, di là sù rimote.

Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de l’erba
69 che ‘l fé consorto in mar de li altri dèi.

Trasumanar significar per verba
non si poria; però l’essemplo basti
72 a cui esperïenza grazia serba.

S’i’ era sol di me quel che creasti
novellamente, amor che ‘l ciel governi,
75 tu ‘l sai, che col tuo lume mi levasti.

Quando la rota che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
78 con l’armonia che temperi e discerni,

parvemi tanto allor del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
81 lago non fece alcun tanto disteso.

La novità del suono e ‘l grande lume
di lor cagion m’accesero un disio
84 mai non sentito di cotanto acume.

Ond’ella, che vedea me sì com’io,
a quïetarmi l’animo commosso,
87 pria ch’io a dimandar, la bocca aprio,

e cominciò: «Tu stesso ti fai grosso
col falso imaginar, sì che non vedi
90 ciò che vedresti se l’avessi scosso.

Tu non se’ in terra, sì come tu credi;
ma folgore, fuggendo il proprio sito,
93 non corse come tu ch’ad esso riedi».

S’io fui del primo dubbio disvestito
per le sorrise parolette brevi,
96 dentro ad un nuovo più fu’ inretito,

e dissi: «Già contento requïevi
di grande ammirazion; ma ora ammiro
99 com’io trascenda questi corpi levi».

Ond’ella, appresso d’un pio sospiro,
li occhi drizzò ver’ me con quel sembiante
102 che madre fa sovra figlio deliro,

e cominciò: «Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
105 che l’universo a Dio fa simigliante.

Qui veggion l’alte creature l’orma
de l’etterno valore, il qual è fine
108 al quale è fatta la toccata norma.

Ne l’ordine ch’io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
111 più al principio loro e men vicine;

onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar de l’essere, e ciascuna
114 con istinto a lei dato che la porti.

Questi ne porta il foco inver’ la luna;
questi ne’ cor mortali è permotore;
117 questi la terra in sé stringe e aduna;

né pur le creature che son fore
d’intelligenza quest’arco saetta
120 ma quelle c’hanno intelletto e amore.

La provedenza, che cotanto assetta,
del suo lume fa ‘l ciel sempre quïeto
123 nel qual si volge quel c’ha maggior fretta;

e ora lì, come a sito decreto,
cen porta la virtù di quella corda
126 che ciò che scocca drizza in segno lieto.

Vero è che, come forma non s’accorda
molte fiate a l’intenzion de l’arte,
129 perch’a risponder la materia è sorda,

così da questo corso si diparte
talor la creatura, c’ha podere
132 di piegar, così pinta, in altra parte;

e sì come veder si può cadere
foco di nube, sì l’impeto primo
135 l’atterra torto da falso piacere.

Non dei più ammirar, se bene stimo,
lo tuo salir, se non come d’un rivo
138 se d’alto monte scende giuso ad imo.

Maraviglia sarebbe in te se, privo
d’impedimento, giù ti fossi assiso,
com’a terra quiete in foco vivo».
142 Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso.

Canto II

O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d’ascoltar, seguiti
3 dietro al mio legno che cantando varca,

tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché forse,
6 perdendo me, rimarreste smarriti.

L’acqua ch’io prendo già mai non si corse;
Minerva spira, e conducemi Apollo,
9 e nove Muse mi dimostran l’Orse.

Voialtri pochi che drizzaste il collo
per tempo al pan de li angeli, del quale
12 vivesi qui ma non sen vien satollo,

metter potete ben per l’alto sale
vostro navigio, servando mio solco
15 dinanzi a l’acqua che ritorna equale.

Que’ glorïosi che passaro al Colco
non s’ammiraron come voi farete,
18 quando Iasòn vider fatto bifolco.

La concreata e perpetüa sete
del deïforme regno cen portava
21 veloci quasi come ‘l ciel vedete.

Beatrice in suso, e io in lei guardava;
e forse in tanto in quanto un quadrel posa
24 e vola e da la noce si dischiava,

giunto mi vidi ove mirabil cosa
mi torse il viso a sé; e però quella
27 cui non potea mia cura essere ascosa,

volta ver’ me, sì lieta come bella:
«Drizza la mente in Dio grata», mi disse,
30 «che n’ha congiunti con la prima stella».

Parev’a me che nube ne coprisse
lucida, spessa, solida e pulita,
33 quasi adamante che lo sol ferisse.

Per entro sé l’etterna margarita
ne ricevette, com’acqua recepe
36 raggio di luce permanendo unita.

S’io era corpo, e qui non si concepe
com’una dimensione altra patio,
39 ch’esser convien se corpo in corpo repe,

accender ne dovria più il disio
di veder quella essenza in che si vede
42 come nostra natura e Dio s’unio.

Lì si vedrà ciò che tenem per fede,
non dimostrato, ma fia per sé noto
45 a guisa del ver primo che l’uom crede.

Io rispuosi: «Madonna, sì devoto
com’esser posso più, ringrazio lui
48 lo qual dal mortal mondo m’ha remoto.

Ma ditemi: che son li segni bui
di questo corpo, che là giuso in terra
51 fan di Cain favoleggiare altrui?»

Ella sorrise alquanto, e poi «S’elli erra
l’oppïnion», mi disse, «d’i mortali
54 dove chiave di senso non diserra,

certo non ti dovrien punger li strali
d’ammirazione omai, poi dietro ai sensi
57 vedi che la ragione ha corte l’ali.

Ma dimmi quel che tu da te ne pensi».
E io: «Ciò che n’appar qua sù diverso
60 credo che fanno i corpi rari e densi».

Ed ella: «Certo assai vedrai sommerso
nel falso il creder tuo, se bene ascolti
63 l’argomentar ch’io li farò avverso.

La spera ottava vi dimostra molti
lumi, li quali e nel quale e nel quanto
66 notar si posson di diversi volti.

Se raro e denso ciò facesser tanto,
una sola virtù sarebbe in tutti,
69 più e men distributa e altrettanto.

Virtù diverse esser convegnon frutti
di princìpi formali, e quei, for ch’uno,
72 seguiterieno a tua ragion distrutti.

Ancor, se raro fosse di quel bruno
cagion che tu dimandi, o d’oltre in parte
75 fora di sua materia sì digiuno

esto pianeto, o, sì come comparte
lo grasso e ‘l magro un corpo, così questo
78 nel suo volume cangerebbe carte.

Se ‘l primo fosse, fora manifesto
ne l’eclissi del sol per trasparere
81 lo lume come in altro raro ingesto.

Questo non è: però è da vedere
de l’altro; e s’elli avvien ch’io l’altro cassi,
84 falsificato fia lo tuo parere.

S’elli è che questo raro non trapassi,
esser conviene un termine da onde
87 lo suo contrario più passar non lassi;

e indi l’altrui raggio si rifonde
così come color torna per vetro
90 lo qual di retro a sé piombo nasconde.

Or dirai tu ch’el si dimostra tetro
ivi lo raggio più che in altre parti,
93 per esser lì refratto più a retro.

Da questa instanza può deliberarti
esperienza, se già mai la provi,
96 ch’esser suol fonte ai rivi di vostr’arti.

Tre specchi prenderai; e i due rimovi
da te d’un modo, e l’altro, più rimosso,
99 tr’ambo li primi li occhi tuoi ritrovi.

Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso
ti stea un lume che i tre specchi accenda
102 e torni a te da tutti ripercosso.

Ben che nel quanto tanto non si stenda
la vista più lontana, lì vedrai
105 come convien ch’igualmente risplenda.

Or, come ai colpi de li caldi rai
de la neve riman nudo il suggetto
108 e dal colore e dal freddo primai,

così rimaso te ne l’intelletto
voglio informar di luce sì vivace,
111 che ti tremolerà nel suo aspetto.

Dentro dal ciel de la divina pace
si gira un corpo ne la cui virtute
114 l’esser di tutto suo contento giace.

Lo ciel seguente, c’ha tante vedute,
quell’esser parte per diverse essenze,
117 da lui distratte e da lui contenute.

Li altri giron per varie differenze
le distinzion che dentro da sé hanno
120 dispongono a lor fini e lor semenze.

Questi organi del mondo così vanno,
come tu vedi omai, di grado in grado,
123 che di sù prendono e di sotto fanno.

Riguarda bene omai sì com’io vado
per questo loco al vero che disiri,
126 sì che poi sappi sol tener lo guado.

Lo moto e la virtù d’i santi giri,
come dal fabbro l’arte del martello,
129 da’ beati motor convien che spiri;

e ‘l ciel cui tanti lumi fanno bello,
de la mente profonda che lui volve
132 prende l’image e fassene suggello.

E come l’alma dentro a vostra polve
per differenti membra e conformate
135 a diverse potenze si risolve,

così l’intelligenza sua bontate
multiplicata per le stelle spiega,
138 girando sé sovra sua unitate.

Virtù diversa fa diversa lega
col prezïoso corpo ch’ella avviva,
141 nel qual, sì come vita in voi, si lega.

Per la natura lieta onde deriva,
la virtù mista per lo corpo luce
144 come letizia per pupilla viva.

Da essa vien ciò che da luce a luce
par differente, non da denso e raro;
essa è formal principio che produce,
148 conforme a sua bontà, lo turbo e ‘l chiaro».

Canto III

Quel sol che pria d’amor mi scaldò ‘l petto,
di bella verità m’avea scoverto,
3 provando e riprovando, il dolce aspetto;

e io, per confessar corretto e certo
me stesso, tanto quanto si convenne
6 leva’ il capo a proferer più erto;

ma visione apparve che ritenne
a sé me tanto stretto, per vedersi,
9 che di mia confession non mi sovvenne.

Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
12 non sì profonde che i fondi sien persi,

tornan d’i nostri visi le postille
debili sì, che perla in bianca fronte
15 non vien men forte a le nostre pupille;

tali vid’io più facce a parlar pronte;
per ch’io dentro a l’error contrario corsi
18 a quel ch’accese amor tra l’omo e ‘l fonte.

Sùbito sì com’io di lor m’accorsi,
quelle stimando specchiati sembianti,
21 per veder di cui fosser, li occhi torsi;

e nulla vidi, e ritorsili avanti
dritti nel lume de la dolce guida,
24 che, sorridendo, ardea ne li occhi santi.

«Non ti maravigliar perch’io sorrida»,
mi disse, «appresso il tuo pueril coto,
27 poi sopra ‘l vero ancor lo piè non fida,

ma te rivolve, come suole, a vòto:
vere sustanze son ciò che tu vedi,
30 qui rilegate per manco di voto.

Però parla con esse e odi e credi;
ché la verace luce che li appaga
33 da sé non lascia lor torcer li piedi».

E io a l’ombra che parea più vaga
di ragionar, drizza’mi, e cominciai,
36 quasi com’uom cui troppa voglia smaga:

«O ben creato spirito, che a’ rai
di vita etterna la dolcezza senti
39 che, non gustata, non s’intende mai,

grazioso mi fia se mi contenti
del nome tuo e de la vostra sorte».
42 Ond’ella, pronta e con occhi ridenti:

«La nostra carità non serra porte
a giusta voglia, se non come quella
45 che vuol simile a sé tutta sua corte.

I’ fui nel mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben sé riguarda,
48 non mi ti celerà l’esser più bella,

ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda,
che, posta qui con questi altri beati,
51 beata sono in la spera più tarda.

Li nostri affetti, che solo infiammati
son nel piacer de lo Spirito Santo,
54 letizian del suo ordine formati.

E questa sorte che par giù cotanto,
però n’è data, perché fuor negletti
57 li nostri voti, e vòti in alcun canto».

Ond’io a lei: «Ne’ mirabili aspetti
vostri risplende non so che divino
60 che vi trasmuta da’ primi concetti:

però non fui a rimembrar festino;
ma or m’aiuta ciò che tu mi dici,
63 sì che raffigurar m’è più latino.

Ma dimmi: voi che siete qui felici,
disiderate voi più alto loco
66 per più vedere e per più farvi amici?»

Con quelle altr’ombre pria sorrise un poco;
da indi mi rispuose tanto lieta,
69 ch’arder parea d’amor nel primo foco:

«Frate, la nostra volontà quieta
virtù di carità, che fa volerne
72 sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta.

Se disiassimo esser più superne,
foran discordi li nostri disiri
75 dal voler di colui che qui ne cerne;

che vedrai non capere in questi giri,
s’essere in carità è qui necesse,
78 e se la sua natura ben rimiri.

Anzi è formale ad esto beato esse
tenersi dentro a la divina voglia,
81 per ch’una fansi nostre voglie stesse;

sì che, come noi sem di soglia in soglia
per questo regno, a tutto il regno piace
84 com’a lo re che ‘n suo voler ne ‘nvoglia.

E ‘n la sua volontade è nostra pace:
ell’è quel mare al qual tutto si move
87 ciò ch’ella crïa o che natura face».

Chiaro mi fu allor come ogne dove
in cielo è paradiso, etsi la grazia
90 del sommo ben d’un modo non vi piove.

Ma sì com’elli avvien, s’un cibo sazia
e d’un altro rimane ancor la gola,
93 che quel si chere e di quel si ringrazia,

così fec’io con atto e con parola,
per apprender da lei qual fu la tela
96 onde non trasse infino a co la spuola.

«Perfetta vita e alto merto inciela
donna più sù», mi disse, «a la cui norma
99 nel vostro mondo giù si veste e vela,

perché fino al morir si vegghi e dorma
con quello sposo ch’ogne voto accetta
102 che caritate a suo piacer conforma.

Dal mondo, per seguirla, giovinetta
fuggi’mi, e nel suo abito mi chiusi
105 e promisi la via de la sua setta.

Uomini poi, a mal più ch’a bene usi,
fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
108 Iddio si sa qual poi mia vita fusi.

E quest’altro splendor che ti si mostra
da la mia destra parte e che s’accende
111 di tutto il lume de la spera nostra,

ciò ch’io dico di me, di sé intende;
sorella fu, e così le fu tolta
114 di capo l’ombra de le sacre bende.

Ma poi che pur al mondo fu rivolta
contra suo grado e contra buona usanza,
117 non fu dal vel del cor già mai disciolta.

Quest’è la luce de la gran Costanza
che del secondo vento di Soave
120 generò ‘l terzo e l’ultima possanza».

Così parlommi, e poi cominciò ‘Ave,
Maria’
cantando, e cantando vanio
123 come per acqua cupa cosa grave.

La vista mia, che tanto lei seguio
quanto possibil fu, poi che la perse,
126 volsesi al segno di maggior disio,

e a Beatrice tutta si converse;
ma quella folgorò nel mio sguardo
sì che da prima il viso non sofferse;
130 e ciò mi fece a dimandar più tardo.

Canto IV

Intra due cibi, distanti e moventi
d’un modo, prima si morria di fame,
3 che liber’omo l’un recasse ai denti;

sì si starebbe un agno intra due brame
di fieri lupi, igualmente temendo;
6 sì si starebbe un cane intra due dame:

per che, s’i’ mi tacea, me non riprendo,
da li miei dubbi d’un modo sospinto,
9 poi ch’era necessario, né commendo.

Io mi tacea, ma ‘l mio disir dipinto
m’era nel viso, e ‘l dimandar con ello,
12 più caldo assai che per parlar distinto.

Fé sì Beatrice qual fé Daniello,
Nabuccodonosor levando d’ira,
15 che l’avea fatto ingiustamente fello;

e disse: «Io veggio ben come ti tira
uno e altro disio, sì che tua cura
18 sé stessa lega sì che fuor non spira.

Tu argomenti: ‘Se ‘l buon voler dura,
la vïolenza altrui per qual ragione
21 di meritar mi scema la misura?’

Ancor di dubitar ti dà cagione
parer tornarsi l’anime a le stelle,
24 secondo la sentenza di Platone.

Queste son le question che nel tuo velle
pontano igualmente; e però pria
27 tratterò quella che più ha di felle.

D’i Serafin colui che più s’india,
Moïsè, Samuel, e quel Giovanni
30 che prender vuoli, io dico, non Maria,

non hanno in altro cielo i loro scanni
che questi spirti che mo t’appariro,
33 né hanno a l’esser lor più o meno anni;

ma tutti fanno bello il primo giro,
e differentemente han dolce vita
36 per sentir più e men l’etterno spiro.

Qui si mostraro, non perché sortita
sia questa spera lor, ma per far segno
39 de la celestïal c’ha men salita.

Così parlar conviensi al vostro ingegno,
però che solo da sensato apprende
42 ciò che fa poscia d’intelletto degno.

Per questo la Scrittura condescende
a vostra facultate, e piedi e mano
45 attribuisce a Dio, e altro intende;

e Santa Chiesa con aspetto umano
Gabrïel e Michel vi rappresenta,
48 e l’altro che Tobia rifece sano.

Quel che Timeo de l’anime argomenta
non è simile a ciò che qui si vede,
51 però che, come dice, par che senta.

Dice che l’alma a la sua stella riede,
credendo quella quindi esser decisa
54 quando natura per forma la diede;

e forse sua sentenza è d’altra guisa
che la voce non suona, ed esser puote
57 con intenzion da non esser derisa.

S’elli intende tornare a queste ruote
l’onor de la influenza e ‘l biasmo, forse
60 in alcun vero suo arco percuote.

Questo principio, male inteso, torse
già tutto il mondo quasi, sì che Giove,
63 Mercurio e Marte a nominar trascorse.

L’altra dubitazion che ti commove
ha men velen, però che sua malizia
66 non ti poria menar da me altrove.

Parere ingiusta la nostra giustizia
ne li occhi d’i mortali, è argomento
69 di fede e non d’eretica nequizia.

Ma perché puote vostro accorgimento
ben penetrare a questa veritate,
72 come disiri, ti farò contento.

Se vïolenza è quando quel che pate
niente conferisce a quel che sforza,
75 non fuor quest’alme per essa scusate;

ché volontà, se non vuol, non s’ammorza,
ma fa come natura face in foco,
78 se mille volte vïolenza il torza.

Per che, s’ella si piega assai o poco,
segue la forza; e così queste fero
81 possendo rifuggir nel santo loco.

Se fosse stato lor volere intero,
come tenne Lorenzo in su la grada,
84 e fece Muzio a la sua man severo,

così l’avria ripinte per la strada
ond’eran tratte, come fuoro sciolte;
87 ma così salda voglia è troppo rada.

E per queste parole, se ricolte
l’hai come dei, è l’argomento casso
90 che t’avria fatto noia ancor più volte.

Ma or ti s’attraversa un altro passo
dinanzi a li occhi, tal che per te stesso
93 non usciresti: pria saresti lasso.

Io t’ho per certo ne la mente messo
ch’alma beata non poria mentire,
96 però ch’è sempre al primo vero appresso;

e poi potesti da Piccarda udire
che l’affezion del vel Costanza tenne;
99 sì ch’ella par qui meco contradire.

Molte fïate già, frate, addivenne
che, per fuggir periglio, contra grato
102 si fé di quel che far non si convenne;

come Almeone, che, di ciò pregato
dal padre suo, la propria madre spense,
105 per non perder pietà, si fé spietato.

A questo punto voglio che tu pense
che la forza al voler si mischia, e fanno
108 sì che scusar non si posson l’offense.

Voglia assoluta non consente al danno;
ma consentevi in tanto in quanto teme,
111 se si ritrae, cadere in più affanno.

Però, quando Piccarda quello spreme,
de la voglia assoluta intende, e io
114 de l’altra; sì che ver diciamo insieme».

Cotal fu l’ondeggiar del santo rio
ch’uscì del fonte ond’ogne ver deriva;
117 tal puose in pace uno e altro disio.

«O amanza del primo amante, o diva»,
diss’io appresso, «il cui parlar m’inonda
120 e scalda sì, che più e più m’avviva,

non è l’affezion mia tanto profonda,
che basti a render voi grazia per grazia;
123 ma quei che vede e puote a ciò risponda.

Io veggio ben che già mai non si sazia
nostro intelletto, se ‘l ver non lo illustra
126 di fuor dal qual nessun vero si spazia.

Posasi in esso, come fera in lustra,
tosto che giunto l’ha; e giugner puollo:
129 se non, ciascun disio sarebbe frustra.

Nasce per quello, a guisa di rampollo,
a piè del vero il dubbio; ed è natura
132 ch’al sommo pinge noi di collo in collo.

Questo m’invita, questo m’assicura
con reverenza, donna, a dimandarvi
135 d’un’altra verità che m’è oscura.

Io vo’ saper se l’uom può sodisfarvi
ai voti manchi sì con altri beni,
138 ch’a la vostra statera non sien parvi».

Beatrice mi guardò con li occhi pieni
di faville d’amor così divini,
che, vinta, mia virtute diè le reni,
142 e quasi mi perdei con li occhi chini.

Canto V

«S’io ti fiammeggio nel caldo d’amore
di là dal modo che ‘n terra si vede,
3 sì che del viso tuo vinco il valore,

non ti maravigliar; ché ciò procede
da perfetto veder, che, come apprende,
6 così nel bene appreso move il piede.

Io veggio ben sì come già resplende
ne l’intelletto tuo l’etterna luce,
9 che, vista, sola e sempre amore accende;

e s’altra cosa vostro amor seduce,
non è se non di quella alcun vestigio,
12 mal conosciuto, che quivi traluce.

Tu vuo’ saper se con altro servigio,
per manco voto, si può render tanto
15 che l’anima sicuri di letigio».

Sì cominciò Beatrice questo canto;
e sì com’uom che suo parlar non spezza,
18 continüò così ‘l processo santo:

«Lo maggior don che Dio per sua larghezza
fesse creando, e a la sua bontate
21 più conformato, e quel ch’e’ più apprezza,

fu de la volontà la libertate;
di che le creature intelligenti,
24 e tutte e sole, fuoro e son dotate.

Or ti parrà, se tu quinci argomenti,
l’alto valor del voto, s’è sì fatto
27 che Dio consenta quando tu consenti;

ché, nel fermar tra Dio e l’uomo il patto,
vittima fassi di questo tesoro,
30 tal quale io dico; e fassi col suo atto.

Dunque che render puossi per ristoro?
Se credi bene usar quel c’hai offerto,
33 di maltolletto vuo’ far buon lavoro.

Tu se’ omai del maggior punto certo;
ma perché Santa Chiesa in ciò dispensa,
36 che par contra lo ver ch’i’ t’ho scoverto,

convienti ancor sedere un poco a mensa,
però che ‘l cibo rigido c’hai preso,
39 richiede ancora aiuto a tua dispensa.

Apri la mente a quel ch’io ti paleso
e fermalvi entro; ché non fa scïenza,
42 sanza lo ritenere, avere inteso.

Due cose si convegnono a l’essenza
di questo sacrificio: l’una è quella
45 di che si fa; l’altr’è la convenenza.

Quest’ultima già mai non si cancella
se non servata; e intorno di lei
48 sì preciso di sopra si favella:

però necessitato fu a li Ebrei
pur l’offerere, ancor ch’alcuna offerta
51 sì permutasse, come saver dei.

L’altra, che per materia t’è aperta,
puote ben esser tal, che non si falla
54 se con altra materia si converta.

Ma non trasmuti carco a la sua spalla
per suo arbitrio alcun, sanza la volta
57 e de la chiave bianca e de la gialla;

e ogne permutanza credi stolta,
se la cosa dimessa in la sorpresa
60 come ‘l quattro nel sei non è raccolta.

Però qualunque cosa tanto pesa
per suo valor che tragga ogne bilancia,
63 sodisfar non si può con altra spesa.

Non prendan li mortali il voto a ciancia;
siate fedeli, e a ciò far non bieci,
66 come Ieptè a la sua prima mancia;

cui più si convenia dicer ‘Mal feci’,
che, servando, far peggio; e così stolto
69 ritrovar puoi il gran duca de’ Greci,

onde pianse Efigènia il suo bel volto,
e fé pianger di sé i folli e i savi
72 ch’udir parlar di così fatto cólto.

Siate, Cristiani, a muovervi più gravi:
non siate come penna ad ogne vento,
75 e non crediate ch’ogne acqua vi lavi.

Avete il novo e ‘l vecchio Testamento,
e ‘l pastor de la Chiesa che vi guida;
78 questo vi basti a vostro salvamento.

Se mala cupidigia altro vi grida,
uomini siate, e non pecore matte,
81 sì che ‘l Giudeo di voi tra voi non rida!

Non fate com’agnel che lascia il latte
de la sua madre, e semplice e lascivo
84 seco medesmo a suo piacer combatte!»

Così Beatrice a me com’io scrivo;
poi si rivolse tutta disïante
87 a quella parte ove ‘l mondo è più vivo.

Lo suo tacere e ‘l trasmutar sembiante
puoser silenzio al mio cupido ingegno,
90 che già nuove questioni avea davante;

e sì come saetta che nel segno
percuote pria che sia la corda queta,
93 così corremmo nel secondo regno.

Quivi la donna mia vid’io sì lieta,
come nel lume di quel ciel si mise,
96 che più lucente se ne fé ‘l pianeta.

E se la stella si cambiò e rise,
qual mi fec’io che pur da mia natura
99 trasmutabile son per tutte guise!

Come ‘n peschiera ch’è tranquilla e pura
traggonsi i pesci a ciò che vien di fori
102 per modo che lo stimin lor pastura,

sì vid’io ben più di mille splendori
trarsi ver’ noi, e in ciascun s’udìa:
105 «Ecco chi crescerà li nostri amori».

E sì come ciascuno a noi venìa,
vedeasi l’ombra piena di letizia
108 nel folgór chiaro che di lei uscia.

Pensa, lettor, se quel che qui s’inizia
non procedesse, come tu avresti
111 di più savere angosciosa carizia;

e per te vederai come da questi
m’era in disio d’udir lor condizioni,
114 sì come a li occhi mi fur manifesti.

«O bene nato a cui veder li troni
del trïunfo etternal concede grazia
117 prima che la milizia s’abbandoni,

del lume che per tutto il ciel si spazia
noi semo accesi; e però, se disii
120 di noi chiarirti, a tuo piacer ti sazia».

Così da un di quelli spirti pii
detto mi fu; e da Beatrice: «Dì, dì
123 sicuramente, e credi come a dii».

«Io veggio ben sì come tu t’annidi
nel proprio lume, e che de li occhi il traggi,
126 perch’e’ corusca sì come tu ridi;

ma non so chi tu se’, né perché aggi,
anima degna, il grado de la spera
129 che si vela a’ mortai con altrui raggi».

Questo diss’io diritto alla lumera
che pria m’avea parlato; ond’ella fessi
132 lucente più assai di quel ch’ell’era.

Sì come il sol che si cela elli stessi
per troppa luce, come ‘l caldo ha róse
135 le temperanze d’i vapori spessi,

per più letizia sì mi si nascose
dentro al suo raggio la figura santa;
e così chiusa chiusa mi rispuose
139 nel modo che ‘l seguente canto canta.

Canto VI

«Poscia che Costantin l’aquila volse
contr’al corso del ciel, ch’ella seguio
3 dietro a l’antico che Lavina tolse,

cento e cent’anni e più l’uccel di Dio
ne lo stremo d’Europa si ritenne,
6 vicino a’ monti de’ quai prima uscìo;

e sotto l’ombra de le sacre penne
governò ‘l mondo lì di mano in mano,
9 e, sì cangiando, in su la mia pervenne.

Cesare fui e son Iustinïano,
che, per voler del primo amor ch’i’ sento,
12 d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano.

E prima ch’io a l’ovra fossi attento,
una natura in Cristo esser, non piùe,
15 credea, e di tal fede era contento;

ma ‘l benedetto Agapito, che fue
sommo pastore, a la fede sincera
18 mi dirizzò con le parole sue.

Io li credetti; e ciò che ‘n sua fede era,
vegg’io or chiaro sì, come tu vedi
21 ogni contradizione e falsa e vera.

Tosto che con la Chiesa mossi i piedi,
a Dio per grazia piacque di spirarmi
24 l’alto lavoro, e tutto ‘n lui mi diedi;

e al mio Belisar commendai l’armi,
cui la destra del ciel fu sì congiunta,
27 che segno fu ch’i’ dovessi posarmi.

Or qui a la question prima s’appunta
la mia risposta; ma sua condizione
30 mi stringe a seguitare alcuna giunta,

perché tu veggi con quanta ragione
si move contr’al sacrosanto segno
33 e chi ‘l s’appropria e chi a lui s’oppone.

Vedi quanta virtù l’ha fatto degno
di reverenza; e cominciò da l’ora
36 che Pallante morì per darli regno.

Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora
per trecento anni e oltre, infino al fine
39 che i tre a’ tre pugnar per lui ancora.

E sai ch’el fé dal mal de le Sabine
al dolor di Lucrezia in sette regi,
42 vincendo intorno le genti vicine.

Sai quel ch’el fé portato da li egregi
Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro,
45 incontro a li altri principi e collegi;

onde Torquato e Quinzio, che dal cirro
negletto fu nomato, i Deci e’ Fabi
48 ebber la fama che volontier mirro.

Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi
che di retro ad Annibale passaro
51 l’alpestre rocce, Po, di che tu labi.

Sott’esso giovanetti trïunfaro
Scipïone e Pompeo; e a quel colle
54 sotto ‘l qual tu nascesti parve amaro.

Poi, presso al tempo che tutto ‘l ciel volle
redur lo mondo a suo modo sereno,
57 Cesare per voler di Roma il tolle.

E quel che fé da Varo infino a Reno,
Isara vide ed Era e vide Senna
60 e ogne valle onde Rodano è pieno.

Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna
e saltò Rubicon, fu di tal volo,
63 che nol seguiteria lingua né penna.

Inver’ la Spagna rivolse lo stuolo,
poi ver’ Durazzo, e Farsalia percosse
66 sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo.

Antandro e Simeonta, onde si mosse,
rivide e là dov’Ettore si cuba;
69 e mal per Tolomeo poscia si scosse.

Da indi scese folgorando a Iuba;
onde si volse nel vostro occidente,
72 ove sentia la pompeana tuba.

Di quel che fé col baiulo seguente,
Bruto con Cassio ne l’inferno latra,
75 e Modena e Perugia fu dolente.

Piangene ancor la trista Cleopatra,
che, fuggendoli innanzi, dal colubro
78 la morte prese subitana e atra.

Con costui corse infino al lito rubro;
con costui puose il mondo in tanta pace,
81 che fu serrato a Giano il suo delubro.

Ma ciò che ‘l segno che parlar mi face
fatto avea prima e poi era fatturo
84 per lo regno mortal ch’a lui soggiace,

diventa in apparenza poco e scuro,
se in mano al terzo Cesare si mira
87 con occhio chiaro e con affetto puro;

ché la viva giustizia che mi spira,
li concedette, in mano a quel ch’i’ dico,
90 gloria di far vendetta a la sua ira.

Or qui t’ammira in ciò ch’io ti replìco:
poscia con Tito a far vendetta corse
93 de la vendetta del peccato antico.

E quando il dente longobardo morse
la Santa Chiesa, sotto le sue ali
96 Carlo Magno, vincendo, la soccorse.

Omai puoi giudicar di quei cotali
ch’io accusai di sopra e di lor falli,
99 che son cagion di tutti vostri mali.

L’uno al pubblico segno i gigli gialli
oppone, e l’altro appropria quello a parte,
102 sì ch’è forte a veder chi più si falli.

Faccian li Ghibellin, faccian lor arte
sott’altro segno; ché mal segue quello
105 sempre chi la giustizia e lui diparte;

e non l’abbatta esto Carlo novello
coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli
108 ch’a più alto leon trasser lo vello.

Molte fïate già pianser li figli
per la colpa del padre, e non si creda
111 che Dio trasmuti l’armi per suoi gigli!

Questa picciola stella si correda
d’i buoni spirti che son stati attivi
114 perché onore e fama li succeda:

e quando li disiri poggian quivi,
sì disvïando, pur convien che i raggi
117 del vero amore in sù poggin men vivi.

Ma nel commensurar d’i nostri gaggi
col merto è parte di nostra letizia,
120 perché non li vedem minor né maggi.

Quindi addolcisce la viva giustizia
in noi l’affetto sì, che non si puote
123 torcer già mai ad alcuna nequizia.

Diverse voci fanno dolci note;
così diversi scanni in nostra vita
126 rendon dolce armonia tra queste rote.

E dentro a la presente margarita
luce la luce di Romeo, di cui
129 fu l’ovra grande e bella mal gradita.

Ma i Provenzai che fecer contra lui
non hanno riso; e però mal cammina
132 qual si fa danno del ben fare altrui.

Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina,
Ramondo Beringhiere, e ciò li fece
135 Romeo, persona umìle e peregrina.

E poi il mosser le parole biece
a dimandar ragione a questo giusto,
138 che li assegnò sette e cinque per diece;

indi partissi povero e vetusto;
e se ‘l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe
mendicando sua vita a frusto a frusto,
142 assai lo loda, e più lo loderebbe».

Canto VII

«Osanna, sanctus Deus sabaòth,
superillustrans claritate tua
3 felices ignes horum malacòth!
»

Così, volgendosi a la nota sua,
fu viso a me cantare essa sustanza,
6 sopra la qual doppio lume s’addua:

ed essa e l’altre mossero a sua danza,
e quasi velocissime faville,
9 mi si velar di sùbita distanza.

Io dubitava e dicea ‘Dille, dille!’
fra me, ‘dille’, dicea, ‘a la mia donna
12 che mi diseta con le dolci stille’.

Ma quella reverenza che s’indonna
di tutto me, pur per Be e per ice,
15 mi richinava come l’uom ch’assonna.

Poco sofferse me cotal Beatrice
e cominciò, raggiandomi d’un riso
18 tal, che nel foco faria l’uom felice:

«Secondo mio infallibile avviso,
come giusta vendetta giustamente
21 punita fosse, t’ha in pensier miso;

ma io ti solverò tosto la mente;
e tu ascolta, ché le mie parole
24 di gran sentenza ti faran presente.

Per non soffrire a la virtù che vole
freno a suo prode, quell’uom che non nacque,
27 dannando sé, dannò tutta sua prole;

onde l’umana specie inferma giacque
giù per secoli molti in grande errore,
30 fin ch’al Verbo di Dio discender piacque

u’ la natura, che dal suo fattore
s’era allungata, unì a sé in persona
33 con l’atto sol del suo etterno amore.

Or drizza il viso a quel ch’or si ragiona:
questa natura al suo fattore unita,
36 qual fu creata, fu sincera e buona;

ma per sé stessa pur fu ella sbandita
di paradiso, però che si torse
39 da via di verità e da sua vita.

La pena dunque che la croce porse
s’a la natura assunta si misura,
42 nulla già mai sì giustamente morse;

e così nulla fu di tanta ingiura,
guardando a la persona che sofferse,
45 in che era contratta tal natura.

Però d’un atto uscir cose diverse:
ch’a Dio e a’ Giudei piacque una morte;
48 per lei tremò la terra e ‘l ciel s’aperse.

Non ti dee oramai parer più forte,
quando si dice che giusta vendetta
51 poscia vengiata fu da giusta corte.

Ma io veggi’ or la tua mente ristretta
di pensiero in pensier dentro ad un nodo,
54 del qual con gran disio solver s’aspetta.

Tu dici: “Ben discerno ciò ch’i’ odo;
ma perché Dio volesse, m’è occulto,
57 a nostra redenzion pur questo modo”.

Questo decreto, frate, sta sepulto
a li occhi di ciascuno il cui ingegno
60 ne la fiamma d’amor non è adulto.

Veramente, però ch’a questo segno
molto si mira e poco si discerne,
63 dirò perché tal modo fu più degno.

La divina bontà, che da sé sperne
ogne livore, ardendo in sé, sfavilla
66 sì che dispiega le bellezze etterne.

Ciò che da lei sanza mezzo distilla
non ha poi fine, perché non si move
69 la sua imprenta quand’ella sigilla.

Ciò che da essa sanza mezzo piove
libero è tutto, perché non soggiace
72 a la virtute de le cose nove.

Più l’è conforme, e però più le piace;
ché l’ardor santo ch’ogne cosa raggia,
75 ne la più somigliante è più vivace.

Di tutte queste dote s’avvantaggia
l’umana creatura; e s’una manca,
78 di sua nobilità convien che caggia.

Solo il peccato è quel che la disfranca
e falla dissimìle al sommo bene,
81 per che del lume suo poco s’imbianca;

e in sua dignità mai non rivene,
se non rïempie, dove colpa vòta,
84 contra mal dilettar con giuste pene.

Vostra natura, quando peccò tota
nel seme suo, da queste dignitadi,
87 come di paradiso, fu remota;

né ricovrar potiensi, se tu badi
ben sottilmente, per alcuna via,
90 sanza passar per un di questi guadi:

o che Dio solo per sua cortesia
dimesso avesse, o che l’uom per sé isso
93 avesse sodisfatto a sua follia.

Ficca mo l’occhio per entro l’abisso
de l’etterno consiglio, quanto puoi
96 al mio parlar distrettamente fisso.

Non potea l’uomo ne’ termini suoi
mai sodisfar, per non potere ir giuso
99 con umiltate obedïendo poi,

quanto disobediendo intese ir suso;
e questa è la cagion per che l’uom fue
102 da poter sodisfar per sé dischiuso.

Dunque a Dio convenia con le vie sue
riparar l’omo a sua intera vita,
105 dico con l’una, o ver con amendue.

Ma perché l’ovra tanto è più gradita
da l’operante, quanto più appresenta
108 de la bontà del core ond’ell’è uscita,

la divina bontà che ‘l mondo imprenta,
di proceder per tutte le sue vie,
111 a rilevarvi suso, fu contenta.

Né tra l’ultima notte e ‘l primo die
sì alto o sì magnifico processo,
114 o per l’una o per l’altra, fu o fie:

ché più largo fu Dio a dar sé stesso
per far l’uom sufficiente a rilevarsi,
117 che s’elli avesse sol da sé dimesso;

e tutti li altri modi erano scarsi
a la giustizia, se ‘l Figliuol di Dio
120 non fosse umilïato ad incarnarsi.

Or per empierti bene ogni disio,
ritorno a dichiararti in alcun loco,
123 perché tu veggi lì così com’io.

Tu dici: “Io veggio l’acqua, io veggio il foco,
l’aere e la terra e tutte lor misture
126 venire a corruzione, e durar poco;

e queste cose pur furon creature;
per che, se ciò ch’è detto è stato vero,
129 esser dovrien da corruzion sicure”.

Li angeli, frate, e ‘l paese sincero
nel qual tu se’, dir si posson creati,
132 sì come sono, in loro essere intero;

ma li elementi che tu hai nomati
e quelle cose che di lor si fanno
135 da creata virtù sono informati.

Creata fu la materia ch’elli hanno;
creata fu la virtù informante
138 in queste stelle che ‘ntorno a lor vanno.

L’anima d’ogne bruto e de le piante
di complession potenzïata tira
141 lo raggio e ‘l moto de le luci sante;

ma vostra vita sanza mezzo spira
la somma beninanza, e la innamora
144 di sé sì che poi sempre la disira.

E quinci puoi argomentare ancora
vostra resurrezion, se tu ripensi
come l’umana carne fessi allora
148 che li primi parenti intrambo fensi».

Canto VIII

Solea creder lo mondo in suo periclo
che la bella Ciprigna il folle amore
3 raggiasse, volta nel terzo epiciclo;

per che non pur a lei faceano onore
di sacrificio e di votivo grido
6 le genti antiche ne l’antico errore;

ma Dïone onoravano e Cupido,
quella per madre sua, questo per figlio,
9 e dicean ch’el sedette in grembo a Dido;

e da costei ond’io principio piglio
pigliavano il vocabol de la stella
12 che ‘l sol vagheggia or da coppa or da ciglio.

Io non m’accorsi del salire in ella;
ma d’esservi entro mi fé assai fede
15 la donna mia ch’i’ vidi far più bella.

E come in fiamma favilla si vede,
e come in voce voce si discerne,
18 quand’una è ferma e altra va e riede,

vid’io in essa luce altre lucerne
muoversi in giro più e men correnti,
21 al modo, credo, di lor viste interne.

Di fredda nube non disceser venti,
o visibili o no, tanto festini,
24 che non paressero impediti e lenti

a chi avesse quei lumi divini
veduti a noi venir, lasciando il giro
27 pria cominciato in li alti Serafini;

e dentro a quei che più innanzi appariro
sonava ‘Osanna‘ sì, che unque poi
30 di riudir non fui sanza disiro.

Indi si fece l’un più presso a noi
e solo incominciò: «Tutti sem presti
33 al tuo piacer, perché di noi ti gioi.

Noi ci volgiam coi Principi celesti
d’un giro e d’un girare e d’una sete,
36 ai quali tu del mondo già dicesti:

Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete‘;
e sem sì pien d’amor, che, per piacerti,
39 non fia men dolce un poco di quïete».

Poscia che li occhi miei si fuoro offerti
a la mia donna reverenti, ed essa
42 fatti li avea di sé contenti e certi,

rivolsersi a la luce che promessa
tanto s’avea, e «Deh, chi siete?» fue
45 la voce mia di grande affetto impressa.

E quanta e quale vid’io lei far piùe
per allegrezza nova che s’accrebbe,
48 quando parlai, a l’allegrezze sue!

Così fatta, mi disse: «Il mondo m’ebbe
giù poco tempo; e se più fosse stato,
51 molto sarà di mal, che non sarebbe.

La mia letizia mi ti tien celato
che mi raggia dintorno e mi nasconde
54 quasi animal di sua seta fasciato.

Assai m’amasti, e avesti ben onde;
che s’io fossi giù stato, io ti mostrava
57 di mio amor più oltre che le fronde.

Quella sinistra riva che si lava
di Rodano poi ch’è misto con Sorga,
60 per suo segnore a tempo m’aspettava,

e quel corno d’Ausonia che s’imborga
di Bari e di Gaeta e di Catona
63 da ove Tronto e Verde in mare sgorga.

Fulgeami già in fronte la corona
di quella terra che ‘l Danubio riga
66 poi che le ripe tedesche abbandona.

E la bella Trinacria, che caliga
tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo
69 che riceve da Euro maggior briga,

non per Tifeo ma per nascente solfo,
attesi avrebbe li suoi regi ancora,
72 nati per me di Carlo e di Ridolfo,

se mala segnoria, che sempre accora
li popoli suggetti, non avesse
75 mosso Palermo a gridar: “Mora, mora!”

E se mio frate questo antivedesse,
l’avara povertà di Catalogna
78 già fuggeria, perché non li offendesse;

ché veramente proveder bisogna
per lui, o per altrui, sì ch’a sua barca
81 carcata più d’incarco non si pogna.

La sua natura, che di larga parca
discese, avria mestier di tal milizia
84 che non curasse di mettere in arca».

«Però ch’i’ credo che l’alta letizia
che ‘l tuo parlar m’infonde, segnor mio,
87 là ‘ve ogne ben si termina e s’inizia,

per te si veggia come la vegg’io,
grata m’è più; e anco quest’ho caro
90 perché ‘l discerni rimirando in Dio.

Fatto m’hai lieto, e così mi fa chiaro,
poi che, parlando, a dubitar m’hai mosso
93 com’esser può, di dolce seme, amaro».

Questo io a lui; ed elli a me: «S’io posso
mostrarti un vero, a quel che tu dimandi
96 terrai lo viso come tien lo dosso.

Lo ben, che tutto il regno che tu scandi
volge e contenta, fa esser virtute
99 sua provedenza in questi corpi grandi.

E non pur le nature provedute
sono in la mente ch’è da sé perfetta,
102 ma esse insieme con la lor salute:

per che quantunque quest’arco saetta
disposto cade a proveduto fine,
105 sì come cosa in suo segno diretta.

Se ciò non fosse, il ciel che tu cammine
producerebbe sì li suoi effetti,
108 che non sarebbero arti, ma ruine;

e ciò esser non può, se li ‘ntelletti
che muovon queste stelle non son manchi,
111 e manco il primo, che non li ha perfetti.

Vuo’ tu che questo ver più ti s’imbianchi?»
E io: «Non già; ché impossibil veggio
114 che la natura, in quel ch’è uopo, stanchi».

Ond’elli ancora: «Or di’: sarebbe il peggio
per l’omo in terra, se non fosse cive?»
117 «Sì», rispuos’io; «e qui ragion non cheggio».

«E puot’elli esser, se giù non si vive
diversamente per diversi offici?
120 Non, se ‘l maestro vostro ben vi scrive».

Sì venne deducendo infino a quici;
poscia conchiuse: «Dunque esser diverse
123 convien di vostri effetti le radici:

per ch’un nasce Solone e altro Serse,
altro Melchisedèch e altro quello
126 che, volando per l’aere, il figlio perse.

La circular natura, ch’è suggello
a la cera mortal, fa ben sua arte,
129 ma non distingue l’un da l’altro ostello.

Quinci addivien ch’Esaù si diparte
per seme da Iacòb; e vien Quirino
132 da sì vil padre, che si rende a Marte.

Natura generata il suo cammino
simil farebbe sempre a’ generanti,
135 se non vincesse il proveder divino.

Or quel che t’era dietro t’è davanti:
ma perché sappi che di te mi giova,
138 un corollario voglio che t’ammanti.

Sempre natura, se fortuna trova
discorde a sé, com’ogne altra semente
141 fuor di sua region, fa mala prova.

E se ‘l mondo là giù ponesse mente
al fondamento che natura pone,
144 seguendo lui, avria buona la gente.

Ma voi torcete a la religïone
tal che fia nato a cignersi la spada,
e fate re di tal ch’è da sermone;
148 onde la traccia vostra è fuor di strada».

Canto IX

Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza,
m’ebbe chiarito, mi narrò li ‘nganni
3 che ricever dovea la sua semenza;

ma disse: «Taci e lascia muover li anni»;
sì ch’io non posso dir se non che pianto
6 giusto verrà di retro ai vostri danni.

E già la vita di quel lume santo
rivolta s’era al Sol che la rïempie
9 come quel ben ch’a ogne cosa è tanto.

Ahi anime ingannate e fatture empie,
che da sì fatto ben torcete i cuori,
12 drizzando in vanità le vostre tempie!

Ed ecco un altro di quelli splendori
ver’ me si fece, e ‘l suo voler piacermi
15 significava nel chiarir di fori.

Li occhi di Bëatrice, ch’eran fermi
sovra me, come pria, di caro assenso
18 al mio disio certificato fermi.

«Deh, metti al mio voler tosto compenso,
beato spirto», dissi, «e fammi prova
21 ch’i’ possa in te refletter quel ch’io penso!»

Onde la luce che m’era ancor nova,
del suo profondo, ond’ella pria cantava,
24 seguette come a cui di ben far giova:

«In quella parte de la terra prava
italica che siede tra Rïalto
27 e le fontane di Brenta e di Piava,

si leva un colle, e non surge molt’alto,
là onde scese già una facella
30 che fece a la contrada un grande assalto.

D’una radice nacqui e io ed ella:
Cunizza fui chiamata, e qui refulgo
33 perché mi vinse il lume d’esta stella;

ma lietamente a me medesma indulgo
la cagion di mia sorte, e non mi noia;
36 che parria forse forte al vostro vulgo.

Di questa luculenta e cara gioia
del nostro cielo che più m’è propinqua,
39 grande fama rimase; e pria che moia,

questo centesimo anno ancor s’incinqua:
vedi se far si dee l’omo eccellente,
42 sì ch’altra vita la prima relinqua.

E ciò non pensa la turba presente
che Tagliamento e Adice richiude,
45 né per esser battuta ancor si pente;

ma tosto fia che Padova al palude
cangerà l’acqua che Vincenza bagna,
48 per essere al dover le genti crude;

e dove Sile e Cagnan s’accompagna,
tal signoreggia e va con la testa alta,
51 che già per lui carpir si fa la ragna.

Piangerà Feltro ancora la difalta
de l’empio suo pastor, che sarà sconcia
54 sì, che per simil non s’entrò in malta.

Troppo sarebbe larga la bigoncia
che ricevesse il sangue ferrarese,
57 e stanco chi ‘l pesasse a oncia a oncia,

che donerà questo prete cortese
per mostrarsi di parte; e cotai doni
60 conformi fieno al viver del paese.

Sù sono specchi, voi dicete Troni,
onde refulge a noi Dio giudicante;
63 sì che questi parlar ne paion buoni».

Qui si tacette; e fecemi sembiante
che fosse ad altro volta, per la rota
66 in che si mise com’era davante.

L’altra letizia, che m’era già nota
per cara cosa, mi si fece in vista
69 qual fin balasso in che lo sol percuota.

Per letiziar là sù fulgor s’acquista,
sì come riso qui; ma giù s’abbuia
72 l’ombra di fuor, come la mente è trista.

«Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia»,
diss’io, «beato spirto, sì che nulla
75 voglia di sé a te puot’esser fuia.

Dunque la voce tua, che ‘l ciel trastulla
sempre col canto di quei fuochi pii
78 che di sei ali facen la coculla,

perché non satisface a’ miei disii?
Già non attendere’ io tua dimanda,
81 s’io m’intuassi, come tu t’inmii».

«La maggior valle in che l’acqua si spanda»,
incominciaro allor le sue parole,
84 «fuor di quel mar che la terra inghirlanda,

tra’ discordanti liti contra ‘l sole
tanto sen va, che fa meridïano
87 là dove l’orizzonte pria far suole.

Di quella valle fu’ io litorano
tra Ebro e Macra, che per cammin corto
90 parte lo Genovese dal Toscano.

Ad un occaso quasi e ad un orto
Buggea siede e la terra ond’io fui,
93 che fé del sangue suo già caldo il porto.

Folco mi disse quella gente a cui
fu noto il nome mio; e questo cielo
96 di me s’imprenta, com’io fe’ di lui;

ché più non arse la figlia di Belo,
noiando e a Sicheo e a Creusa,
99 di me, infin che si convenne al pelo;

né quella Rodopëa che delusa
fu da Demofoonte, né Alcide
102 quando Iole nel core ebbe rinchiusa.

Non però qui si pente, ma si ride,
non de la colpa, ch’a mente non torna,
105 ma del valor ch’ordinò e provide.

Qui si rimira ne l’arte ch’addorna
cotanto affetto, e discernesi ‘l bene
108 per che ‘l mondo di sù quel di giù torna.

Ma perché tutte le tue voglie piene
ten porti che son nate in questa spera,
111 proceder ancor oltre mi convene.

Tu vuo’ saper chi è in questa lumera
che qui appresso me così scintilla,
114 come raggio di sole in acqua mera.

Or sappi che là entro si tranquilla
Raab; e a nostr’ordine congiunta,
117 di lei nel sommo grado si sigilla.

Da questo cielo, in cui l’ombra s’appunta
che ‘l vostro mondo face, pria ch’altr’alma
120 del triunfo di Cristo fu assunta.

Ben si convenne lei lasciar per palma
in alcun cielo de l’alta vittoria
123 che s’acquistò con l’una e l’altra palma,

perch’ella favorò la prima gloria
di Iosuè in su la Terra Santa,
126 che poco tocca al papa la memoria.

La tua città, che di colui è pianta
che pria volse le spalle al suo fattore
129 e di cui è la ‘nvidia tanto pianta,

produce e spande il maladetto fiore
c’ha disvïate le pecore e li agni,
132 però che fatto ha lupo del pastore.

Per questo l’Evangelio e i dottor magni
son derelitti, e solo ai Decretali
135 si studia, sì che pare a’ lor vivagni.

A questo intende il papa e’ cardinali;
non vanno i lor pensieri a Nazarette,
138 là dove Gabrïello aperse l’ali.

Ma Vaticano e l’altre parti elette
di Roma che son state cimitero
a la milizia che Pietro seguette,
142 tosto libere fien de l’avoltero».

Canto X

Guardando nel suo Figlio con l’Amore
che l’uno e l’altro etternalmente spira,
3 lo primo e ineffabile Valore

quanto per mente e per loco si gira
con tant’ordine fé, ch’esser non puote
6 sanza gustar di lui chi ciò rimira.

Leva dunque, lettore, a l’alte rote
meco la vista, dritto a quella parte
9 dove l’un moto e l’altro si percuote;

e lì comincia a vagheggiar ne l’arte
di quel maestro che dentro a sé l’ama,
12 tanto che mai da lei l’occhio non parte.

Vedi come da indi si dirama
l’oblico cerchio che i pianeti porta,
15 per sodisfare al mondo che li chiama.

Che se la strada lor non fosse torta,
molta virtù nel ciel sarebbe in vano,
18 e quasi ogne potenza qua giù morta;

e se dal dritto più o men lontano
fosse ‘l partire, assai sarebbe manco
21 e giù e sù de l’ordine mondano.

Or ti riman, lettor, sovra ‘l tuo banco,
dietro pensando a ciò che si preliba,
24 s’esser vuoi lieto assai prima che stanco.

Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba;
ché a sé torce tutta la mia cura
27 quella materia ond’io son fatto scriba.

Lo ministro maggior de la natura,
che del valor del ciel lo mondo imprenta
30 e col suo lume il tempo ne misura,

con quella parte che sù si rammenta
congiunto, si girava per le spire
33 in che più tosto ognora s’appresenta;

e io era con lui; ma del salire
non m’accors’io, se non com’uom s’accorge,
36 anzi ‘l primo pensier, del suo venire.

È Bëatrice quella che sì scorge
di bene in meglio, sì subitamente
39 che l’atto suo per tempo non si sporge.

Quant’esser convenia da sé lucente
quel ch’era dentro al sol dov’io entra’mi,
42 non per color, ma per lume parvente!

Perch’io lo ‘ngegno e l’arte e l’uso chiami,
sì nol direi che mai s’imaginasse;
45 ma creder puossi e di veder si brami.

E se le fantasie nostre son basse
a tanta altezza, non è maraviglia;
48 ché sopra ‘l sol non fu occhio ch’andasse.

Tal era quivi la quarta famiglia
de l’alto Padre, che sempre la sazia,
51 mostrando come spira e come figlia.

E Bëatrice cominciò: «Ringrazia,
ringrazia il Sol de li angeli, ch’a questo
54 sensibil t’ha levato per sua grazia».

Cor di mortal non fu mai sì digesto
a divozione e a rendersi a Dio
57 con tutto ‘l suo gradir cotanto presto,

come a quelle parole mi fec’io;
e sì tutto ‘l mio amore in lui si mise,
60 che Bëatrice eclissò ne l’oblio.

Non le dispiacque; ma sì se ne rise,
che lo splendor de li occhi suoi ridenti
63 mia mente unita in più cose divise.

Io vidi più folgór vivi e vincenti
far di noi centro e di sé far corona,
66 più dolci in voce che in vista lucenti:

così cinger la figlia di Latona
vedem talvolta, quando l’aere è pregno,
69 sì che ritenga il fil che fa la zona.

Ne la corte del cielo, ond’io rivegno,
si trovan molte gioie care e belle
72 tanto che non si posson trar del regno;

e ‘l canto di quei lumi era di quelle;
chi non s’impenna sì che là sù voli,
75 dal muto aspetti quindi le novelle.

Poi, sì cantando, quelli ardenti soli
si fuor girati intorno a noi tre volte,
78 come stelle vicine a’ fermi poli,

donne mi parver, non da ballo sciolte,
ma che s’arrestin tacite, ascoltando
81 fin che le nove note hanno ricolte.

E dentro a l’un senti’ cominciar: «Quando
lo raggio de la grazia, onde s’accende
84 verace amore e che poi cresce amando,

multiplicato in te tanto resplende,
che ti conduce su per quella scala
87 u’ sanza risalir nessun discende;

qual ti negasse il vin de la sua fiala
per la tua sete, in libertà non fora
90 se non com’acqua ch’al mar non si cala.

Tu vuo’ saper di quai piante s’infiora
questa ghirlanda che ‘ntorno vagheggia
93 la bella donna ch’al ciel t’avvalora.

Io fui de li agni de la santa greggia
che Domenico mena per cammino
96 u’ ben s’impingua se non si vaneggia.

Questi che m’è a destra più vicino,
frate e maestro fummi, ed esso Alberto
99 è di Cologna, e io Thomas d’Aquino.

Se sì di tutti li altri esser vuo’ certo,
di retro al mio parlar ten vien col viso
102 girando su per lo beato serto.

Quell’altro fiammeggiare esce del riso
di Grazïan, che l’uno e l’altro foro
105 aiutò sì che piace in paradiso.

L’altro ch’appresso addorna il nostro coro,
quel Pietro fu che con la poverella
108 offerse a Santa Chiesa suo tesoro.

La quinta luce, ch’è tra noi più bella,
spira di tal amor, che tutto ‘l mondo
111 là giù ne gola di saper novella:

entro v’è l’alta mente u’ sì profondo
saver fu messo, che, se ‘l vero è vero,
114 a veder tanto non surse il secondo.

Appresso vedi il lume di quel cero
che giù in carne più a dentro vide
117 l’angelica natura e ‘l ministero.

Ne l’altra piccioletta luce ride
quello avvocato de’ tempi cristiani
120 del cui latino Augustin si provide.

Or se tu l’occhio de la mente trani
di luce in luce dietro a le mie lode,
123 già de l’ottava con sete rimani.

Per vedere ogni ben dentro vi gode
l’anima santa che ‘l mondo fallace
126 fa manifesto a chi di lei ben ode.

Lo corpo ond’ella fu cacciata giace
giuso in Cieldauro; ed essa da martiro
129 e da essilio venne a questa pace.

Vedi oltre fiammeggiar l’ardente spiro
d’Isidoro, di Beda e di Riccardo,
132 che a considerar fu più che viro.

Questi onde a me ritorna il tuo riguardo,
è ‘l lume d’uno spirto che ‘n pensieri
135 gravi a morir li parve venir tardo:

essa è la luce etterna di Sigieri,
che, leggendo nel Vico de li Strami,
138 silogizzò invidïosi veri».

Indi, come orologio che ne chiami
ne l’ora che la sposa di Dio surge
141 a mattinar lo sposo perché l’ami,

che l’una parte e l’altra tira e urge,
tin tin sonando con sì dolce nota,
144 che ‘l ben disposto spirto d’amor turge,

così vid’io la glorïosa rota
muoversi e render voce a voce in tempra
e in dolcezza ch’esser non pò nota
148 se non colà dove gioir s’insempra.

Canto XI

O insensata cura de’ mortali,
quanto son difettivi silogismi
3 quei che ti fanno in basso batter l’ali!

Chi dietro a iura, e chi ad amforismi
sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
6 e chi regnar per forza o per sofismi,

e chi rubare, e chi civil negozio,
chi nel diletto de la carne involto
9 s’affaticava e chi si dava a l’ozio,

quando, da tutte queste cose sciolto,
con Bëatrice m’era suso in cielo
12 cotanto glorïosamente accolto.

Poi che ciascuno fu tornato ne lo
punto del cerchio in che avanti s’era,
15 fermossi, come a candellier candelo.

E io senti’ dentro a quella lumera
che pria m’avea parlato, sorridendo
18 incominciar, faccendosi più mera:

«Così com’io del suo raggio resplendo,
sì, riguardando ne la luce etterna,
21 li tuoi pensieri onde cagioni apprendo.

Tu dubbi, e hai voler che si ricerna
in sì aperta e ‘n sì distesa lingua
24 lo dicer mio, ch’al tuo sentir si sterna,

ove dinanzi dissi ‘U’ ben s’impingua’,
e là u’ dissi ‘Non surse il secondo’;
27 e qui è uopo che ben si distingua.

La provedenza, che governa il mondo
con quel consiglio nel quale ogne aspetto
30 creato è vinto pria che vada al fondo,

però che andasse ver’ lo suo diletto
la sposa di colui ch’ad alte grida
33 disposò lei col sangue benedetto,

in sé sicura e anche a lui più fida,
due prìncipi ordinò in suo favore,
36 che quinci e quindi le fosser per guida.

L’un fu tutto serafico in ardore;
l’altro per sapïenza in terra fue
39 di cherubica luce uno splendore.

De l’un dirò, però che d’amendue
si dice l’un pregiando, qual ch’om prende,
42 perch’ad un fine fur l’opere sue.

Intra Tupino e l’acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,
45 fertile costa d’alto monte pende,

onde Perugia sente freddo e caldo
da Porta Sole; e di rietro le piange
48 per grave giogo Nocera con Gualdo.

Di questa costa, là dov’ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
51 come fa questo talvolta di Gange.

Però chi d’esso loco fa parole,
non dica Ascesi, ché direbbe corto,
54 ma Orïente, se proprio dir vuole.

Non era ancor molto lontan da l’orto,
ch’el cominciò a far sentir la terra
57 de la sua gran virtute alcun conforto;

ché per tal donna, giovinetto, in guerra
del padre corse, a cui, come a la morte,
60 la porta del piacer nessun diserra;

e dinanzi a la sua spirital corte
et coram patre le si fece unito;
63 poscia di dì in dì l’amò più forte.

Questa, privata del primo marito,
millecent’anni e più dispetta e scura
66 fino a costui si stette sanza invito;

né valse udir che la trovò sicura
con Amiclate, al suon de la sua voce,
69 colui ch’a tutto ‘l mondo fé paura;

né valse esser costante né feroce,
sì che, dove Maria rimase giuso,
72 ella con Cristo pianse in su la croce.

Ma perch’io non proceda troppo chiuso,
Francesco e Povertà per questi amanti
75 prendi oramai nel mio parlar diffuso.

La lor concordia e i lor lieti sembianti,
amore e maraviglia e dolce sguardo
78 facieno esser cagion di pensier santi;

tanto che ‘l venerabile Bernardo
si scalzò prima, e dietro a tanta pace
81 corse e, correndo, li parve esser tardo.

Oh ignota ricchezza! oh ben ferace!
Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro
84 dietro a lo sposo, sì la sposa piace.

Indi sen va quel padre e quel maestro
con la sua donna e con quella famiglia
87 che già legava l’umile capestro.

Né li gravò viltà di cuor le ciglia
per esser fi’ di Pietro Bernardone,
90 né per parer dispetto a maraviglia;

ma regalmente sua dura intenzione
ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe
93 primo sigillo a sua religïone.

Poi che la gente poverella crebbe
dietro a costui, la cui mirabil vita
96 meglio in gloria del ciel si canterebbe,

di seconda corona redimita
fu per Onorio da l’Etterno Spiro
99 la santa voglia d’esto archimandrita.

E poi che, per la sete del martiro,
ne la presenza del Soldan superba
102 predicò Cristo e li altri che ‘l seguiro,

e per trovare a conversione acerba
troppo la gente e per non stare indarno,
105 redissi al frutto de l’italica erba,

nel crudo sasso intra Tevero e Arno
da Cristo prese l’ultimo sigillo,
108 che le sue membra due anni portarno.

Quando a colui ch’a tanto ben sortillo
piacque di trarlo suso a la mercede
111 ch’el meritò nel suo farsi pusillo,

a’ frati suoi, sì com’a giuste rede,
raccomandò la donna sua più cara,
114 e comandò che l’amassero a fede;

e del suo grembo l’anima preclara
mover si volle, tornando al suo regno,
117 e al suo corpo non volle altra bara.

Pensa oramai qual fu colui che degno
collega fu a mantener la barca
120 di Pietro in alto mar per dritto segno;

e questo fu il nostro patrïarca;
per che qual segue lui, com’el comanda,
123 discerner puoi che buone merce carca.

Ma ‘l suo pecuglio di nova vivanda
è fatto ghiotto, sì ch’esser non puote
126 che per diversi salti non si spanda;

e quanto le sue pecore remote
e vagabunde più da esso vanno,
129 più tornano a l’ovil di latte vòte.

Ben son di quelle che temono ‘l danno
e stringonsi al pastor; ma son sì poche,
132 che le cappe fornisce poco panno.

Or, se le mie parole non son fioche,
se la tua audïenza è stata attenta,
135 se ciò ch’è detto a la mente revoche,

in parte fia la tua voglia contenta,
perché vedrai la pianta onde si scheggia,
e vedra’ il corregger che argomenta
139 ‘U’ ben s’impingua, se non si vaneggia’».

Canto XII

Sì tosto come l’ultima parola
la benedetta fiamma per dir tolse,
3 a rotar cominciò la santa mola;

e nel suo giro tutta non si volse
prima ch’un’altra di cerchio la chiuse,
6 e moto a moto e canto a canto colse;

canto che tanto vince nostre muse,
nostre serene in quelle dolci tube,
9 quanto primo splendor quel ch’e’ refuse.

Come si volgon per tenera nube
due archi paralelli e concolori,
12 quando Iunone a sua ancella iube,

nascendo di quel d’entro quel di fori,
a guisa del parlar di quella vaga
15 ch’amor consunse come sol vapori;

e fanno qui la gente esser presaga,
per lo patto che Dio con Noè puose,
18 del mondo che già mai più non s’allaga:

così di quelle sempiterne rose
volgiensi circa noi le due ghirlande,
21 e sì l’estrema a l’intima rispuose.

Poi che ‘l tripudio e l’altra festa grande,
sì del cantare e sì del fiammeggiarsi
24 luce con luce gaudiose e blande,

insieme a punto e a voler quetarsi,
pur come li occhi ch’al piacer che i move
27 conviene insieme chiudere e levarsi;

del cor de l’una de le luci nove
si mosse voce, che l’ago a la stella
30 parer mi fece in volgermi al suo dove;

e cominciò: «L’amor che mi fa bella
mi tragge a ragionar de l’altro duca
33 per cui del mio sì ben ci si favella.

Degno è che, dov’è l’un, l’altro s’induca:
sì che, com’elli ad una militaro,
36 così la gloria loro insieme luca.

L’essercito di Cristo, che sì caro
costò a rïarmar, dietro a la ‘nsegna
39 si movea tardo, sospeccioso e raro,

quando lo ‘mperador che sempre regna
provide a la milizia, ch’era in forse,
42 per sola grazia, non per esser degna;

e, come è detto, a sua sposa soccorse
con due campioni, al cui fare, al cui dire
45 lo popol disvïato si raccorse.

In quella parte ove surge ad aprire
Zefiro dolce le novelle fronde
48 di che si vede Europa rivestire,

non molto lungi al percuoter de l’onde
dietro a le quali, per la lunga foga,
51 lo sol talvolta ad ogne uom si nasconde,

siede la fortunata Calaroga
sotto la protezion del grande scudo
54 in che soggiace il leone e soggioga:

dentro vi nacque l’amoroso drudo
de la fede cristiana, il santo atleta
57 benigno a’ suoi e a’ nemici crudo;

e come fu creata, fu repleta
sì la sua mente di viva vertute,
60 che, ne la madre, lei fece profeta.

Poi che le sponsalizie fuor compiute
al sacro fonte intra lui e la Fede,
63 u’ si dotar di mutüa salute,

la donna che per lui l’assenso diede,
vide nel sonno il mirabile frutto
66 ch’uscir dovea di lui e de le rede;

e perché fosse qual era in costrutto,
quinci si mosse spirito a nomarlo
69 del possessivo di cui era tutto.

Domenico fu detto; e io ne parlo
sì come de l’agricola che Cristo
72 elesse a l’orto suo per aiutarlo.

Ben parve messo e famigliar di Cristo:
che ‘l primo amor che ‘n lui fu manifesto,
75 fu al primo consiglio che diè Cristo.

Spesse fïate fu tacito e desto
trovato in terra da la sua nutrice,
78 come dicesse: ‘Io son venuto a questo’.

Oh padre suo veramente Felice!
oh madre sua veramente Giovanna,
81 se, interpretata, val come si dice!

Non per lo mondo, per cui mo s’affanna
di retro ad Ostïense e a Taddeo,
84 ma per amor de la verace manna

in picciol tempo gran dottor si feo;
tal che si mise a circüir la vigna
87 che tosto imbianca, se ‘l vignaio è reo.

E a la sedia che fu già benigna
più a’ poveri giusti, non per lei,
90 ma per colui che siede, che traligna,

non dispensare o due o tre per sei,
non la fortuna di prima vacante,
93 non decimas, quae sunt pauperum Dei,

addimandò, ma contro al mondo errante
licenza di combatter per lo seme
96 del qual ti fascian ventiquattro piante.

Poi, con dottrina e con volere insieme,
con l’officio appostolico si mosse
99 quasi torrente ch’alta vena preme;

e ne li sterpi eretici percosse
l’impeto suo, più vivamente quivi
102 dove le resistenze eran più grosse.

Di lui si fecer poi diversi rivi
onde l’orto catolico si riga,
105 sì che i suoi arbuscelli stan più vivi.

Se tal fu l’una rota de la biga
in che la Santa Chiesa si difese
108 e vinse in campo la sua civil briga,

ben ti dovrebbe assai esser palese
l’eccellenza de l’altra, di cui Tomma
111 dinanzi al mio venir fu sì cortese.

Ma l’orbita che fé la parte somma
di sua circunferenza, è derelitta,
114 sì ch’è la muffa dov’era la gromma.

La sua famiglia, che si mosse dritta
coi piedi a le sue orme, è tanto volta,
117 che quel dinanzi a quel di retro gitta;

e tosto si vedrà de la ricolta
de la mala coltura, quando il loglio
120 si lagnerà che l’arca li sia tolta.

Ben dico, chi cercasse a foglio a foglio
nostro volume, ancor troveria carta
123 u’ leggerebbe ‘I’ mi son quel ch’i’ soglio’;

ma non fia da Casal né d’Acquasparta,
là onde vegnon tali a la scrittura,
126 ch’uno la fugge e altro la coarta.

Io son la vita di Bonaventura
da Bagnoregio, che ne’ grandi offici
129 sempre pospuosi la sinistra cura.

Illuminato e Augustin son quici,
che fuor de’ primi scalzi poverelli
132 che nel capestro a Dio si fero amici.

Ugo da San Vittore è qui con elli,
e Pietro Mangiadore e Pietro Spano,
135 lo qual giù luce in dodici libelli;

Natàn profeta e ‘l metropolitano
Crisostomo e Anselmo e quel Donato
138 ch’a la prim’arte degnò porre mano.

Rabano è qui, e lucemi dallato
il calavrese abate Giovacchino,
141 di spirito profetico dotato.

Ad inveggiar cotanto paladino
mi mosse l’infiammata cortesia
di fra Tommaso e ‘l discreto latino;
145 e mosse meco questa compagnia».

Canto XIII

Imagini, chi bene intender cupe
quel ch’i’ or vidi – e ritegna l’image,
3 mentre ch’io dico, come ferma rupe -,

quindici stelle che ‘n diverse plage
lo ciel avvivan di tanto sereno
6 che soperchia de l’aere ogne compage;

imagini quel carro a cu’ il seno
basta del nostro cielo e notte e giorno,
9 sì ch’al volger del temo non vien meno;

imagini la bocca di quel corno
che si comincia in punta de lo stelo
12 a cui la prima rota va dintorno,

aver fatto di sé due segni in cielo,
qual fece la figliuola di Minoi
15 allora che sentì di morte il gelo;

e l’un ne l’altro aver li raggi suoi,
e amendue girarsi per maniera
18 che l’uno andasse al primo e l’altro al poi;

e avrà quasi l’ombra de la vera
costellazione e de la doppia danza
21 che circulava il punto dov’io era:

poi ch’è tanto di là da nostra usanza,
quanto di là dal mover de la Chiana
24 si move il ciel che tutti li altri avanza.

Lì si cantò non Bacco, non Peana,
ma tre persone in divina natura,
27 e in una persona essa e l’umana.

Compié ‘l cantare e ‘l volger sua misura;
e attesersi a noi quei santi lumi,
30 felicitando sé di cura in cura.

Ruppe il silenzio ne’ concordi numi
poscia la luce in che mirabil vita
33 del poverel di Dio narrata fumi,

e disse: «Quando l’una paglia è trita,
quando la sua semenza è già riposta,
36 a batter l’altra dolce amor m’invita.

Tu credi che nel petto onde la costa
si trasse per formar la bella guancia
39 il cui palato a tutto ‘l mondo costa,

e in quel che, forato da la lancia,
e prima e poscia tanto sodisfece,
42 che d’ogne colpa vince la bilancia,

quantunque a la natura umana lece
aver di lume, tutto fosse infuso
45 da quel valor che l’uno e l’altro fece;

e però miri a ciò ch’io dissi suso,
quando narrai che non ebbe ‘l secondo
48 lo ben che ne la quinta luce è chiuso.

Or apri li occhi a quel ch’io ti rispondo,
e vedräi il tuo credere e ‘l mio dire
51 nel vero farsi come centro in tondo.

Ciò che non more e ciò che può morire
non è se non splendor di quella idea
54 che partorisce, amando, il nostro Sire;

ché quella viva luce che sì mea
dal suo lucente, che non si disuna
57 da lui né da l’amor ch’a lor s’intrea,

per sua bontate il suo raggiare aduna,
quasi specchiato, in nove sussistenze,
60 etternalmente rimanendosi una.

Quindi discende a l’ultime potenze
giù d’atto in atto, tanto divenendo,
63 che più non fa che brevi contingenze;

e queste contingenze essere intendo
le cose generate, che produce
66 con seme e sanza seme il ciel movendo.

La cera di costoro e chi la duce
non sta d’un modo; e però sotto ‘l segno
69 idëale poi più e men traluce.

Ond’elli avvien ch’un medesimo legno,
secondo specie, meglio e peggio frutta;
72 e voi nascete con diverso ingegno.

Se fosse a punto la cera dedutta
e fosse il cielo in sua virtù supprema,
75 la luce del suggel parrebbe tutta;

ma la natura la dà sempre scema,
similemente operando a l’artista
78 ch’a l’abito de l’arte e man che trema.

Però se ‘l caldo amor la chiara vista
de la prima virtù dispone e segna,
81 tutta la perfezion quivi s’acquista.

Così fu fatta già la terra degna
di tutta l’animal perfezïone;
84 così fu fatta la Vergine pregna;

sì ch’io commendo tua oppinione,
che l’umana natura mai non fue
87 né fia qual fu in quelle due persone.

Or s’i’ non procedesse avanti piùe,
‘Dunque, come costui fu sanza pare?’
90 comincerebber le parole tue.

Ma perché paia ben ciò che non pare,
pensa chi era, e la cagion che ‘l mosse,
93 quando fu detto ‘Chiedi’, a dimandare.

Non ho parlato sì, che tu non posse
ben veder ch’el fu re, che chiese senno
96 acciò che re sufficïente fosse;

non per sapere il numero in che enno
li motor di qua sù, o se necesse
99 con contingente mai necesse fenno;

non si est dare primum motum esse,
o se del mezzo cerchio far si puote
102 triangol sì ch’un retto non avesse.

Onde, se ciò ch’io dissi e questo note,
regal prudenza è quel vedere impari
105 in che lo stral di mia intenzion percuote;

e se al “surse” drizzi li occhi chiari,
vedrai aver solamente respetto
108 ai regi, che son molti, e’ buon son rari.

Con questa distinzion prendi ‘l mio detto;
e così puote star con quel che credi
111 del primo padre e del nostro Diletto.

E questo ti sia sempre piombo a’ piedi,
per farti mover lento com’uom lasso
114 e al sì e al no che tu non vedi:

ché quelli è tra li stolti bene a basso,
che sanza distinzione afferma e nega
117 ne l’un così come ne l’altro passo;

perch’elli ‘ncontra che più volte piega
l’oppinïon corrente in falsa parte,
120 e poi l’affetto l’intelletto lega.

Vie più che ‘ndarno da riva si parte,
perché non torna tal qual e’ si move,
123 chi pesca per lo vero e non ha l’arte.

E di ciò sono al mondo aperte prove
Parmenide, Melisso e Brisso e molti,
126 li quali andaro e non sapëan dove;

sì fé Sabellio e Arrio e quelli stolti
che furon come spade a le Scritture
129 in render torti li diritti volti.

Non sien le genti, ancor, troppo sicure
a giudicar, sì come quei che stima
132 le biade in campo pria che sien mature;

ch’i’ ho veduto tutto ‘l verno prima
lo prun mostrarsi rigido e feroce;
135 poscia portar la rosa in su la cima;

e legno vidi già dritto e veloce
correr lo mar per tutto suo cammino,
138 perire al fine a l’intrar de la foce.

Non creda donna Berta e ser Martino,
per vedere un furare, altro offerere,
vederli dentro al consiglio divino;
142 ché quel può surgere, e quel può cadere».

Canto XIV

Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro
movesi l’acqua in un ritondo vaso,
3 secondo ch’è percosso fuori o dentro:

ne la mia mente fé sùbito caso
questo ch’io dico, sì come si tacque
6 la glorïosa vita di Tommaso,

per la similitudine che nacque
del suo parlare e di quel di Beatrice,
9 a cui sì cominciar, dopo lui, piacque:

«A costui fa mestieri, e nol vi dice
né con la voce né pensando ancora,
12 d’un altro vero andare a la radice.

Diteli se la luce onde s’infiora
vostra sustanza, rimarrà con voi
15 etternalmente sì com’ell’è ora;

e se rimane, dite come, poi
che sarete visibili rifatti,
18 esser porà ch’al veder non vi nòi».

Come, da più letizia pinti e tratti,
a la fïata quei che vanno a rota
21 levan la voce e rallegrano li atti,

così, a l’orazion pronta e divota,
li santi cerchi mostrar nova gioia
24 nel torneare e ne la mira nota.

Qual si lamenta perché qui si moia
per viver colà sù, non vide quive
27 lo refrigerio de l’etterna ploia.

Quell’uno e due e tre che sempre vive
e regna sempre in tre e ‘n due e ‘n uno,
30 non circunscritto, e tutto circunscrive,

tre volte era cantato da ciascuno
di quelli spirti con tal melodia,
33 ch’ad ogne merto saria giusto muno.

E io udi’ ne la luce più dia
del minor cerchio una voce modesta,
36 forse qual fu da l’angelo a Maria,

risponder: «Quanto fia lunga la festa
di paradiso, tanto il nostro amore
39 si raggerà dintorno cotal vesta.

La sua chiarezza séguita l’ardore;
l’ardor la visïone, e quella è tanta,
42 quant’ha di grazia sovra suo valore.

Come la carne glorïosa e santa
fia rivestita, la nostra persona
45 più grata fia per esser tutta quanta;

per che s’accrescerà ciò che ne dona
di gratüito lume il sommo bene,
48 lume ch’a lui veder ne condiziona;

onde la visïon crescer convene,
crescer l’ardor che di quella s’accende,
51 crescer lo raggio che da esso vene.

Ma sì come carbon che fiamma rende,
e per vivo candor quella soverchia,
54 sì che la sua parvenza si difende;

così questo folgór che già ne cerchia
fia vinto in apparenza da la carne
57 che tutto dì la terra ricoperchia;

né potrà tanta luce affaticarne:
ché li organi del corpo saran forti
60 a tutto ciò che potrà dilettarne».

Tanto mi parver sùbiti e accorti
e l’uno e l’altro coro a dicer «Amme!»,
63 che ben mostrar disio d’i corpi morti:

forse non pur per lor, ma per le mamme,
per li padri e per li altri che fuor cari
66 anzi che fosser sempiterne fiamme.

Ed ecco intorno, di chiarezza pari,
nascere un lustro sopra quel che v’era,
69 per guisa d’orizzonte che rischiari.

E sì come al salir di prima sera
comincian per lo ciel nove parvenze,
72 sì che la vista pare e non par vera,

parvemi lì novelle sussistenze
cominciare a vedere, e fare un giro
75 di fuor da l’altre due circunferenze.

Oh vero sfavillar del Santo Spiro!
come si fece sùbito e candente
78 a li occhi miei che, vinti, nol soffriro!

Ma Bëatrice sì bella e ridente
mi si mostrò, che tra quelle vedute
81 si vuol lasciar che non seguir la mente.

Quindi ripreser li occhi miei virtute
a rilevarsi; e vidimi translato
84 sol con mia donna in più alta salute.

Ben m’accors’io ch’io era più levato,
per l’affocato riso de la stella,
87 che mi parea più roggio che l’usato.

Con tutto ‘l core e con quella favella
ch’è una in tutti, a Dio feci olocausto,
90 qual conveniesi a la grazia novella.

E non er’anco del mio petto essausto
l’ardor del sacrificio, ch’io conobbi
93 esso litare stato accetto e fausto;

ché con tanto lucore e tanto robbi
m’apparvero splendor dentro a due raggi,
96 ch’io dissi: «O Elïòs che sì li addobbi!»

Come distinta da minori e maggi
lumi biancheggia tra’ poli del mondo
99 Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi;

sì costellati facean nel profondo
Marte quei raggi il venerabil segno
102 che fan giunture di quadranti in tondo.

Qui vince la memoria mia lo ‘ngegno;
ché quella croce lampeggiava Cristo,
105 sì ch’io non so trovare essempro degno;

ma chi prende sua croce e segue Cristo,
ancor mi scuserà di quel ch’io lasso,
108 vedendo in quell’albor balenar Cristo.

Di corno in corno e tra la cima e ‘l basso
si movien lumi, scintillando forte
111 nel congiugnersi insieme e nel trapasso:

così si veggion qui diritte e torte,
veloci e tarde, rinovando vista,
114 le minuzie d’i corpi, lunghe e corte,

moversi per lo raggio onde si lista
talvolta l’ombra che, per sua difesa,
117 la gente con ingegno e arte acquista.

E come giga e arpa, in tempra tesa
di molte corde, fa dolce tintinno
120 a tal da cui la nota non è intesa,

così da’ lumi che lì m’apparinno
s’accogliea per la croce una melode
123 che mi rapiva, sanza intender l’inno.

Ben m’accors’io ch’elli era d’alte lode,
però ch’a me venìa «Resurgi» e «Vinci»
126 come a colui che non intende e ode.

Iö m’innamorava tanto quinci,
che ‘nfino a lì non fu alcuna cosa
129 che mi legasse con sì dolci vinci.

Forse la mia parola par troppo osa,
posponendo il piacer de li occhi belli,
132 ne’ quai mirando mio disio ha posa;

ma chi s’avvede che i vivi suggelli
d’ogne bellezza più fanno più suso,
135 e ch’io non m’era lì rivolto a quelli,

escusar puommi di quel ch’io m’accuso
per escusarmi, e vedermi dir vero:
ché ‘l piacer santo non è qui dischiuso,
139 perché si fa, montando, più sincero.

Canto XV

Benigna volontade in che si liqua
sempre l’amor che drittamente spira,
3 come cupidità fa ne la iniqua,

silenzio puose a quella dolce lira,
e fece quïetar le sante corde
6 che la destra del cielo allenta e tira.

Come saranno a’ giusti preghi sorde
quelle sustanze che, per darmi voglia
9 ch’io le pregassi, a tacer fur concorde?

Bene è che sanza termine si doglia
chi, per amor di cosa che non duri,
12 etternalmente quello amor si spoglia.

Quale per li seren tranquilli e puri
discorre ad ora ad or sùbito foco,
15 movendo li occhi che stavan sicuri,

e pare stella che tramuti loco,
se non che da la parte ond’e’ s’accende
18 nulla sen perde, ed esso dura poco:

tale dal corno che ‘n destro si stende
a piè di quella croce corse un astro
21 de la costellazion che lì resplende;

né si partì la gemma dal suo nastro,
ma per la lista radïal trascorse,
24 che parve foco dietro ad alabastro.

Sì pïa l’ombra d’Anchise si porse,
se fede merta nostra maggior musa,
27 quando in Eliso del figlio s’accorse.

«O sanguis meus, o superinfusa
gratia Dei, sicut tibi cui

30 bis unquam celi ianua reclusa?»

Così quel lume: ond’io m’attesi a lui;
poscia rivolsi a la mia donna il viso,
33 e quinci e quindi stupefatto fui;

ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso
tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo
36 de la mia gloria e del mio paradiso.

Indi, a udire e a veder giocondo,
giunse lo spirto al suo principio cose,
39 ch’io non lo ‘ntesi, sì parlò profondo;

né per elezïon mi si nascose,
ma per necessità, ché ‘l suo concetto
42 al segno d’i mortal si soprapuose.

E quando l’arco de l’ardente affetto
fu sì sfogato, che ‘l parlar discese
45 inver’ lo segno del nostro intelletto,

la prima cosa che per me s’intese,
«Benedetto sia tu», fu, «trino e uno,
48 che nel mio seme se’ tanto cortese!»

E seguì: «Grato e lontano digiuno,
tratto leggendo del magno volume
51 du’ non si muta mai bianco né bruno,

solvuto hai, figlio, dentro a questo lume
in ch’io ti parlo, mercè di colei
54 ch’a l’alto volo ti vestì le piume.

Tu credi che a me tuo pensier mei
da quel ch’è primo, così come raia
57 da l’un, se si conosce, il cinque e ‘l sei;

e però ch’io mi sia e perch’io paia
più gaudïoso a te, non mi domandi,
60 che alcun altro in questa turba gaia.

Tu credi ‘l vero; ché i minori e’ grandi
di questa vita miran ne lo speglio
63 in che, prima che pensi, il pensier pandi;

ma perché ‘l sacro amore in che io veglio
con perpetüa vista e che m’asseta
66 di dolce disïar, s’adempia meglio,

la voce tua sicura, balda e lieta
suoni la volontà, suoni ‘l disio,
69 a che la mia risposta è già decreta!»

Io mi volsi a Beatrice, e quella udio
pria ch’io parlassi, e arrisemi un cenno
72 che fece crescer l’ali al voler mio.

Poi cominciai così: «L’affetto e ‘l senno,
come la prima equalità v’apparse,
75 d’un peso per ciascun di voi si fenno,

però che ‘l sol che v’allumò e arse,
col caldo e con la luce è sì iguali,
78 che tutte simiglianze sono scarse.

Ma voglia e argomento ne’ mortali,
per la cagion ch’a voi è manifesta,
81 diversamente son pennuti in ali;

ond’io, che son mortal, mi sento in questa
disagguaglianza, e però non ringrazio
84 se non col core a la paterna festa.

Ben supplico io a te, vivo topazio
che questa gioia prezïosa ingemmi,
87 perché mi facci del tuo nome sazio».

«O fronda mia in che io compiacemmi
pur aspettando, io fui la tua radice»:
90 cotal principio, rispondendo, femmi.

Poscia mi disse: «Quel da cui si dice
tua cognazione e che cent’anni e piùe
93 girato ha ‘l monte in la prima cornice,

mio figlio fu e tuo bisavol fue:
ben si convien che la lunga fatica
96 tu li raccorci con l’opere tue.

Fiorenza dentro da la cerchia antica,
ond’ella toglie ancora e terza e nona,
99 si stava in pace, sobria e pudica.

Non avea catenella, non corona,
non gonne contigiate, non cintura
102 che fosse a veder più che la persona.

Non faceva, nascendo, ancor paura
la figlia al padre, che ‘l tempo e la dote
105 non fuggien quinci e quindi la misura.

Non avea case di famiglia vòte;
non v’era giunto ancor Sardanapalo
108 a mostrar ciò che ‘n camera si puote.

Non era vinto ancora Montemalo
dal vostro Uccellatoio, che, com’è vinto
111 nel montar sù, così sarà nel calo.

Bellincion Berti vid’io andar cinto
di cuoio e d’osso, e venir da lo specchio
114 la donna sua sanza ‘l viso dipinto;

e vidi quel d’i Nerli e quel del Vecchio
esser contenti a la pelle scoperta,
117 e le sue donne al fuso e al pennecchio.

Oh fortunate! ciascuna era certa
de la sua sepultura, e ancor nulla
120 era per Francia nel letto diserta.

L’una vegghiava a studio de la culla,
e, consolando, usava l’idïoma
123 che prima i padri e le madri trastulla;

l’altra, traendo a la rocca la chioma,
favoleggiava con la sua famiglia
126 d’i Troiani, di Fiesole e di Roma.

Saria tenuta allor tal maraviglia
una Cianghella, un Lapo Salterello,
129 qual or saria Cincinnato e Corniglia.

A così riposato, a così bello
viver di cittadini, a così fida
132 cittadinanza, a così dolce ostello,

Maria mi diè, chiamata in alte grida;
e ne l’antico vostro Batisteo
135 insieme fui cristiano e Cacciaguida.

Moronto fu mio frate ed Eliseo;
mia donna venne a me di val di Pado,
138 e quindi il sopranome tuo si feo.

Poi seguitai lo ‘mperador Currado;
ed el mi cinse de la sua milizia,
141 tanto per bene ovrar li venni in grado.

Dietro li andai incontro a la nequizia
di quella legge il cui popolo usurpa,
144 per colpa d’i pastor, vostra giustizia.

Quivi fu’ io da quella gente turpa
disviluppato dal mondo fallace,
lo cui amor molt’anime deturpa;
148 e venni dal martiro a questa pace».

Canto XVI

O poca nostra nobiltà di sangue,
se glorïar di te la gente fai
3 qua giù dove l’affetto nostro langue,

mirabil cosa non mi sarà mai:
ché là dove appetito non si torce,
6 dico nel cielo, io me ne gloriai.

Ben se’ tu manto che tosto raccorce:
sì che, se non s’appon di dì in die,
9 lo tempo va dintorno con le force.

Dal ‘voi’ che prima a Roma s’offerie,
in che la sua famiglia men persevra,
12 ricominciaron le parole mie;

onde Beatrice, ch’era un poco scevra,
ridendo, parve quella che tossio
15 al primo fallo scritto di Ginevra.

Io cominciai: «Voi siete il padre mio;
voi mi date a parlar tutta baldezza;
18 voi mi levate sì, ch’i’ son più ch’io.

Per tanti rivi s’empie d’allegrezza
la mente mia, che di sé fa letizia
21 perché può sostener che non si spezza.

Ditemi dunque, cara mia primizia,
quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni
24 che si segnaro in vostra puerizia;

ditemi de l’ovil di San Giovanni
quanto era allora, e chi eran le genti
27 tra esso degne di più alti scanni».

Come s’avviva a lo spirar d’i venti
carbone in fiamma, così vid’io quella
30 luce risplendere a’ miei blandimenti;

e come a li occhi miei si fé più bella,
così con voce più dolce e soave,
33 ma non con questa moderna favella,

dissemi: «Da quel dì che fu detto ‘Ave
al parto in che mia madre, ch’è or santa,
36 s’allevïò di me ond’era grave,

al suo Leon cinquecento cinquanta
e trenta fiate venne questo foco
39 a rinfiammarsi sotto la sua pianta.

Li antichi miei e io nacqui nel loco
dove si truova pria l’ultimo sesto
42 da quei che corre il vostro annüal gioco.

Basti d’i miei maggiori udirne questo:
chi ei si fosser e onde venner quivi,
45 più è tacer che ragionare onesto.

Tutti color ch’a quel tempo eran ivi
da poter arme tra Marte e ‘l Batista,
48 eran il quinto di quei ch’or son vivi.

Ma la cittadinanza, ch’è or mista
di Campi, di Certaldo e di Fegghine,
51 pura vediesi ne l’ultimo artista.

Oh quanto fora meglio esser vicine
quelle genti ch’io dico, e al Galluzzo
54 e a Trespiano aver vostro confine,

che averle dentro e sostener lo puzzo
del villan d’Aguglion, di quel da Signa,
57 che già per barattare ha l’occhio aguzzo!

Se la gente ch’al mondo più traligna
non fosse stata a Cesare noverca,
60 ma come madre a suo figlio benigna,

tal fatto è fiorentino e cambia e merca,
che si sarebbe vòlto a Simifonti,
63 là dove andava l’avolo a la cerca;

sariesi Montemurlo ancor de’ Conti;
sarieno i Cerchi nel piovier d’Acone,
66 e forse in Valdigrieve i Buondelmonti.

Sempre la confusion de le persone
principio fu del mal de la cittade,
69 come del vostro il cibo che s’appone;

e cieco toro più avaccio cade
che cieco agnello; e molte volte taglia
72 più e meglio una che le cinque spade.

Se tu riguardi Luni e Orbisaglia
come sono ite, e come se ne vanno
75 di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,

udir come le schiatte si disfanno
non ti parrà nova cosa né forte,
78 poscia che le cittadi termine hanno.

Le vostre cose tutte hanno lor morte,
sì come voi; ma celasi in alcuna
81 che dura molto, e le vite son corte.

E come ‘l volger del ciel de la luna
cuopre e discuopre i liti sanza posa,
84 così fa di Fiorenza la Fortuna:

per che non dee parer mirabil cosa
ciò ch’io dirò de li alti Fiorentini
87 onde è la fama nel tempo nascosa.

Io vidi li Ughi e vidi i Catellini,
Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi,
90 già nel calare, illustri cittadini;

e vidi così grandi come antichi,
con quel de la Sannella, quel de l’Arca,
93 e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi.

Sovra la porta ch’al presente è carca
di nova fellonia di tanto peso
96 che tosto fia iattura de la barca,

erano i Ravignani, ond’è disceso
il conte Guido e qualunque del nome
99 de l’alto Bellincione ha poscia preso.

Quel de la Pressa sapeva già come
regger si vuole, e avea Galigaio
102 dorata in casa sua già l’elsa e ‘l pome.

Grand’era già la colonna del Vaio,
Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci
105 e Galli e quei ch’arrossan per lo staio.

Lo ceppo di che nacquero i Calfucci
era già grande, e già eran tratti
108 a le curule Sizii e Arrigucci.

Oh quali io vidi quei che son disfatti
per lor superbia! e le palle de l’oro
111 fiorian Fiorenza in tutt’i suoi gran fatti.

Così facieno i padri di coloro
che, sempre che la vostra chiesa vaca,
114 si fanno grassi stando a consistoro.

L’oltracotata schiatta che s’indraca
dietro a chi fugge, e a chi mostra ‘l dente
117 o ver la borsa, com’agnel si placa,

già venìa sù, ma di picciola gente;
sì che non piacque ad Ubertin Donato
120 che poï il suocero il fé lor parente.

Già era ‘l Caponsacco nel mercato
disceso giù da Fiesole, e già era
123 buon cittadino Giuda e Infangato.

Io dirò cosa incredibile e vera:
nel picciol cerchio s’entrava per porta
126 che si nomava da quei de la Pera.

Ciascun che de la bella insegna porta
del gran barone il cui nome e ‘l cui pregio
129 la festa di Tommaso riconforta,

da esso ebbe milizia e privilegio;
avvegna che con popol si rauni
132 oggi colui che la fascia col fregio.

Già eran Gualterotti e Importuni;
e ancor saria Borgo più quïeto,
135 se di novi vicin fosser digiuni.

La casa di che nacque il vostro fleto,
per lo giusto disdegno che v’ha morti,
138 e puose fine al vostro viver lieto,

era onorata, essa e suoi consorti:
o Buondelmonte, quanto mal fuggisti
141 le nozze sue per li altrui conforti!

Molti sarebber lieti, che son tristi,
se Dio t’avesse conceduto ad Ema
144 la prima volta ch’a città venisti.

Ma conveniesi a quella pietra scema
che guarda ‘l ponte, che Fiorenza fesse
147 vittima ne la sua pace postrema.

Con queste genti, e con altre con esse,
vid’io Fiorenza in sì fatto riposo,
150 che non avea cagione onde piangesse:

con queste genti vid’io glorïoso
e giusto il popol suo, tanto che ‘l giglio
non era ad asta mai posto a ritroso,
154 né per divisïon fatto vermiglio».

Canto XVII

Qual venne a Climené, per accertarsi
di ciò ch’avëa incontro a sé udito,
3 quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi;

tal era io, e tal era sentito
e da Beatrice e da la santa lampa
6 che pria per me avea mutato sito.

Per che mia donna «Manda fuor la vampa
del tuo disio», mi disse, «sì ch’ella esca
9 segnata bene de la interna stampa;

non perché nostra conoscenza cresca
per tuo parlare, ma perché t’ausi
12 a dir la sete, sì che l’uom ti mesca».

«O cara piota mia che sì t’insusi,
che, come veggion le terrene menti
15 non capere in trïangol due ottusi,

così vedi le cose contingenti
anzi che sieno in sé, mirando il punto
18 a cui tutti li tempi son presenti;

mentre ch’io era a Virgilio congiunto
su per lo monte che l’anime cura
21 e discendendo nel mondo defunto,

dette mi fuor di mia vita futura
parole gravi, avvegna ch’io mi senta
24 ben tetragono ai colpi di ventura;

per che la voglia mia saria contenta
d’intender qual fortuna mi s’appressa;
27 ché saetta previsa vien più lenta».

Così diss’io a quella luce stessa
che pria m’avea parlato; e come volle
30 Beatrice, fu la mia voglia confessa.

Né per ambage, in che la gente folle
già s’inviscava pria che fosse anciso
33 l’Agnel di Dio che le peccata tolle,

ma per chiare parole e con preciso
latin rispuose quello amor paterno,
36 chiuso e parvente del suo proprio riso:

«La contingenza, che fuor del quaderno
de la vostra matera non si stende,
39 tutta è dipinta nel cospetto etterno:

necessità però quindi non prende
se non come dal viso in che si specchia
42 nave che per torrente giù discende.

Da indi, sì come viene ad orecchia
dolce armonia da organo, mi viene
45 a vista il tempo che ti s’apparecchia.

Qual si partio Ipolito d’Atene
per la spietata e perfida noverca,
48 tal di Fiorenza partir ti convene.

Questo si vuole e questo già si cerca,
e tosto verrà fatto a chi ciò pensa
51 là dove Cristo tutto dì si merca.

La colpa seguirà la parte offensa
in grido, come suol; ma la vendetta
54 fia testimonio al ver che la dispensa.

Tu lascerai ogne cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
57 che l’arco de lo essilio pria saetta.

Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
60 lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.

E quel che più ti graverà le spalle,
sarà la compagnia malvagia e scempia
63 con la qual tu cadrai in questa valle;

che tutta ingrata, tutta matta ed empia
si farà contr’a te; ma, poco appresso,
66 ella, non tu, n’avrà rossa la tempia.

Di sua bestialitate il suo processo
farà la prova; sì ch’a te fia bello
69 averti fatta parte per te stesso.

Lo primo tuo refugio e ‘l primo ostello
sarà la cortesia del gran Lombardo
72 che ‘n su la scala porta il santo uccello;

ch’in te avrà sì benigno riguardo,
che del fare e del chieder, tra voi due,
75 fia primo quel che tra li altri è più tardo.

Con lui vedrai colui che ‘mpresso fue,
nascendo, sì da questa stella forte,
78 che notabili fier l’opere sue.

Non se ne son le genti ancora accorte
per la novella età, ché pur nove anni
81 son queste rote intorno di lui torte;

ma pria che ‘l Guasco l’alto Arrigo inganni,
parran faville de la sua virtute
84 in non curar d’argento né d’affanni.

Le sue magnificenze conosciute
saranno ancora, sì che ‘suoi nemici
87 non ne potran tener le lingue mute.

A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;
per lui fia trasmutata molta gente,
90 cambiando condizion ricchi e mendici;

e portera’ne scritto ne la mente
di lui, e nol dirai»; e disse cose
93 incredibili a quei che fier presente.

Poi giunse: «Figlio, queste son le chiose
di quel che ti fu detto; ecco le ‘nsidie
96 che dietro a pochi giri son nascose.

Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,
poscia che s’infutura la tua vita
99 vie più là che ‘l punir di lor perfidie».

Poi che, tacendo, si mostrò spedita
l’anima santa di metter la trama
102 in quella tela ch’io le porsi ordita,

io cominciai, come colui che brama,
dubitando, consiglio da persona
105 che vede e vuol dirittamente e ama:

«Ben veggio, padre mio, sì come sprona
lo tempo verso me, per colpo darmi
108 tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona;

per che di provedenza è buon ch’io m’armi,
sì che, se loco m’è tolto più caro,
111 io non perdessi li altri per miei carmi.

Giù per lo mondo sanza fine amaro,
e per lo monte del cui bel cacume
114 li occhi de la mia donna mi levaro,

e poscia per lo ciel, di lume in lume,
ho io appreso quel che s’io ridico,
117 a molti fia sapor di forte agrume;

e s’io al vero son timido amico,
temo di perder viver tra coloro
120 che questo tempo chiameranno antico».

La luce in che rideva il mio tesoro
ch’io trovai lì, si fé prima corusca,
123 quale a raggio di sole specchio d’oro;

indi rispuose: «Coscïenza fusca
o de la propria o de l’altrui vergogna
126 pur sentirà la tua parola brusca.

Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta;
129 e lascia pur grattar dov’è la rogna.

Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
132 lascerà poi, quando sarà digesta.

Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote;
135 e ciò non fa d’onor poco argomento.

Però ti son mostrate in queste rote,
nel monte e ne la valle dolorosa
138 pur l’anime che son di fama note,

che l’animo di quel ch’ode, non posa
né ferma fede per essempro ch’aia
la sua radice incognita e ascosa,
142 né per altro argomento che non paia».

Canto XVIII

Già si godeva solo del suo verbo
quello specchio beato, e io gustava
3 lo mio, temprando col dolce l’acerbo;

e quella donna ch’a Dio mi menava
disse: «Muta pensier; pensa ch’i’ sono
6 presso a colui ch’ogne torto disgrava».

Io mi rivolsi a l’amoroso suono
del mio conforto; e qual io allor vidi
9 ne li occhi santi amor, qui l’abbandono;

non perch’io pur del mio parlar diffidi,
ma per la mente che non può redire
12 sovra sé tanto, s’altri non la guidi.

Tanto poss’io di quel punto ridire,
che, rimirando lei, lo mio affetto
15 libero fu da ogne altro disire,

fin che ‘l piacere etterno, che diretto
raggiava in Bëatrice, dal bel viso
18 mi contentava col secondo aspetto.

Vincendo me col lume d’un sorriso,
ella mi disse: «Volgiti e ascolta;
21 ché non pur ne’ miei occhi è paradiso».

Come si vede qui alcuna volta
l’affetto ne la vista, s’elli è tanto,
24 che da lui sia tutta l’anima tolta,

così nel fiammeggiar del folgór santo,
a ch’io mi volsi, conobbi la voglia
27 in lui di ragionarmi ancora alquanto.

El cominciò: «In questa quinta soglia
de l’albero che vive de la cima
30 e frutta sempre e mai non perde foglia,

spiriti son beati, che giù, prima
che venissero al ciel, fuor di gran voce,
33 sì ch’ogne musa ne sarebbe opima.

Però mira ne’ corni de la croce:
quello ch’io nomerò, lì farà l’atto
36 che fa in nube il suo foco veloce».

Io vidi per la croce un lume tratto
dal nomar Iosuè, com’el si feo;
39 né mi fu noto il dir prima che ‘l fatto.

E al nome de l’alto Macabeo
vidi moversi un altro roteando,
42 e letizia era ferza del paleo.

Così per Carlo Magno e per Orlando
due ne seguì lo mio attento sguardo,
45 com’occhio segue suo falcon volando.

Poscia trasse Guiglielmo e Rinoardo
e ‘l duca Gottifredi la mia vista
48 per quella croce, e Ruberto Guiscardo.

Indi, tra l’altre luci mota e mista,
mostrommi l’alma che m’avea parlato
51 qual era tra i cantor del cielo artista.

Io mi rivolsi dal mio destro lato
per vedere in Beatrice il mio dovere,
54 o per parlare o per atto, segnato;

e vidi le sue luci tanto mere,
tanto gioconde, che la sua sembianza
57 vinceva li altri e l’ultimo solere.

E come, per sentir più dilettanza
bene operando, l’uom di giorno in giorno
60 s’accorge che la sua virtute avanza,

sì m’accors’io che ‘l mio girare intorno
col cielo insieme avea cresciuto l’arco,
63 veggendo quel miracol più addorno.

E qual è ‘l trasmutare in picciol varco
di tempo in bianca donna, quando ‘l volto
66 suo si discarchi di vergogna il carco,

tal fu ne li occhi miei, quando fui vòlto,
per lo candor de la temprata stella
69 sesta, che dentro a sé m’avea ricolto.

Io vidi in quella giovïal facella
lo sfavillar de l’amor che lì era,
72 segnare a li occhi miei nostra favella.

E come augelli surti di rivera,
quasi congratulando a lor pasture,
75 fanno di sé or tonda or altra schiera,

sì dentro ai lumi sante creature
volitando cantavano, e faciensi
78 or D, or I, or L in sue figure.

Prima, cantando, a sua nota moviensi;
poi, diventando l’un di questi segni,
81 un poco s’arrestavano e taciensi.

O diva Pegasëa che li ‘ngegni
fai glorïosi e rendili longevi,
84 ed essi teco le cittadi e ‘regni,

illustrami di te, sì ch’io rilevi
le lor figure com’io l’ho concette:
87 paia tua possa in questi versi brevi!

Mostrarsi dunque in cinque volte sette
vocali e consonanti; e io notai
90 le parti sì, come mi parver dette.

DILIGITE IUSTITIAM‘, primai
fur verbo e nome di tutto ‘l dipinto;
93QUI IUDICATIS TERRAM‘, fur sezzai.

Poscia ne l’emme del vocabol quinto
rimasero ordinate; sì che Giove
96 pareva argento lì d’oro distinto.

E vidi scendere altre luci dove
era il colmo de l’emme, e lì quetarsi
99 cantando, credo, il ben ch’a sé le move.

Poi, come nel percuoter d’i ciocchi arsi
surgono innumerabili faville,
102 onde li stolti sogliono agurarsi,

resurger parver quindi più di mille
luci e salir, qual assai e qual poco,
105 sì come ‘l sol che l’accende sortille;

e quïetata ciascuna in suo loco,
la testa e ‘l collo d’un’aguglia vidi
108 rappresentare a quel distinto foco.

Quei che dipinge lì, non ha chi ‘l guidi;
ma esso guida, e da lui si rammenta
111 quella virtù ch’è forma per li nidi.

L’altra bëatitudo, che contenta
pareva prima d’ingigliarsi a l’emme,
114 con poco moto seguitò la ‘mprenta.

O dolce stella, quali e quante gemme
mi dimostraro che nostra giustizia
117 effetto sia del ciel che tu ingemme!

Per ch’io prego la mente in che s’inizia
tuo moto e tua virtute, che rimiri
120 ond’esce il fummo che ‘l tuo raggio vizia;

sì ch’un’altra fïata omai s’adiri
del comperare e vender dentro al templo
123 che si murò di segni e di martìri.

O milizia del ciel cu’ io contemplo,
adora per color che sono in terra
126 tutti svïati dietro al malo esemplo!

Già si solea con le spade far guerra;
ma or si fa togliendo or qui or quivi
129 lo pan che ‘l pïo Padre a nessun serra.

Ma tu che sol per cancellare scrivi,
pensa che Pietro e Paulo, che moriro
132 per la vigna che guasti, ancor son vivi.

Ben puoi tu dire: «I’ ho fermo ‘l disiro
sì a colui che volle viver solo
e che per salti fu tratto al martiro,
136 ch’io non conosco il pescator né Polo».

Canto XIX

Parea dinanzi a me con l’ali aperte
la bella image che nel dolce frui
3 liete facevan l’anime conserte;

parea ciascuna rubinetto in cui
raggio di sole ardesse sì acceso,
6 che ne’ miei occhi rifrangesse lui.

E quel che mi convien ritrar testeso,
non portò voce mai, né scrisse incostro,
9 né fu per fantasia già mai compreso;

ch’io vidi e anche udi’ parlar lo rostro,
e sonar ne la voce e «io» e «mio»,
12 quand’era nel concetto e ‘noi’ e ‘nostro’.

E cominciò: «Per esser giusto e pio
son io qui essaltato a quella gloria
15 che non si lascia vincere a disio;

e in terra lasciai la mia memoria
sì fatta, che le genti lì malvage
18 commendan lei, ma non seguon la storia».

Così un sol calor di molte brage
si fa sentir, come di molti amori
21 usciva solo un suon di quella image.

Ond’io appresso: «O perpetüi fiori
de l’etterna letizia, che pur uno
24 parer mi fate tutti vostri odori,

solvetemi, spirando, il gran digiuno
che lungamente m’ha tenuto in fame,
27 non trovandoli in terra cibo alcuno.

Ben so io che, se ‘n cielo altro reame
la divina giustizia fa suo specchio,
30 che ‘l vostro non l’apprende con velame.

Sapete come attento io m’apparecchio
ad ascoltar; sapete qual è quello
33 dubbio che m’è digiun cotanto vecchio».

Quasi falcone ch’esce del cappello,
move la testa e con l’ali si plaude,
36 voglia mostrando e faccendosi bello,

vid’io farsi quel segno, che di laude
de la divina grazia era contesto,
39 con canti quai si sa chi là sù gaude.

Poi cominciò: «Colui che volse il sesto
a lo stremo del mondo, e dentro ad esso
42 distinse tanto occulto e manifesto,

non poté suo valor sì fare impresso
in tutto l’universo, che ‘l suo verbo
45 non rimanesse in infinito eccesso.

E ciò fa certo che ‘l primo superbo,
che fu la somma d’ogne creatura,
48 per non aspettar lume, cadde acerbo;

e quinci appar ch’ogne minor natura
è corto recettacolo a quel bene
51 che non ha fine e sé con sé misura.

Dunque vostra veduta, che convene
esser alcun de’ raggi de la mente
54 di che tutte le cose son ripiene,

non pò da sua natura esser possente
tanto, che suo principio discerna
57 molto di là da quel che l’è parvente.

Però ne la giustizia sempiterna
la vista che riceve il vostro mondo,
60 com’occhio per lo mare, entro s’interna;

che, ben che da la proda veggia il fondo,
in pelago nol vede; e nondimeno
63 èli, ma cela lui l’esser profondo.

Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai; anzi è tenebra
66 od ombra de la carne o suo veleno.

Assai t’è mo aperta la latebra
che t’ascondeva la giustizia viva,
69 di che facei question cotanto crebra;

ché tu dicevi: “Un uom nasce a la riva
de l’Indo, e quivi non è chi ragioni
72 di Cristo né chi legga né chi scriva;

e tutti suoi voleri e atti buoni
sono, quanto ragione umana vede,
75 sanza peccato in vita o in sermoni.

Muore non battezzato e sanza fede:
ov’è questa giustizia che ‘l condanna?
78 ov’è la colpa sua, se ei non crede?”

Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna,
per giudicar di lungi mille miglia
81 con la veduta corta d’una spanna?

Certo a colui che meco s’assottiglia,
se la Scrittura sovra voi non fosse,
84 da dubitar sarebbe a maraviglia.

Oh terreni animali! oh menti grosse!
La prima volontà, ch’è da sé buona,
87 da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse.

Cotanto è giusto quanto a lei consuona:
nullo creato bene a sé la tira,
90 ma essa, radïando, lui cagiona».

Quale sovresso il nido si rigira
poi c’ha pasciuti la cicogna i figli,
93 e come quel ch’è pasto la rimira;

cotal si fece, e sì leväi i cigli,
la benedetta imagine, che l’ali
96 movea sospinte da tanti consigli.

Roteando cantava, e dicea: «Quali
son le mie note a te, che non le ‘ntendi,
99 tal è il giudicio etterno a voi mortali».

Poi si quetaro quei lucenti incendi
de lo Spirito Santo ancor nel segno
102 che fé i Romani al mondo reverendi,

esso ricominciò: «A questo regno
non salì mai chi non credette ‘n Cristo,
105 né pria né poi ch’el si chiavasse al legno.

Ma vedi: molti gridan ‘Cristo, Cristo!’,
che saranno in giudicio assai men prope
108 a lui, che tal che non conosce Cristo;

e tai Cristian dannerà l’Etïòpe,
quando si partiranno i due collegi,
111 l’uno in etterno ricco e l’altro inòpe.

Che poran dir li Perse a’ vostri regi,
come vedranno quel volume aperto
114 nel qual si scrivon tutti suoi dispregi?

Lì si vedrà, tra l’opere d’Alberto,
quella che tosto moverà la penna,
117 per che ‘l regno di Praga fia diserto.

Lì si vedrà il duol che sovra Senna
induce, falseggiando la moneta,
120 quel che morrà di colpo di cotenna.

Lì si vedrà la superbia ch’asseta,
che fa lo Scotto e l’Inghilese folle,
123 sì che non può soffrir dentro a sua meta.

Vedrassi la lussuria e ‘l viver molle
di quel di Spagna e di quel di Boemme,
126 che mai valor non conobbe né volle.

Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme
segnata con un i la sua bontate,
129 quando ‘l contrario segnerà un emme.

Vedrassi l’avarizia e la viltate
di quei che guarda l’isola del foco,
132 ove Anchise finì la lunga etate;

e a dare ad intender quanto è poco,
la sua scrittura fian lettere mozze,
135 che noteranno molto in parvo loco.

E parranno a ciascun l’opere sozze
del barba e del fratel, che tanto egregia
138 nazione e due corone han fatte bozze.

E quel di Portogallo e di Norvegia
lì si conosceranno, e quel di Rascia
141 che male ha visto il conio di Vinegia.

Oh beata Ungheria, se non si lascia
più malmenare! e beata Navarra,
144 se s’armasse del monte che la fascia!

E creder de’ ciascun che già, per arra
di questo, Niccosïa e Famagosta
per la lor bestia si lamenti e garra,
148 che dal fianco de l’altre non si scosta».

Canto XX

Quando colui che tutto ‘l mondo alluma
de l’emisperio nostro sì discende,
3 che ‘l giorno d’ogne parte si consuma,

lo ciel, che sol di lui prima s’accende,
subitamente si rifà parvente
6 per molte luci, in che una risplende;

e questo atto del ciel mi venne a mente,
come ‘l segno del mondo e de’ suoi duci
9 nel benedetto rostro fu tacente;

però che tutte quelle vive luci,
vie più lucendo, cominciaron canti
12 da mia memoria labili e caduci.

O dolce amor che di riso t’ammanti,
quanto parevi ardente in que’ flailli,
15 ch’avieno spirto sol di pensier santi!

Poscia che i cari e lucidi lapilli
ond’io vidi ingemmato il sesto lume
18 puoser silenzio a li angelici squilli,

udir mi parve un mormorar di fiume
che scende chiaro giù di pietra in pietra,
21 mostrando l’ubertà del suo cacume.

E come suono al collo de la cetra
prende sua forma, e sì com’al pertugio
24 de la sampogna vento che penètra,

così, rimosso d’aspettare indugio,
quel mormorar de l’aguglia salissi
27 su per lo collo, come fosse bugio.

Fecesi voce quivi, e quindi uscissi
per lo suo becco in forma di parole,
30 quali aspettava il core ov’io le scrissi.

«La parte in me che vede e pate il sole
ne l’aguglie mortali», incominciommi,
33 «or fisamente riguardar si vole,

perché d’i fuochi ond’io figura fommi,
quelli onde l’occhio in testa mi scintilla,
36 e’ di tutti lor gradi son li sommi.

Colui che luce in mezzo per pupilla,
fu il cantor de lo Spirito Santo,
39 che l’arca traslatò di villa in villa:

ora conosce il merto del suo canto,
in quanto effetto fu del suo consiglio,
42 per lo remunerar ch’è altrettanto.

Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio,
colui che più al becco mi s’accosta,
45 la vedovella consolò del figlio:

ora conosce quanto caro costa
non seguir Cristo, per l’esperienza
48 di questa dolce vita e de l’opposta.

E quel che segue in la circunferenza
di che ragiono, per l’arco superno,
51 morte indugiò per vera penitenza:

ora conosce che ‘l giudicio etterno
non si trasmuta, quando degno preco
54 fa crastino là giù de l’odïerno.

L’altro che segue, con le leggi e meco,
sotto buona intenzion che fé mal frutto,
57 per cedere al pastor si fece greco:

ora conosce come il mal dedutto
dal suo bene operar non li è nocivo,
60 avvegna che sia ‘l mondo indi distrutto.

E quel che vedi ne l’arco declivo,
Guiglielmo fu, cui quella terra plora
63 che piagne Carlo e Federigo vivo:

ora conosce come s’innamora
lo ciel del giusto rege, e al sembiante
66 del suo fulgore il fa vedere ancora.

Chi crederebbe giù nel mondo errante,
che Rifëo Troiano in questo tondo
69 fosse la quinta de le luci sante?

Ora conosce assai di quel che ‘l mondo
veder non può de la divina grazia,
72 ben che sua vista non discerna il fondo».

Quale allodetta che ‘n aere si spazia
prima cantando, e poi tace contenta
75 de l’ultima dolcezza che la sazia,

tal mi sembiò l’imago de la ‘mprenta
de l’etterno piacere, al cui disio
78 ciascuna cosa qual ell’è diventa.

E avvegna ch’io fossi al dubbiar mio
lì quasi vetro a lo color ch’el veste,
81 tempo aspettar tacendo non patio,

ma de la bocca, «Che cose son queste?»,
mi pinse con la forza del suo peso:
84 per ch’io di coruscar vidi gran feste.

Poi appresso, con l’occhio più acceso,
lo benedetto segno mi rispuose
87 per non tenermi in ammirar sospeso:

«Io veggio che tu credi queste cose
perch’io le dico, ma non vedi come;
90 sì che, se son credute, sono ascose.

Fai come quei che la cosa per nome
apprende ben, ma la sua quiditate
93 veder non può se altri non la prome.

Regnum celorum vïolenza pate
da caldo amore e da viva speranza,
96 che vince la divina volontate:

non a guisa che l’omo a l’om sobranza,
ma vince lei perché vuole esser vinta,
99 e, vinta, vince con sua beninanza.

La prima vita del ciglio e la quinta
ti fa maravigliar, perché ne vedi
102 la regïon de li angeli dipinta.

D’i corpi suoi non uscir, come credi,
Gentili, ma Cristiani, in ferma fede
105 quel d’i passuri e quel d’i passi piedi.

Ché l’una de lo ‘nferno, u’ non si riede
già mai a buon voler, tornò a l’ossa;
108 e ciò di viva spene fu mercede:

di viva spene, che mise la possa
ne’ prieghi fatti a Dio per suscitarla,
111 sì che potesse sua voglia esser mossa.

L’anima glorïosa onde si parla,
tornata ne la carne, in che fu poco,
114 credette in lui che potëa aiutarla;

e credendo s’accese in tanto foco
di vero amor, ch’a la morte seconda
117 fu degna di venire a questo gioco.

L’altra, per grazia che da sì profonda
fontana stilla, che mai creatura
120 non pinse l’occhio infino a la prima onda,

tutto suo amor là giù pose a drittura:
per che, di grazia in grazia, Dio li aperse
123 l’occhio a la nostra redenzion futura;

ond’ei credette in quella, e non sofferse
da indi il puzzo più del paganesmo;
126 e riprendiene le genti perverse.

Quelle tre donne li fur per battesmo
che tu vedesti da la destra rota,
129 dinanzi al battezzar più d’un millesmo.

O predestinazion, quanto remota
è la radice tua da quelli aspetti
132 che la prima cagion non veggion tota!

E voi, mortali, tenetevi stretti
a giudicar; ché noi, che Dio vedemo,
135 non conosciamo ancor tutti li eletti;

ed ènne dolce così fatto scemo,
perché il ben nostro in questo ben s’affina,
138 che quel che vole Iddio, e noi volemo».

Così da quella imagine divina,
per farmi chiara la mia corta vista,
141 data mi fu soave medicina.

E come a buon cantor buon citarista
fa seguitar lo guizzo de la corda,
144 in che più di piacer lo canto acquista,

sì, mentre ch’e’ parlò, sì mi ricorda
ch’io vidi le due luci benedette,
pur come batter d’occhi si concorda,
148 con le parole mover le fiammette.

Canto XXI

Già eran li occhi miei rifissi al volto
de la mia donna, e l’animo con essi,
3 e da ogne altro intento s’era tolto.

E quella non ridea; ma «S’io ridessi»,
mi cominciò, «tu ti faresti quale
6 fu Semelè quando di cener fessi;

ché la bellezza mia, che per le scale
de l’etterno palazzo più s’accende,
9 com’hai veduto, quanto più si sale,

se non si temperasse, tanto splende,
che ‘l tuo mortal podere, al suo fulgore,
12 sarebbe fronda che trono scoscende.

Noi sem levati al settimo splendore,
che sotto ‘l petto del Leone ardente
15 raggia mo misto giù del suo valore.

Ficca di retro a li occhi tuoi la mente,
e fa di quelli specchi a la figura
18 che ‘n questo specchio ti sarà parvente».

Qual savesse qual era la pastura
del viso mio ne l’aspetto beato
21 quand’io mi trasmutai ad altra cura,

conoscerebbe quanto m’era a grato
ubidire a la mia celeste scorta,
24 contrapesando l’un con l’altro lato.

Dentro al cristallo che ‘l vocabol porta,
cerchiando il mondo, del suo caro duce
27 sotto cui giacque ogne malizia morta,

di color d’oro in che raggio traluce
vid’io uno scaleo eretto in suso
30 tanto, che nol seguiva la mia luce.

Vidi anche per li gradi scender giuso
tanti splendor, ch’io pensai ch’ogne lume
33 che par nel ciel, quindi fosse diffuso.

E come, per lo natural costume,
le pole insieme, al cominciar del giorno,
36 si movono a scaldar le fredde piume;

poi altre vanno via sanza ritorno,
altre rivolgon sé onde son mosse,
39 e altre roteando fan soggiorno;

tal modo parve me che quivi fosse
in quello sfavillar che ‘nsieme venne,
42 sì come in certo grado si percosse.

E quel che presso più ci si ritenne,
si fé sì chiaro, ch’io dicea pensando:
45 «Io veggio ben l’amor che tu m’accenne.

Ma quella ond’io aspetto il come e ‘l quando
del dire e del tacer, si sta; ond’io,
48 contra ‘l disio, fo ben ch’io non dimando».

Per ch’ella, che vedëa il tacer mio
nel veder di colui che tutto vede,
51 mi disse: «Solvi il tuo caldo disio».

E io incominciai: «La mia mercede
non mi fa degno de la tua risposta;
54 ma per colei che ‘l chieder mi concede,

vita beata che ti stai nascosta
dentro a la tua letizia, fammi nota
57 la cagion che sì presso mi t’ha posta;

e di’ perché si tace in questa rota
la dolce sinfonia di paradiso,
60 che giù per l’altre suona sì divota».

«Tu hai l’udir mortal sì come il viso»,
rispuose a me; «onde qui non si canta
63 per quel che Bëatrice non ha riso.

Giù per li gradi de la scala santa
discesi tanto sol per farti festa
66 col dire e con la luce che mi ammanta;

né più amor mi fece esser più presta;
ché più e tanto amor quinci sù ferve,
69 sì come il fiammeggiar ti manifesta.

Ma l’alta carità, che ci fa serve
pronte al consiglio che ‘l mondo governa,
72 sorteggia qui sì come tu osserve».

«Io veggio ben», diss’io, «sacra lucerna,
come libero amore in questa corte
75 basta a seguir la provedenza etterna;

ma questo è quel ch’a cerner mi par forte,
perché predestinata fosti sola
78 a questo officio tra le tue consorte».

Né venni prima a l’ultima parola,
che del suo mezzo fece il lume centro,
81 girando sé come veloce mola;

poi rispuose l’amor che v’era dentro:
«Luce divina sopra me s’appunta,
84 penetrando per questa in ch’io m’inventro,

la cui virtù, col mio veder congiunta,
mi leva sopra me tanto, ch’i’ veggio
87 la somma essenza de la quale è munta.

Quinci vien l’allegrezza ond’io fiammeggio;
per ch’a la vista mia, quant’ella è chiara,
90 la chiarità de la fiamma pareggio.

Ma quell’alma nel ciel che più si schiara,
quel serafin che ‘n Dio più l’occhio ha fisso,
93 a la dimanda tua non satisfara,

però che sì s’innoltra ne lo abisso
de l’etterno statuto quel che chiedi,
96 che da ogne creata vista è scisso.

E al mondo mortal, quando tu riedi,
questo rapporta, sì che non presumma
99 a tanto segno più mover li piedi.

La mente, che qui luce, in terra fumma;
onde riguarda come può là giùe
102 quel che non pote perché ‘l ciel l’assumma».

Sì mi prescrisser le parole sue,
ch’io lasciai la quistione e mi ritrassi
105 a dimandarla umilmente chi fue.

«Tra ‘ due liti d’Italia surgon sassi,
e non molto distanti a la tua patria,
108 tanto che ‘troni assai suonan più bassi,

e fanno un gibbo che si chiama Catria,
di sotto al quale è consecrato un ermo,
111 che suole esser disposto a sola latria».

Così ricominciommi il terzo sermo;
e poi, continüando, disse: «Quivi
114 al servigio di Dio mi fe’ sì fermo,

che pur con cibi di liquor d’ulivi
lievemente passava caldi e geli,
117 contento ne’ pensier contemplativi.

Render solea quel chiostro a questi cieli
fertilemente; e ora è fatto vano,
120 sì che tosto convien che si riveli.

In quel loco fu’ io Pietro Damiano,
e Pietro Peccator fu’ ne la casa
123 di Nostra Donna in sul lito adriano.

Poca vita mortal m’era rimasa,
quando fui chiesto e tratto a quel cappello,
126 che pur di male in peggio si travasa.

Venne Cefàs e venne il gran vasello
de lo Spirito Santo, magri e scalzi,
129 prendendo il cibo da qualunque ostello.

Or voglion quinci e quindi chi rincalzi
li moderni pastori e chi li meni,
132 tanto son gravi, e chi di rietro li alzi.

Cuopron d’i manti loro i palafreni,
sì che due bestie van sott’una pelle:
135 oh pazïenza che tanto sostieni!»

A questa voce vid’io più fiammelle
di grado in grado scendere e girarsi,
138 e ogne giro le facea più belle.

Dintorno a questa vennero e fermarsi,
e fero un grido di sì alto suono,
che non potrebbe qui assomigliarsi;
142 né io lo ‘ntesi, sì mi vinse il tuono.

Canto XXII

Oppresso di stupore, a la mia guida
mi volsi, come parvol che ricorre
3 sempre colà dove più si confida;

e quella, come madre che soccorre
sùbito al figlio palido e anelo
6 con la sua voce, che ‘l suol ben disporre,

mi disse: «Non sai tu che tu se’ in cielo?
e non sai tu che ‘l cielo è tutto santo,
9 e ciò che ci si fa vien da buon zelo?

Come t’avrebbe trasmutato il canto,
e io ridendo, mo pensar lo puoi,
12 poscia che ‘l grido t’ha mosso cotanto;

nel qual, se ‘nteso avessi i prieghi suoi,
già ti sarebbe nota la vendetta
15 che tu vedrai innanzi che tu muoi.

La spada di qua sù non taglia in fretta
né tardo, ma’ ch’al parer di colui
18 che disïando o temendo l’aspetta.

Ma rivolgiti omai inverso altrui;
ch’assai illustri spiriti vedrai,
21 se com’io dico l’aspetto redui».

Come a lei piacque, li occhi ritornai,
e vidi cento sperule che ‘nsieme
24 più s’abbellivan con mutüi rai.

Io stava come quei che ‘n sé repreme
la punta del disio, e non s’attenta
27 di domandar, sì del troppo si teme;

e la maggiore e la più luculenta
di quelle margherite innanzi fessi,
30 per far di sé la mia voglia contenta.

Poi dentro a lei udi’: «Se tu vedessi
com’io la carità che tra noi arde,
33 li tuoi concetti sarebbero espressi.

Ma perché tu, aspettando, non tarde
a l’alto fine, io ti farò risposta
36 pur al pensier, da che sì ti riguarde.

Quel monte a cui Cassino è ne la costa
fu frequentato già in su la cima
39 da la gente ingannata e mal disposta;

e quel son io che sù vi portai prima
lo nome di colui che ‘n terra addusse
42 la verità che tanto ci soblima;

e tanta grazia sopra me relusse,
ch’io ritrassi le ville circunstanti
45 da l’empio cólto che ‘l mondo sedusse.

Questi altri fuochi tutti contemplanti
uomini fuoro, accesi di quel caldo
48 che fa nascere i fiori e’ frutti santi.

Qui è Maccario, qui è Romoaldo,
qui son li frati miei che dentro ai chiostri
51 fermar li piedi e tennero il cor saldo».

E io a lui: «L’affetto che dimostri
meco parlando, e la buona sembianza
54 ch’io veggio e noto in tutti li ardor vostri,

così m’ha dilatata mia fidanza,
come ‘l sol fa la rosa quando aperta
57 tanto divien quant’ell’ha di possanza.

Però ti priego, e tu, padre, m’accerta
s’io posso prender tanta grazia, ch’io
60 ti veggia con imagine scoverta».

Ond’elli: «Frate, il tuo alto disio
s’adempierà in su l’ultima spera,
63 ove s’adempion tutti li altri e ‘l mio.

Ivi è perfetta, matura e intera
ciascuna dïsianza; in quella sola
66 è ogne parte là ove sempr’era,

perché non è in loco e non s’impola;
e nostra scala infino ad essa varca,
69 onde così dal viso ti s’invola.

Infin là sù la vide il patriarca
Iacobbe porger la superna parte,
72 quando li apparve d’angeli sì carca.

Ma, per salirla, mo nessun diparte
da terra i piedi, e la regola mia
75 rimasa è per danno de le carte.

Le mura che solieno esser badia
fatte sono spelonche, e le cocolle
78 sacca son piene di farina ria.

Ma grave usura tanto non si tolle
contra ‘l piacer di Dio, quanto quel frutto
81 che fa il cor de’ monaci sì folle;

ché quantunque la Chiesa guarda, tutto
è de la gente che per Dio dimanda;
84 non di parenti né d’altro più brutto.

La carne d’i mortali è tanto blanda,
che giù non basta buon cominciamento
87 dal nascer de la quercia al far la ghianda.

Pier cominciò sanz’oro e sanz’argento,
e io con orazione e con digiuno,
90 e Francesco umilmente il suo convento;

e se guardi ‘l principio di ciascuno,
poscia riguardi là dov’è trascorso,
93 tu vederai del bianco fatto bruno.

Veramente Iordan vòlto retrorso
più fu, e ‘l mar fuggir, quando Dio volse,
96 mirabile a veder che qui ‘l soccorso».

Così mi disse, e indi si raccolse
al suo collegio, e ‘l collegio si strinse;
99 poi, come turbo, in sù tutto s’avvolse.

La dolce donna dietro a lor mi pinse
con un sol cenno su per quella scala,
102 sì sua virtù la mia natura vinse;

né mai qua giù dove si monta e cala
naturalmente, fu sì ratto moto
105 ch’agguagliar si potesse a la mia ala.

S’io torni mai, lettore, a quel divoto
triünfo per lo quale io piango spesso
108 le mie peccata e ‘l petto mi percuoto,

tu non avresti in tanto tratto e messo
nel foco il dito, in quant’io vidi ‘l segno
111 che segue il Tauro e fui dentro da esso.

O glorïose stelle, o lume pregno
di gran virtù, dal quale io riconosco
114 tutto, qual che si sia, il mio ingegno,

con voi nasceva e s’ascondeva vosco
quelli ch’è padre d’ogne mortal vita,
117 quand’io senti’ di prima l’aere tosco;

e poi, quando mi fu grazia largita
d’entrar ne l’alta rota che vi gira,
120 la vostra regïon mi fu sortita.

A voi divotamente ora sospira
l’anima mia, per acquistar virtute
123 al passo forte che a sé la tira.

«Tu se’ sì presso a l’ultima salute»,
cominciò Beatrice, «che tu dei
126 aver le luci tue chiare e acute;

e però, prima che tu più t’inlei,
rimira in giù, e vedi quanto mondo
129 sotto li piedi già esser ti fei;

sì che ‘l tuo cor, quantunque può, giocondo
s’appresenti a la turba trïunfante
132 che lieta vien per questo etera tondo».

Col viso ritornai per tutte quante
le sette spere, e vidi questo globo
135 tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante;

e quel consiglio per migliore approbo
che l’ha per meno; e chi ad altro pensa
138 chiamar si puote veramente probo.

Vidi la figlia di Latona incensa
sanza quell’ombra che mi fu cagione
141 per che già la credetti rara e densa.

L’aspetto del tuo nato, Iperïone,
quivi sostenni, e vidi com’si move
144 circa e vicino a lui Maia e Dione.

Quindi m’apparve il temperar di Giove
tra ‘l padre e ‘l figlio: e quindi mi fu chiaro
147 il varïar che fanno di lor dove;

e tutti e sette mi si dimostraro
quanto son grandi e quanto son veloci
150 e come sono in distante riparo.

L’aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom’io con li etterni Gemelli,
tutta m’apparve da’ colli a le foci;
154 poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.

Canto XXIII

Come l’augello, intra l’amate fronde,
posato al nido de’ suoi dolci nati
3 la notte che le cose ci nasconde,

che, per veder li aspetti disïati
e per trovar lo cibo onde li pasca,
6 in che gravi labor li sono aggrati,

previene il tempo in su aperta frasca,
e con ardente affetto il sole aspetta,
9 fiso guardando pur che l’alba nasca;

così la donna mia stava eretta
e attenta, rivolta inver’ la plaga
12 sotto la quale il sol mostra men fretta:

sì che, veggendola io sospesa e vaga,
fecimi qual è quei che disïando
15 altro vorria, e sperando s’appaga.

Ma poco fu tra uno e altro quando,
del mio attender, dico, e del vedere
18 lo ciel venir più e più rischiarando;

e Bëatrice disse: «Ecco le schiere
del trïunfo di Cristo e tutto ‘l frutto
21 ricolto del girar di queste spere!»

Pariemi che ‘l suo viso ardesse tutto,
e li occhi avea di letizia sì pieni,
24 che passarmen convien sanza costrutto.

Quale ne’ plenilunïi sereni
Trivïa ride tra le ninfe etterne
27 che dipingon lo ciel per tutti i seni,

vid’i’ sopra migliaia di lucerne
un sol che tutte quante l’accendea,
30 come fa ‘l nostro le viste superne;

e per la viva luce trasparea
la lucente sustanza tanto chiara
33 nel viso mio, che non la sostenea.

Oh Bëatrice, dolce guida e cara!
Ella mi disse: «Quel che ti sobranza
36 è virtù da cui nulla si ripara.

Quivi è la sapïenza e la possanza
ch’aprì le strade tra ‘l cielo e la terra,
39 onde fu già sì lunga disïanza».

Come foco di nube si diserra
per dilatarsi sì che non vi cape,
42 e fuor di sua natura in giù s’atterra,

la mente mia così, tra quelle dape
fatta più grande, di sé stessa uscìo,
45 e che si fesse rimembrar non sape.

«Apri li occhi e riguarda qual son io;
tu hai vedute cose, che possente
48 se’ fatto a sostener lo riso mio».

Io era come quei che si risente
di visïone oblita e che s’ingegna
51 indarno di ridurlasi a la mente,

quand’io udi’ questa proferta, degna
di tanto grato, che mai non si stingue
54 del libro che ‘l preterito rassegna.

Se mo sonasser tutte quelle lingue
che Polimnïa con le suore fero
57 del latte lor dolcissimo più pingue,

per aiutarmi, al millesmo del vero
non si verria, cantando il santo riso
60 e quanto il santo aspetto facea mero;

e così, figurando il paradiso,
convien saltar lo sacrato poema,
63 come chi trova suo cammin riciso.

Ma chi pensasse il ponderoso tema
e l’omero mortal che se ne carca,
66 nol biasmerebbe se sott’esso trema:

non è pareggio da picciola barca
quel che fendendo va l’ardita prora,
69 né da nocchier ch’a sé medesmo parca.

«Perché la faccia mia sì t’innamora,
che tu non ti rivolgi al bel giardino
72 che sotto i raggi di Cristo s’infiora?

Quivi è la rosa in che ‘l verbo divino
carne si fece; quivi son li gigli
75 al cui odor si prese il buon cammino».

Così Beatrice; e io, che a’ suoi consigli
tutto era pronto, ancora mi rendei
78 a la battaglia de’ debili cigli.

Come a raggio di sol che puro mei
per fratta nube, già prato di fiori
81 vider, coverti d’ombra, li occhi miei;

vid’io così più turbe di splendori,
folgorate di sù da raggi ardenti,
84 sanza veder principio di folgòri.

O benigna vertù che sì li ‘mprenti,
sù t’essaltasti, per largirmi loco
87 a li occhi lì che non t’eran possenti.

Il nome del bel fior ch’io sempre invoco
e mane e sera, tutto mi ristrinse
90 l’animo ad avvisar lo maggior foco;

e come ambo le luci mi dipinse
il quale e il quanto de la viva stella
93 che là sù vince come qua giù vinse,

per entro il cielo scese una facella,
formata in cerchio a guisa di corona,
96 e cinsela e girossi intorno ad ella.

Qualunque melodia più dolce suona
qua giù e più a sé l’anima tira,
99 parrebbe nube che squarciata tona,

comparata al sonar di quella lira
onde si coronava il bel zaffiro
102 del quale il ciel più chiaro s’inzaffira.

«Io sono amore angelico, che giro
l’alta letizia che spira del ventre
105 che fu albergo del nostro disiro;

e girerommi, donna del ciel, mentre
che seguirai tuo figlio, e farai dia
108 più la spera supprema perché lì entre».

Così la circulata melodia
si sigillava, e tutti li altri lumi
111 facean sonare il nome di Maria.

Lo real manto di tutti i volumi
del mondo, che più ferve e più s’avviva
114 ne l’alito di Dio e nei costumi,

avea sopra di noi l’interna riva
tanto distante, che la sua parvenza,
117 là dov’io era, ancor non appariva:

però non ebber li occhi miei potenza
di seguitar la coronata fiamma
120 che si levò appresso sua semenza.

E come fantolin che ‘nver’ la mamma
tende le braccia, poi che ‘l latte prese,
123 per l’animo che ‘nfin di fuor s’infiamma;

ciascun di quei candori in sù si stese
con la sua cima, sì che l’alto affetto
126 ch’elli avieno a Maria mi fu palese.

Indi rimaser lì nel mio cospetto,
Regina celi‘ cantando sì dolce,
129 che mai da me non si partì ‘l diletto.

Oh quanta è l’ubertà che si soffolce
in quelle arche ricchissime che fuoro
132 a seminar qua giù buone bobolce!

Quivi si vive e gode del tesoro
che s’acquistò piangendo ne lo essilio
135 di Babillòn, ove si lasciò l’oro.

Quivi trïunfa, sotto l’alto Filio
di Dio e di Maria, di sua vittoria,
e con l’antico e col novo concilio,
139 colui che tien le chiavi di tal gloria.

Canto XXIV

«O sodalizio eletto a la gran cena
del benedetto Agnello, il qual vi ciba
3 sì, che la vostra voglia è sempre piena,

se per grazia di Dio questi preliba
di quel che cade de la vostra mensa,
6 prima che morte tempo li prescriba,

ponete mente a l’affezione immensa
e roratelo alquanto: voi bevete
9 sempre del fonte onde vien quel ch’ei pensa».

Così Beatrice; e quelle anime liete
si fero spere sopra fissi poli,
12 fiammando, a volte, a guisa di comete.

E come cerchi in tempra d’oriuoli
si giran sì, che ‘l primo a chi pon mente
15 quïeto pare, e l’ultimo che voli;

così quelle carole, differente-
mente danzando, de la sua ricchezza
18 mi facieno stimar, veloci e lente.

Di quella ch’io notai di più carezza
vid’ïo uscire un foco sì felice,
21 che nullo vi lasciò di più chiarezza;

e tre fïate intorno di Beatrice
si volse con un canto tanto divo,
24 che la mia fantasia nol mi ridice.

Però salta la penna e non lo scrivo:
ché l’imagine nostra a cotai pieghe,
27 non che ‘l parlare, è troppo color vivo.

«O santa suora mia che sì ne prieghe
divota, per lo tuo ardente affetto
30 da quella bella spera mi disleghe».

Poscia fermato, il foco benedetto
a la mia donna dirizzò lo spiro,
33 che favellò così com’i’ ho detto.

Ed ella: «O luce etterna del gran viro
a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi,
36 ch’ei portò giù, di questo gaudio miro,

tenta costui di punti lievi e gravi,
come ti piace, intorno de la fede,
39 per la qual tu su per lo mare andavi.

S’elli ama bene e bene spera e crede,
non t’è occulto, perché ‘l viso hai quivi
42 dov’ogne cosa dipinta si vede;

ma perché questo regno ha fatto civi
per la verace fede, a glorïarla,
45 di lei parlare è ben ch’a lui arrivi».

Sì come il baccialier s’arma e non parla
fin che ‘l maestro la question propone,
48 per approvarla, non per terminarla,

così m’armava io d’ogne ragione
mentre ch’ella dicea, per esser presto
51 a tal querente e a tal professione.

«Di’, buon Cristiano, fatti manifesto:
fede che è?». Ond’io levai la fronte
54 in quella luce onde spirava questo;

poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte
sembianze femmi perch’ïo spandessi
57 l’acqua di fuor del mio interno fonte.

«La Grazia che mi dà ch’io mi confessi»,
comincia’ io, «da l’alto primipilo,
60 faccia li miei concetti bene espressi».

E seguitai: «Come ‘l verace stilo
ne scrisse, padre, del tuo caro frate
63 che mise teco Roma nel buon filo,

fede è sustanza di cose sperate
e argomento de le non parventi;
66 e questa pare a me sua quiditate».

Allora udi’: «Dirittamente senti,
se bene intendi perché la ripuose
69 tra le sustanze, e poi tra li argomenti».

E io appresso: «Le profonde cose
che mi largiscon qui la lor parvenza,
72 a li occhi di là giù son sì ascose,

che l’esser loro v’è in sola credenza,
sopra la qual si fonda l’alta spene;
75 e però di sustanza prende intenza.

E da questa credenza ci convene
silogizzar, sanz’avere altra vista:
78 però intenza d’argomento tene».

Allora udi’: «Se quantunque s’acquista
giù per dottrina, fosse così ‘nteso,
81 non lì avria loco ingegno di sofista».

Così spirò di quello amore acceso;
indi soggiunse: «Assai bene è trascorsa
84 d’esta moneta già la lega e ‘l peso;

ma dimmi se tu l’hai ne la tua borsa».
Ond’io: «Sì ho, sì lucida e sì tonda,
87 che nel suo conio nulla mi s’inforsa».

Appresso uscì de la luce profonda
che lì splendeva: «Questa cara gioia
90 sopra la quale ogne virtù si fonda,

onde ti venne?». E io: «La larga ploia
de lo Spirito Santo, ch’è diffusa
93 in su le vecchie e ‘n su le nuove cuoia,

è silogismo che la m’ha conchiusa
acutamente sì, che ‘nverso d’ella
96 ogne dimostrazion mi pare ottusa».

Io udi’ poi: «L’antica e la novella
proposizion che così ti conchiude,
99 perché l’hai tu per divina favella?»

E io: «La prova che ‘l ver mi dischiude,
son l’opere seguite, a che natura
102 non scalda ferro mai né batte incude».

Risposto fummi: «Di’, chi t’assicura
che quell’opere fosser? Quel medesmo
105 che vuol provarsi, non altri, il ti giura».

«Se ‘l mondo si rivolse al cristianesmo»,
diss’io, «sanza miracoli, quest’uno
108 è tal, che li altri non sono il centesmo:

ché tu intrasti povero e digiuno
in campo, a seminar la buona pianta
111 che fu già vite e ora è fatta pruno».

Finito questo, l’alta corte santa
risonò per le spere un ‘Dio laudamo’
114 ne la melode che là sù si canta.

E quel baron che sì di ramo in ramo,
essaminando, già tratto m’avea,
117 che a l’ultime fronde appressavamo,

ricominciò: «La Grazia, che donnea
con la tua mente, la bocca t’aperse
120 infino a qui come aprir si dovea,

sì ch’io approvo ciò che fuori emerse;
ma or conviene espremer quel che credi,
123 e onde a la credenza tua s’offerse».

«O santo padre, e spirito che vedi
ciò che credesti sì, che tu vincesti
126 ver’ lo sepulcro più giovani piedi»,

comincia’ io, «tu vuo’ ch’io manifesti
la forma qui del pronto creder mio,
129 e anche la cagion di lui chiedesti.

E io rispondo: Io credo in uno Dio
solo ed etterno, che tutto ‘l ciel move,
132 non moto, con amore e con disio;

e a tal creder non ho io pur prove
fisice e metafisice, ma dalmi
135 anche la verità che quinci piove

per Moisè, per profeti e per salmi,
per l’Evangelio e per voi che scriveste
138 poi che l’ardente Spirto vi fé almi;

e credo in tre persone etterne, e queste
credo una essenza sì una e sì trina,
141 che soffera congiunto ‘sono’ ed ‘este’.

De la profonda condizion divina
ch’io tocco mo, la mente mi sigilla
144 più volte l’evangelica dottrina.

Quest’è ‘l principio, quest’è la favilla
che si dilata in fiamma poi vivace,
147 e come stella in cielo in me scintilla».

Come ‘l segnor ch’ascolta quel che i piace,
da indi abbraccia il servo, gratulando
150 per la novella, tosto ch’el si tace;

così, benedicendomi cantando,
tre volte cinse me, sì com’io tacqui,
l’appostolico lume al cui comando
154 io avea detto: sì nel dir li piacqui!

Canto XXV

Se mai continga che ‘l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra,
3 sì che m’ha fatto per molti anni macro,

vinca la crudeltà che fuor mi serra
del bello ovile ov’io dormi’ agnello,
6 nimico ai lupi che li danno guerra;

con altra voce omai, con altro vello
ritornerò poeta, e in sul fonte
9 del mio battesmo prenderò ‘l cappello;

però che ne la fede, che fa conte
l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi
12 Pietro per lei sì mi girò la fronte.

Indi si mosse un lume verso noi
di quella spera ond’uscì la primizia
15 che lasciò Cristo d’i vicari suoi;

e la mia donna, piena di letizia,
mi disse: «Mira, mira: ecco il barone
18 per cui là giù si vicita Galizia».

Sì come quando il colombo si pone
presso al compagno, l’uno a l’altro pande,
21 girando e mormorando, l’affezione;

così vid’ïo l’un da l’altro grande
principe glorïoso essere accolto,
24 laudando il cibo che là sù li prande.

Ma poi che ‘l gratular si fu assolto,
tacito coram me ciascun s’affisse,
27 ignito sì che vincëa ‘l mio volto.

Ridendo allora Bëatrice disse:
«Inclita vita per cui la larghezza
30 de la nostra basilica si scrisse,

fa risonar la spene in questa altezza:
tu sai, che tante fiate la figuri,
33 quante Iesù ai tre fé più carezza».

«Leva la testa e fa che t’assicuri:
che ciò che vien qua sù del mortal mondo,
36 convien ch’ai nostri raggi si maturi».

Questo conforto del foco secondo
mi venne; ond’io levai li occhi a’ monti
39 che li ‘ncurvaron pria col troppo pondo.

«Poi che per grazia vuol che tu t’affronti
lo nostro Imperadore, anzi la morte,
42 ne l’aula più secreta co’ suoi conti,

sì che, veduto il ver di questa corte,
la spene, che là giù bene innamora,
45 in te e in altrui di ciò conforte,

di’ quel ch’ell’è, di’ come se ne ‘nfiora
la mente tua, e dì onde a te venne».
48 Così seguì ‘l secondo lume ancora.

E quella pïa che guidò le penne
de le mie ali a così alto volo,
51 a la risposta così mi prevenne:

«La Chiesa militante alcun figliuolo
non ha con più speranza, com’è scritto
54 nel Sol che raggia tutto nostro stuolo:

però li è conceduto che d’Egitto
vegna in Ierusalemme per vedere,
57 anzi che ‘l militar li sia prescritto.

Li altri due punti, che non per sapere
son dimandati, ma perch’ei rapporti
60 quanto questa virtù t’è in piacere,

a lui lasc’io, ché non li saran forti
né di iattanza; ed elli a ciò risponda,
63 e la grazia di Dio ciò li comporti».

Come discente ch’a dottor seconda
pronto e libente in quel ch’elli è esperto,
66 perché la sua bontà si disasconda,

«Spene», diss’io, «è uno attender certo
de la gloria futura, il qual produce
69 grazia divina e precedente merto.

Da molte stelle mi vien questa luce;
ma quei la distillò nel mio cor pria
72 che fu sommo cantor del sommo duce.

‘Sperino in te’, ne la sua tëodia
dice, ‘color che sanno il nome tuo’:
75 e chi nol sa, s’elli ha la fede mia?

Tu mi stillasti, con lo stillar suo,
ne la pistola poi; sì ch’io son pieno,
78 e in altrui vostra pioggia repluo».

Mentr’io diceva, dentro al vivo seno
di quello incendio tremolava un lampo
81 sùbito e spesso a guisa di baleno.

Indi spirò: «L’amore ond’ïo avvampo
ancor ver’ la virtù che mi seguette
84 infin la palma e a l’uscir del campo,

vuol ch’io respiri a te che ti dilette
di lei; ed emmi a grato che tu diche
87 quello che la speranza ti ‘mpromette».

E io: «Le nove e le scritture antiche
pongon lo segno, ed esso lo mi addita,
90 de l’anime che Dio s’ha fatte amiche.

Dice Isaia che ciascuna vestita
ne la sua terra fia di doppia vesta:
93 e la sua terra è questa dolce vita;

e ‘l tuo fratello assai vie più digesta,
là dove tratta de le bianche stole,
96 questa revelazion ci manifesta».

E prima, appresso al fin d’este parole,
Sperent in te‘ di sopr’a noi s’udì;
99 a che rispuoser tutte le carole.

Poscia tra esse un lume si schiarì
sì che, se ‘l Cancro avesse un tal cristallo,
102 l’inverno avrebbe un mese d’un sol dì.

E come surge e va ed entra in ballo
vergine lieta, sol per fare onore
105 a la novizia, non per alcun fallo,

così vid’io lo schiarato splendore
venire a’ due che si volgieno a nota
108 qual conveniesi al loro ardente amore.

Misesi lì nel canto e ne la rota;
e la mia donna in lor tenea l’aspetto,
111 pur come sposa tacita e immota.

«Questi è colui che giacque sopra ‘l petto
del nostro pellicano, e questi fue
114 di su la croce al grande officio eletto».

La donna mia così; né però piùe
mosser la vista sua di stare attenta
117 poscia che prima le parole sue.

Qual è colui ch’adocchia e s’argomenta
di vedere eclissar lo sole un poco,
120 che, per veder, non vedente diventa;

tal mi fec’ïo a quell’ultimo foco
mentre che detto fu: «Perché t’abbagli
123 per veder cosa che qui non ha loco?

In terra è terra il mio corpo, e saragli
tanto con li altri, che ‘l numero nostro
126 con l’etterno proposito s’agguagli.

Con le due stole nel beato chiostro
son le due luci sole che saliro;
129 e questo apporterai nel mondo vostro».

A questa voce l’infiammato giro
si quïetò con esso il dolce mischio
132 che si facea nel suon del trino spiro,

sì come, per cessar fatica o rischio,
li remi, pria ne l’acqua ripercossi,
135 tutti si posano al sonar d’un fischio.

Ahi quanto ne la mente mi commossi,
quando mi volsi per veder Beatrice,
per non poter veder, benché io fossi
139 presso di lei, e nel mondo felice!

Canto XXVI

Mentr’io dubbiava per lo viso spento,
de la fulgida fiamma che lo spense
3 uscì un spiro che mi fece attento,

dicendo: «Intanto che tu ti risense
de la vista che haï in me consunta,
6 ben è che ragionando la compense.

Comincia dunque; e di’ ove s’appunta
l’anima tua, e fa’ ragion che sia
9 la vista in te smarrita e non defunta:

perché la donna che per questa dia
regïon ti conduce, ha ne lo sguardo
12 la virtù ch’ebbe la man d’Anania».

Io dissi: «Al suo piacere e tosto e tardo
vegna remedio a li occhi, che fuor porte
15 quand’ella entrò col foco ond’io sempr’ardo.

Lo ben che fa contenta questa corte,
Alfa e O è di quanta scrittura
18 mi legge Amore o lievemente o forte».

Quella medesma voce che paura
tolta m’avea del sùbito abbarbaglio,
21 di ragionare ancor mi mise in cura;

e disse: «Certo a più angusto vaglio
ti conviene schiarar: dicer convienti
24 chi drizzò l’arco tuo a tal berzaglio».

E io: «Per filosofici argomenti
e per autorità che quinci scende
27 cotale amor convien che in me si ‘mprenti:

ché ‘l bene, in quanto ben, come s’intende,
così accende amore, e tanto maggio
30 quanto più di bontate in sé comprende.

Dunque a l’essenza ov’è tanto avvantaggio,
che ciascun ben che fuor di lei si trova
33 altro non è ch’un lume di suo raggio,

più che in altra convien che si mova
la mente, amando, di ciascun che cerne
36 il vero in che si fonda questa prova.

Tal vero a l’intelletto mïo sterne
colui che mi dimostra il primo amore
39 di tutte le sustanze sempiterne.

Sternel la voce del verace autore,
che dice a Moïsè, di sé parlando:
42 ‘Io ti farò vedere ogne valore’.

Sternilmi tu ancora, incominciando
l’alto preconio che grida l’arcano
45 di qui là giù sovra ogne altro bando».

E io udi’: «Per intelletto umano
e per autoritadi a lui concorde
48 d’i tuoi amori a Dio guarda il sovrano.

Ma di’ ancor se tu senti altre corde
tirarti verso lui, sì che tu suone
51 con quanti denti questo amor ti morde».

Non fu latente la santa intenzione
de l’aguglia di Cristo, anzi m’accorsi
54 dove volea menar mia professione.

Però ricominciai: «Tutti quei morsi
che posson far lo cor volgere a Dio,
57 a la mia caritate son concorsi:

ché l’essere del mondo e l’esser mio,
la morte ch’el sostenne perch’io viva,
60 e quel che spera ogne fedel com’io,

con la predetta conoscenza viva,
tratto m’hanno del mar de l’amor torto,
63 e del diritto m’han posto a la riva.

Le fronde onde s’infronda tutto l’orto
de l’ortolano etterno, am’io cotanto
66 quanto da lui a lor di bene è porto».

Sì com’io tacqui, un dolcissimo canto
risonò per lo cielo, e la mia donna
69 dicea con li altri: «Santo, santo, santo!»

E come a lume acuto si disonna
per lo spirto visivo che ricorre
72 a lo splendor che va di gonna in gonna,

e lo svegliato ciò che vede aborre,
sì nescïa è la sùbita vigilia
75 fin che la stimativa non soccorre;

così de li occhi miei ogni quisquilia
fugò Beatrice col raggio d’i suoi,
78 che rifulgea da più di mille milia:

onde mei che dinanzi vidi poi;
e quasi stupefatto domandai
81 d’un quarto lume ch’io vidi tra noi.

E la mia donna: «Dentro da quei rai
vagheggia il suo fattor l’anima prima
84 che la prima virtù creasse mai».

Come la fronda che flette la cima
nel transito del vento, e poi si leva
87 per la propria virtù che la soblima,

fec’io in tanto in quant’ella diceva,
stupendo, e poi mi rifece sicuro
90 un disio di parlare ond’ïo ardeva.

E cominciai: «O pomo che maturo
solo prodotto fosti, o padre antico
93 a cui ciascuna sposa è figlia e nuro,

divoto quanto posso a te supplìco
perché mi parli: tu vedi mia voglia,
96 e per udirti tosto non la dico».

Talvolta un animal coverto broglia,
sì che l’affetto convien che si paia
99 per lo seguir che face a lui la ‘nvoglia;

e similmente l’anima primaia
mi facea trasparer per la coverta
102 quant’ella a compiacermi venìa gaia.

Indi spirò: «Sanz’essermi proferta
da te, la voglia tua discerno meglio
105 che tu qualunque cosa t’è più certa;

perch’io la veggio nel verace speglio
che fa di sé pareglio a l’altre cose,
108 e nulla face lui di sé pareglio.

Tu vuogli udir quant’è che Dio mi puose
ne l’eccelso giardino, ove costei
111 a così lunga scala ti dispuose,

e quanto fu diletto a li occhi miei,
e la propria cagion del gran disdegno,
114 e l’idïoma ch’usai e che fei.

Or, figluol mio, non il gustar del legno
fu per sé la cagion di tanto essilio,
117 ma solamente il trapassar del segno.

Quindi onde mosse tua donna Virgilio,
quattromilia trecento e due volumi
120 di sol desiderai questo concilio;

e vidi lui tornare a tutt’i lumi
de la sua strada novecento trenta
123 fïate, mentre ch’ïo in terra fu’mi.

La lingua ch’io parlai fu tutta spenta
innanzi che a l’ovra inconsummabile
126 fosse la gente di Nembròt attenta:

ché nullo effetto mai razïonabile,
per lo piacere uman che rinovella
129 seguendo il cielo, sempre fu durabile.

Opera naturale è ch’uom favella;
ma così o così, natura lascia
132 poi fare a voi secondo che v’abbella.

Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia,
I s’appellava in terra il sommo bene
135 onde vien la letizia che mi fascia;

e El si chiamò poi: e ciò convene,
ché l’uso d’i mortali è come fronda
138 in ramo, che sen va e altra vene.

Nel monte che si leva più da l’onda,
fu’ io, con vita pura e disonesta,
da la prim’ora a quella che seconda,
142 come ‘l sol muta quadra, l’ora sesta».

Canto XXVII

«Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo»,
cominciò, ‘gloria!’, tutto ‘l paradiso,
3 sì che m’inebrïava il dolce canto.Ciò ch’io vedeva mi sembiava un riso
de l’universo; per che mia ebbrezza
6 intrava per l’udire e per lo viso.Oh gioia! oh ineffabile allegrezza!
oh vita intègra d’amore e di pace!
9 oh sanza brama sicura ricchezza!

Dinanzi a li occhi miei le quattro face
stavano accese, e quella che pria venne
12 incominciò a farsi più vivace,

e tal ne la sembianza sua divenne,
qual diverrebbe Iove, s’elli e Marte
15 fossero augelli e cambiassersi penne.

La provedenza, che quivi comparte
vice e officio, nel beato coro
18 silenzio posto avea da ogne parte,

quand’ïo udi’: «Se io mi trascoloro,
non ti maravigliar, ché, dicend’io,
21 vedrai trascolorar tutti costoro.

Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio, che vaca
24 ne la presenza del Figliuol di Dio,

fatt’ha del cimitero mio cloaca
del sangue e de la puzza; onde ‘l perverso
27 che cadde di qua sù, là giù si placa».

Di quel color che per lo sole avverso
nube dipigne da sera e da mane,
30 vid’io allora tutto ‘l ciel cosperso.

E come donna onesta che permane
di sé sicura, e per l’altrui fallanza,
33 pur ascoltando, timida si fane,

così Beatrice trasmutò sembianza;
e tale eclissi credo che ‘n ciel fue,
36 quando patì la supprema possanza.

Poi procedetter le parole sue
con voce tanto da sé trasmutata,
39 che la sembianza non si mutò piùe:

«Non fu la sposa di Cristo allevata
del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto,
42 per essere ad acquisto d’oro usata;

ma per acquisto d’esto viver lieto
e Sisto e Pïo e Calisto e Urbano
45 sparser lo sangue dopo molto fleto.

Non fu nostra intenzion ch’a destra mano
d’i nostri successor parte sedesse,
48 parte da l’altra del popol cristiano;

né che le chiavi che mi fuor concesse,
divenisser signaculo in vessillo
51 che contra battezzati combattesse;

né ch’io fossi figura di sigillo
a privilegi venduti e mendaci,
54 ond’io sovente arrosso e disfavillo.

In vesta di pastor lupi rapaci
si veggion di qua sù per tutti i paschi:
57 o difesa di Dio, perché pur giaci?

Del sangue nostro Caorsini e Guaschi
s’apparecchian di bere: o buon principio,
60 a che vil fine convien che tu caschi!

Ma l’alta provedenza, che con Scipio
difese a Roma la gloria del mondo,
63 soccorrà tosto, sì com’io concipio;

e tu, figliuol, che per lo mortal pondo
ancor giù tornerai, apri la bocca,
66 e non asconder quel ch’io non ascondo».

Sì come di vapor gelati fiocca
in giuso l’aere nostro, quando ‘l corno
69 de la capra del ciel col sol si tocca,

in sù vid’io così l’etera addorno
farsi e fioccar di vapor trïunfanti
72 che fatto avien con noi quivi soggiorno.

Lo viso mio seguiva i suoi sembianti,
e seguì fin che ‘l mezzo, per lo molto,
75 li tolse il trapassar del più avanti.

Onde la donna, che mi vide assolto
de l’attendere in sù, mi disse: «Adima
78 il viso e guarda come tu se’ vòlto».

Da l’ora ch’ïo avea guardato prima
i’ vidi mosso me per tutto l’arco
81 che fa dal mezzo al fine il primo clima;

sì ch’io vedea di là da Gade il varco
folle d’Ulisse, e di qua presso il lito
84 nel qual si fece Europa dolce carco.

E più mi fora discoverto il sito
di questa aiuola; ma ‘l sol procedea
87 sotto i mie’ piedi un segno e più partito.

La mente innamorata, che donnea
con la mia donna sempre, di ridure
90 ad essa li occhi più che mai ardea;

e se natura o arte fé pasture
da pigliare occhi, per aver la mente,
93 in carne umana o ne le sue pitture,

tutte adunate, parrebber nïente
ver’ lo piacer divin che mi refulse,
96 quando mi volsi al suo viso ridente.

E la virtù che lo sguardo m’indulse,
del bel nido di Leda mi divelse,
99 e nel ciel velocissimo m’impulse.

Le parti sue vivissime ed eccelse
sì uniforme son, ch’i’ non so dire
102 qual Beatrice per loco mi scelse.

Ma ella, che vedëa ‘l mio disire,
incominciò, ridendo tanto lieta,
105 che Dio parea nel suo volto gioire:

«La natura del mondo, che quïeta
il mezzo e tutto l’altro intorno move,
108 quinci comincia come da sua meta;

e questo cielo non ha altro dove
che la mente divina, in che s’accende
111 l’amor che ‘l volge e la virtù ch’ei piove.

Luce e amor d’un cerchio lui comprende,
sì come questo li altri; e quel precinto
114 colui che ‘l cinge solamente intende.

Non è suo moto per altro distinto,
ma li altri son mensurati da questo,
117 sì come diece da mezzo e da quinto;

e come il tempo tegna in cotal testo
le sue radici e ne li altri le fronde,
120 omai a te può esser manifesto.

Oh cupidigia che i mortali affonde
sì sotto te, che nessuno ha podere
123 di trarre li occhi fuor de le tue onde!

Ben fiorisce ne li uomini il volere;
ma la pioggia continua converte
126 in bozzacchioni le sosine vere.

Fede e innocenza son reperte
solo ne’ parvoletti; poi ciascuna
129 pria fugge che le guance sian coperte.

Tale, balbuzïendo ancor, digiuna,
che poi divora, con la lingua sciolta,
132 qualunque cibo per qualunque luna;

e tal, balbuzïendo, ama e ascolta
la madre sua, che, con loquela intera,
135 disïa poi di vederla sepolta.

Così si fa la pelle bianca nera
nel primo aspetto de la bella figlia
138 di quel ch’apporta mane e lascia sera.

Tu, perché non ti facci maraviglia,
pensa che ‘n terra non è chi governi;
141 onde sì svïa l’umana famiglia.

Ma prima che gennaio tutto si sverni
per la centesma ch’è là giù negletta,
144 raggeran sì questi cerchi superni,

che la fortuna che tanto s’aspetta,
le poppe volgerà u’ son le prore,
sì che la classe correrà diretta;
147 e vero frutto verrà dopo ‘l fiore».

Canto XXVIII

Poscia che ‘ncontro a la vita presente
d’i miseri mortali aperse ‘l vero
3 quella che ‘mparadisa la mia mente,

come in lo specchio fiamma di doppiero
vede colui che se n’alluma retro,
6 prima che l’abbia in vista o in pensiero,

e sé rivolge per veder se ‘l vetro
li dice il vero, e vede ch’el s’accorda
9 con esso come nota con suo metro;

così la mia memoria si ricorda
ch’io feci riguardando ne’ belli occhi
12 onde a pigliarmi fece Amor la corda.

E com’io mi rivolsi e furon tocchi
li miei da ciò che pare in quel volume,
15 quandunque nel suo giro ben s’adocchi,

un punto vidi che raggiava lume
acuto sì, che ‘l viso ch’elli affoca
18 chiuder conviensi per lo forte acume;

e quale stella par quinci più poca,
parrebbe luna, locata con esso
21 come stella con stella si collòca.

Forse cotanto quanto pare appresso
alo cigner la luce che ‘l dipigne
24 quando ‘l vapor che ‘l porta più è spesso,

distante intorno al punto un cerchio d’igne
si girava sì ratto, ch’avria vinto
27 quel moto che più tosto il mondo cigne;

e questo era d’un altro circumcinto,
e quel dal terzo, e ‘l terzo poi dal quarto,
30 dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto.

Sopra seguiva il settimo sì sparto
già di larghezza, che ‘l messo di Iuno
33 intero a contenerlo sarebbe arto.

Così l’ottavo e ‘l nono; e ciascheduno
più tardo si movea, secondo ch’era
36 in numero distante più da l’uno;

e quello avea la fiamma più sincera
cui men distava la favilla pura,
39 credo, però che più di lei s’invera.

La donna mia, che mi vedëa in cura
forte sospeso, disse: «Da quel punto
42 depende il cielo e tutta la natura.

Mira quel cerchio che più li è congiunto;
e sappi che ‘l suo muovere è sì tosto
45 per l’affocato amore ond’elli è punto».

E io a lei: «Se ‘l mondo fosse posto
con l’ordine ch’io veggio in quelle rote,
48 sazio m’avrebbe ciò che m’è proposto;

ma nel mondo sensibile si puote
veder le volte tanto più divine,
51 quant’elle son dal centro più remote.

Onde, se ‘l mio disir dee aver fine
in questo miro e angelico templo
54 che solo amore e luce ha per confine,

udir convienmi ancor come l’essemplo
e l’essemplare non vanno d’un modo,
57 ché io per me indarno a ciò contemplo».

«Se li tuoi diti non sono a tal nodo
sufficïenti, non è maraviglia:
60 tanto, per non tentare, è fatto sodo!»

Così la donna mia; poi disse: «Piglia
quel ch’io ti dicerò, se vuo’ saziarti;
63 e intorno da esso t’assottiglia.

Li cerchi corporai sono ampi e arti
secondo il più e ‘l men de la virtute
66 che si distende per tutte lor parti.

Maggior bontà vuol far maggior salute;
maggior salute maggior corpo cape,
69 s’elli ha le parti igualmente compiute.

Dunque costui che tutto quanto rape
l’altro universo seco, corrisponde
72 al cerchio che più ama e che più sape:

per che, se tu a la virtù circonde
la tua misura, non a la parvenza
75 de le sustanze che t’appaion tonde,

tu vederai mirabil consequenza
di maggio a più e di minore a meno,
78 in ciascun cielo, a süa intelligenza».

Come rimane splendido e sereno
l’emisperio de l’aere, quando soffia
81 Borea da quella guancia ond’è più leno,

per che si purga e risolve la roffia
che pria turbava, sì che ‘l ciel ne ride
84 con le bellezze d’ogne sua paroffia;

così fec’ïo, poi che mi provide
la donna mia del suo risponder chiaro,
87 e come stella in cielo il ver si vide.

E poi che le parole sue restaro,
non altrimenti ferro disfavilla
90 che bolle, come i cerchi sfavillaro.

L’incendio suo seguiva ogne scintilla;
ed eran tante, che ‘l numero loro
93 più che ‘l doppiar de li scacchi s’inmilla.

Io sentiva osannar di coro in coro
al punto fisso che li tiene a li ubi,
96 e terrà sempre, ne’ quai sempre fuoro.

E quella che vedea i pensier dubi
ne la mia mente, disse: «I cerchi primi
99 t’hanno mostrato Serafi e Cherubi.

Così veloci seguono i suoi vimi,
per somigliarsi al punto quanto ponno;
102 e posson quanto a veder son soblimi.

Quelli altri amori che ‘ntorno li vonno,
si chiaman Troni del divino aspetto,
105 per che ‘l primo ternaro terminonno;

e dei saper che tutti hanno diletto
quanto la sua veduta si profonda
108 nel vero in che si queta ogne intelletto.

Quinci si può veder come si fonda
l’essere beato ne l’atto che vede,
111 non in quel ch’ama, che poscia seconda;

e del vedere è misura mercede,
che grazia partorisce e buona voglia:
114 così di grado in grado si procede.

L’altro ternaro, che così germoglia
in questa primavera sempiterna
117 che notturno Arïete non dispoglia,

perpetüalemente ‘Osanna‘ sberna
con tre melode, che suonano in tree
120 ordini di letizia onde s’interna.

In essa gerarcia son l’altre dee:
prima Dominazioni, e poi Virtudi;
123 l’ordine terzo di Podestadi èe.

Poscia ne’ due penultimi tripudi
Principati e Arcangeli si girano;
126 l’ultimo è tutto d’Angelici ludi.

Questi ordini di sù tutti s’ammirano,
e di giù vincon sì, che verso Dio
129 tutti tirati sono e tutti tirano.

E Dïonisio con tanto disio
a contemplar questi ordini si mise,
132 che li nomò e distinse com’io.

Ma Gregorio da lui poi si divise;
onde, sì tosto come li occhi aperse
135 in questo ciel, di sé medesmo rise.

E se tanto secreto ver proferse
mortale in terra, non voglio ch’ammiri;
ché chi ‘l vide qua sù gliel discoperse
139 con altro assai del ver di questi giri».

Canto XXIX

Quando ambedue li figli di Latona,
coperti del Montone e de la Libra,
3 fanno de l’orizzonte insieme zona,

quant’è dal punto che ‘l cenìt inlibra
infin che l’uno e l’altro da quel cinto,
6 cambiando l’emisperio, si dilibra,

tanto, col volto di riso dipinto,
si tacque Beatrice, riguardando
9 fiso nel punto che m’avëa vinto.

Poi cominciò: «Io dico, e non dimando,
quel che tu vuoli udir, perch’io l’ho visto
12 là ‘ve s’appunta ogne ubi e ogne quando.

Non per aver a sé di bene acquisto,
ch’esser non può, ma perché suo splendore
15 potesse, risplendendo, dir ‘Subsisto‘,

in sua etternità di tempo fore,
fuor d’ogne altro comprender, come i piacque,
18 s’aperse in nuovi amor l’etterno amore.

Né prima quasi torpente si giacque;
ché né prima né poscia procedette
21 lo discorrer di Dio sovra quest’acque.

Forma e materia, congiunte e purette,
usciro ad esser che non avia fallo,
24 come d’arco tricordo tre saette.

E come in vetro, in ambra o in cristallo
raggio resplende sì, che dal venire
27 a l’esser tutto non è intervallo,

così ‘l triforme effetto del suo sire
ne l’esser suo raggiò insieme tutto
30 sanza distinzione in essordire.

Concreato fu ordine e costrutto
a le sustanze; e quelle furon cima
33 nel mondo in che puro atto fu produtto;

pura potenza tenne la parte ima;
nel mezzo strinse potenza con atto
36 tal vime, che già mai non si divima.

Ieronimo vi scrisse lungo tratto
di secoli de li angeli creati
39 anzi che l’altro mondo fosse fatto;

ma questo vero è scritto in molti lati
da li scrittor de lo Spirito Santo,
42 e tu te n’avvedrai se bene agguati;

e anche la ragione il vede alquanto,
che non concederebbe che ‘ motori
45 sanza sua perfezion fosser cotanto.

Or sai tu dove e quando questi amori
furon creati e come: sì che spenti
48 nel tuo disïo già son tre ardori.

Né giugneriesi, numerando, al venti
sì tosto, come de li angeli parte
51 turbò il suggetto d’i vostri alementi.

L’altra rimase, e cominciò quest’arte
che tu discerni, con tanto diletto,
54 che mai da circuir non si diparte.

Principio del cader fu il maladetto
superbir di colui che tu vedesti
57 da tutti i pesi del mondo costretto.

Quelli che vedi qui furon modesti
a riconoscer sé da la bontate
60 che li avea fatti a tanto intender presti:

per che le viste lor furo essaltate
con grazia illuminante e con lor merto,
63 si c’hanno ferma e piena volontate;

e non voglio che dubbi, ma sia certo,
che ricever la grazia è meritorio
66 secondo che l’affetto l’è aperto.

Omai dintorno a questo consistorio
puoi contemplare assai, se le parole
69 mie son ricolte, sanz’altro aiutorio.

Ma perché ‘n terra per le vostre scole
si legge che l’angelica natura
72 è tal, che ‘ntende e si ricorda e vole,

ancor dirò, perché tu veggi pura
la verità che là giù si confonde,
75 equivocando in sì fatta lettura.

Queste sustanze, poi che fur gioconde
de la faccia di Dio, non volser viso
78 da essa, da cui nulla si nasconde:

però non hanno vedere interciso
da novo obietto, e però non bisogna
81 rememorar per concetto diviso;

sì che là giù, non dormendo, si sogna,
credendo e non credendo dicer vero;
84 ma ne l’uno è più colpa e più vergogna.

Voi non andate giù per un sentiero
filosofando: tanto vi trasporta
87 l’amor de l’apparenza e ‘l suo pensiero!

E ancor questo qua sù si comporta
con men disdegno che quando è posposta
90 la divina Scrittura o quando è torta.

Non vi si pensa quanto sangue costa
seminarla nel mondo e quanto piace
93 chi umilmente con essa s’accosta.

Per apparer ciascun s’ingegna e face
sue invenzioni; e quelle son trascorse
96 da’ predicanti e ‘l Vangelio si tace.

Un dice che la luna si ritorse
ne la passion di Cristo e s’interpuose,
99 per che ‘l lume del sol giù non si porse;

e mente, ché la luce si nascose
da sé: però a li Spani e a l’Indi
102 come a’ Giudei tale eclissi rispuose.

Non ha Fiorenza tanti Lapi e Bindi
quante sì fatte favole per anno
105 in pergamo si gridan quinci e quindi;

sì che le pecorelle, che non sanno,
tornan del pasco pasciute di vento,
108 e non le scusa non veder lo danno.

Non disse Cristo al suo primo convento:
‘Andate, e predicate al mondo ciance’;
111 ma diede lor verace fondamento;

e quel tanto sonò ne le sue guance,
sì ch’a pugnar per accender la fede
114 de l’Evangelio fero scudo e lance.

Ora si va con motti e con iscede
a predicare, e pur che ben si rida,
117 gonfia il cappuccio e più non si richiede.

Ma tale uccel nel becchetto s’annida,
che se ‘l vulgo il vedesse, vederebbe
120 la perdonanza di ch’el si confida;

per cui tanta stoltezza in terra crebbe,
che, sanza prova d’alcun testimonio,
123 ad ogne promession si correrebbe.

Di questo ingrassa il porco sant’Antonio,
e altri assai che sono ancor più porci,
126 pagando di moneta sanza conio.

Ma perché siam digressi assai, ritorci
li occhi oramai verso la dritta strada,
129 sì che la via col tempo si raccorci.

Questa natura sì oltre s’ingrada
in numero, che mai non fu loquela
132 né concetto mortal che tanto vada;

e se tu guardi quel che si revela
per Danïel, vedrai che ‘n sue migliaia
135 determinato numero si cela.

La prima luce, che tutta la raia,
per tanti modi in essa si recepe,
138 quanti son li splendori a chi s’appaia.

Onde, però che a l’atto che concepe
segue l’affetto, d’amar la dolcezza
141 diversamente in essa ferve e tepe.

Vedi l’eccelso omai e la larghezza
de l’etterno valor, poscia che tanti
speculi fatti s’ha in che si spezza,
145 uno manendo in sé come davanti».

Canto XXX

Forse semilia miglia di lontano
ci ferve l’ora sesta, e questo mondo
3 china già l’ombra quasi al letto piano,

quando ‘l mezzo del cielo, a noi profondo,
comincia a farsi tal, ch’alcuna stella
6 perde il parere infino a questo fondo;

e come vien la chiarissima ancella
del sol più oltre, così ‘l ciel si chiude
9 di vista in vista infino a la più bella.

Non altrimenti il trïunfo che lude
sempre dintorno al punto che mi vinse,
12 parendo inchiuso da quel ch’elli ‘nchiude,

a poco a poco al mio veder si stinse:
per che tornar con li occhi a Bëatrice
15 nulla vedere e amor mi costrinse.

Se quanto infino a qui di lei si dice
fosse conchiuso tutto in una loda,
18 poca sarebbe a fornir questa vice.

La bellezza ch’io vidi si trasmoda
non pur di là da noi, ma certo io credo
21 che solo il suo fattor tutta la goda.

Da questo passo vinto mi concedo
più che già mai da punto di suo tema
24 soprato fosse comico o tragedo:

ché, come sole in viso che più trema,
così lo rimembrar del dolce riso
27 la mente mia da me medesmo scema.

Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso
in questa vita, infino a questa vista,
30 non m’è il seguire al mio cantar preciso;

ma or convien che mio seguir desista
più dietro a sua bellezza, poetando,
33 come a l’ultimo suo ciascuno artista.

Cotal qual io lascio a maggior bando
che quel de la mia tuba, che deduce
36 l’ardüa sua matera terminando,

con atto e voce di spedito duce
ricominciò: «Noi siamo usciti fore
39 del maggior corpo al ciel ch’è pura luce:

luce intellettüal, piena d’amore;
amor di vero ben, pien di letizia;
42 letizia che trascende ogne dolzore.

Qui vederai l’una e l’altra milizia
di paradiso, e l’una in quelli aspetti
45 che tu vedrai a l’ultima giustizia».

Come sùbito lampo che discetti
li spiriti visivi, sì che priva
48 da l’atto l’occhio di più forti obietti,

così mi circunfulse luce viva,
e lasciommi fasciato di tal velo
51 del suo fulgor, che nulla m’appariva.

«Sempre l’amor che queta questo cielo
accoglie in sé con sì fatta salute,
54 per far disposto a sua fiamma il candelo».

Non fur più tosto dentro a me venute
queste parole brievi, ch’io compresi
57 me sormontar di sopr’a mia virtute;

e di novella vista mi raccesi
tale, che nulla luce è tanto mera,
60 che li occhi miei non si fosser difesi;

e vidi lume in forma di rivera
fulvido di fulgore, intra due rive
63 dipinte di mirabil primavera.

Di tal fiumana uscian faville vive,
e d’ogne parte si mettìen ne’ fiori,
66 quasi rubin che oro circunscrive;

poi, come inebrïate da li odori,
riprofondavan sé nel miro gurge;
69 e s’una intrava, un’altra n’uscia fori.

«L’alto disio che mo t’infiamma e urge,
d’aver notizia di ciò che tu vei,
72 tanto mi piace più quanto più turge;

ma di quest’acqua convien che tu bei
prima che tanta sete in te si sazi»:
75 così mi disse il sol de li occhi miei.

Anche soggiunse: «Il fiume e li topazi
ch’entrano ed escono e ‘l rider de l’erbe
78 son di lor vero umbriferi prefazi.

Non che da sé sian queste cose acerbe;
ma è difetto da la parte tua,
81 che non hai viste ancor tanto superbe».

Non è fantin che sì sùbito rua
col volto verso il latte, se si svegli
84 molto tardato da l’usanza sua,

come fec’io, per far migliori spegli
ancor de li occhi, chinandomi a l’onda
87 che si deriva perché vi s’immegli;

e sì come di lei bevve la gronda
de le palpebre mie, così mi parve
90 di sua lunghezza divenuta tonda.

Poi, come gente stata sotto larve,
che pare altro che prima, se si sveste
93 la sembianza non süa in che disparve,

così mi si cambiaro in maggior feste
li fiori e le faville, sì ch’io vidi
96 ambo le corti del ciel manifeste.

O isplendor di Dio, per cu’ io vidi
l’alto trïunfo del regno verace,
99 dammi virtù a dir comïo il vidi!

Lume è là sù che visibile face
lo creatore a quella creatura
102 che solo in lui vedere ha la sua pace.

E’ si distende in circular figura,
in tanto che la sua circunferenza
105 sarebbe al sol troppo larga cintura.

Fassi di raggio tutta sua parvenza
reflesso al sommo del mobile primo,
108 che prende quindi vivere e potenza.

E come clivo in acqua di suo imo
si specchia, quasi per vedersi addorno,
111 quando è nel verde e ne’ fioretti opimo,

sì, soprastando al lume intorno intorno,
vidi specchiarsi in più di mille soglie
114 quanto di noi là sù fatto ha ritorno.

E se l’infimo grado in sé raccoglie
sì grande lume, quanta è la larghezza
117 di questa rosa ne l’estreme foglie!

La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza
non si smarriva, ma tutto prendeva
120 il quanto e ‘l quale di quella allegrezza.

Presso e lontano, lì, né pon né leva:
ché dove Dio sanza mezzo governa,
123 la legge natural nulla rileva.

Nel giallo de la rosa sempiterna,
che si digrada e dilata e redole
126 odor di lode al sol che sempre verna,

qual è colui che tace e dicer vole,
mi trasse Bëatrice, e disse: «Mira
129 quanto è ‘l convento de le bianche stole!

Vedi nostra città quant’ella gira;
vedi li nostri scanni sì ripieni,
132 che poca gente più ci si disira.

E ‘n quel gran seggio a che tu li occhi tieni
per la corona che già v’è sù posta,
135 prima che tu a queste nozze ceni,

sederà l’alma, che fia giù agosta,
de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia
138 verrà in prima ch’ella sia disposta.

La cieca cupidigia che v’ammalia
simili fatti v’ha al fantolino
141 che muor per fame e caccia via la balia.

E fia prefetto nel foro divino
allora tal, che palese e coverto
144 non anderà con lui per un cammino.

Ma poco poi sarà da Dio sofferto
nel santo officio; ch’el sarà detruso
là dove Simon mago è per suo merto,
148 e farà quel d’Alagna intrar più giuso».

Canto XXXI

In forma dunque di candida rosa
mi si mostrava la milizia santa
3 che nel suo sangue Cristo fece sposa;

ma l’altra, che volando vede e canta
la gloria di colui che la ‘nnamora
6 e la bontà che la fece cotanta,

sì come schiera d’ape, che s’infiora
una fïata e una si ritorna
9 là dove suo laboro s’insapora,

nel gran fior discendeva che s’addorna
di tante foglie, e quindi risaliva
12 là dove ‘l süo amor sempre soggiorna.

Le facce tutte avean di fiamma viva,
e l’ali d’oro, e l’altro tanto bianco,
15 che nulla neve a quel termine arriva.

Quando scendean nel fior, di banco in banco
porgevan de la pace e de l’ardore
18 ch’elli acquistavan ventilando il fianco.

Né l’interporsi tra ‘l disopra e ‘l fiore
di tanta moltitudine volante
21 impediva la vista e lo splendore:

ché la luce divina è penetrante
per l’universo secondo ch’è degno,
24 sì che nulla le puote essere ostante.

Questo sicuro e gaudïoso regno,
frequente in gente antica e in novella,
27 viso e amore avea tutto ad un segno.

O trina luce, che ‘n unica stella
scintillando a lor vista, sì li appaga!
30 guarda qua giuso a la nostra procella!

Se i barbari, venendo da tal plaga
che ciascun giorno d’Elice si cuopra,
33 rotante col suo figlio ond’ella è vaga,

veggendo Roma e l’ardua sua opra,
stupefaciensi, quando Laterano
36 a le cose mortali andò di sopra;

ïo, che al divino da l’umano,
a l’etterno dal tempo era venuto,
39 e di Fiorenza in popol giusto e sano

di che stupor dovea esser compiuto!
Certo tra esso e ‘l gaudio mi facea
42 libito non udire e starmi muto.

E quasi peregrin che si ricrea
nel tempio del suo voto riguardando,
45 e spera già ridir com’ello stea,

su per la viva luce passeggiando,
menava ïo li occhi per li gradi,
48 mo sù, mo giù e mo recirculando.

Vedëa visi a carità süadi,
d’altrui lume fregiati e di suo riso,
51 e atti ornati di tutte onestadi.

La forma general di paradiso
già tutta mïo sguardo avea compresa,
54 in nulla parte ancor fermato fiso;

e volgeami con voglia rïaccesa
per domandar la mia donna di cose
57 di che la mente mia era sospesa.

Uno intendëa, e altro mi rispuose:
credea veder Beatrice e vidi un sene
60 vestito con le genti glorïose.

Diffuso era per li occhi e per le gene
di benigna letizia, in atto pio
63 quale a tenero padre si convene.

E «Ov’è ella?», sùbito diss’io.
Ond’elli: «A terminar lo tuo disiro
66 mosse Beatrice me del loco mio;

e se riguardi sù nel terzo giro
dal sommo grado, tu la rivedrai
69 nel trono che suoi merti le sortiro».

Sanza risponder, li occhi sù levai,
e vidi lei che si facea corona
72 reflettendo da sé li etterni rai.

Da quella regïon che più sù tona
occhio mortale alcun tanto non dista,
75 qualunque in mare più giù s’abbandona,

quanto lì da Beatrice la mia vista;
ma nulla mi facea, ché sua effige
78 non discendëa a me per mezzo mista.

«O donna in cui la mia speranza vige,
e che soffristi per la mia salute
81 in inferno lasciar le tue vestige,

di tante cose quant’i’ ho vedute,
dal tuo podere e da la tua bontate
84 riconosco la grazia e la virtute.

Tu m’hai di servo tratto a libertate
per tutte quelle vie, per tutt’i modi
87 che di ciò fare avei la potestate.

La tua magnificenza in me custodi,
sì che l’anima mia, che fatt’hai sana,
90 piacente a te dal corpo si disnodi».

Così orai; e quella, sì lontana
come parea, sorrise e riguardommi;
93 poi si tornò a l’etterna fontana.

E ‘l santo sene: «Acciò che tu assommi
perfettamente», disse, «il tuo cammino,
96 a che priego e amor santo mandommi,

vola con li occhi per questo giardino;
ché veder lui t’acconcerà lo sguardo
99 più al montar per lo raggio divino.

E la regina del cielo, ond’ïo ardo
tutto d’amor, ne farà ogne grazia,
102 però ch’i’ sono il suo fedel Bernardo».

Qual è colui che forse di Croazia
viene a veder la Veronica nostra,
105 che per l’antica fame non sen sazia,

ma dice nel pensier, fin che si mostra:
«Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace,
108 or fu sì fatta la sembianza vostra?»;

tal era io mirando la vivace
carità di colui che ‘n questo mondo,
111 contemplando, gustò di quella pace.

«Figliuol di grazia, quest’esser giocondo»,
cominciò elli, «non ti sarà noto,
114 tenendo li occhi pur qua giù al fondo;

ma guarda i cerchi infino al più remoto,
tanto che veggi seder la regina
117 cui questo regno è suddito e devoto».

Io levai li occhi; e come da mattina
la parte orïental de l’orizzonte
120 soverchia quella dove ‘l sol declina,

così, quasi di valle andando a monte
con li occhi, vidi parte ne lo stremo
123 vincer di lume tutta l’altra fronte.

E come quivi ove s’aspetta il temo
che mal guidò Fetonte, più s’infiamma,
126 e quinci e quindi il lume si fa scemo,

così quella pacifica oriafiamma
nel mezzo s’avvivava, e d’ogne parte
129 per igual modo allentava la fiamma;

e a quel mezzo, con le penne sparte,
vid’io più di mille angeli festanti,
132 ciascun distinto di fulgore e d’arte.

Vidi a lor giochi quivi e a lor canti
ridere una bellezza, che letizia
135 era ne li occhi a tutti li altri santi;

e s’io avessi in dir tanta divizia
quanta ad imaginar, non ardirei
138 lo minimo tentar di sua delizia.

Bernardo, come vide li occhi miei
nel caldo suo caler fissi e attenti,
li suoi con tanto affetto volse a lei,
142 che’ miei di rimirar fé più ardenti.

Canto XXXII

Affetto al suo piacer, quel contemplante
libero officio di dottore assunse,
3 e cominciò queste parole sante:

«La piaga che Maria richiuse e unse,
quella ch’è tanto bella da’ suoi piedi
6 è colei che l’aperse e che la punse.

Ne l’ordine che fanno i terzi sedi,
siede Rachel di sotto da costei
9 con Beatrice, sì come tu vedi.

Sarra e Rebecca, Iudìt e colei
che fu bisava al cantor che per doglia
12 del fallo disse ‘Miserere mei‘,

puoi tu veder così di soglia in soglia
giù digradar, com’io ch’a proprio nome
15 vo per la rosa giù di foglia in foglia.

E dal settimo grado in giù, sì come
infino ad esso, succedono Ebree,
18 dirimendo del fior tutte le chiome;

perché, secondo lo sguardo che fée
la fede in Cristo, queste sono il muro
21 a che si parton le sacre scalee.

Da questa parte onde ‘l fiore è maturo
di tutte le sue foglie, sono assisi
24 quei che credettero in Cristo venturo;

da l’altra parte onde sono intercisi
di vòti i semicirculi, si stanno
27 quei ch’a Cristo venuto ebber li visi.

E come quinci il glorïoso scanno
de la donna del cielo e li altri scanni
30 di sotto lui cotanta cerna fanno,

così di contra quel del gran Giovanni,
che sempre santo ‘l diserto e ‘l martiro
33 sofferse, e poi l’inferno da due anni;

e sotto lui così cerner sortiro
Francesco, Benedetto e Augustino
36 e altri fin qua giù di giro in giro.

Or mira l’alto proveder divino:
ché l’uno e l’altro aspetto de la fede
39 igualmente empierà questo giardino.

E sappi che dal grado in giù che fiede
a mezzo il tratto le due discrezioni,
42 per nullo proprio merito si siede,

ma per l’altrui, con certe condizioni:
ché tutti questi son spiriti asciolti
45 prima ch’avesser vere elezioni.

Ben te ne puoi accorger per li volti
e anche per le voci puerili,
48 se tu li guardi bene e se li ascolti.

Or dubbi tu e dubitando sili;
ma io discioglierò ‘l forte legame
51 in che ti stringon li pensier sottili.

Dentro a l’ampiezza di questo reame
casual punto non puote aver sito,
54 se non come tristizia o sete o fame:

ché per etterna legge è stabilito
quantunque vedi, sì che giustamente
57 ci si risponde da l’anello al dito;

e però questa festinata gente
a vera vita non è sine causa
60 intra sé qui più e meno eccellente.

Lo rege per cui questo regno pausa
in tanto amore e in tanto diletto,
63 che nulla volontà è di più ausa,

le menti tutte nel suo lieto aspetto
creando, a suo piacer di grazia dota
66 diversamente; e qui basti l’effetto.

E ciò espresso e chiaro vi si nota
ne la Scrittura santa in quei gemelli
69 che ne la madre ebber l’ira commota.

Però, secondo il color d’i capelli,
di cotal grazia l’altissimo lume
72 degnamente convien che s’incappelli.

Dunque, sanza mercé di lor costume,
locati son per gradi differenti,
75 sol differendo nel primiero acume.

Bastavasi ne’ secoli recenti
con l’innocenza, per aver salute,
78 solamente la fede d’i parenti;

poi che le prime etadi fuor compiute,
convenne ai maschi a l’innocenti penne
81 per circuncidere acquistar virtute;

ma poi che ‘l tempo de la grazia venne,
sanza battesmo perfetto di Cristo
84 tale innocenza là giù si ritenne.

Riguarda omai ne la faccia che a Cristo
più si somiglia, ché la sua chiarezza
87 sola ti può disporre a veder Cristo».

Io vidi sopra lei tanta allegrezza
piover, portata ne le menti sante
90 create a trasvolar per quella altezza,

che quantunque io avea visto davante,
di tanta ammirazion non mi sospese,
93 né mi mostrò di Dio tanto sembiante;

e quello amor che primo lì discese,
cantando ‘Ave, Maria, gratia plena‘,
96 dinanzi a lei le sue ali distese.

Rispuose a la divina cantilena
da tutte parti la beata corte,
99 sì ch’ogne vista sen fé più serena.

«O santo padre, che per me comporte
l’esser qua giù, lasciando il dolce loco
102 nel qual tu siedi per etterna sorte,

qual è quell’angel che con tanto gioco
guarda ne li occhi la nostra regina,
105 innamorato sì che par di foco?»

Così ricorsi ancora a la dottrina
di colui ch’abbelliva di Maria,
108 come del sole stella mattutina.

Ed elli a me: «Baldezza e leggiadria
quant’esser puote in angelo e in alma,
111 tutta è in lui; e sì volem che sia,

perch’elli è quelli che portò la palma
giuso a Maria, quando ‘l Figliuol di Dio
114 carcar si volse de la nostra salma.

Ma vieni omai con li occhi sì com’io
andrò parlando, e nota i gran patrici
117 di questo imperio giustissimo e pio.

Quei due che seggon là sù più felici
per esser propinquissimi ad Augusta,
120 son d’esta rosa quasi due radici:

colui che da sinistra le s’aggiusta
è il padre per lo cui ardito gusto
123 l’umana specie tanto amaro gusta;

dal destro vedi quel padre vetusto
di Santa Chiesa a cui Cristo le clavi
126 raccomandò di questo fior venusto.

E quei che vide tutti i tempi gravi,
pria che morisse, de la bella sposa
129 che s’acquistò con la lancia e coi clavi,

siede lungh’esso, e lungo l’altro posa
quel duca sotto cui visse di manna
132 la gente ingrata, mobile e retrosa.

Di contr’a Pietro vedi sedere Anna,
tanto contenta di mirar sua figlia,
135 che non move occhio per cantare osanna;

e contro al maggior padre di famiglia
siede Lucia, che mosse la tua donna,
138 quando chinavi, a rovinar, le ciglia.

Ma perché ‘l tempo fugge che t’assonna,
qui farem punto, come buon sartore
141 che com’elli ha del panno fa la gonna;

e drizzeremo li occhi al primo amore,
sì che, guardando verso lui, penètri
144 quant’è possibil per lo suo fulgore.

Veramente, ne forse tu t’arretri
movendo l’ali tue, credendo oltrarti,
147 orando grazia conven che s’impetri

grazia da quella che puote aiutarti;
e tu mi seguirai con l’affezione,
sì che dal dicer mio lo cor non parti».
151 E cominciò questa santa orazione:

Canto XXXIII

«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
3 termine fisso d’etterno consiglio,

tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
6 non disdegnò di farsi sua fattura.

Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
9 così è germinato questo fiore.

Qui se’ a noi meridïana face
di caritate, e giuso, intra ‘ mortali,
12 se’ di speranza fontana vivace.

Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre
15 sua disïanza vuol volar sanz’ali.

La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fïate
18 liberamente al dimandar precorre.

In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
21 quantunque in creatura è di bontate.

Or questi, che da l’infima lacuna
de l’universo infin qui ha vedute
24 le vite spiritali ad una ad una,

supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
27 più alto verso l’ultima salute.

E io, che mai per mio veder non arsi
più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi
30 ti porgo, e priego che non sieno scarsi,

perché tu ogne nube li disleghi
di sua mortalità co’ prieghi tuoi,
33 sì che ‘l sommo piacer li si dispieghi.

Ancor ti priego, regina, che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani,
36 dopo tanto veder, li affetti suoi.

Vinca tua guardia i movimenti umani:
vedi Beatrice con quanti beati
39 per li miei prieghi ti chiudon le mani!»

Li occhi da Dio diletti e venerati,
fissi ne l’orator, ne dimostraro
42 quanto i devoti prieghi le son grati;

indi a l’etterno lume s’addrizzaro,
nel qual non si dee creder che s’invii
45 per creatura l’occhio tanto chiaro.

E io ch’al fine di tutt’i disii
appropinquava, sì com’io dovea,
48 l’ardor del desiderio in me finii.

Bernardo m’accennava, e sorridea,
perch’io guardassi suso; ma io era
51 già per me stesso tal qual ei volea:

ché la mia vista, venendo sincera,
e più e più intrava per lo raggio
54 de l’alta luce che da sé è vera.

Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede,
57 e cede la memoria a tanto oltraggio.

Qual è colüi che sognando vede,
che dopo ‘l sogno la passione impressa
60 rimane, e l’altro a la mente non riede,

cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visïone, e ancor mi distilla
63 nel core il dolce che nacque da essa.

Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi
66 si perdea la sentenza di Sibilla.

O somma luce che tanto ti levi
da’ concetti mortali, a la mia mente
69 ripresta un poco di quel che parevi,

e fa la lingua mia tanto possente,
ch’una favilla sol de la tua gloria
72 possa lasciare a la futura gente;

ché, per tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
75 più si conceperà di tua vittoria.

Io credo, per l’acume ch’io soffersi
del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito,
78 se li occhi miei da lui fossero aversi.

E’ mi ricorda ch’io fui più ardito
per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi
81 l’aspetto mio col valore infinito.

Oh abbondante grazia ond’io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
84 tanto che la veduta vi consunsi!

Nel suo profondo vidi che s’interna
legato con amore in un volume,
87 ciò che per l’universo si squaderna:

sustanze e accidenti e lor costume,
quasi conflati insieme, per tal modo
90 che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.

La forma universal di questo nodo
credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
93 dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.

Un punto solo m’è maggior letargo
che venticinque secoli a la ‘mpresa,
96 che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.

Così la mente mia, tutta sospesa,
mirava fissa, immobile e attenta,
99 e sempre di mirar faceasi accesa.

A quella luce cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto
102 è impossibil che mai si consenta;

però che ‘l ben, ch’è del volere obietto,
tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella
105 è defettivo ciò ch’è lì perfetto.

Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
108 che bagni ancor la lingua a la mammella.

Non perché più ch’un semplice sembiante
fosse nel vivo lume ch’io mirava,
111 che tal è sempre qual s’era davante;

ma per la vista che s’avvalorava
in me guardando, una sola parvenza,
114 mutandom’io, a me si travagliava.

Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
117 di tre colori e d’una contenenza;

e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ‘l terzo parea foco
120 che quinci e quindi igualmente si spiri.

Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,
123 è tanto, che non basta a dicer ‘poco’.

O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
126 e intendente te ami e arridi!

Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
129 da li occhi miei alquanto circunspetta,

dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
132 per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.

Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
135 pensando, quel principio ond’elli indige,

tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
138 l’imago al cerchio e come vi s’indova;

ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
141 da un fulgore in che sua voglia venne.

A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
145 l’amor che move il sole e l’altre stelle.