Rime [Rime dubbie]

LV

Visto aggio scritto e odito cantare
D’Amor, che ‘nfiamma ciascun suo servente;
E tal lodarsi d’esso, e tal biasmare
Si sforza ciaschedun suo convenente;

ch’alcun gioioso diven per amare,
E altri amando languisce sovente:
Se ciò diven d’Amor nol so pensare,
O d’altra cosa che d’amor non sente.

Perciò ritorno a voi, cortese e saggio,
Che mi mandiate novelle d’Amore,
E come avviene ciò che ditto v’aggio.

Parmi che di battaglie di signore
Venga ciascun cui d’Amor cheriraggio
Che d’Amor dica s’ha bene o dolore.

LVI

Indirizzato a Chiaro Davanzati, che risponderà col sonetto Per vera esperïenza di parlare.

Tre pensier’ aggio, onde mi vien pensare,
E liovvi incluso tutto il mio sapere;
E ciaschedun per sé mi dà penare,
Comunemente fannomi morere.

L’uno m’afferma pur ch’io deggia amare
La bella a cui donato aggio ‘l volere;
Ed io ‘l consento, e noi voglio oblïare,
Ché non potria senz’ello gioia avere.

Ne gli altri due non so prender fidanza:
L’un meco ardisce e fammi coraggioso
Ched io d’amor richieda la mi’ amanza;

l’altro mantiene il cherir temoroso.
Ond’io ti priego, Chiaro, per tua orranza,
Che mi consigli del men dubitoso.

LVII

Indirizzato a Chiaro Davanzati, che risponderà col sonetto Se credi per beltate o per sapere.

Già non m’agenza, Chiaro, il dimandare,
Ma’ che m’agenza amare e non cherere,
Ché nullo uom deve sua donna pregare
Di cosa che può lei danno tenere;

ma desïoso nel desïo stare
D’ora d’amore, e in ciò mai permanere,
Ché lo desïo fa l’uomo migliorare,
Che ‘l più malvagio isforza di valere.

E quel che viene in su la dilettanza
è di valer non mai sì desïoso:
Perciò in cherir non fermo mia speranza.

Ciò prova augel che più canta amoroso:
Se vien che compia la sua disïanza,
Fi’ del cantar che sembra altrui noioso.

LVIII

[Saper vorria da voi, nobile e saggio]

Indirizzato a Puccio Bellundi, che risponderà col sonetto Così com ne l’oscuro alluma il raggio.

Saper vorria da voi, nobile e saggio,
Ciò che per me non son ben conoscente.
In due voler’ travagliami il coraggio,
E combattuto son da lor sovente:

l’un vol ch’io ami donna di paraggio,
Cortese, saggia, bella e avvenente;
L’altro, ha di me ver’ lui par signoraggio,
Vol che di lei non sia benevogliente.

Ond’io non saccio, d’ogni virtù sire,
A qual m’apprenda e deggia dar lo core:
Così m’hanno levato lo sentire.

Acciò richero voi, di gran valore,
Che non v’aggrevi di mandarmi a dire
In qual m’affermi, per simil tenore.

LVIX

[Guido Cavalcanti e Monna Lagia, amata da Lapo Gianni]

Amore e monna Lagia e Guido ed io
Possiamo ringraziare un ser costui
Che ‘nd’ha partiti, sapete da cui?
Nel vo’ contar per averlo in oblio:

poi questi tre più non v’hanno disio,
Ch’eran serventi di tal guisa in lui
Che veramente più di lor non fui
Imaginando ch’elli fosse iddio.

Sia ringraziato Amor, che se n’accorse
Primeramente; poi la donna saggia,
Che ‘n quello punto li ritolse il core;

e Guido ancor, che n’è del tutto fore;
Ed io ancor che ‘n sua vertute caggia:
Se poi mi piacque, nol si crede forse.

LX

[Leggi il sonetto di Guido Cavalcanti: Perch’i’ no spero di tornar giammai]

In abito di saggia messaggiera
Movi, ballata, senza gir tardando,
A quella bella donna a cui ti mando,
E digli quanto mia vita è leggiera.

Comincerai a dir che h occhi miei
Per riguardar sua angelica figura
Solean portar corona di desiri;
Ora, perché non posson veder lei,
Li strugge Morte con tanta paura
C’hanno fatto ghirlanda di martiri.
Lasso, non so in qual parte li giri
Per lor diletto, sì che quasi morto
Mi troverai, se non rechi conforto
Da lei: ond’eo ti fo dolce preghiera.

LXI

Donne, i’ non so di ch’i’ mi prieghi Amore,
Ch’ello m’ancide, e la morte m’è dura,
E di sentir lui meno ho più paura.

Nel mezzo de la mente mia risplende
Un lume de’ belli occhi ond’io son vago,
Che l’anima contenta.
Ver è ch’ad ora ad ora indi discende
Una saetta, che m’asciuga il lago
Del cor pria che sia spenta:
Ciò face Amor qual volta mi rammenta
La dolce mano e quella fede pura
Che doveria mia vita far sicura.

Se quella in cui li mie’ sospir’ si stanno,
Vedesse siccom’io la veggio bella
Nell’allumata mente,
Vedesse li pensier’, ch’al cor sen vanno,
Accendersi di lei come facella.
Ma ciò non può saper se non chi ‘1 sente,
S’Amor nol fa; e quel sen dà men cura,
Quanto l’anima mia più nel scongiura.

O donne, che d’Amore angeli siete,
Quando questa gentil a voi s’appressa,
Di me ricordi a voi.
Guardate infra le belle, e lei vedrete,
Che li atti suoi diranno: “Quest’è dessa
Che sì adorna noi”.
Fate volgere a me li pensier’ suoi
Pur con sospiri, che la parladura
Di quel che fece lei nolle sia scura.

LXII

Dante si rivolge alla pietra tombale: in memoria di Pietra che ha attraversato una porta così crudele. Cioè, è morta.

Deh, piangi meco tu, dogliosa petra,
Perché s’è Petra en così crudel porta
Entrata che d’angoscia el cor me ‘npetra;
Deh, piangi meco, tu che la tien’ morta:

ch’eri già bianca, e or se’ nera e tetra,
De lo colore suo tutta distorta;
E quanto più ti priego, più s’arretra
Petra d’aprirme, ch’io la veggia scorta.

Aprimi, petra, si ch’io Petra veggia
Ben sen dorria sovente.
Come nel mezzo di te, crudel, giace,
Ché ‘l cor mi dice ch’ancor viva seggia.

Che se la vista mia non è fallace,
Il sudore e l’angoscia già di scheggia
Petra è di fuor che dentro petra face.

LXIII

Aï faux ris, pour quoi traï avés
Oculos meos? Et quid tibi feci,
Che fatta m’hai così spietata fraude?
Iam audivissent verba mea Greci.
E selonch autres dames vous savés
Che ‘ngannator non è degno di laude.
Tu sai ben come gaude
Miserum eius cor qui prestolatur:
je li sper anc, e pas de moi non cure.
Ai Dieus, quante malure
Atque fortuna ruinosa datur
A colui che, aspettando, il tempo perde,
Né già mai tocca di fioretto il verde.

Conqueror, cor suave, de te primo,
Ché per un matto guardamento d’occhi
Vous non dovris avoir perdu la loi;
Ma e’ mi piace che li dardi e i stocchi
Semper insurgant contra me de limo,
Dount je seroi mort, pour foi que je croi.
Fort me desplait pour moi,
Ch’i’ son punito ed aggio colpa nulla;
Nec dicit ipsa: “malum est de isto”;
Unde querelam sisto.
Ella sa ben che, se ‘l mio cor si scrulla
A penser d’autre, que d’amour lesset,
Le faux cuers grant painë an porteret.

Ben avrà questa donna cor di ghiaccio
E tant d’aspresse que, ma foi, est fors,
Nisi pietatem habuerit servo.
Bien set Amours, se je non ai socors,
Che per lei dolorosa morte faccio
Neque plus vitam, sperando, conservo.
Ve omni meo nervo,
S’elle non fet que pour soun sen verai
Io vegna a riveder sua faccia allegra.
Ahi Dio, quant’è integra.
Mes je m’en dout, si gran dolor en ai:
Amorem versus me non tantum curat
Quantum spes in me de ipsa durat.

Cianson, povés aler pour tout le monde,
Namque locutus sum in lingua trina,
Ut gravis mea spina
Si saccia per lo mondo. Ogn’uomo senta:
Forse pietà n’avrà chi mi tormenta.

LXIV

Bernardo, io veggio ch’ima donna vene
Al grande assedio della vita mia
Irata sì, che accende e caccia via
Tutto ciò che l’aiuta e la sostene;

onde riman lo cor, ch’è pien di pene,
Senza soccorso e senza compagnia,
E per forza conven che morto sia
Per un gentil disio ch’Amor vi tene.

Questo assedio grande ha posto Morte,
Per conquider la vita, intorno al core,
Che cangiò stato quando ‘l prese Amore

per quella donna che si mira forte,
Come colei che sil pone in disnore:
Ond’assalir lo ven, si ch’e’ si more.

LXV

Se ‘1 viso mio a la terra si china
E di vedervi non si rassicura,
Io vi dico, madonna, che paura
Lo face, che di me si fa regina:

perché la biltà vostra, peregrina
Qua giù fra noi, soverchia mia natura,
Tanto che quando veli per avventura
Vi miro, tutta mia vertù ruina;

sì che la morte, che porto vestita,
Combatte dentro a quel poco valore
Che mi rimane, con piogge di troni.

Allor comincia a pianger dentro al core
Lo spirito vezzoso de la vita,
E dice: «Amore, o perché m’abbandoni?».

LXVI

Io sento pianger l’anima nel core,
Sì che fa pianger li occhi li soi guai,
E dice: «Oh lassa me, ch’io non pensai
Che questa fosse di tanto valore;

ché per lei veggio la faccia d’Amore
Vie più crudele ch’io non vidi mai,
E quasi irato mi dice: “Che fai
Dentro a questa persona che si more?”.

Dinanzi a li occhi miei un libro mostra,
Nel qual io leggo tutti que’ martiri
Che posson far vedere altrui la morte.

Poscia mi dice: “Misera, tu miri
Là dove è scritta la sentenzia nostra
Ditratta del piacer di costei forte”».

LXVII

Non v’accorgete voi d’un che si smore
E va piangendo, sì si disconforta?
Io prego voi, se non vi siete accorta,
Che lo miriate per lo vostro onore.

E’ si va sbigottito, in un colore
Che ‘l fa parere una persona morta,
Con tanta pena che ne li occhi porta,
Che di levarli già non ha valore.

E quando alcun pietosamente ‘l mira,
Lo cor di pianger tutto li si strugge,
E l’anima sen dol sì che ne stride;

e se non fosse ch’elli allor si fugge
Sì alto chiama voi quand’ei sospira
Ch’altri direbbe: “Or sappiam chi l’ancide”.

LXVIII

Questa donna che andar mi fa pensoso
Porta nel viso la vertù d’Amore,
La qual fa disvegliar altrui nel core
Lo spirito gentil, se v’è nascoso.

Ella m’ha fatto tanto pauroso,
Poscia ch’io vidi lo dolce signore
Ne li occhi soi con tutto il su’ valore,
Ch’io le vo presso e riguardar non l’oso.

E s’avvien ciò, ched i’ quest’occhi miri,
Io veggio in quella parte la salute
Che lo ‘ntelletto mio non vi pò gire.
Allor si strugge sì la mia vertute
Che l’anima che move li sospiri
S’acconcia per voler del cor fuggire.

LXIX

Poi che sguardando il cor feriste in tanto
Di grave colpo ch’io non batto vena,
Dio, per pietà, or deali alcuna lena,
Che ‘l tristo spirto si rinvegna alquanto.

Or non vedete consumar in pianto
Gli occhi dolenti per soperchia pena?
La qual sì stretto a la morte mi mena
Che già fuggir non posso in alcun canto.

Vedete, donna, s’io porto dolore,
E la mia voce ch’è fatta sottile,
Chiamando a voi mercé sempre d’amore;

e s’el v’aggrada, donna mia gentile,
Che questa doglia pur mi strugga ‘l core,
Eccomi apparecchiato servo umile.

LXX

Io non domando, Amore,
Fuor che potere il tuo piacer gradire,
Così t’amo seguire in ciascun tempo,
Dolce il mio signore.

Eo son in ciascun tempo ugual d’amare
Quella donna gentile
Che mi mostrasti, Amor, subitamente,
Un giorno che m’entrò sì ne la mente
La sua sembianza umile,
Veggendo te ne’ suoi begli occhi stare,
Che dilettare il core
Da poi non s’è voluto in altra cosa
Fuor che ‘n quella amorosa
Vista ch’io vidi rimembrar tuttore.

Questa membranza, Amor, tanto mi piace,
E sì l’ho imaginata,
Ch’io veggio sempre quel ch’io vidi allora;
Ma dir non lo poria, tanto m’accora
Che sol mi s’è posata
Entro a la mente: però mi do pace
Che ‘l verace colore
Chiarir non si poria per mie parole.
Amor, come si vole
Dil tu per me là ‘v’io son servitore.

Ben deggio sempre, Amore,
Rendere a te onor, poi che desire
Mi desti d’ubidire
A quella donna, ch’è di tal valore.

LXXI

Lo sottil ladro che ne gli occhi porti
Vien dritto a l’uom per mezzo de la faccia,
E prima invola il cor ch’altri lo saccia,
Passando a lui per li sentier’ più accorti.

Tu ch’a far questo l’aiuti e conforti,
Però che sospirando si disfaccia,
Fuggendo mostri poi che ti dispiaccia,
Sì che ‘n tal guisa n’ha’ già quasi morti.

Li spiriti dolenti disvïati,
Che n’escon de lo cor, che trovan meno,
Non domandan se non che tu mi guati.

Ma tu se’ micidiale, e hai sì pieno
L’animo tuo di pensier’ si spietati
Ched ognun par che sia crudel veleno.

LXXII

Iacopo, i’ fui, ne le nevicate alpi,
Con que’ gentili ond’è nata quella
Ch’Amor ne la memoria ti suggella
E per che tu, parlando anzi lei, palpi.

Non credi tu, perch’io aspre vie scalpi,
Ch’io mi ricordi di tua vita fella
Sol per costei che la diana stella
Criò e donde tu mai non ti parti?

Per te beato far mossi parole
A’ suo’ propinqui del lontano essilio
Che cercar pensa per l’altrui valore.

Donde non nacquer canti né carole,
Ma in tra loro facien lungo concilio:
Non so ‘l deliberar, ma so ‘l dolore.

Dico che tutti si dolien per lei,
Dicendo: “Dove perderem costei?”.

LXXIII

Forse Sennuccio Del Bene, poeta fiorentino di parte bianca, morto nel 1349.

Sennuccio, la tua poca personuzza,
Onde di’ che deriva il desiuzzo
Il qual ti fa portare il cappucciuzzo
Cosí polito in su l’assettatuzza,
Quando tu ti vestisti d’una uzza *
Ch’era vergata d’uno scaccatuzzo, **
E che n’andavi in sul tuo ronzinuzzo,
Spesso ambiando con la pochettuzza, ***

io mi pensava di darti copiuzza
Di quella donna che miri fisuzzo,
Credendo avessi alcuna bontaduzza;
E t’ho trovato memoria scioccuzza,
Sì ch’io non ti vo’ più per fedeluzzo,
Così sa’ far di me mala scusuzza.

Note: * Uzza: tonachetta guarnacchino
** listata da un contigio a scacchi
*** pochettuzza = fisicuzzo

LXXIV

Nulla mi parve mai più crudel cosa
Di lei per cui servir la vita lago,
Ché ‘l suo desio nel congelato lago,
Ed in foco d’amore il mio si posa.

Di così dispietata e disdegnosa
La gran bellezza di veder m’appago;
E tanto son del mio tormento vago
Ch’altro piacere a li occhi miei non osa.

Né quella ch’a veder lo sol si gira
E ‘l non mutato amor mutata serba,
Ebbe quant’io già mai fortuna acerba.

Dunque, Giannin, quando questa superba
Convegno amar fin che la vita spira,
Alquanto per pietà con me sospira.

LXXV

La gran virtù d’Amore e ‘l bel piacire
Che nel mio cor di voi, mia donna, è nato,
M’ha fedelmente in vo’, donna tornato,
Ch’i’ v’amo e voglio sempre vo’ servire,

perché più bella siete, al mio parire,
D’ogni altra donna di pregio laudato;
Saggia, gentile, core aumillato,
Ciò che sguardate fate ringioire.

Poi conoscete ch’i’ v’ho dato il core
E siete donna di tanta valenza,
Degnate me tener per servitore.

Merzé vi chero a vostra provedenza,
Ch’i’ senta gioia per alcun sentore
Ch’io sie servente a vostra ubidienza.

LXXVI

De gli occhi di quella gentil mia dama
Esce una vertù d’amor sì pina
Ch’ogni persona che la ve’ s’inchina
A veder lei, e mai altro non brama.
Beltà e Cortesia sua dea la chiama,
E fanno ben, ché l’è cosa sì fina
Ch’ella non par umana, anti divina,
E sempre sempre monta la sua fama.

Chi l’ama, come pò esser contento,
Guardando le vertù che ‘n lei son tante;
E s’ tu mi dici: “come ‘l sai?”, che ‘l sento.
Ma se tu mi dimandi e dici: “quante?”,
Non ti so dire, ché non son pur cento,
Anti più d’infinite ed altrettante.

LXXVII

De’ tuoi begli occhi un molto acuto strale
M’è nel cor fitto, e oltre più d’un’oncia,
Sì che mi fora meglio ogni altro male,
Secondo ch’Amor dentro mi rinoncia.

Oimè, perché venisti così acconcia
Lo dì ch’i’ ebbi quel colpo mortale,
Che vita e ogni stato mi disconcia,
E per campar nulla cosa mi vale?

I’ ti scontrai per quel che nel cor porto,
E perché mai de la tua dolce vista
Non fosse allegra l’anima mia trista.

Che se quella pietà ch’amor racquista
Per lei senza veder non s’ha conforto,
E i’ ho perduto questo, ond’io son morto.

LXXVIII

“Non piango tanto il non poter vedere
Quella che di mia vita era nutrice,
Quanto per tema non sia sdegnatrice
Di mia dimora, ch’è contra volere,

pensando che ciascun om de’ savere
Che mal pittura sta senza vernice,
Ché no ha stabilità”: così mi dice
Lo cor c’ha perso lo su’ bel piacere.

Sì che ‘n questo pensando si conduce
La vita a morte, e spesso la richiama
Dicendo: “Sola tu sei la mia luce”.

Sentendo ciò, quello spirito ch’ama
Vien con conforto e dice: “Sempre duce
Fia del tu’ amor quella che ‘l tu’ cor brama”.

LXXIX

Molti, volendo dir che fosse Amore,
Disser parole assai, ma non potero
Dir di lui cosa che sembrasse il vero,
Né diffinir qual fosse il suo valore.

Ben fu alcun che disse ch’era ardore
Di mente imaginato per pensiero;
E alcun disse ch’era desidero
Di voler nato per piacer del core.

Io dico che Amor non è sustanza
Né cosa corporal ch’abbia figura,
Anzi è passione in disïanza,
Piacer di forma dato per natura,
Sì che ‘l voler del core ogni altro avanza:
E questo basta fin che ‘l piacer dura.

LXXX

Quando il consiglio tra gli uccei si tenne,
Di nicistà convenne che
Ciascun comparisse a tal novella;
E la cornacchia maliziosa e fella
Pensò mutar gonnella,
E da molti altri uccei accattò penne;
E addobbossi, e nel consiglio venne:
Ma poco si sostenne,
Perché parëa sopra gli altri bella;
E l’un domandò a l’altro: “Chi è quella?”,
Si che finalmente ella
Fu conosciuta. Or odi che n’avvenne.

Che tutti gli altri uccei le fur dintorno
Sì che sanza soggiorno
La pelar si ch’ella rimase ignuda;
E l’un dicëa: “Vedi bella druda”,
Dicea l’altro: “Ella muda”;
E così la lasciaro in grande scorno.
Similemente divien tutto giorno
D’uom che si fa adorno
Di fama o di vertù ch’altrui dischiuda,
Che spesse volte suda
De l’altrui caldo tal che poi agghiaccia.
Dunque beato chi per sé procaccia.