Rime [parte prima]

I

A Dante da Maiano in risposta al sonetto Provedi, saggio, a esta visione, inviato a più poeti, con preghiera di trattate una visione nella quale, insieme con una donna di bella fazone compaiono una ghirlanda, una camicia e la madre morta.

Savete giudicar vostra ragione,
O om che pregio di saver portate
Per che, vitando aver con voi quistione
Com so rispondo a le parole ornate.

Disio verace, u’ rado fin si pone,
Che mosse di valore o di bieltate,
Imagina l’amica oppinione
Significasse il don che pria narrate.

Lo vestimento, aggiate vera spene
Che fia, da lei cui desiate, amore
E ‘n ciò provide vostro spirto bene:

Dico, pensando l’ovra sua d’allore.
La figura che già morta sorvene
È la fermezza ch’averà nel core.

II

A Dante da Maiano, in risposta al sonetto Per pruova di saver com vale e quanto, che questi gli aveva mandato per chiedergli quale sia il maggior dolore provocato dall’amore

Qual che voi siate, amico, vostro manto
Di scienza parmi tal che non è gioco;
Sì che, per non saver, d’ira mi coco,
Non che laudarvi sodisfarvi tanto.

Sacciate ben (ch’io mi conosco alquanto)
Che di saver ver’ voi ho men d’un moco,
Né per via saggia come voi non voco,
Così parete saggio in ciascun canto.

Poi piacevi saver lo meo coraggio,
E io ‘l vi mostro di menzogna fore,
Sì come quei ch’a saggio è ‘l suo parlare:

Certanamente a mia coscienza pare,
Chi non è amato, s’elli è amadore
Che ‘n cor porti dolor senza paraggio

III

A Dante da Maiano in risposta al sonetto Lo vostro fermo dir ed orrato, col quale loda Dante Alighieri per quel che aveva scritto in Qual che voi siate, amico, vostro manto.

Non canoscendo, amico, vostro nomo,
Donde che mova chi con meco parla,
Conosco ben che scienz’à di gran nomo,
Sì che di quanti saccio nessun par l’à:

Ché si pò ben canoscere d’un omo,
Ragionando, se ha senno, che ben par là;
Conven poi voi laudar sanza far nomo,
È forte a lingua mia di ciò com parla.

Amico (certo sonde, acciò ch’amato
Per amore aggio), sacci ben, chi ama,
Se non è amato, lo maggior dol porta;

Ché tal dolor ten sotto suo camato
Tutti altri, e capo di ciascun si chiama:
Da ciò ven quanta pena Amore porta.

IV

A Dante da Maiano in risposta al sonetto Amor mi fa sì fedelmente amare, in cui l’autore ha riconosciuto la grande potenza dell’Amore, contro il quale a nulla valgono forza o arte o le stesse regole dettate da Ovidio.

Savere e cortesia, ingegno ed arte,
Nobilitate, bellezza e riccore,
Fortezza e umiltate e largo core,
Prodezza ed eccellenza, giunte e sparte,

Este grazie e vertuti in onne parte
Con lo piacer di lor vincono Amore:
Una più ch’altra ben ha più valore
Inverso lui, ma ciascuna n’ha parte.

Onde se voli, amico, che ti vaglia
Vertute naturale od accidente,
Con lealtà in piacer d’Amor l’adovra,

E non a contastar sua graziosa ovra:
Ché nulla cosa gli è incontro possente,
Volendo prender om con lui battaglia.

V
[Se Lippo amico se’ tu che mi leggi]

Si tratta forse di Lippo (Filippo) Paschi de’ Bardi; la pulcella nuda è la canzone che segue, ed è definita nuda perché costituita una sola strofa (tutte la canzoni costituite da una sola strofa erano definite canzoni nude); questo è un sonetto rinterzato, caratterizzato dalla presenza di settenari.

Se Lippo amico se’ tu che mi leggi,
Davanti che proveggi
A le parole che dir ti prometto,
Da parte di colui che mi t’ha scritto
In tua balia mi metto
E recoti salute quali eleggi.

Per tuo onor audir prego mi deggi
E con l’udir richeggi
Ad ascoltar la mente e lo ‘ntelletto:
Io che m’appello umile sonetto,
Davanti al tuo cospetto
Vegno, perché al non caler non feggi.

Lo qual ti guido esta pulcella nuda,
Che ven di dietro a me sì vergognosa
Ch’a torto gir non osa,
Perch’ella non ha vesta in che si chiuda;

E priego il gentil cor che ‘n te riposa
Che la rivesta e tegnala per druda,
Sì che sia conosciuda
E possa andar là ‘vunque è disïosa.

VI
[Lo meo servente core]

Epistola indirizzata alla donna amata dalla quale il poeta è temporaneamente lontano (unico esempio di poesia in Dante che comincia con un settenario).

Lo meo servente core
Vi raccomandi Amor, che vi l’ha dato,
E Merzé d’altro lato
Di me vi rechi alcuna rimembranza;
Ché, del vostro valore
Avanti ch’io mi sia guari allungato,
Mi tien già confortato
Di ritornar la mia dolce speranza.

Deo, quanto fie poca addimoranza,
Secondo il mio parvente:
Ché mi volge sovente
La mente per mirar vostra sembianza;
Per che ne lo meo gire e addimorando,
Gentil mia donna, a voi mi raccomando.

VII
[La dispietata mente, che pur mira]

Dante compone questa canzone fuori di Firenze, forse a Bologna, ed esprime la contrapposizione fra due sentimenti: verso Beatrice e verso la donna dello schermo (vedi la Vita nova)

La dispietata mente, che pur mira
Di retro al tempo che se n’è andato,
Da l’un de’ lati mi combatte il core;
E ‘l disio amoroso, che mi tira
Ver’ lo dolce paese c’ho lasciato,
D’altra part’è con la forza d’Amore;
Né dentro i’ sento tanto di valore
Che lungiamente i’ possa far difesa,
Gentil madonna, se da voi non vene:
Però, se a voi convene
Ad iscampo di lui mai fare impresa,
Piacciavi di mandar vostra salute,
Che sia conforto de la sua virtute.

Piacciavi, donna mia, non venir meno
A questo punto al cor che tanto v’ama,
Poi sol da voi lo suo soccorso attende;
Ché buon signor già non ristringe freno
Per soccorrer lo servo quando ‘l chiama,
Ché non pur lui, ma suo onor difende.
E certo la sua doglia più m’incende,
Quand’ ‘i mi penso ben, donna, che vui
Per man d’Amor là entro pinta siete:
Così e voi dovete
Vie maggiormente aver cura di lui;
Ché Que’ da cui convien che ‘l ben s’appari,
Per l’magine sua ne rien più cari.

Se dir voleste, dolce mia speranza,
Di dare indugio a quel ch’io vi domando,
Sacciate che l’attender io non posso;
Ch’i’ sono al fine de la mia possanza.
E ciò conoscer voi dovete, quando
L’ultima speme a cercar mi son mosso;
Ché tutti incarchi sostenere a dosso
De’ l’uomo infin al peso ch’è mortale,
Prima che ‘l suo maggiore amico provi,
Poi non sa qual lo trovi:
E s’elli avven che li risponda male,
Cosa non è che costi tanto cara,
Ché morte n’ha più tosto e più amara.

E voi pur sete quella ch’io più amo,
E che far mi potete maggior dono,
E ‘n cui la mia speranza più riposa;
Ché sol per voi servir la vita bramo,
E quelle cose che a voi onor sono.
Dimando e voglio: ogni altra m’è noiosa.
Dar mi potete ciò ch’altri non m’osa,
Ché ‘l sì e ‘l no di me in vostra mano
Ha posto Amore; ond’io grande mi tegno.
La fede ch’eo v’assegno muove
Dal portamento vostro umano;
Ché ciascun che vi mira, in veritate
Di fuor conosce che dentro è pietate.

Dunque vostra salute omai si mova,
E vegna dentro al cor, che lei aspetta,
Gentil madonna, come avete inteso:
Ma sappia che l’entrar di lui si trova
Serrato forte da quella saetta
Ch’Amor lanciò lo giorno ch’i’ fui preso;
Per che l’entrare a tutt’altri è conteso,
Fuor ch’a’ messi d’Amor, ch’aprir lo sanno
Per volontà de la vertù che ‘l serra:
Onde ne la mia guerra
La sua venuta mi sarebbe danno,
Sed ella fosse sanza compagnia
De’ messi del signor che m’ha in balia.

Canzone, il tuo cammin vuol esser corto;
Ché tu sai ben che poco tempo omai
Puote aver luogo quel per che tu vai.

VIII
[Non mi poriano già mai fare ammenda]

In questo sonetto (v. 3) troviamo l’accenno alla torre della Garisenda di Bologna, prova del soggiorno di Dante nella città felsinea.

Non mi poriano già mai fare ammenda
Del lor gran fallo gli occhi miei, sed elli
Non s’accecasser, poi la Garisenda
Torre miraro co’ risguardi belli,

E non conobber quella (mal lor prenda)
Ch’è la maggior de la qual si favelli:
Però ciascun di lor voi’ che m’intenda
Che già mai pace non farò con elli;

Poi tanto furo, che ciò che sentire
Doveano a ragion senza veduta,
Non conobber vedendo; onde dolenti

Son li miei spirti per lo lor fallire,
E dico ben, se ‘l voler non mi muta,
Ch’eo stesso li uccidrò, que’ scanoscenti.

IX
[Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io]


Guido Cavalcanti, il poeta fiorentino nato verso il 1259 e morto nel 1300, grande amico di Dante; Lapo Gianni, poeta, da identificarsi forse col notaio Ser Lapo figlio di Giovanni Ricevuti; al v. 9 troviamo Monna Giovann, amata da Guido Cavalcanti, e Monna Lagia (Pelagia) amata da Lapo Gianni

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
Fossimo presi per incantamento,
E messi in un vasel ch’ad ogni vento
Per mare andasse al voler vostro e mio,

Sì che fortuna od altro tempo rio
Non ci potesse dare impedimento,
Anzi, vivendo sempre in un talento,
Di stare insieme crescesse ‘l disio.

E monna Vanna e monna Lagia poi
Con quella ch’è sul numer de le trenta
Con noi ponesse il buono incantatore:

E quivi ragionar sempre d’amore,
E ciascuna di lor fosse contenta,
Sì come i’ credo che saremmo noi.

X
[Per una ghirlandetta]

Per una ghirlandetta
Ch’io vidi, mi farà
Sospirare ogni fiore.

I’ vidi a voi, donna, portare
Ghirlandetta di fior gentile,
E sovr’a lei vidi volare
Un angiolel d’amore umile;
E ‘n suo cantar sottile
Dicea: «Chi mi vedrà
lauderà ‘l mio signore».

Se io sarò là dove sia
Fioretta mia bella a sentire,
Allor dirò la donna mia
Che port’in testa i miei sospire.
Ma per crescer disire
Mia donna verrà
Coronata da Amore.

Le parolette mie novelle,
Che di fiori fatto han ballata,
Per leggiadria ci hanno tolt’elle
Una vesta ch’altrui fu data:
Però siate pregata,
Qual uom la canterà,
Che li facciate onore.

XI
[Madonna, quel signor che voi portate]

Madonna, quel signor che voi portate
Ne gli occhi, tal che vince ogni possanza,
Mi dona sicuranza
Che voi sarete amica di pietate,

Però che là dov’ei fa dimoranza
Ed ha in compagnia molta beltate,
Tragge tutta bontate
A sé, come principio c’ha possanza;

Ond’io conforto sempre mia speranza,
La qual è stata tanto combattuta
Che sarebbe perduta,
Se non fosse che Amore
Contro ogni avversità le dà valore
Con la sua vista e con la rimembranza
Del dolce loco e del soave fiore
Che di novo colore
Cerchiò la mente mia,
Merzé di vostra grande cortesia.

XII
[Deh, Vïoletta, che in ombra d’Amore]

Deh, Vïoletta, che in ombra d’Amore
Ne gli occhi miei sì subito apparisti,
Aggi pietà del cor che tu feristi,
Che spera in te e disiando more.

Tu, Violetta, in forma più che umana,
Foco mettesti dentro in la mia mente
Col tuo piacer ch’io vidi;
Poi con atto di spirito cocente
Creasti speme, che in parte mi sana
Là dove tu mi ridi.

Deh, non guardare perché a lei mi fidi,
Ma drizza li occhi al gran disio che m’arde,
Ché mille donne già per esser tarde
Sentiron pena de l’altrui dolore.

XIII
[Volgete li occhi a veder chi mi tira]

Volgete li occhi a veder chi mi tira,
Per ch’i’ non posso più venir con vui,
E onoratel, ché questi è colui
Che per le gentil donne altrui martira.

La sua vertute, ch’ancide sanz’ira,
Pregatel che mi laghi venir pui,
Ed io vi dico, de li modi sui
Cotanto intende quanto l’om sospira:

Ch’elli m’è giunto fero ne la mente,
E pingevi una donna sì gentile
Che tutto mio valore a’ piè le corre;

E fammi udire una voce sottile
Che dice: «Dunque vuo’ tu per neente
A li occhi tuoi sì bella donna tòrre?»

XIV
[Deh, ragioniamo insieme un poco, Amore]

Deh, ragioniamo insieme un poco, Amore,
E tra’mi d’ira, che mi fa pensare;
E se vuol l’un de l’altro dilettare,
Trattiam di nostra donna omai, signore.

Certo il viaggio ne parrà minore
Prendendo un così dolze tranquillare,
E già mi par gioioso il ritornare,
Audendo dire e dir di suo valore.

Or incomincia, Amor, ché si convene,
E moviti a far ciò ch’è la cagione
Che ti dichini a farmi compagnia,

O vuol merzede o vuol tua cortesia;
Ché la mia mente il mio penser dipone,
Cotal disio de l’ascoltar mi vene.

XV
[Sonar bracchetti, e cacciatori aizzare]

Sonar bracchetti, e cacciatori aizzare,
Lepri levare, ed isgridar le genti,
E di guinzagli uscir veltri correnti,
Per belle piagge volgere e imboccare

Assai credo che deggia dilettare
Libero core e van d’intendimenti.
Ed io, fra gli amorosi pensamenti,
D’uno sono schernito in tale affare;

E dicemi esto motto per usanza:
«Or ecco leggiadria di gentil core,
Per una sì selvaggia dilettanza

Lasciar le donne e lor gaia sembianza”.
Allor, temendo non che senta Amore,
Prendo vergogna, onde mi ven pesanza.