Rime [parte quarta]

XLV

[Amor, tu vedi ben che questa donna]

Amor, tu vedi ben che questa donna
La tua vertù non cura in alcun tempo
Che suol de l’altre belle farsi donna;
E poi s’accorse ch’ell’era mia donna
Per lo tuo raggio ch’al volto mi luce,
D’ogne crudelità si fece donna;
Sì che non par ch’ell’abbia cor di donna,
Ma di qual fiera l’ha d’amor più freddo:
Ché per lo tempo caldo e per lo freddo
Mi fa sembiante pur come una donna
Che fosse fatta d’una bella petra
Per man di quei che me’ intagliasse in petra.

E io, che son costante più che petra
In ubidirti per bieltà di donna,
Porto nascoso il colpo de la petra
Con la qual tu mi desti come a petra
Che t’avesse innoiato lungo tempo,
Tal che m’andò al core ov’io son petra.
E mai non si scoperse alcuna petra
O da splendor di sole o da sua luce,
Che tanta avesse né vertù né luce
Che mi potesse atar da questa petra,
Sì ch’ella non mi meni col suo freddo
Colà dov’io sarò di morte freddo.

Segnor, tu sai che per algente freddo
L’acqua diventa cristallina petra
Là sotto tramontana ov’è il gran freddo,
E l’aere sempre in elemento freddo
Vi si converte, sì che l’acqua è donna
In quella parte per cagion dd freddo:
Così dinanzi dal sembiante freddo
Mi ghiaccia sopra il sangue d’ogne tempo
E quel pensiero che m’accorcia il tempo
Mi si converte tutto in corpo freddo,
Che m’esce poi per mezzo de la luce
Là ond’entrò la dispietata luce.

In lei s’accoglie d’ogni bieltà luce:
Così di tutta crudeltate il freddo
Le corre al core, ove non va tua luce:
Per che ne li occhi sì bella mi luce
Quando la miro, ch’io la veggio in petra,
E po’ in ogni altro ov’io volga mia luce.
Da li occhi suoi mi ven la dolce luce
Che mi fa non caler d’ogn’altra donna:
Così foss’ella più pietosa donna
Ver me, che chiamo di notte e di luce,
Solo per lei servire, e luogo e tempo.
Né per altro disio viver gran tempo.

Però, Vertù che se’ prima che tempo,
Prima che moto o che sensibil luce,
Increscati di me, c’ho sì mal tempo;
Entrale in core omai, ché ben n’è tempo,
Sì che per te se n’esca fuor lo freddo
Che non mi lascia aver, com’altri, tempo:
Ché se mi giunge lo tuo forte tempo
In tale stato, questa gentil petra
Mi vedrà coricare in poca petra,
Per non levarmi se non dopo il tempo,
Quando vedrò se mai fu bella donna
Nel mondo come questa acerba donna.

Canzone, io porto ne la mente donna
Tal che, con tutto ch’ella mi sia petra,
Mi dà baldanza, ond’ogni uom mi par freddo:
Sì ch’io ardisco a far per questo freddo
La novità che per tua forma luce,
Che non fu mai pensata in alcun tempo.

XLVI

[Così nel mio parlar voglio esser aspro]

“Canzone di sei stanze e congedo. Il poeta “armato” di poetica asprezza contro la donna-pietra aspra e crudele e contro Amore guerriero e feditore: ma è contesa impari, la morte è prossima, la vendetta un’illusoria speranza” (Davico Bonino). Il pensiero d’Amore è così forte da rendere sempre meno efficace la difesa dei sensi, per cui il poeta teme di tradirsi e rivelare il suo sentimento; il poeta ormai è atterrato da Amore e corre verso la morte, che non sarebbe atroce perché renderebbe vano il colpo doloroso inferto da Amore. La donna dal cuore di pietra che sa resistere agli assalti di Amore e della passione amorosa, ed anzi dà la caccia al poeta; Amore che divora l’innamorato e lo minaccia di morte con la spada, come è successo a Didone; il poeta e il suo sogno di violenta vendetta sulla donna che vorrebbe diviso a metà il duro cuore di lei: sono queste le immagini più importanti della canzone.

Così nel mio parlar voglio esser aspro
Com’è ne li atti questa bella petra,
La quale ognora impetra
Maggior durezza e più natura cruda,
E veste sua persona d’un diaspro
Tal che per lui, o perch’ella s’arretra,
Non esce di faretra
Saetta che già mai la colga ignuda;
Ed ella ancide, e non val ch’om si chiuda
Né si dilunghi da’ colpi mortali,
Che, com’avesser ali,
Giungono altrui e spezzan ciascun’arme:
Sì ch’io non so da lei né posso atarme.

Non trovo scudo ch’ella non mi spezzi
Né loco che dal suo viso m’asconda:
Ché, come fior di fronda,
Così de la mia mente tien la cima.
Cotanto del mio mal par che si prezzi
Quanto legno di mar che non lieva onda;
E ‘l peso che m’affonda
è tal che non potrebbe adequar rima.
Ahi angosciosa e dispietata lima
Che sordamente la mia vita scemi,
Perché non ti ritemi
Sì di rodermi il core a scorza a scorza
Com’io di dire altrui chi ti dà forza?

Che più mi triema il cor qualora io penso
Di lei in parte ov’altri li occhi induca,
Per tema non traluca
Lo mio penser di fuor sì che si scopra,
Ch’io non fo de la morte, che ogni senso
Co li denti d’Amor già mi manduca:
Ciò è che ‘l pensier bruca
La lor vertù sì che n’allenta l’opra.
E’ m’ha percosso in terra, e stammi sopra
Con quella spada ond’elli ancise Dido,
Amore, a cui io grido
Merzé chiamando, e umilmente il priego:
Ed el d’ogni merzé par messo al niego.

Egli alza ad ora ad or la mano, e sfida
La debole mia vita, esto perverso,
Che disteso a riverso
Mi tiene in terra d’ogni guizzo stanco:
Allor mi surgon ne la mente strida;
E ‘l sangue, ch’è per le vene disperso,
Fuggendo corre verso
Lo cor, che ‘l chiama; ond’io rimango bianco.
Elli mi fiede sotto il braccio manco
Sì forte che ‘l dolor nel cor rimbalza:
Allor dico: “S’elli alza
Un’altra volta, Morte m’avrà chiuso
Prima che ‘l colpo sia disceso giuso”.

Così vedess’io lui fender per mezzo
Lo core a la crudele che ‘l mio squatra;
Poi non mi sarebb’atra
La morte, ov’io per sua bellezza corro:
Ché tanto dà nel sol quanto nel rezzo
Questa scherana micidiale e latra.
Omè, perché non latra
Per me, com’io per lei, nel caldo borro?
Ché tosto griderei: “Io vi soccorro”;
E fare’l volentier, sì come quelli
Che nei biondi capelli
Ch’Amor per consumarmi increspa e dora
Metterei mano, e piacere’le allora.

S’io avessi le belle trecce prese,
Che fatte son per me scudiscio e ferza,
Pigliandole anzi terza,
Con esse passerei vespero e squille:
E non sarei pietoso né cortese,
Anzi farei com’orso quando scherza;
E se Amor me ne sferza,
Io mi vendicherei di più di mille.
Ancor ne li occhi, ond’escon le faville
Che m’infiammano il cor, ch’io porto anciso,
Guarderei presso e fiso,
Per vendicar lo fuggir che mi face;
E poi le renderei con amor pace.

Canzon, vattene dritto a quella donna
Che m’ha ferito il core e che m’invola
Quello ond’io ho più gola,
E dàlle per lo cor d’una saetta,
Ché bell’onor s’acquista in far vendetta.

XLVII

[Tre donne intorno al cor mi son venute]

È la cosiddetta “grande canzone dell’esilio”. Esiliate e stanche sono le tre donne, che rappresentano (come suggerisce Pietro figlio di Dante nel suo commento a Inf. VI, 73) la Giustizia divina e naturale, la Giustizia umana e la Legge naturale e positiva; Amore siede con le armi (i due dardi, uno d’oro che genera passione e l’altro di piombo che genera odio) ormai intaccate dalla ruggine e non più lucenti per il lungo disuso; il poeta, dal canto suo, si ritiene onorato di soffrire il proprio esilio politico visto che così nobili esiliati soffrono e si consolano col loro parlare divino.

Questa canzone allegorica risale ai primi anni dell’esilio (iniziato nel 1302), e rappresenta appunto da un lato una riflessione su quell’esperienza fondamentale, strettamente collegata al tema della giustizia, divina ed umana, che non può prescindere dal perdono, e dall’altro quasi una richiesta e una speranza di perdono, divenuta ancora più forte e tangibile dopo che si era dissociato, condannandola apertamente, dalla Congiura della Lastra del 20 luglio 1304. Dante, vittima innocente di una condanna ingiusta inquadra il suo personale destino nell’universale rovesciamento di valori, che vede l’egemonia della malvagità e della violenza. Ma accanto al dolore per l’esilio che patisce e l’ingiusta e oltraggiosa condanna a morte inflittagli da Firenze, persiste la speranza in una situazione politica diversa in Firenze; nel secondo congedo, forse aggiunto qualche anno più tardi del 1304, esprime una speranza di pace tra i Bianchi (le bianche penne) e i Neri (che fuggir mi convenne) che potrebbero fargli dono di pace, ma che non lo fanno perché non sanno come Dante in quel momento sia veramente dentro: è la speranza che possa prevalere il perdono sull’odio, ché ‘l perdonare è bel vincere di guerra.

Tre donne intorno al cor mi son venute,
E seggonsi di fore:
Ché dentro siede Amore
Lo quale è in segnoria de la mia vita.
Tanto son belle e di tanta vertute
Che ‘l possente segnore,
Dico quel ch’è nel core,
A pena del parlar di lor s’aita.
Ciascuna par dolente e sbigottita,
Come persona discacciata e stanca,
Cui tutta gente manca
E cui vertute né beltà non vale.
Tempo fu già nel quale,
Secondo il lor parlar, furon dilette;
Or sono a tutti in ira ed in non cale.
Queste così solette
Venute son come a casa d’amico:
Ché sanno ben che dentro è quel ch’io dico.

Dolesi l’una con parole molto,
E ‘n su la man si posa
Come succisa rosa:
Il nudo braccio, di dolor colonna,
Sente l’oraggio che cade dal volto;
L’altra man tiene ascosa
La faccia lagrimosa:
Discinta e scalza, e sol di sé par donna.
Come Amor prima per la rotta gonna
La vide in parte che il tacere è bello
Egli, pietoso e fello,
Di lei e del dolor fece dimanda.
“Oh di pochi vivanda”,
Rispose in voce con sospiri mista,
“nostra natura qui a te ci manda:
Io, che son la più trista,
Son suora a la tua madre, e son Drittura;
Povera, vedi, a panni ed a cintura”.

Poi che fatta si fu palese e conta,
Doglia e vergogna prese
Lo mio segnore, e chiese
Chi fosser l’altre due ch’erano con lei.
E questa, ch’era sì di pianger pronta,
Tosto che lui intese,
Più nel dolor s’accese,
Dicendo: “A te non duol de gli occhi miei?”.
Poi cominciò: “Sì come saper dei,
Di fonte nasce il Nilo picciol fiume:
Quivi dove il gran lume
Toglie a la terra del vinco la fronda,
Sovra la vergin onda
Generai io costei che m’è da lato
E che s’asciuga con la treccia bionda.
Questo mio bel portato,
Mirando sé ne la chiara fontana,
Generò questa che m’è più lontana”.

Fenno i sospiri Amore un poco tardo;
E poi con gli occhi molli,
Che prima furon folli,
Salutò le germane sconsolate.
E poi che prese l’uno e l’altro dardo,
Disse: “Drizzate i colli:
Ecco l’armi ch’io volli;
Per non usar, vedete, son turbate.
Larghezza e Temperanza e l’altre nate
Del nostro sangue mendicando vanno.
Però, se questo è danno,
Piangano gli occhi e dolgasi la bocca
De li uomini a cui tocca,
Che sono a’ raggi di cotal ciel giunti;
Non noi, che semo de l’etterna rocca;
Ché, se noi siamo or punti,
Noi pur saremo, e pur tornerà gente
Che questo dardo farà star lucente”.

E io, che ascolto nel parlar divino
Consolarsi e dolersi
Così alti dispersi,
I’essilio che m’è dato, onor mi tegno:
Ché, se giudizio o forza di destino
Vuol pur che il mondo versi
I bianchi fiori in persi,
Cader co’ buoni è pur di lode degno.
E se non che de gli occhi miei ‘l bel segno
Per lontananza m’è tolto dal viso,
Che m’àve in foco miso,
Lieve mi conterei ciò che m’è grave.
Ma questo foco m’àve
Già consumato sì l’ossa e la polpa,
Che Morte al petto m’ha posto la chiave.
Onde, s’io ebbi colpa,
Più lune ha volto il sol poi che fu spenta,
Se colpa muore perché l’uom si penta.

Canzone, a’ panni tuoi non ponga uom mano,
Per veder quel che bella donna chiude:
Bastin le parti nude;
Lo dolce pome a tutta gente niega,
Per cui ciascun man piega.
Ma s’elli avvien che tu alcun mai truovi
Amico di virtù, ed e’ ti priega,
Fatti di color’ novi,
Poi li ti mostra, e ‘l fior, ch’è bel di fori,
Fa disiar ne li amorosi cori.

Canzone, uccella con le bianche penne;
Canzone, caccia con li neri veltri,
Che fuggir i convenne,
Ma far mi poterian di pace dono.
Però nol fan che non san quel che sono:
Camera di perdon savio uom non serra,
Ché ‘l perdonare è bel vincer di guerra.

XLVIII

[Se vedi li occhi miei di pianger vaghi]

È il solo sonetto di ispirazione politica; il gran tiranno potrebbe essere genericamente Satana, o più verosimilmente Bonifacio VIII o Clemente V secondo altri critici, le cui interpretazioni sono molto discordanti; presso il gran tiranno si rifugia chi ha bevuto il suo veleno che ha già intossicato il mondo; per questo prega Dio perché restauri la virtù (la Giustizia) che giace nuda e fredda, alzando la sua destra e usando la giustizia ripagando chi uccide la giustizia stessa rifugiandosi poi sotto la protezione del gran tiranno, che ha messo tanto nel cuore dei fedeli cristiani che ormai ciascuno tace. Il sonetto si chiude con l’invocazione che con il fuoco dell’amore Dio possa risollevare la Giustizia ammantandola della sua divina spiritualità.

Se vedi li occhi miei di pianger vaghi
Per novella pietà che ‘l cor mi strugge,
Per lei ti priego che da te non fugge,
Signor, che tu di tal piacere i svaghi:

Con la tua dritta man, cioè, che paghi
Chi la giustizia uccide e poi rifugge
Al gran tiranno, del cui tosco sugge
Ch’elli ha già sparto e vuol che ‘l mondo allaghi;

E messo ha di paura tanto gelo
Nel cor de’ tuo’ fedei che ciascun tace.
Ma tu, foco d’amor, lume del cielo,

Questa vertù che nuda e fredda giace,
Levala su vestita del tuo velo,
Ché sanza lei non è in terra pace.

XLIX

[Doglia mi reca ne lo core ardire]

È la “canzone della liberalità”, collegabile alla canzone dell’esilio (XLVII) per il contenuto morale che scaturisce dai temi dell’esilio e della giustizia umana e divina, e alla “canzone della leggiadria” Poscia ch’Amor del tutto m’ha lasciato (XXX). Il poeta si rivolge alle donne: “dico a voi che siete innamorate, se a noi uomini fu donata la virtù e a voi donne fu donata la bellezza e all’Amore di fondere in una sola le due facoltà, voi non dovete amare, ma nascondere ogni vostra bellezza, perché è venuta a mancare la virtù della liberalità negli uomini sostituita dalla avarizia, che li ha resi bestie selvagge. La voglia di possedere ha fatto diventare folli gli uomini che non si rendono conto che ciò “che con dismisura si acquista, con altrettanta dismisura si perde”. La colpa è della ragione che non riporta l’istinto dell’uomo alle sue giuste proporzioni. Tutta la canzone è dettata dal dolore che il poeta prova nei primi anni del suo esilio e che lo induce a desiderare solo ciò che rientra negli ambiti della verità. Nel finale viene nominata Bianca Giovanna (forse Bianca Giovanna di Guido Novello da Polenta), una figura mistica e spirituale (per cui è chiamata bianca) ed è piena di grazia (da cui il nome di Giovanna) e di saggezza (ogni Contessa deve possedere la dote della saggezza.

La canzone dovrebbe essere stata scritta nei primi anni dell’esilio.

Doglia mi reca ne lo core ardire
A voler ch’è di veritate amico:
Però, donne, s’io dico
Parole quasi contra tutta gente,
Non vi maravigliate,
Ma conoscete il vil vostro disire;
Ché la beltà ch’Amore in voi consente,
A vertù solamente
Formata fu dal suo decreto antico,
Contra ‘l qual voi fallate.
Io dico a voi che siete innamorate
Che, se vertute a noi
Fu data, e beltà a voi,
E a costui di due potere un fare,
Voi non dovreste amare
Ma coprir quanto di biltà v’è dato,
Poi che non c’è vertù, ch’era suo segno.
Lasso, a che dicer vegno?
Dico che bel disdegno
Sarebbe in donna, di ragion laudato,
Partir beltà da sé per suo commiato.

Omo da sé vertù fatto ha lontana:
Omo no, mala bestia ch’om simiglia.
O Deo, qual maraviglia
Voler cadere in servo di signore,
O ver di vita in morte.
Vertute, al suo fattor sempre sottana,
Lui obedisce e lui acquista onore,
Donne, tanto che Amore
La segna d’eccellente sua famiglia
Ne la beata corte:
Lietamente esce da le belle porte,
A la sua donna torna;
Lieta va e soggiorna,
Lietamente ovra suo gran vassallaggio;
Per lo corto viaggio
Conserva, adorna, accresce ciò che trova;
Morte repugna sì che lei non cura.
O cara ancella e pura,
Colt’hai nel ciel misura;
Tu sola fai segnore, e quest’è prova
Che tu se’ possession che sempre giova.

Servo non di signor, ma di vil servo
Si fa chi da cotal serva si scosta.
Vedete quanto costa,
Se ragionate l’uno e l’altro danno,
A chi da lei si svia:
Questo servo signor tant’è protervo,
Che gli occhi ch’a la mente lume fanno,
Chiusi per lui si stanno,
Sì che gir ne convene a colui posta,
Ch’adocchia pur follia.
Ma perché lo meo dire util vi sia,
Discenderò del tutto
In parte ed in costrutto
Più lieve, sì che men grave s’intenda:
Ché rado sotto benda
Parola oscura giugne ad intelletto;
Per che parlar con voi si vole aperto:
Ma questo vo’ per merto,
Per voi, non per me certo,
Ch’abbiate a vil ciascuno e a dispetto,
Ché simiglianza fa nascer diletto.

Chi è servo è come quello ch’è seguace
Ratto a segnore, e non sa dove vada,
Per dolorosa strada;
Come l’avaro seguitando avere,
Ch’a tutti segnoreggia.
Corre l’avaro, ma più fugge pace:
Oh mente cieca, che non pò vedere
Lo suo folle volere
Che ‘l numero, ch’ognora a passar bada,
Che ‘nfinito vaneggia.
Ecco giunta colei che ne pareggia:
Dimmi, che hai tu fatto,
Cieco avaro disfatto?
Rispondimi, se puoi, altro che “Nulla”.
Maladetta tua culla,
Che lusingò cotanti sonni invano;
Maladetto lo tuo perduto pane,
Che non si perde al cane:
Ché da sera e da mane
Hai raunato e stretto ad ambo mano
Ciò che sì tosto si rifà lontano.

Come con dismisura si rauna,
Così con dismisura si distringe:
Questo è quello che pinge
Molti in servaggio; e s’alcun si difende,
Non è sanza gran briga.
Morte, che fai? che fai, fera Fortuna,
Che non solvete quel che non si spende
Se ‘l fate, a cui si rende?
Non so, poscia che tal cerchio ne cinge
Che di là su ne riga.
Colpa è de la ragion che nol gastiga.
Se vol dire “I’ son presa”,
Ah com poca difesa
Mostra segnore a cui servo sormonta.
Qui si raddoppia l’onta,
Se ben si guarda là dov’io addito,
Falsi animali, a voi ed altrui crudi,
Che vedete gir nudi
Per colli e per paludi
Omini innanzi cui vizio è fuggito,
E voi tenete vil fango vestito.

Fassi dinanzi da l’avaro volto
Vertù, che i suoi nimici a pace invita,
Con matera pulita,
Per allettarlo a sé; ma poco vale,
Ché sempre fugge l’esca.
Poi che girato l’ha chiamando molto,
Gitta ‘l pasto ver lui, tanto glien cale;
Ma quei non v’apre l’ale:
E se pur vene quand’ell’è partita,
Tanto par che li ‘ncresca
Come ciò possa dar, sì che non esca
Dal benefizio loda.
I’ vo’ che ciascun m’oda:
Chi con tardare e chi con vana vista,
Chi con sembianza trista
Volge il donare in vender tanto caro
Quanto sa sol chi tal compera paga.
Volete udir se piaga?
Tanto chi prende smaga
Che ‘l negar poscia non li pare amaro.
Così altrui e sé concia l’avaro.

Disvelato v’ho, donne, in alcun membro
La viltà de la gente che vi mira,
Perché l’aggiate in ira;
Ma troppo è più ancor quel che s’asconde
Perché a dicerne è lado.
In ciascun è di ciascun vizio assembro,
Per che amistà nel mondo si confonde:
Ché l’amorose fronde
Di radice di ben altro ben tira,
Poi sol simile è in grado.
Vedete come conchiudendo vado:
Che non dee creder quella
Cui par bene esser bella,
Esser amata da questi cotali;
Che se beltà tra i mali
Volemo annumerar, creder si pòne,
Chiamando amore appetito di fera.
Oh cotal donna pera
Che sua biltà dischiera
Da natural bontà per tal cagione,
E crede amor fuor d’orto di ragione.

Canzone, presso di qui è una donna
Ch’è del nostro paese;
Bella, saggia e cortese
La chiaman tutti, e neun se n’accorge
Quando suo nome porge,
Bianca, Giovanna, Contessa chiamando:
A costei te ne va chiusa ed onesta;
Prima con lei t’arresta,
Prima a lei manifesta
Quel che tu se’ e quel per ch’io ti mando;
Poi seguirai secondo suo comando.

L

A CINO DA PISTOIA
[Io sono stato con Amore insieme]

Tra il 1303 (anno in cui i Neri persero Pistoia e Cino venne esiliato) e il 1306 (anno in cui i Neri riconquistarono Pistoia e Cino potè rientrare a Pistoia) Cino e Dante sono entrambi esuli, come conferma anche l’Epistola III, che Dante scrive in risposta a un’Epistola di Cino da Pistoia, nella quale questi chiedeva se la nostra anima possa passare di passione in passione; la risposta di Dante è accompagnata dal seguente sonetto (che secondo il Witte fu la canzone Voi che intendendo. Che Cino da Pistoia, dopo la morte di Selvaggia, la sua donna, passasse da un amore all’altro e si dimostrasse molto incostante, è cosa ormai certa secondo la testimonianza di molti biografi e dello stesso Dante.

Io sono stato con Amore insieme
Da la circulazion del sol mia nona
E so com’egli affrena e come sprona,
E come sotto lui si ride e geme.

Chi ragione o virtù contra gli sprieme,
Fa come que’ che ‘n la tempesta sona,
Credendo far colà dove si tona
Esser le guerre de’ vapori sceme.

Però nel cerchio de la sua palestra
Liber arbitrio già mai non fu franco,
Sì che consiglio invan vi si balestra.

Ben può con nuovi spron’ punger lo fianco,
E qual che sia ‘l piacer ch’ora n’addestra,
Seguitar si convien, se l’altro è stanco.

LI

A CINO DA PISTOIA
[Degno fa voi trovare ogni tesoro]

Nel sonetto Cercando di trovar minera in oro, Cino da Pistoia aveva confessato al Marchese Moroello Malaspina d’essere stato punto nel cuore da una cattiva spina d’Amore. Con questo sonetto Dante, che risponde in vece di Moroello, rimprovera affettuosamente l’amico dal cor volgibile che sempre più si allontana dall’Amore, mentre Dante, che pure è stato punto dall’amaro destino e dall’amore che fa soffrire quando non è corrisposto e che che solo con i sospiri può essere curato, non si abbandona al dolore, perché non è colpa del sole se il cieco non può vedere il sole stesso quando sale o scende, ma della condizione malvagia in cui si trova. Per questo nell’ultima terzina rivolgendosi all’amico gli dice che anche se gli vedesse uscire dagli occhi un fiume di lacrime che comprovino le sue parole di dolore, per essere stato punto da una cattiva spina d’amore, non per questo quelle lacrime potrebbero togliere a Dante il dubbio che sia proprio la sua volubilità a far soffrire Cino.

Degno fa voi trovare ogni tesoro
La voce vostra sì dolce e latina,
Ma volgibile cor ven disvicina,
Ove stecco d’Amor mai non fe’ foro.

Io, che trafitto sono in ogni poro
Del prun che con sospir’ si medicina,
Pur trovo la minera in cui s’affina
Quella virtù per cui mi discoloro.

Non è colpa del sol se l’orba fronte
Nol vede quando scende e quando poia,
Ma de la condizion malvagia e croia.

S’i’ vi vedesse uscir de gli occhi ploia
Per prova fare a le parole conte,
Non mi porreste di sospetto in ponte.

LII

A CINO DA PISTOIA
[Io mi credea del tutto esser partito]

Dante si rivolge a Cino, quasi una continuazione del sonetto precedente, sempre sul tema della volubilità amorosa, cui aggiunge un ben più importante “rimprovero”: quello di non indirizzare la propria poesia verso mete più alte e più degne: “Credevo di essere ormai lontano dal nostro consueto modo di scrivere poesie, messer Cino, perché ormai altro cammino porta la mia nave più lontano dal lido; ma poiché più volte ho sentito che voi vi lasciate prendere ad ogni uncino d’amore (e vi abbandonate ad ogni passione amorosa che vi prende al laccio), pure mi fermo con piacere un pochino prestando alla penna il mio stanco dito. Chi si innamora come voi fateora qua ora là e lega e scioglie se stesso, dimostra che Amora lo colpisce solo superficialmente; perciò se leggerezza di sentimenti vi trascina, vi prego che voi correggiate il vostro cuore con forza così che i fatti possano essere accordati alle dolci parole”.
A questo sonetto Cino risponderà di non essersi mai staccato dalle spietate braccia dell’amore, ribadendo la sua sostanziale coerenza in fatto d’Amore e che sempre un piacere lo lega e lo avvolge quando ammira la bellezza delle donne.

Io mi credea del tutto esser partito
Da queste nostre rime, messer Cino,
Ché si conviene omai altro cammino
A la mia nave più lungi dal lito;

Ma perch’i’ ho di voi più volte udito
Che pigliar vi lasciate a ogni uncino,
Piacemi di prestare un pocolino
A questa penna lo stancato dito.

Chi s’innamora sì come voi fate,
Or qua or là, e sé lega e dissolve,
Mostra ch’Amor leggermente il saetti.

Però, se leggier cor così vi volve,
Priego che con vertù il correggiate,
Sì che s’accordi i fatti a’ dolci detti.

LIII

[Amor, da che convien pur ch’io mi doglia]

Nell’Epistola IV, scritta molto verosimilmente nel 1307, Dante si rivolge a Moroello Malaspina e narra che appena giunto sulle rive dell’Arno (che traversa per lungo tratto il Casentino), gli era apparsa davanti agli occhi una donna, e che, malgrado ogni suo sforzo, Amore gli aveva cacciato via dalla mente ogni proposito di tenersi lontano dalle donne e dalla poesia amorosa e lo aveva completamente sottomesso alla propria signoria. E affinché meglio Moroello comprendesse la forza di questo amore, Dante univa alla lettera un componimento poetico su tale argomento.

Che Dante si fosse innamorato di una donna del Casentino, alcuni biografi lo avevano scritto, ma né di lei né del componimento conosciamo qualcosa. Qualche critico ipotizza che si sia trattato di questa canzone, nella quale (stanza 5 e tutta la chiusa) si parla di un nuovo innamoramento di Dante e si descrive abbastanza chiaramente il Casentino e l’Armo, il fiume lungo il quale sempre Amore domina il cuore del Poeta.

È la cosiddetta canzone montanina (“O montanina mia canzon, tu vai; / forse vedrai Fiorenza, la mia terra” – v. 76), la canzone d’un amore che nasce fra gente montana semplice e schietta, quando ormai è già trascorso qualche anno dal giorno in cui lo raggiunse la notizia dell’esilio sulla via da Roma a Firenze; l’amore ha ormai preso possesso del cuore del Poeta, che non sa più nemmeno esprimere quello che prova, che ovunque vada sente sempre presente nella sua mente la donna che lo ha completamente preso e in tanta tempesta nemmeno la ragione può essere d’aiuto.

Amor, da che convien pur ch’io mi doglia
Perché la gente m’oda,
E mostri me d’ogni vertute spento,
Dammi savere a pianger come voglia,
Sì che ‘l duol che si snoda
Portin le mie parole com’io ‘l sento.
Tu vo’ ch’io muoia, e io ne son contento:
Ma chi mi scuserà, s’io non so dire
Ciò che mi fai sentire?
Chi crederà ch’io sia omai sì colto?
E se mi dài parlar quanto tormento,
Fa’, signor mio, che innanzi al mio morire
Questa rea per me nol possa udire:
Ché, se intendesse ciò che dentro ascolto,
Pietà faria men bello il suo bel volto.

Io non posso fuggir ch’ella non vegna
Ne l’imagine mia,
Se non come il pensier che la vi mena.
L’anima folle , che al suo mal s’ingegna,
Com’ella è bella e ria,
Così dipinge, e forma la sua pena;
Poi la riguarda, e quando ella è ben piena
Del gran disio che de li occhi li tira,
Incontro a sé s’adira,
C’ha fatto il foco ond’ella trista incende.
Quale argomento di ragion raffrena,
Ove tanta tempesta in me si gira?
L’angoscia, che non cape dentro, spira
Fuor de la bocca, sì ch’ella s’intende,
E anche a li occhi lor merito rende.

La nimica figura, che rimane
Vittorïosa e fera
E signoreggia la virtù che vole,
Vaga di se medesma andar mi fane
Colà dov’ella è vera,
Come simile a simil correr sòle.
Ben conosco che va la neve al sole,
Ma più non posso: fo come colui
Che, nel podere altrui,
Va co’ suoi piedi al loco ov’egli è morto.
Quando son presso, parmi udir parole
Dicer: “vie via vedrai morir costui”.
Allor mi volgo per vedere a cui
Mi raccomandi; e ‘ntanto sono scorto
Da li occhi che m’ancidono a gran torto.

Qual io divengo sì feruto, Amore,
Sailo tu, e non io,
Che rimani a veder me sanza vita;
E se l’anima torna poscia al core,
Ignoranza ed oblio
Stato è con lei, mentre ch’ella è partita.
Com’io resurgo, e miro la ferita
Che mi disfece quand’io fui percosso,
Confortar non mi posso
Sì ch’io non triemi tutto di paura.
E mostra poi la faccia scolorita
Qual fu quel trono che mi giunse a dosso;
Che se con dolce riso è stato mosso,
Lunga fïata poi rimane oscura,
Perché lo spirto non si rassicura.

Così m’hai concio, Amore, in mezzo l’alpi,
Ne la valle del fiume
Lungo il qual sempre sopra me se’ forte:
Qui vivo e morto, come vuoi, mi palpi,
Merzé del fiero lume
Che sfolgorando fa via la morte.
Lasso, non donne qui, non genti accorte
Veggio, a cui mi lamenti del mio male:
Se a costei non ne cale,
Non spero mai d’altrui aver soccorso.
E questa sbandeggiata di tua corte,
Signor, non cura colpo di tuo strale:
Fatto ha d’orgoglio al petto schermo tale
Ch’ogni saetta lì spunta suo corso;
Per che l’armato cor da nulla è morso.

O montanina mia canzon, tu vai:
Forse vedrai Fiorenza, la mia terra,
Che fuor di sé mi serra,
Vota d’amore e nuda di pietade;
Se dentro v’entri, va’ dicendo: “Omai
Non vi può far lo mio fattor più guerra:
Là ond’io vegno una catena il serra
Tal che, se piega vostra crudeltate,
Non ha di rotornar qui libertate”.

LIV

[Per quella via che la bellezza corre]

Per quella via che la bellezza corre
Quando a svegliare Amor va ne la mente,
Passa Lisetta baldanzosamente,
Come colei che mi si crede tòrre.

E quando è giunta a piè di quella torre
Che s’apre quando l’anima acconsente,
Odesi voce dir subitamente:
“Volgiti, bella donna, e non ti porre:

Però che dentro un’altra donna siede,
La qual di signoria chiese la verga
Tosto che giunse, e Amor glile diede”.

Quando Lisetta accommiatar si vede
Da quella parte dove Amore alberga,
Tutta dipinta di vergogna riede.