Rime [parte terza]

XXIX

[Voi che savete ragionar d’Amore]
Ballata: la “donna disdegnosa” è la Filosofia, generosa con chi non l’abbandona

Voi che savete ragionar d’Amore,
udite la ballata mia pietosa,
che parla d’una donna disdegnosa,
la qual m’ha tolto il cor per suo valore.

Tanto disdegna qualunque la mira,
che fa chinare gli occhi di paura,
però che intorno a’ suoi sempre si gira
d’ogni crudelitate una pintura;
ma dentro portan la dolze figura
ch’a l’anima gentil fa dir: «Merzede»,
sì vertuosa che, quando si vede,
trae li sospiri altrui fora del core.

Par ch’ella dica: «Io non sarò umile
verso d’alcun che ne li occhi mi guardi,
ch’io ci porto entro quel segnor gentile
che m’ha fatto sentir de li suoi dardi».
E certo i’ credo che così li guardi
per vederli per sé quando le piace,
A quella guisa retta donna face
Quando si mira per volere onore.

Io non ispero che mai per pietate
Degnasse di guardare un poco altrui,
Così è fera donna in sua bieltate
Questa che sente Amor negli occhi sui.
Ma quando vuol nasconda e guardi lui,
Ch’io non veggia talor tanta salute;
Però che i miei disiri avran vertute
Contra ‘l disdegno che mi dà tremore.

XXX

[Poscia ch’Amor del tutto m’ha lasciato]

Poscia ch’Amor del tutto m’ha lasciato,
non per mio grato,
ché stato non avea tanto gioioso,
ma però che pietoso
fu tanto del meo core
che non sofferse d’ascoltar suo pianto;
i’ canterò così disamorato
contra ‘l peccato,
ch’è nato in noi, di chiamare a ritroso
tal ch’è vile e noioso
con nome di valorecioè di leggiadria, ch’è bella tanto
che fa degno di manto
imperial colui dov’ella regna:
ell’è verace insegna
la qual dimostra u’ la vertù dimora
per ch’io son certo, se ben la difendo
nel dir com’io la ‘ntendo,
Ch’Amor di sé mi farà grazia ancora.

Sono che per gittar via loro avere
Credon potere
Capere là dove li boni stanno,
Che dopo morte fanno
Riparo ne la mente
A quei cotanti c’hanno canoscenza.
Ma lor messione a’ bon’ non pò piacere,
Perché tenere
Savere fora, e fuggiriano il danno,
Che si aggiugne a lo ‘nganno
Di loro e de la gente
C’hanno falso iudicio in lor sentenza.
Qual non dirà fallenza
Divorar cibo ed a lussuria intendere?
Ornarsi come vendere
Si dovesse al mercato di non saggi?
Ché ‘l saggio non pregia om per vestimenta,
Ch’altrui sono ornamenta,
Ma pregia il senno e li genti coraggi.

E altri son che, per esser ridenti,
D’intendimenti
Correnti’ voglion esser iudicati
Da quei che so’ ingannati
Veggendo rider cosa
Che lo ‘ntelletto cieco non la vede
E’ parlan con vocaboli eccellenti;
Vanno spiacenti
Contenti che da lunga sian mirati;
Non sono innamorati
Mai di donna amorosa;
Ne’ parlamenti lor tengono scede;
Non moveriano il piede
Per donneare a guisa di leggiadro,
Ma come al furto il ladro,
Così vanno a pigliar villan diletto;
E non però che ‘n donne è sì dispento
Leggiadro portamento
Che paiono animai sanza intelletto.

Ancor che ciel con cielo in punto sia,
Che leggiadria
Disvia cotanto, e più che quant’io conto,
Io, che le sono conto
Me’é d’una gentile
Che la mostrava in tutti gli atti sui,
Non tacerò di lei, ché villania
Far mi parria
Sì ria, ch’a’ suoi nemici sarei giunto:
Per che da questo punto
Con rima più sottile
Tratterò il ver di lei, ma non so cui.
Eo giuro per colui
Ch’Amor si chiama ed è pien di salute,
Che sanza ovrar vertute
Nessun pote acquistar verace loda:
Dunque, se questa mia matera è bona,
Come ciascun ragiona,
Sarà vertù o con vertù s’annoda.

Non è pura vertù la disviata,
Poi ch’è blasmata,
Negata là ‘v’è più vertù richiesta,
Cioè in gente onesta
Di vita spiritale
O in abito che di scienza tiene.
Dunque, s’ell’è in cavalier lodata,
Sarà mischiata,
Causata di più cose; perché questa
Conven che di sé vesta
L’un bene e l’altro male,
Ma vertù pura in ciascuno sta bene.
Sollazzo è che convene
Con esso Amore e l’opera perfetta:
Da questo terzo retta
è vera leggiadria e in esser dura,
Si come il sole al cui esser s’adduce
Lo calore e la luce
Con la perfetta sua bella figura.

Al gran pianeto è tutta simigliante
Che, dal levante
Avante infino a tanto che s’asconde,
Co li bei raggi infonde
Vita e vertù qua giuso
Ne la matera si com’è disposta:
E questa, disdegnosa di cotante
Persone, quante
Sembiante portan d’uomo, e non responde
Il lor frutto a le fronde
Per lo mal c’hanno in uso,
Simili beni al cor gentile accosta;
Ché ‘n donar vita è tosta
Co’ bei sembianti e co’ begli atti novi
Ch’ognora par che trovi,
E vertù per essemplo a chi lei piglia.
Oh falsi cavalier, malvagi e rei,
Nemici di costei,
Ch’al prenze de le stelle s’assimiglia.

Dona e riceve l’om cui questa vole,
Mai non sen dole;
Né ‘l sole per donar luce a le stelle,
Né per prender da elle
Nel suo effetto aiuto;
Ma l’uno e l’altro in ciò diletto tragge.
Già non s’induce a ira per parole,
Ma quelle sole
Ricole che son bone, e sue novelle
Sono leggiadre e belle;
Per sé caro è tenuto
E disiato da persone sagge,
Ché de l’altre selvagge
Cotanto laude quanto biasmo prezza,
Per nessuna grandezza
Monta in orgoglio, ma quando gl’incontra
Che sua franchezza li conven mostrare,
Quivi si fa laudare.
Color che vivon fanno tutti contra.

XXXI

[Parole mie che per lo mondo siete]

Parole mie che per lo mondo siete,
Voi che nasceste poi ch’io cominciai
A dir per quella donna in cui errai:
«Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete»,

Andatevene a lei, che la sapete,
Chiamando sì ch’ell’oda i vostri guai;
Ditele: «Noi siam vostre, ed unquemai
Più che noi siamo non ci vederete».

Con lei non state, ché non v’è Amore,
Ma gite a torno in abito dolente
A guisa de le vostre antiche sore.

Quando trovate donna di valore,
Gittatelevi a’ piedi umilemente,
Dicendo: «A voi dovem noi fare onore».

XXXII

[O dolci rime che parlando andate]

O dolci rime che parlando andate
De la donna gentil che l’altre onora,
A voi verrà, se non è giunto ancora,
Un che direte: «Questi è nostro frate».

Io vi scongiuro che non l’ascoltiate,
Per quel signor che le donne innamora,
Ché ne la sua sentenzia non dimora
Cosa che amica sia di veritate.

E se voi foste per le sue parole
Mosse a venire inver’ la donna vostra,
Non v’arrestate, ma venite a lei.

Dite: «Madonna, la venuta nostra
È per raccomandarvi un che si dole,
Dicendo: Ov’è ‘l disio de li occhi miei?».

XXXIII

[Due donne in cima de la mente mia]
Le due donne sono metaforicamente la Virtù e la Bellezza: la Virtù si pratica, la Bellezza si contempla, mentre Amore è sorgente di nobili parole.

Due donne in cima de la mente mia
Venute sono a ragionar d’amore:
L’una ha in sé cortesia e valore,
Prudenza e onestà in compagnia;

L’altra ha bellezza e vaga leggiadria,
Adorna gentilezza le fa onore:
E io, merzé del dolce mio signore,
Mi sto a piè de la lor signoria.

Parlan Bellezza e Virtù a l’intelletto
E fan quistion come un cor puote stare
Intra due donne con amor perfetto.

Risponde il fonte del gentil parlare
Ch’amar si può bellezza per diletto
E puossi amar virtù per operare.

XXXIV

[I’ mi son pargoletta bella e nova]
Ballata, di scuola stilnovistica, indirizzata a una donna, la “pargoletta” amata da Dante fra il 1290 e il 1300, probabilmente verso la metà del decennio, fra il periodo dell’amore per Beatrice e l’amore per la donna-pietra

«I’ mi son pargoletta bella e nova,
Che son venuta per mostrare altrui
De le bellezze del loco ond’io fui.

I’ fui del cielo, e tornerovvi ancora
Per dar de la mia luce altrui diletto;
E chi mi vede e non se ne innamora
D’amor non averà mai intelletto,
Ché non mi fu in piacer alcun disdetto
Quando Natura mi chiese a Colui
Che volle, donne, accompagnarmi a vui.

Ciascuna stella ne li occhi mi piove
Del lume suo e de la sua vertute;
Le mie bellezze sono al mondo nove,
Però che di là su mi son venute:
Le quai non posson esser canosciute
Se non da canoscenza d’omo in cui
Amor si metta per piacer altrui».

Queste parole si leggon nel viso
D’un’angioletta che ci è apparita:
E io, che per veder lei mirai fiso,
Ne sono a rischio di perder la vita:
Però ch’io ricevetti tal ferita
Da un ch’io vidi dentro a li occhi sui,
Ch’i’ vo piangendo e non m’acchetai pui.

XXXV

[Perché ti vedi giovinetta e bella]
Ancora una ballata per la “pargoletta”, che non ha mai provato l’amore, ed è così dura di cuore, perché sa di essere giovinetta e bella, che la sua durezza avrebbe potuto perfino uccidere Dante

Perché ti vedi giovinetta e bella,
Tanto che svegli ne la mente Amore,
Pres’hai orgoglio e durezza nel core.

Orgogliosa se’ fatta e per me dura,
Po’ che d’ancider me, lasso, ti prove:
Credo che ‘l facci per esser sicura
Se la vertù d’Amore a morte move.
Ma perché preso più ch’altro mi trove,
Non hai respetto alcun del mi’ dolore.
Possi tu spermentar lo suo valore.

XXXVI

[Chi guarderà già mai sanza paura]
Sonetto ancora sulla crudeltà della «pargoletta»: Dante, che aspetta la morte per la durezza della donna, è ormai un esempio per gli altri che non si arrischino a guardare la «pargoletta» negli occhi per preservare la propria salute.

Chi guarderà già mai sanza paura
Ne li occhi d’esta bella pargoletta,
Che m’hanno concio sì che non s’aspetta
Per me se non la morte, che m’è dura?

Vedete quanto è forte mia ventura,
Che fu tra l’altre la mia vita eletta
Per dare essemplo altrui ch’uom non si metta
In rischio di mirar la sua figura.

Destinata mi fu questa finita,
Da ch’un uom convenia esser disfatto,
Perch’altri fosse di pericol tratto;

E però, lasso, fu’io così ratto
In trarre a me ‘l contrario de la vita
Come vertù di stella margherita.

XXXVII

[Amor, che movi tua vertù da cielo]

Amor, che movi tua vertù da cielo
Come ‘l sol lo splendore,
Che là s’apprende più lo suo valore
Dove più nobiltà suo raggio trova;
E come el fuga oscuritate e gelo,
Così, alto segnore,
Tu cacci la viltate altrui del core,
Né ira contra te fa lunga prova:
Da te conven che ciascun ben si mova
Per lo qual si travaglia il mondo tutto;
Sanza te è distrutto
Quanto avemo in potenzia di ben fare,
Come pintura in tenebrosa parte,
Che non si può mostrare
Né dar diletto di color né d’arte.

Feremi ne lo cor sempre tua luce,
Come raggio in la stella,
Poi che l’anima mia fu fatta ancella
De la tua podestà primeramente;
Onde ha vita un disio che mi conduce
Con sua dolce favella
In rimirar ciascuna cosa bella
Con più diletto quanto è più piacente.
Per questo mio guardar m’è ne la mente
Una giovane entrata, che m’ha preso,
E hagli un foco acceso,
Com’acqua per chiarezza fiamma accende;
Perché nel suo venir li raggi tuoi,
Con li quai mi risplende,
Saliron tutti su ne gli occhi suoi.

Quanto è ne l’esser suo bella, e gentile
Ne gli atti ed amorosa,
Tanto lo imaginar, che non si posa,
L’adorna ne la mente ov’io la porto;
Non che da sé medesmo sia sottile
A così alta cosa,
Ma da la tua vertute ha quel ch’elli osa
Oltre al poder che natura ci ha porto.
E sua beltà del tuo valor conforto,
In quanto giudicar si puote effetto
Sovra degno suggetto,
In guisa ched è ‘l sol segno di foco;
Lo qual a lui non dà né to’ virtute,
Ma fallo in altro loco
Ne l’effetto parer di più salute.

Dunque, segnor di sì gentil natura
Che questa nobiltate
Che avven qua giuso e tutt’altra bontate
Lieva principio de la tua altezza,
Guarda la vita mia quanto ella è dura,
E prendine pietate,
Ché lo tuo ardor per la costei bieltate
Mi fa nel core aver troppa gravezza.
Falle sentire, Amor, per tua dolcezza,
Il gran disio ch’i’ ho di veder lei;
Non soffrir che costei
Per giovanezza mi conduca a morte;
Ché non s’accorge ancor com’ella piace,
Né quant’io l’amo forte,
Né che ne li occhi porta la mia pace.

Onor ti sarà grande se m’aiuti,
E a me ricco dono,
Tanto quanto conosco ben ch’io sono
Là ‘v’io non posso difender mia vita:
Ché gli spiriti miei son combattuti
Da tal ch’io non ragiono,
Se per tua volontà non han perdono,
Che possan guari star sanza finita.
Ed ancor tua potenzia fia sentita
Da questa bella donna, che n’è degna;
Ché par che si convegna
Di darle d’ogni ben gran compagnia,
Com’a colei che fu nel mondo nata
Per aver segnoria
Sovra la mente d’ogni uom che la guata.

XXXVIII

[Io sento sì d’Amor la gran possanza ]

Io sento sì d’Amor la gran possanza
Ch’io non posso durare
Lungamente a soffrire, ond’io mi doglio:
Però che ‘l suo valor si pur avanza,
E ‘l mio sento mancare
Sì ch’io son meno ognora ch’io non soglio.
Non dico ch’Amor faccia più ch’io voglio,
Ché, se facesse quanto il voler chiede,
Quella vertù che natura mi diede
Non sosterria, però ch’ella è finita:
Ma questo è quello ond’io prendo cordoglio,
Che a la voglia il poder non terrà fede;
E se di buon voler nasce merzede,
Io l’addimando per aver più vita
Da li occhi che nel lor bello splendore
Portan conforto ovunque io sento amore.

Entrano i raggi di questi occhi belli
Ne’ miei innamorati,
E portan dolce ovunque io sento amaro;
E sanno lo cammin, sì come quelli
Che già vi son passati,
E sanno il loco dove Amor lasciaro,
quando per li occhi miei dentro il menaro:
Per che merzé, volgendosi, a me fanno,
E di colei cui son procaccian danno
Celandosi da me, poi tanto l’amo
Che sol per lei servir mi tegno caro.
E’ miei pensier’, che pur d’amor si fanno,
Come a lor segno, al suo servizio vanno:
Per che l’adoperar sì forte bramo,
Che s’io ‘l credesse far fuggendo lei,
Lieve saria; ma so ch’io ne morrei.

Ben è verace amor quel che m’ha preso,
E ben mi stringe forte,
Quand’io farei quel ch’io dico per lui;
Ché nullo amore è di cotanto peso,
Quanto è quel che la morte
Face piacer, per ben servire altrui.
E io ‘n cotal voler fermato fui
Sì tosto come il gran disio ch’io sento
Fu nato per vertù del piacimento
Che nel bel viso d’ogni bel s’accoglie.
Io son servente, e quando penso a cui,
Qual ch’ella sia, di tutto son contento,
Ché l’uom può ben servir contra talento;
E se merzé giovanezza mi toglie,
Io spero tempo che più ragion prenda,
Pur che la vita tanto si difenda.

Quand’io penso un gentil disio, ch’è nato
Del gran disio ch’io porto,
Ch’a ben far tira tutto il mio podere,
Parmi esser di merzede oltrapagato;
E anche più ch’a torto
Mi par di servidor nome tenere:
Così dinanzi a li occhi del piacere
Si fa ‘l servir merzé d’altrui bontate.
Ma poi ch’io mi ristringo a veritate,
Convien che tal disio servigio conti:
Però che, s’io procaccio di valere,
Non penso tanto a mia proprietate
Quanto a colei che m’ha in sua podestate,
Ché ‘l fo perché sua cosa in pregio monti;
E io son tutto suo; così mi tegno,
Ch’Amor di tanto onor m’ha fatto degno.

Altri ch’Amor non mi potea far tale,
Ch’eo fosse degnamente
Cosa di quella che non s’innamora,
Ma stassi come donna a cui non cale
De l’amorosa mente
Che sanza lei non può passar un’ora.
Io non la vidi tante volte ancora
Ch’io non trovasse in lei nova bellezza;
Onde Amor cresce in me la sua grandezza
Tanto quanto il piacer novo s’aggiugne.
Ond’elli avven che tanto fo dimora
In uno stato e tanto Amor m’avvezza
Con un martiro e con una dolcezza,
Quanto è quel tempo che spesso mi pugne
Che dura da ch’io perdo la sua vista
In fino al tempo ch’ella si racquista.

Canzon mia bella, se tu mi somigli,
Tu non sarai sdegnosa
Tanto quanto a la tua bontà s’avvene:
Però ti prego che tu t’assottigli,
Dolce mia amorosa,
In prender modo e via che ti stea bene.
Se cavalier t’invita o ti ritene,
Imprima che nel suo piacer ti metta,
Espia, se far lo puoi, de la sua setta,
Se vuoi saver qual è la sua persona:
Ché ‘l buon col buon sempre camera tene.
Ma elli avven che spesso altri si getta
In compagnia che non è che disdetta
Di mala fama ch’altri di lui suona:
Con rei non star né a cerchio né ad arte,
Ché non fu mai saver tener lor parte.

Canzone, a’ tre men rei di nostra terra
Te n’anderai prima che vadi altrove:
Li due saluta, e ‘l terzo vo’ che prove
Di trarlo fuor di mala setta in pria.
Digli che ‘l buon col buon non prende guerra,
Prima che co’ malvagi vincer prove;
Digli ch’è folle chi non si rimove
Per tema di vergogna da follia:
Che que’ la teme c’ha del mal paura
Perché, fuggendo l’un, l’altro assicura.

XXXIX

DANTE ALL’IGNOTO
[Io Dante a te, che m’hai così chiamato]
Risposta al sonetto Dante Alleghier, d’ogni senno pregiato, d’autore ignoto, che dopo averlo lodato, l’ha esortato a vendicarlo di una donna che l’ha maltrattato, nonostante che lui avesse usato verso di lei toni lusinghieri usando toni ed immagini dantesche.

Io Dante a te, che m’hai così chiamato,
Rispondo brieve con poco pensare,
Però che più non posso soprastare,
Tanto m’ha ‘l tuo pensier forte affannato.

Ma ben vorrei saper dove e in qual lato
Ti richiamasti, per me ricordare:
Forse che per mia lettera mandare
Saresti d’ogni colpo risanato.

Ma s’ella è donna che porti anco vetta,
Sì ‘n ogni parte mi pare esser fiso
Ch’ella verrà a farti gran disdetta.

Secondo detto m’hai ora, m’avviso
Che ella è d’ogni peccato netta
Come angelo che stia in paradiso.

XL

A Cino da Pistoia
[I’ ho veduto già senza radice]
Risposta al sonetto di Cino da Pistoia Novellamente Amor mi giura e dice, in cui Cino pone il problema se ci si debba riaffidare a un nuovo amore, evidenziando qualche timore nel cedere alle lusinghe dell’amore a proposito di una donna assai giovane: Dante ammonisce l’amico sui rischi che si potrebbero correre nel corso della nuova esperienza amorosa, evitando di avere mire su una donna le cui grazie sono ancora immature.

I’ ho veduto già senza radice
Legno ch’è per omor tanto gagliardo
Che que’ che vide nel fiume lombardo
Cader suo figlio, fronde fuor n’elice;

Ma frutto no, però che ‘l contradice
Natura, ch’al difetto fa riguardo,
Perché conosce che saria bugiardo
Sapor non fatto da vera notrice.

Giovane donna a cotal guisa verde
Talor per gli occhi sì a dentro è gita
Che tardi poi è stata la partita.

Periglio è grande in donna sì vestita:
Però l’affronto de la gente verde
Parmi che la tua caccia non seguer de’.

XLI

A Cino da Pistoia
[Perch’io non trovo chi meco ragioni]
Forse è una risposta al sonetto attribuito a Cino da Pistoia Se tu sapessi ben com’io m’aspetto; Dante discorre sulla decadenza dei tempi in cui la signoria d’Amore non ha più molti fedeli. Cino risponde col sonetto Dante, i’ non so in qual albergo soni.

Perch’io non trovo chi meco ragioni
Del signor a cui siete voi ed io,
Conviemmi sodisfare al gran disio
Ch’i’ ho di dire i pensamenti boni.

Null’altra cosa appo voi m’accagioni
Del lungo e del noioso tacer mio
Se non il loco ov’i’ son, ch’è sì rio
Che ‘l ben non trova chi albergo li doni.

Donna non ci ha ch’Amor le venga al volto,
Né omo ancora che per lui sospiri;
E chi ‘l facesse, qua sarebbe stolto.

Oh, messer Cin, come ‘l tempo è rivolto
A danno nostro e de li nostri diri,
Da po’ che ‘l ben è sì poco ricolto.

XLII

[Messer Brunetto, questa pulzelletta]
È un sonetto di accompagnamento per un’altra lirica dantesca (indicata qui con il termine “pulzelletta” al v. 1. Non si sa con certezza chi sia messer Brunetto: si esclude con relativa certezza che possa essere Brunetto Latini, forse un certo Betto Brunelleschi o altro membro della stessa famiglia.

Messer Brunetto, questa pulzelletta
Con esso voi si ven la pasqua a fare:
Non intendete pasqua di mangiare,
Ch’ella non mangia, anzi vuol esser letta.

La sua sentenzia non richiede fretta
Né luogo di romor né da giullare;
Anzi si vuol più volte lusingare
Prima che ‘n intelletto altrui si metta.

Se voi non la intendete in questa guisa,
In vostra gente ha molti frati Alberti
Da intender ciò ch’è posto loro in mano.

Con lor vi restringete sanza risa;
E se li altri de’ dubbî non son certi,
Ricorrete a la fine a messer Giano.

XLIII

[Io son venuto al punto de la rota]
Canzone composta presumibilmente nel periodo di Natale del 1296 (desumibile attraverso la lettura dei vv. 1-9 che contiene una accurata descrizione astronomica del momento – Davico Bonino); è la prima delle rime petrose, e al verso 72 si può con buona approssimazione l’identificazione tra la donna Petra e la “pargoletta” dal cuore di marmo. Il tema della canzone è l’amore difficile in una donna dal cuore aspro e duro.

Io son venuto al punto de la rota
Che l’orizzonte, quando il sol si corca,
Ci partorisce il geminato cielo,
E la stella d’amor ci sta remota
Per lo raggio lucente che la ‘nforca
Sì di traverso che le si fa velo;
E quel pianeta che conforta il gelo
Si mostra tutto a noi per lo grand’arco
Nel qual ciascun di sette fa poca ombra:
E però non disgombra
Un sol penser d’amore, ond’io son carco,
La mente mia, ch’è più dura che petra
In tener forte imagine di petra.

Levasi de la rena d’Etiopia
Lo vento peregrin che l’aere turba,
Per la spera del sol ch’ora la scalda;
E passa il mare, onde conduce copia
Di nebbia tal che, s’altro non la sturba,
Questo emisperio chiude tutto e salda;
E poi si solve, e cade in bianca falda
Di fredda neve ed in noiosa pioggia,
Onde l’aere s’attrista tutto e piagne:
E Amor, che sue ragne
Ritira in alto pel vento che poggia,
Non m’abbandona, sì è bella donna
Questa crudel che m’è data per donna.

Fuggito è ogne augel che l’ caldo segue
Del paese d’Europa, che non perde
Le sette stelle gelide unquemai;
E li altri han posto a le lor voci triegue
Per non sonarle infino al tempo verde,
Se ciò non fosse per cagion di guai;
E tutti li animali che son gai
Di lor natura, son d’amor disciolti,
Però che ‘l freddo lor spirito ammorta:
E ‘l mio più d’amor porta;
Ché li dolzi pensier non mi son tolti
Né mi son dati per volta di tempo,
Ma donna li mi dà c’ha picciol tempo.

Passato hanno lor termine le fronde
Che trasse fuor la vertù d’Ariete
Per adornare il mondo, e morta è l’erba;
Ramo di foglia verde a noi s’asconde
Se non se in lauro, in pino o in abete
O in alcun che sua verdura serba;
E tanto è la stagion forte ed acerba,
C’ha morti li fioretti per le piagge,
Li quai non poten tollerar la brina:
E la crudele spina
Però Amor di cor non la mi tragge;
Per ch’io son fermo di portarla sempre
Ch’io sarò in vita, s’io vivesse sempre.

Versan le vene le fummifere acque
Per li vapor’ che la terra ha nel ventre,
Che d’abisso li tira suso in alto;
Onde cammino al bel giorno mi piacque
Che ora è fatto rivo, e sarà mentre
Che durerà del verno il grande assalto;
La terra fa un suol che par di smalto,
E l’acqua morta si converte in vetro
Per la freddura che di fuor la serra:
E io de la mia guerra
Non son però tornato un passo a retro,
Né vo’ tornar; ché se ‘l martiro è dolce,
La morte de’ passare ogni altro dolce.

Canzon, or che sarà di me ne l’altro
Dolce tempo novello, quando piove
Amore in terra da tutti li cieli,
Quando per questi geli
Amore è solo in me, e non altrove?
Saranne quello ch’è d’un uom di marmo,
Se in pargoletta fia per core un marmo.

XLIV

[Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra]
Sestine che rivelano il grado di “sperimentalismo” dell’arte dantesca, costruite attraverso un cantilenante ripetersi delle parole chiave che sono anche le rime: “ombra > colli > erba > verde > petra > donna” (l’ultima parola della sestina è anche la prima della sestina seguente, che presenta pertanto un ordine diverso di successione; le parole chiave presentano una singolare contrapposizione tra le prime quattro e le ultime due petra-donna. Torna la primavera, si riscalda l’aria e diventa bella e verde la natura, ma la donna resta sempre di gelo e dal cuore di pietra.

Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra
Son giunto, lasso, ed al bianchir de’ colli,
Quando si perde lo color ne l’erba:
E ‘l mio disio però non cangia il verde,
Sì è barbato ne la dura petra
Che parla e sente come fosse donna.

Similemente questa nova donna
Si sta gelata come neve a l’ombra:
Ché non la move, se non come petra,
Il dolce tempo che riscalda i colli,
E che li fa tornar di bianco in verde
Perché li copre di fioretti e d’erba.

Quand’ella ha in testa una ghirlanda d’erba,
Trae de la mente nostra ogn’altra donna:
Perché si mischia il crespo giallo e ‘l verde
Sì bel, ch’Amor lì viene a stare a l’ombra,
Che m’ha serrato intra piccioli colli
Più forte assai che la calcina petra.

La sua bellezza ha più vertù che petra,
E ‘l colpo suo non può sanar per erba.
Ch’io son fuggito per piani e per colli,
Per potere scampar da cotal donna;
E dal suo lume non mi può far ombra
Poggio né muro mai né fronda verde.

Io l’ho veduta già vestita a verde,
Sì fatta ch’ella avrebbe messo in petra
L’amor ch’io porto pur a la sua ombra:
Ond’io l’ho chesta in un bel prato d’erba
Innamorata com’anco fu donna,
E chiuso intorno d’altissimi colli.

Ma ben ritorneranno i fiumi a’ colli,
Prima che questo legno molle e verde
S’infiammi, come suol far bella donna,
Di me; che mi torrei dormire in petra
Tutto il mio tempo e gir pascendo l’erba,
Sol per veder do’ suoi panni fanno ombra.

Quantunque i colli fanno più nera ombra,
Sotto un bel verde la giovane donna
La fa sparer, com’uom petra sott’erba.