DIALOGO PRIMO

LA CENA DE LE CENERI

DIALOGO PRIMO

INTERLOCUTORI

SMITHO, TEOFILO filosofo PRUDENZIO pedante, FRULLA

SMI. Parlavan ben latino?

TEO. Sì.

SMI Galantuomini?

TEO. Sì.

SMI. Di buona riputazione?

TEO. Sì.

SMI Dotti?

TEO. Assai competentemente.

SMI. Ben creati, cortesi, civili?

TEO. Troppo mediocremente.

SMI. Dottori?

TEO. Messer sì, padre sì, madonna sì, madesì, credo da Oxonia.

SMI.Qualificati?

TEO. Come non? uomini da scelta, di robba lunga, vestiti di velluto; un de’ quali avea due catene d’oro lucente al collo, e l’altro, per Dio, con quella preziosa mano, che contenea dodeci anella ìn due dita, sembrava uno ricchissimo gioielliero, che ti cavava gli occhi ed il core, quando la vagheggiava.

SMI. Mostravano saper di greco?

TEO. E di birra eziandio.

PRU. Togli via quell’eziandio, poscia che è una obsoleta ed antiquata dictione.

FRUL. Tacete, maestro, ché non parla con voi.

SMI. Come eran fatti?

TEO. L’uno parea il connestabile della gigantessa e l’orco, l’altro l’amostante della dea de la riputazione.

SMI. Sì che eran doi?

TEO. Sì per esser questo un numero misterioso.

PRU. Ut essent duo testes.

FRU. Che intendete per quel testes?

PRU. Testimoni, essaminatori della nolana sufficienza. At, me hercle, perché avete detto, Teofilo, che il numero binario è misterioso?

TEO. Perché due sono le prime coordinazioni, come dice Pitagora, finito ed infinito, curvo e retto, destro e sinistro, e va discorrendo. Due sono le spezie di numeri, pare ed impare, de’ quali l’una è maschio, l’altra è femina. Doi sono gli Cupidi, superiore e divino, inferiore e volgare. Doi sono gli atti della vita, cognizione ed affetto. Doi sono gli oggetti di quelli, il vero ed il bene. Due sono le specie di moti: retto, con il quale i corpi tendeno alla conservazione, e circulare, col quale si conservano. Doi son gli principii essenziali de le cose, la materia e la forma. Due le specifiche differenze della sustanza, raro e denso, semplice e misto. Doi primi contrarii ed attivi principii, il caldo e il freddo. Doi primi parenti de le cose naturali, il sole e la terra.

FRU. Conforme al proposito di que’ prefati doi, farò un’altra scala del binario. Le bestie entrorno ne l’arca a due a due; ne uscirono ancora a due a due. Doi sono i corifei di segni celesti: Aries e Taurus. Due sono le specie di nolite fieri: cavallo e mulo. Doi son gli animali ad imagine e similitudine de l’uomo: la scimia in terra, e ‘l barbagianni in cielo. Due sono le false ed onorate reliquie di Firenze in questa patria: i denti di Sassetto e la barba di Pietruccio. Doi sono gli animali, che disse il profeta aver più intelletto, ch’il popolo d’Israele: il bove perché conosce il suo possessore, e l’asino perché sa trovar il presepio del padrone. Doi furono le misteriose cavalcature del nostro redentore, che significano il suo antico credente ebreo ed il novello gentile: l’asina e il pullo. Doi sono da questi li nomi derivativi, ch’han formate le dizioni titulari al secretario d’Augusto: Asinio e Pullione. Doi sono i geni degli asini: domestico e salvatico. Doi i lor più ordinarii colori: biggio e morello. Due sono le piramidi, nelle quali denno esser scritti e dedicati all’eternità i nomi di questi doi ed altri simili dottori: la destra orecchia del caval di Sileno, e la sinistra de l’antagonista del dio degli orti.

PRU. Optimae indolis ingenium, enumeratio minime contemnenda!

FRU. Io mi glorio, messe Prudenzio mio, perché voi approvate il mio discorso, che sete più prudente che l’istessa prudenzia, perciò che sete la prudentia masculini generis.

PRU. Neque id sine lepore et gratia. Orsù, isthaec mittamus encomia. Sedeamus, quia, ut ait Peripateticorum princeps, sedendo et quiescendo sapimus; e cossì, insino al tramontar del sole, protelaremo il nostro tetralogo circa il successo del colloquio del Nolano col dottor Torquato e il dottor Nundinio.

FRU. Vorrei sapere quel che volete intendere per quel tetralogo.

PRU. Tetralogo, dissi io: id est, quatorum sermo; come dialogo vuol dire duorum sermo, trilogo trium sermo; e cossì oltre, de pentalogo, eptalogo, ed altri, che abusivamente si chiamano dialogi, come dicono alcuni quasi diversorum logi: ma non è verisimile che li greci inventori di questo nome abbino quella prima sillaba «di» pro capite illius latinae dictionis «diversum».

SMI. Di grazia, signor maestro, lasciamo questi rigori di gramatica, e venemo al nostro proposito.

PRU. O saeclum! voi mi parete far poco conto delle buone lettere. Come potremo far un buon tetralogo, se non sappiamo che significhi questa dizione tetralogo, e, quod peius est, pensaremo che sia un dialogo? Nonne a difinìtione et a nominis explicatione exordiendum, come il nostro Arpinate ne insegna?

TEO. Voi, messer Prudenzio, sete troppo prudente. Lasciamo, vi priego, questi discorsi grammaticali; e fate conto, che questo nostro raggionamento sia un dialogo, atteso che benché siamo quattro in persona, saremo dui in officio di proponere e rispondere, di raggionare e ascoltare. Or, per dar principio e reportar il negocio da capo, venite ad inspirarmi, o Muse. Non dico a voi, che parlate per gonfio e superbo verso in Elicona: perché dubito che forse non vi lamentiate di me al fine, quando, dopo aver fatto sì lungo e fastidioso peregrinaggio, varcati sì perigliosi mari, gustati sì fieri costumi, vi bisognasse discalze e nude tosto repatriare, perché qua non son pesci per Lombardi. Lascio, che non solo siete straniere, ma siete ancor di quella razza, per cui disse un poeta:

Non fu mai greco di malizia netto.

Oltre che non posso inamorarmi di cosa, ch’io non vegga. Altre, altre sono che m’hanno incatenata l’alma. A voi altre, dunque, dico, graziose, gentili, pastose, morbide, gioveni, belle, delicate, biondi capelli, bianche guance, vermiglie gote, labra succhiose, occhi divini, petti di smalto e cuori di diamante; per le quali tanti pensieri fabrico ne la mente, tanti affetti accolgo nel spirto, tante passioni concepo nella vita, tante lacrime verso da gli occhi, tanti suspiri sgombro dal petto e dal cor sfavillo tante fiamme; a voi, Muse d’Inghilterra, dico: inspiratemi, suffiatemi, scaldatemi, accendetemi, lambiccatemi e risolvetemi in liquore, datemi in succhio, e fatemi comparir non con un picciolo, delicato, stretto, corto e succinto epigramma, ma con una copiosa e larga vena di prosa lunga, corrente, grande e soda: onde, non come da un arto’ calamo, ma come da un largo canale, mande i rivi miei. E tu, Mnemosine’ mia, ascosa sotto trenta sigilli, e rinchiusa nel tetro carcere dell’ombre de le idee, intonami un poco ne l’orecchio.

Ai dì passati vennero doi al Nolano da parte d’un regio scudiero, facendogl’intendere qualmente colui bramava sua conversazione, per intender il suo Copernico ed altri paradossi di sua nova filosofia. Al che rispose il Nolano, che lui non vedea per gli occhi di Copernico, né di Ptolomeo, ma per i proprii, quanto al giudizio e la determinazione; benché quanto alle osservazioni, stima dover molto a questi ed altri solleciti matematici, che successivamente, a tempi e tempi, giongendo lume a lume, ne han donati principii sufficenti, per i quali siamo ridutti a tal giudicio, quale non possea se non dopo molte non ociose etadi esser parturito. Giongendo, che costoro in effetto son come quelli interpreti, che traducono da uno idioma a l’altro le paroli: ma sono gli altri poi, che profondano ne’ sentimenti, e non essi medesimi. E son simili a que’ rustici, che rapportano gli affetti e la forma d’un conflitto a un capitano absente: ed essi non intendono il negocio, le raggioni e l’arte, co’ la quale questi son stati vittoriosi; ma colui, che ha esperienza e meglior giudicio ne l’arte militare. Cossì a la tebana Manto, che vedeva, ma non intendeva, Tiresia, cieco, ma divino interprete, diceva:

visu carentem magna pars veri latet,
sed quo vocat me patria, quo Phoebus, sequar.
Tu lucis inopem gnata genitorem regens,
manifesta sacri signa fatidici refer.

Similmente che potreimo giudicar noi, si le molte e diverse verificazioni de l’apparenze de’ corpi superiori o circostanti non ne fussero state dechiarate e poste avanti gli occhi de la raggione?

Certo, nulla. Tuttavia, dopo aver rese le grazie a gli dèi, distributori de’ doni, che procedono dal primo ed infinito onnipotente lume, ed aver magnificato il studio di questi generosi spirti, conoscemo apertissimamente, che doviamo aprir gli occhi a quello ch’hanno osservato e visto, e non porgere il consentimento a quel ch’ hanno conceputo, inteso e determinato.

SMI. Di grazia, fatemi intendere, che opinione avete del Copernico?

TEO. Lui avea un grave, elaborato, sollecito e maturo ingegno; uomo che non è inferiore a nessuno astronomo che sii stato avanti lui, se non per luogo di successione e tempo; uomo che, quanto al giudizio naturale, è stato molto superiore a Tolomeo, Ipparco, Eudoxo e tutti gli altri, ch’han caminato appo i vestigi di questi. Al che è dovenuto per essersi liberato da alcuni presuppositi falsi de la comone e volgar filosofia, non voglio dir cecità. Ma però non se n’è molto allontanato; perché lui, più studioso de la matematica che de la natura, non ha possuto profondar e penetrar sin tanto che potesse a fatto toglier via le radici de inconvenienti e vani principii, onde perfettamente sciogliesse tutte le contrarie difficuità e venesse a liberar e sé ed altri da tante vane inquisizioni e fermar la contemplazione ne le cose costante e certe. Con tutto ciò chi potrà a pieno lodar la magnanimità di questo germano, il quale, avendo poco riguardo a la stolta moltitudine, è stato sì saldo contra il torrente de la contraria fede, e benché quasi inerme di vive raggioni, ripigliando quelli abietti e rugginosi fragmenti ch’ha possuto aver per le mani da la antiquità, le ha ripolìti, accozzati e risaldati in tanto, con quel suo più matematico che natural discorso, ch’ha resa la causa, gìà ridicola, abietta e vilipesa, onorata, preggiata, più verisimile che la contraria, e certissimamente più comoda ed ispedita per la teorica e raggione calculatoria? Cossì questo alemano, benché non abbi avuti sufficienti modi, per i quali, oltre il resistere, potesse a bastanza vencere, debellare e supprimere la falsità, ha pure fissato il piede in determinare ne l’animo suo ed apertissimamente confessare, ch’al fine si debba conchiudere necessariamente, che più tosto questo globo si muova a l’aspetto de l’universo, che sii possibile che la generalità di tanti corpi innumerabili, de’ quali molti son conosciuti più magnifici e più grandi, abbia, al dispetto della natura e raggioni che con sensibilissimi moti cridano il contrario, conoscere questo per mezzo e base de’ suoi giri ed influssi. Chi dunque sarà sì villano e discortese verso il studio di quest’uomo, che, avendo posto in oblìo quel tanto che ha fatto, con esser ordinato dagli dèi come una aurora, che dovea precedere l’uscita di questo sole de l’antiqua vera filosofia, per tanti secoli sepolta nelle tenebrose caverne de la cieca, maligna, proterva ed invida ignoranza; vogli, notandolo per quel che non ha possuto fare, metterlo nel medesmo numero della gregaria moltitudine, che discorre, si guida e si precipita giù per il senso de l’orecchio d’una brutale e ignobil fede; che [non] vogli computarlo tra quei, che col felice ingegno s’han possuto drizzare ed inalzarsi per la fidissima scorta de l’occhio della divina intelligenza?

Or che dirrò io del Nolano? Forse, per essermi tanto prossimo, quanto io medesmo a me stesso, non mi converrà lodarlo? Certamente, uomo raggionevole non sarà, che mi riprenda in ciò, atteso che questo talvolta non solamente conviene, ma è anco necessario, come bene espresse quel terso e colto Tansillo:

Bench’ad un uom, che preggio ed onor brama,
di se stesso parlar molto sconvegna,
perché la lingua, ov’il cor teme ed ama,
non è nel suo parlar di fede degna;
l’esser altrui precon de la sua fama
pur qualche volta par che si convegna,
quando vien a parlar per un di dui:
per fuggir biasmo, o per giovar altrui.

Pure, se sarà un tanto supercilioso, che non vogli a proposito alcuno patir la lode propria, o come propria, sappia, che quella talvolta non si può dividere da sui presenti e riportati effetti. Chi riprenderà Apelle, che presentando l’opra, a chi lo vuol sapere, dice, quella esser sua manifattura? Chi biasimarà Fidia, s’a un, che dimanda l’autore di questa magnifica scoltura, risponda esser stato lui? Or dunque, a fin ch’intendiate il negocio presente e l’importanza sua, vi propono per una conclusione, che ben presto facile e chiarissimamente vi si provarà: che, se vien lodato lo antico Tifi per avere ritrovata la prima nave, e cogli Argonauti trapassato il mare:

Audax nimium, qui freta primus
rate tam fragili perfida rupit,
terrasque suas post terga videns,
animam levibus credidit auris;

se a’ nostri tempi vien magnificato il Colombo, per esser colui, de chi tanto tempo prima fu pronosticato:

Venient annis
saecula seris, quibus Oceanus
vincula rerum laxet, et ingens
pateat tellus, Tiphysque novos
detegat orbes, nec sit terris
ultima Thule;

che de’ farsi di questo, che ha ritrovato il modo di montare al cielo, discorrere la circonferenza de le stelle, lasciarsi a le spalli la convessa superficie del firmamento? Gli Tifi han ritrovato il modo di perturbar la pace altrui, violar i patrii genii de le reggioni, di confondere quel che la provida natura distinse, per il commerzio radoppiar i difetti, e gionger vizii a vizii de l’una e l’altra generazione, con violenza propagar nove follie e piantar l’inaudite pazzie ove non sono, conchiudendosi alfin più saggio quel ch’è più forte; mostrar novi studi, instrumenti ed arte de tirannizar e sassinar l’un l’altro; per mercé de’ quai gesti tempo verrà, che, avendono quelli a sue male spese imparato, per forza de la vicissitudine de le cose, sapranno e potranno renderci simili e peggior frutti de sì perniciose invenzioni.

Candida nostri saecula patres
videre procul fraude remota.
sua quisque piger littora tangens,
patrioque senex fractus in arvo
parvo dives, nisi quas tulerat
natale solum, non norat opes.

Bene dissepti foedera mundi
traxit in unum Thessala pimis,
Iussitque pati verbera pontum,
partemque metus fieri nostri
mare sepostum.

Il Nolano, per caggionar effetti al tutto contrarii, ha disciolto l’animo umano e la cognizione, che era rinchiusa ne l’artissimo carcere de l’aria turbulento; onde a pena, come per certi buchi, avea facultà de remirar le lontanissime stelle, e gli erano mozze l’ali, a fin che non volasse ad aprir il velame di queste nuvole e veder quello che veramente là su si ritrovasse, e liberarse da le chimere di quei, che, essendo usciti dal fango e caverne de la terra, quasi Mercuri ed Apollini discesi dal cielo, con moltiforme impostura han ripieno il mondo tutto d’infinite pazzie, bestialità e vizii, come di tante vertù, divinità e discipline, smorzando quel lume, che rendea divini ed eroici gli animi di nostri antichi padri, approvando e confirmando le tenebre caliginose de’ sofisti ed asini. Per il che già tanto tempo l’umana raggione oppressa, tal volta nel suo lucido intervallo piangendo la sua sì bassa condizione, alla divina e provida mente, che sempre ne l’interno orecchio li susurra, si rivolge con simili accenti:

Chi salirà per me, madonna, in cielo,
a riportarne il mio perduto ingegno?

Or ecco quello, ch’ha varcato l’aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli margini del mondo, fatte svanir le fantastiche muraglia de le prime, ottave, none, decime ed altre, che vi s’avesser potuto aggiongere, sfere, per relazione de vani matematici e cieco veder di filosofi volgari; cossì al cospetto d’ogni senso e raggione, co’ la chiave di solertissima inquisizione aperti que’ chiostri de la verità, che da noi aprir si posseano, nudata la ricoperta e velata natura, ha donati gli occhi a le talpe, illuminati i ciechi che non possean fissar gli occhi e mirar l’imagin sua in tanti specchi che da ogni lato gli s’opponeno, sciolta la lingua a’ muti che non sapeano e non ardivano esplicar gl’intricati sentimenti, risaldati i zoppi che non valean far quel progresso col spirto che non può far l’ignobile e dissolubile composto, le rende non men presenti che si fussero proprii abitatori del sole, de la luna ed altri nomati astri, dimostra quanto siino simili o dissimili, maggiori o peggiori quei corpi che veggiamo lontano a quello che n’è appresso ed a cui siamo uniti, e n’apre gli occhi a veder questo nume, questa nostra madre, che nel suo dorso ne alimenta e ne nutrisce, dopo averne produtti dal suo grembo, al qual di nuovo sempre ne riaccoglie, e non pensar oltre lei essere un corpo senza alma e vita, ad anche feccia tra le sustanze corporali. A questo modo sappiamo che, si noi fussimo ne la luna o in altre stelle, non sarreimo in loco molto dissimile a questo, e forse in peggiore; come possono esser altri corpi cossì buoni, ed anco megliori per se stessi, e per la maggior felicità de’ propri animali. Cossì conoscemo tante stelle, tanti astri, tanti numi, che son quelle tante centenaia de migliaia, ch’assistono al ministerio e contemplazione del primo, universale, infinito ed eterno efficiente. Non è più impriggionata la nostra raggione coi ceppi de’ fantastici mobili e motori otto, nove e diece. Conoscemo, che non è ch’un cielo, un’eterea reggione immensa, dove questi magnifici lumi serbano le proprie distanze, per comodità de la participazione de la perpetua vita. Questi fiammeggianti corpi son que’ ambasciatori, che annunziano l’eccellenza de la gloria e maestà de Dio. Cossì siamo promossi a scuoprire l’infinito effetto dell’infinita causa, il vero e vivo vestigio de l’infinito vigore; ed abbiamo dottrina di non cercar la divinità rimossa da noi, se l’abbiamo appresso, anzi di dentro, più che noi medesmi siamo dentro a noi; non meno che gli coltori degli altri mondi non la denno cercare appresso di noi, l’avendo appresso e dentro di sé, atteso che non più la luna è cielo a noi, che noi alla luna. Cossì si può tirar a certo meglior proposito quel che disse il Tansillo quasi per certo gioco:

Se non togliete il ben che v’è da presso,
come torrete quel che v’è lontano?

Spreggiar il vostro mi par fallo espresso,
e bramar quel che sta ne l’altrui mano.

Voi sete quel ch’abandonò se stesso,
la sua sembianza desiando in vano:
voi sete il veltro, che nel rio trabocca,
mentre l’ombra desia di quel ch’ha in bocca.

Lasciate l’ombre, ed abbracciate il vero;
non cangiate il presente col futuro.
Io d’aver di meglior già non dispero;
ma, per viver più lieto e più sicuro
godo il presente e del futuro spero:
cossì doppia dolcezza mi procuro.

Con ciò un solo, benché solo, può e potrà vencere, ed al fine arà vinto, e trionfarà contra l’ignoranza generale; e non è dubio se la cosa de’ determinarsi, non co’ la moltitudine di ciechi e sordi testimoni, di convizii e di parole vane, ma co’ la forza di regolato sentimento, il qual bisogna che conchiuda al fine; perché, in fatto, tutti gli orbi non vagliono per uno che vede, e tutti i stolti non possono servire per un savio.

PRU.

Rebus et in censu si non est quod fuit ante,
fac vivas contentus eo, quod tempora praebent.

Iudicium populi nunquam contempseris unus,
ne nulli placeas, dum vis contemnere multos.

TEO. Questo è prudentissimamente detto in proposito del convitto e regimento comone e prattica de la civile conversazione: ma non già in proposito de la cognizione de la verità e regola di contemplazione, per cui disse il medesmo saggio:

Disce, sed a doctis; indoctos ipse doceto.

È anco, quel che tu dici, in proposito di dottrina espediente a molti; e però è conseglio, che riguarda la moltitudine: perché non fa per le spalli di qualsivoglia questa soma, ma per quelli, che possono portarla, come il Nolano; o almeno muoverla verso il suo termine, senza incorrere difficoltà disconveniente, come il Copernico ha possuto fare. Oltre, color ch’hanno la possessione di questa verità, non denno ad ogni sorte di persona comunicarla, si non vogliono lavar, come se dice, il capo a l’asino, se non vuolen vedere quel che san far i porci a le perle, e raccogliere que’ frutti del suo studio e fatica, che suole produrre la temeraria e sciocca ignoranza, insieme co’ la presunzione ed incivilità, la quale è sua perpetua e fida compagnia. Di que’ dunque indotti possiamo esser maestri, e di que’ ciechi illuminatori, che non per inabilità di naturale impotenza, o per privazion d’ingegno e disciplina, ma sol per non avvertire e non considerare son chiamati orbi; il che avviene per la privazion de l’atto solo, e non de la facultà ancora. Di questi sono alcuni tanto maligni e scelerati, che per una certa neghittosa invidia si adirano ed inorgogliano contra colui, che par loro voglia insegnare; essendo, come son creduti e, quel ch’è peggio, si credono, dotti e dottori, ardisca mostrar saper quel che essi non sanno. Qua le vederete infocar e rabbiarsi.

FRU. Come avvenne a que’ doi dottori barbareschi, de’ quali parlaremo; l’un de’ quali, non sapendo più che si rispondere e che argumentare, s’alza in piedi in atto di volerla finir con una provisione di adagi d’Erasmo, over coi pugni: cridò: – Quid? nonne Antyciram navigas? Tu ille philosophorum protoplastes, qui nec Ptolomaeo, nec tot tantorumque philosophorum et astronomorum maiestati quippiam concedis? Tu ne nodum in scirpo quaeritas?; – ed altri propositi, degni d’essergli decisi a dosso co’ quelle verghe doppie, chiamate bastoni, co’ le quali i facchini soglion prender la misura per far i gipponi agli asini.

TEO. Lasciamo questi propositi per ora. Sono alcuni altri, che, per qualche credula pazzia, temendo che per vedere non se guastino, vogliono ostinatamente perseverare ne le tenebre di quello c’hanno una volta malamente appreso. Altri poi sono i felici e ben nati ingegni, verso gli quali nisciuno onorato studio è perso: temerariamente non giudicano, hanno libero l’intelletto, terso il vedere e son prodotti dal cielo, si non inventori, degni però esaminatori, scrutatori, giodici e testimoni de la verità. Di questi ha guadagnato, guadagna e guadagnarà l’assenso e l’amore il Nolano. Questi son que’ nobilissimi ingegni, che son capaci d’udirlo e disputar co’ lui. Perché in vero nisciuno è degno di contrastargli circa queste materie, che, si non vien contento di consentirgli a fatto, per non esser tanto capace, non gli sottoscriva almeno ne le cose molte, maggiori e principali, e confesse che quello, che non può conoscere per più vero, è certo che sii più verisimile.

PRUD. Sii come la si vuole, io non voglio discostarmi dal parer de gli antichi, perché, dice il saggio, nell’antiquità è la sapienza.

TEO. E soggionge: in molti anni la prudenza. Si voi intendeste bene quel che dite, vedreste, che dal vostro fondamento s’inferisce il contrario di quel che pensate: voglio dire, che noi siamo più vecchi ed abbiamo più lunga età, che i nostri predecessori: intendo, per quel che appartiene in certi giudizii, come in proposito. Non ha possuto essere sì maturo il giodicio d’Eudosso, che visse poco dopo la rinascente astronomia, se pur in esso non rinacque come quello di Calippo, che visse trent’anni dopo la morte d’Alessandro magno; il quale come giunse anni ad anni, possea giongere ancora osservanze ad osservanze. Ipparco, per la medesma raggione, dovea saperne più di Calippo, perché vedde la mutazione fatta sino a centononantasei anni dopo la morte d’Alessandro. Menelao, romano geometra, perché vedde la differenza de moto quatrocentosessantadui anni dopo Alessandro morto, è raggione che n’intendesse più ch’Ipparco. Più ne dovea vedere Macometto Aracense milleducento e dui anni dopo quella. Più n’ha veduto il Copernico quasi a nostri tempi appresso la medesma anni milleottocentoquarantanove. Ma che di questi alcuni, che son stati appresso, non siino però stati più accorti, che quei che furon prima, e che la moltitudine di que’ che sono a nostri tempi, non ha però più sale, questo accade per ciò che quelli non vissero, e questi non vivono gli anni altrui, e, quel che è peggio, vissero morti quelli e questi ne gli anni proprii.

PRU. Dite quel che vi piace, tiratela a vostro bel piacer dove vi pare: io sono amico de l’antiquità; e quanto appartiene a le vostre opinioni o paradossi, non credo che sì molti e sì saggi sien stati ignoranti, come pensate voi ed altri amici di novità.

TEO. Bene, maestro Prudenzio; si questa volgare e vostra opinione per tanto è vera in quanto che è antica, certo era falsa quando la fu nova. Prima che fusse questa filosofia conforme al vostro cervello, fu quella degli caldei, egizii, maghi, orfici, pitagorici ed altri di prima memoria, conforme al nostro capo; da’ quali prima si ribbellorno questi insensati e vani logici e matematici, nemici non tanto de la antiquità, quanto alieni da la verità. Poniamo dunque da canto la raggione de l’antico e novo, atteso che non è cosa nova che non possa esser vecchia, e non è cosa vecchia che non sii stata nova, come ben notò il vostro Aristotele.

FRU. S’io non parlo, scoppiarò, creparò certo. Avete detto il vostro Aristotele, parlando a mastro Prudenzio. Sapete, come intendo, che Aristotele sii suo, idest lui sii peripatetico? (Di grazia, facciamo questo poco di digressione per modo di parentesi). Come di dui ciechi mendichi a la porta de l’arcivescovato di Napoli l’uno se diceva guelfo e l’altro ghibellino; e con questo si cominciorno sì crudamente a toccar l’un l’altro con que’ bastoni ch’aveano, che, si non fussero stati divisi, non so come sarebbe passato il negozio. In questo se gli accosta un uom da bene, e li disse: – Venite qua, tu e tu, orbo mascalzone: che cosa è guelfo? che cosa è ghibellino? che vuol dir esser guelfo ed esser ghibellino? – In verità, l’uno non seppe punto che rispondere, né che dire. L’altro si risolse dicendo: – Il signor Pietro Costanzo, che è mio padrone, ed al quale io voglio molto bene, è un ghibellino. – Cossì a punto molti sono peripatetici, che si adirano, se scaldano e s’imbraggiano per Aristotele, voglion defendere la dottrina d’Aristotele, son inimici de que’ che non sono amici d’Aristotele, voglion vivere e morire per Aristotele; i quali non intendono né anche quel che significano i titoli de’ libri d’Aristotele. Se volete ch’io ve ne dimostri uno, ecco costui, al quale avete detto il vostro Aristotele, e che a volte a volte ti sfodra un Aristoteles noster, Peripateticorum princeps, un Plato noster, et ultra.

PRU. Io fo poco conto del vostro conto, niente istimo la vostra stima.

TEO. Di grazia, non interrompete più il nostro discorso.

SMI. Seguite, signor Teofilo.

TEO. Notò, dico, il vostro Aristotele, che, come è la vicissitudine de l’altre cose, cossì non meno de le opinioni ed effetti diversi: però tanto è aver riguardo alle filosofie per le loro antiquità, quanto voler decidere se fu prima il giorno o la notte. Quello dunque, al che doviamo fissar l’occhio de la considerazione, è si noi siamo nel giorno, e la luce de la verità è sopra il nostro orizonte, overo in quello degli aversarii nostri antipodi; si siamo noi in tenebre, over essi: ed in conclusione, si noi, che damo principio a rinovar l’antica filosofia, siamo ne la mattina per dar fine a la notte, o pur ne la sera per donar fine al giorno. E questo certamente non è difficile a determinarsi, anco giudicando a la grossa da’ frutti de l’una e l’altra specie di contemplazione.

Or veggiamo la differenza tra quelli e questi. Quelli nel viver temperati, ne la medicina esperti, ne la contemplazione giudiziosi, ne la divinazione singolari, ne la magia miracolosi, ne le superstizioni providi, ne le leggi osservanti, ne la moralità irreprensibili, ne la teologia divini, in tutti effetti eroici; come ne mostrano lor prolongate vite, i meno infermi corpi, l’invenzioni altissime, le adempite pronosticazioni, le sustanze per lor opra transformate, il convitto pacifico de que’ popoli, gli lor sacramenti inviolabili, l’essecuzioni giustissime, la familiarità de buone e protettrici intelligenze ed i vestigii, ch’ancora durano, de lor maravigliose prodezze. Questi altri contrarii lascio essaminargli al giudizio de chi n’ha.

SMI. Or che direte, se la maggior parte di nostri tempi pensa tutto il contrario, e spezialmente quanto a la dottrìna?

TEO. Non mi maraviglio; perché, come è ordinario, quei che manco intendeno credono saper più, e quei che sono al tutto pazzi, pensano saper tutto.

SMI. Dimmi, in che modo si potran corregger questi?

FRU. Con toglierli via quel capo, e piantargliene un altro.

TEO. Con toglierli via in qualche modo d’argumentazìone quella esistimazion di sapere, e con argute persuasioni spogliarle, quanto si può, di quella stolta opinione, a fin che si rendano uditori; avendo prima avvertito quel che insegna, che siino ingegni capaci ed abili. Questi, secondo l’uso de la scuola pitagorica e nostra, non voglio ch’abbino facultà di esercitar atti de interrogatore o disputante prima ch’abbino udito tutto il corso de la filosofia; perché allora, se la dottrina è perfetta in sé, e da quelli è stata perfettamente intesa, purga tutti i dubii e toglie via tutte le contradizionì. Oltre, s’avviene che ritrove un più polito ingegno, allora quel potrà vedere il tanto, che vi si può aggiongere, togliere, correggere e mutare. Allora potrà conferire questi principìi e queste conclusioni a quelli altri contrarii principii e conclusioni; e cossì raggionevolmente consentire o dissentire, interrogare e rispondere; perché altrimente non è possibile saper, circa una arte o scienza, dubitar ed interrogar a proposito e co’ gli ordini che si convengono, se non ha udito prima. Non potrà mai esser buono inquisitore e giodice del caso prima non s’è informato del negocio. Però, dove la dottrina va per i suoi gradi, procedendo da posti e confirmati pricipii e fondamenti a l’edificio e perfezione de cose, che per quella si possono ritrovare, l’auditore deve essere taciturno, e, prima d’aver tutto udito ed inteso, credere che con il progresso de la dottrina cessarranno tutte difficultadi. Altra consuetudine hanno gli Efettici e Pirroni, i quali, facendo professione che cosa alcuna non si possa sapere, sempre vanno dimandando e cercando per non ritrovar giamai. Non meno infelici ingegni son quei, che anco di cose chiarissime vogliono disputare, facendo la maggior perdita di tempo che imaginar si possa; e quei, che per parer dotti e per altre indegne occasioni, non vogliono insegnare, né imparare, ma solamente contendere ed oppugnar il vero.

SMI. Mi occorre un scrupolo circa quel ch’avete detto: che, essendo una innumerabil moltitudine di quei che presumeno di sapere e se stimano degni d’essere costantemente uditi, come vedete che per tutto le università e academie so’ piene di questi Aristarchi, che non cederebbono uno zero a l’altitonante Giove; sotto i quali quei che studiano, non aranno al fine guadagnato altro, che esser promossi da non sapere, che è una privazione de la verità, a pensarsi e credersi di sapere, che è una pazzia ed abito di falsità; vedi dunque, che cosa han guadagnato questi uditori: tolti da la ignoranza di semplice negazione son messi in quella di mala disposizione, come la dicono. Ora, chi me farà sicuro, che, facendo io tanto dispendio di tempo e di fatica, e d’occasione di meglior studi ed occupazioni, non mi avvenga quel ch’a la massima parte suole accadere, che, in luogo d’aver comprata la dottrina, non m’abbi infettata la mente di perniziose pazzie? Come io, che non so nulla, potrò conoscere la differenza de dignità ed indignità, de la povertà e ricchezza di que’ che si stimano e son stimati savi? Vedo bene, che tutti nascemo ignoranti, credemo facilmente d’essere ignoranti; crescemo, e siamo allevati co’ la disciplina e consuetudine di nostra casa, e non meno noi udiamo biasimare le leggi, gli riti, le fede e gli costumi de’ nostri adversari ed alieni da noi, che quelli de noi e di cose nostre. Non meno in noi si piantano per forza di certa naturale nutritura le radici del zelo di cose nostre, che in quelli altri molti e diversi de le sue. Quindi facilmente ha possuto porsi in consuetudine, che i nostri stimino far un sacrificio a gli dèi, quando arranno oppressi, uccisi, debellati e sassinati gli nemici de la fé nostra; non meno che quelli altri tutti, quando arran fatto il simile a noi. E non con minor fervore e persuasione di certezza quelli ringraziano Idio d’aver quel lume, per il quale si prometteno eterna vita, che noi rendiamo grazie di non essere in quella cecità e tenebre, ch’essi sono. A queste persuasioni di religione e fede s’aggiongono le persuasioni de scienze. Io, o per elezione di quei che me governaro, padri e pedagoghi, o per mio capriccio e fantasia, o per fama d’un dottore, non men con satisfazione de l’animo mio, mi stimarò aver guadagnato sotto l’arrogante e fortunata ignoranza d’un cavallo, che qualsivoglia altro sotto un meno ignorante o pur dotto. Non sai quanta forza abbia la consuetudine di credere, ed esser nodrito da fanciullezza in certe persuasioni, ad impedirne da l’intelligenza de cose manifestissime; non altrimente ch’accader suole a quei che sono avezzati a mangiar veleno, la complession de’ quali al fine non solamente non ne sente oltraggio, ma ancora se l’ha convertito in nutrimento naturale, di sorte che l’antidoto istesso gli è dovenuto mortifero? Or dimmi, con quale arte ti conciliarai queste orecchie più tosto tu ch’un altro, essendo che ne l’animo di quello è forse meno inclinazione ad attendere le tue proposizioni, che quelle di mill’altri diverse?

TEO. Questo è dono de gli dèi, se ti guidano e dispensano le sorte da farte venir a l’incontro un uomo, che non tanto abbia l’esistimazion di vera guida, quanto in verità sii tale, ed illuminano l’interno tuo spirto al far elezione de quel ch’è megliore.

SMI. Però comunemente si va appresso al giudizio comone, a fin che, se si fa errore, quello non sarà senza gran favore e compagnia.

TEO. Pensiero indegnissimo d’un uomo! Per questo gli uomini savii e divini son assai pochi; e la volontà di dèi è questa, atteso che non è stimato né prezioso quel tanto ch’è comone e generale.

SMI. Credo bene, che la verità è conosciuta da pochi, e le cose preggiate son possedute da pochissimi; ma mi confonde che molte cose son, poche tra pochi, e forse appresso un solo, che non denno esser stimate, non vaglion nulla e possono esser maggior pazzie e vizii.

TEO. Bene, ma in fine è più sicuro cercar il vero e conveniente fuor de la moltitudine, perché questa mai apportò cosa preziosa e degna, e sempre tra pochi si trovorno le cose di perfezione e preggio. Le quali, se fusser solo ad esser rare ed appresso rari, ognuno, benché non le sapesse ritrovare, almeno le potrebbe conoscere; e cossì non sarebbono tanto preziose per via di cognizione, ma di possessione solamente.

SMI. Lasciamo dunque questi discorsi, e stiamo un poco ad udire ed osservare i pensieri del Nolano. È pure assai, che sin ora s’abbia conciliato tanta fede, ch’è stimato degno d’essere udito.

TEO. A lui basta ben questo. Or attendete quanto la sua filosofia sii forte a conservarsi, defendersi, scuoprir la vanità e far aperte le fallacie de’ sofisti e cecità del volgo e volgar filosofia.

SMI. A questo fine, per essere ora notte, tornaremo domani qua a l’ora medesma, e faremo considerazione sopra gli rancontri e dottrina del Nolano.

PRU. Sat prata biberunt; nam iam nox humida caelo praecipitat.

FINE DEL PRIMO DIALOGO