LEONE JACOVACCI. LA PAGINA PIU’ NERA DELLO SPORT ITALIANO

DI VIRGINIA MURRU
La storia di questo eccezionale boxeur è una vergogna tutta italiana. Grande pugile, campione dei pesi medi e medio-massimo, nato nei primi anni del novecento, le vicende che riguardano Jacovacci hanno rimandi leggendari, nonostante l’epoca in cui è vissuto, e la struttura di una società asservita ad un regime autoritario, quale il Fascismo poteva essere tra gli anni ’20 e ‘40.
Dopo un secolo, l’Italia, che prima ha fatto di tutto per ignorare il suo talento, lo ha dimenticato. E’ solo grazie a Mauro Valeri che le reali vicissitudini di questo campione italiano sono state portate all’attenzione della gente, e riscritte secondo criteri di obiettività. Valeri ha infatti pubblicato un libro di circa 500 pagine, “Nero di Roma”, edito da Paombi, nel quale ha ripercorso tutte le tappe e i traguardi dell’esistenza di questo straordinario sportivo italo-congolese. Ne è scaturito una sorta di ‘processo’ storico, civile e sociale, per dire pane al pane, e rivedere la Storia con una lente più chiara. Quella che si conosceva, anche attraverso il filmato dell’ incontro di boxe decisivo per il titolo italiano ed europeo, era una verità ‘manomessa’, scassinata e manipolata; un po’ bastarda.
Un documentarista, Tony Saccucci, partendo da ‘Nero di Roma’, e in collaborazione con l’Istituto Luce, ha poi portato lo scandaglio fin dentro i fondali di questa vicenda, denunciando gli abusi del regime, i cui tecnici, all’epoca, spezzarono la parte finale del video dell’incontro, proprio quando il giudice alza in alto il braccio del vincitore: ossia quello di Jacovacci..
Non si doveva sapere troppo in giro che uno sportivo di colore era il vero campione: era italiano ‘solo’ a metà.. Insomma, un abominio del più perverso razzismo. Il film-documentario è uscito nelle sale solo di recente.
Leone Jacobacci era un meticcio venuto al mondo esattamente nel 1902, in un paese africano, il Congo indipendente – anche se era in realtà un feudo del Belgio – da padre italiano e madre congolese, una principessa del posto, figlia del Capo Tribù.
Il padre, Umberto Jacobacci, persona istruita (era agronomo-ingegnere), riteneva che egli dovesse crescere a Roma, dove egli stesso aveva vissuto, così lo condusse proprio qui, affidandolo alla guida dei genitori, i quali faranno del loro meglio per impartirgli una buona educazione, ed un’adeguata istruzione.
Compito tutt’altro che facile, la società romana dei primi decenni del novecento non era quella imperiale, dove nelle strade era possibile trovare non solo barbari, ma persone che provenivano da tutti i paesi del Mediterraneo. Un meticcio, pertanto, soprattutto se facente parte della borghesia, poteva facilmente diventare oggetto di discriminazione. E per questa ragione la famiglia di Leone finì per trasferirsi nelle campagne del Viterbese. Senza saperlo, il bambino viveva già la sua prima esperienza di rifiuto ed emarginazione.
Nella personalità di Leone, fin da bambino, c’era però un forte istinto di libertà, e la tendenza a svincolarsi dalle regole che gli risultavano oppressive, per questo fuggì in diverse occasioni dagli istituti in cui era stato condotto per ragioni di studio. La severità, il clima di chiusura e forse di solitudine e squallore sul piano affettivo, non si confacevano al carattere irrequieto ed esuberante, non propriamente alieno alla disciplina, ma certamente insofferente alle regole dei collegi romani.
Dallo sguardo diretto e intenso, era possibile intuire che non avesse temperamento remissivo, rispettava chi gli stava intorno, ma aveva necessità di respirare liberamente senza eccessive imposizioni.
Come se il richiamo latente dell’Africa, fosse un’ombra discreta che lo accompagnasse e ne guidasse i gesti; non intendeva reprimere il senso di quell’appartenenza lontana. Così, quell’identità divisa a metà, tra Italia e Congo, sembrava in perenne conflitto dentro di lui.
Il padre di Leone rientrò a Roma nel 1916, e il bambino, per un breve periodo sembrò più sereno, ma l’istinto di allontanarsi per rincorrere un vago sogno d’indipendenza era insopprimibile: è attratto dal mare, e dentro l’animo misterioso del ragazzino, forse inconsciamente, si aprono i vasti orizzonti di libertà delle foreste africane.
Comunque cerca evasione, e sarà proprio il mare, voce ineludibile che chiama con prepotenza, a spingerlo a raggiungere Napoli, e qui a imbarcarsi in un mercantile inglese, con la ‘qualifica’ di mozzo. Non se ne cura, l’importante è andare, ogni maschera poi è valida, pur di lasciare il confine di una patria che gli ha mostrato il volto peggiore, quello dell’indifferenza, anzi peggio: dell’ostilità appena mitigata da un velo di tolleranza. Quello è il vero confine che deve abbandonare, l’Italia non è stata un nido accogliente, una patria della quale essere fieri. Nelle strade, nelle relazioni umane, la serpe del rifiuto strisciava silente, e Leone, sia pure adolescente, avvertiva l’acre sapore di quel veleno. Lontano dunque, fuori da quello squallore falsato da perbenismo.
Era stata probabilmente per una questione di rivalsa, che nel corso della prima guerra mondiale, Leone si era arruolato con l’esercito britannico; del resto si era lasciato alle spalle gli anni vissuti a Roma e dintorni, e aveva perfino cambiato identità: via anche il nome italiano. Da allora il rapporto con l’Italia sarà di odio-amore, diventerà il soldato Walker.
Eppure scorre dietro di lui un sottile soffio del destino, questa volta la boxe fungerà da trait d’union per un ritorno in Italia, anche se non immediato.
La sua seconda patria, forse sempre inconsciamente, lo richiama a sé, e Leone, che non poteva sopprimere quel vincolo di sangue, cercherà, nel volgere di pochi anni, di rifare un nodo stretto a quel legame: invano..
Finita, dopo la guerra, l’esperienza nell’esercito, si ritroverà a Londra nei pressi del Tamigi, quando verrà notato da un allenatore di boxe, che ha necessità di un pugile di colore per sostituire quello che ha disertato l’appuntamento col ring. Lo aspettava una sfida con un campione britannico, e Leone, che aveva solo un fisico asciutto e prestante, naturalmente dotato di ottimi muscoli, rischia e accetta l’improvvido incontro.
Pur essendo a digiuno di pugilato, con un allenamento approssimato, vinse l’incontro: ed eccolo il destino, a contare i suoi passi, a dirigerlo verso la gloria delle sfide combattute e vinte con orgoglio, ma anche sofferte, a causa di quel vecchio continente che non gli perdona di avere una madre africana.
Lascia Londra proprio per questo, perché ai pugili di colore non è consentito aspirare ai titoli più ambiti.
Delusione repressa, e altra migrazione, questa volta in Francia, che al contrario dell’Inghilterra sembra un porto franco. I pugili africani sono infatti apprezzati per l’impeto e la grinta che esprimono sul ring. Non importa se deve cambiare nome, diventando Jack (tiene il cognome Walker, però), l’importante è vivere alla pari, stringere mani meno ipocrite, confrontarsi con una dignità senza riserve di razza. Era quello che cercava, la dignità ti fa sentire in patria ovunque, senza compromessi vili, senza piegarti in obbedienza alla presunzione della superiorità.
Si sentiva a casa, Leone a Parigi, stimato e apprezzato per le sue indiscutibili doti professionistiche nella boxe, riesce così con forza ad affermarsi, ad andare oltre il filo spinato dell’intolleranza, a stabilire amicizie e relazioni durature. Aveva però dichiarato d’essere un afro-americano, e non riuscirà a provarlo, perché gli mancano i documenti. Risolse così di rientrare in Italia, sotto mentite spoglie, ma non per molto: decise infatti che di maschere ne aveva abbastanza. Confessa di essere italiano: “mi chiamo Leone Jacovacci..” E sulle prime i connazionali sono entusiasti di lui, perché sembra figlio di un cielo amico, che lo ha messo al mondo per vincere, già in retrovia. Leone è in effetti ben temprato, fin da piccolo, per essere un combattente, anche nelle strade storte e dissestate della vita. Non conosce arrese, neppure verso il subdolo nemico che lo lusinga, facendogli però sentire fin nelle ossa il “peccato” dell’origine.
Era leone di nome e di fatto. Si batteva davvero come un leone nell’arena, e non graziava nessuno, ben raramente subì disfatte sul ring, la vittoria, il senso di supremazia sull’avversario, sembravano scritte sui muscoli delle sue braccia, negli occhi pieni di sfida e smania di riscatto. Liquidava uno per uno i campioni europei dei pesi medi e medio-massimo. Sembrava invincibile come Sansone.
I titoli conquistati tuttavia non gli erano riconosciuti dalla Federazione italiana della Boxe. Con una serie di pseudo ragioni che partivano dal colore ambrato della sua pelle, e finivano nel delirio della razza ariana -della quale, per esigenze di regime, la stirpe italica faceva parte – lo si teneva ai margini, nonostante le eccezionali doti che aveva manifestato.
Milano contendeva a Roma il ring degli incontri più rilevanti in ambito europeo, e vantava campioni di primo livello; Leone era il ‘nero di Roma’, e la città pertanto lo considerava il proprio campione. Milano gli opponeva Mario Bosisio, campione italiano in carica.
Si organizzò un incontro ‘valido’ per il titolo italiano a Milano, durante il quale Leone prevalse su Bosisio, ma la vittoria, dai tre giudici milanesi, fu assegnata proprio a quest’ultimo. Era già scritto. Per fare tacere il coro di voci nella capitale, che parlava di sopraffazione e ingiustizia, il partito Fascista organizzò un’altra sfida a Roma. Il titolo italiano, e anche quello europeo, potevano ancora essere contesi (detentore dei due titoli al momento era Bosisio) dai due sfidanti che si erano affrontati a Milano qualche mese prima.
Leone ebbe il sopravvento, davanti a 40 mila spettatori, non c’erano dubbi sulla superiorità e la classe che lo aveva sempre contraddistinto. Diventa il 4° Campione Europeo (in Italia), ed è un italiano a tutti gli effetti a vincerlo, anche se per il diritto di cittadinanza dovrà lottare con tutte le sue forze, lui è un indomito lottatore. Finalmente, dopo 4 anni di dure battaglie, mentre i funzionari pubblici esercitavano il più bieco ostracismo, riuscì a farsi riconoscere cittadino italiano.
Sa che la sua lotta per la dignità non è mai finita, la sua Italia è stata intaccata, ‘punta’ dall’aspide: il razzismo. Bisogna prenderne atto e difendersi, ma come?
Come? E’ un campione, non c’è sfida che vada oltre i suoi limiti, lo sport, la boxe, sono il suo riscatto e il legittimo lasciapassare, prima o poi la sua patria razzista se ne farà una ragione. Era la giusta equidistanza tra orgoglio e giustizia.
Ma tant’è: il contorto animo umano non conosce limiti quando si prefigge di annientare il proprio simile.
I titoli legittimamente conquistati non gli furono mai riconosciuti, il filmato dell’incontro con Mario Bosisio, fu letteralmente manipolato, per evitare che la gente gli riconoscesse i meriti conquistati. La stessa Gazzetta dello Sport, il giorno che seguì all’incontro con Bosisio, dopo la clamorosa vittoria di Leone, titolò: “Non può essere un nero a rappresentare l’Italia all’estero” – ossia la gola profonda del Fascio aveva parlato.
Ecco la vergogna del sopruso, dell’imbroglio, la tendenza del regime a cambiare la carte in tavola.
Non è mia intenzione addentrarmi in considerazioni di carattere antropologico, e tanto meno fare dissertazioni sulle cause delle leggi razziali. Forse la responsabilità non è però riconducibile solo al regime, vi sono ragioni di fondo, di indole del popolo italiano, che il razzismo lo ha sempre avuto in stato di latenza dentro l’anima. La civilissima Cultura Latina non è stata un esempio in questo senso, dato che definiva “barbare” le popolazioni del Nord Europa, ritenute inferiori, rozze, e non al passo delle loro conquiste. Nemmeno i sardi sono stati risparmiati dai  Romani dell’epoca, chiamarono “Barbaria” (da qui il toponimo Barbagia) le regioni dell’interno dell’isola, solo perché occorsero anni per avere ragione del loro istinto ribelle e autonomo, e lottarono strenuamente per ostacolarne la conquista.
Dopo le delusioni in Italia, ancora una volta Leone decide di andarsene, troppi dolori e umiliazioni, non si poteva tollerare. Torna in Francia, poi sopraggiungono gli eventi dell’occupazione nazista, si arruola  di nuovo nell’esercito inglese, e combatte con questa divisa anche in Italia. Poteva forse arruolarsi come camerata nei battaglioni del Fascio?
Fascista, nonostante quello che si è scritto al riguardo, non lo era mai stato. Frattanto, aveva trovato il tempo di formare una famiglia, e, tanto per cambiare, anche questa era clandestina: la moglie era di origini ebree. Da una fuga rocambolesca all’altra, la sua vita. Dopo la guerra diventa portiere di un palazzo a Milano, in via Ghibellina. L’Italia lo ringraziò così, non un riconoscimento per i momenti importanti di gloria che aveva saputo dare allo sport italiano. Fu scaraventato nella deriva dell’oblio.
Le strade, le piazze della Vita, sono  luoghi in cui gli esseri umani si misurano senza ricorrere ai piedistalli di razza, o presunte superiorità. Sono i luoghi in cui alla dignità si dà del tu.
Sono – dovrebbero essere – luoghi dell’Umanità in cui i valori autentici dialogano e s’incontrano, qualunque sia il colore che i geni hanno deciso di dare alla pelle di un uomo.
E non si argomenta intorno ad un passato poi così remoto, l’inquisizione sulla razza è andata ben oltre, lo sappiamo bene, ce la portiamo ancora sotto i piedi, a volte velata di false concezioni.
Il razzismo è stato ovunque anche dopo la seconda guerra mondiale, ne sanno qualcosa gli afro-americani, e non solo. Il dopo guerra non è stato lo spartiacque che si sperava per l’Occidente, che aveva subito una dura lezione dietro il filo spinato dei lager.
Eppure l’Umanità non ha imparato nulla dal terribile squallore in cui ha scaraventato i diritti umani, nulla da quell’abominio. I lager, con i loro rituali infernali e altari capovolti, erano i luoghi del delirio in cui in realtà si immolava e processava il valore più assoluto dell’essere umano: la dignità.

TRIBUNALE DI FIRENZE: L’IMMAGINE DEL DAVID DI MICHELANGELO NON E’ COMMERCIABILE

DI VIRGINIA MURRU

 

Solo con un’ordinanza si poteva mettere fine al ‘bagarinaggio’, ossia alla vendita di biglietti a prezzo maggiorato (esattamente il doppio di quelli venduti dai canali ufficiali del Mibact) da parte di una società privata, la Visit Today, che agiva dunque fuori dai circuiti della Galleria dell’Accademia. Il divieto di usare l’immagine del David è rivolto non solo al territorio italiano, ma anche a quello europeo. Niente immagine sui biglietti, su volantini o materiale pubblicitario.

E’ stata l’Avvocatura dello Stato a presentare regolare istanza al tribunale di Firenze, il quale l’ha accolta emanando poi l’ordinanza che vieta lo sfruttamento dell’immagine del David in qualsiasi modo, soprattutto per fini di carattere commerciale. Il rigore di questo veto avrà sicuramente impressionato tutti coloro che, proprio per fini commerciali, utilizzano l’immagine del mito scolpito superbamente da Michelangelo, e si pensa dunque a chi vive della vendita di souvenir.

Per la direttrice dell’Accademia di Firenze, Cecilie Hollberg, è una decisione importante da parte della magistratura, finalmente si porrà fine al traffico illecito di biglietti fin troppo maggiorati, e si auspica che altri musei ne seguano l’esempio. Si tratta, secondo la Hollberg, di una misura importante. Della stessa opinione il sindaco di Firenze, Dario Nardella.

DOMANI INAUGURAZIONE DEL LOUVRE DI ABU DHABI, PRESENTE EMMANUEL MACRON

DI VIRGINIA MURRU
 Immaginare un altro Louvre non è semplicissimo, anche per chi sa viaggiare con il pensiero ad alta velocità, ma constatare che un museo ‘gemello’ della grande parata parigina, è sorto ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi, lascia veramente poco spazio alle parole, figuriamoci alla retorica.
E’ stato realizzato davvero, però, se ne parla ormai da anni. L’enorme edificio si apre a perdita d’occhio sull’isola di Saadyat, già definita l’isola della Cultura, poiché si ergono altre strutture espositive, edifici dedicati esclusivamente all’Arte e alla Cultura.
Il “Louvre di Abu Dhabi”, prima di essere progettato e realizzato, ha percorso vie diplomatiche e politiche, che hanno portato, nel 2007, alla firma di un accordo tra Francia ed Emirati. L’accordo avrà la durata di 30 anni, e non è a titolo di concessione, vale un miliardo di euro. Vi sono poi clausole vincolanti per gli Emirati: la Francia ha chiesto che siano le autorità museali francesi a gestire il nuovo museo, a controllare le competenze del personale che sarà impiegato, l’assistenza e soprattutto le opere in prestito provenienti da 13 strutture espositive francesi.
Sono state già spedite, alla volta della nuova ‘succursale’ del Louvre, 300 opere (in prestito), mentre circa 600 faranno parte della collezione permanente. Intanto alcune centinaia sono già pronte per l’inaugurazione ufficiale, che si terrà l’11 novembre prossimo, ma sono previsti eventi già a partire dall’8, ossia domani, con presenze di primo piano del panorama politico dei due paesi.
Ci sarà il presidente Emmanuel Macron, in rappresentanza della Francia, e Mohammed Ben Zayed, principe ereditario degli Emirati e ministro della Difesa. Gli eventi di carattere artistico, musicale e culturale andranno avanti fino al 14 novembre.
Il Louvre di Abu Dhabi sorprende per la struttura imponente, spettacolare, e viene dall’estro di un architetto francese, Jean Nouvel, che ha inteso coniugare Arte con Arte, anche attraverso la bellezza esterna del faraonico edificio, la cui cupola ha una dimensione di 180 metri, e dall’alto si presenta come un’isola fluttuante, che emana luce propria e diventa un richiamo irresistibile.
Non un miraggio, ma un complesso architettonico che viene da un design esclusivo, studiato per erigere un ponte tra culture diverse, tra atmosfere surreali che rendono l’Arte Universale. Il rimando è anche alla cultura araba, oltre a quella Occidentale, e il Mediterraneo diventa pertanto un semplice spartiacque, qual è sempre stato del resto, tra culture lontane. Nella grande cupola sono state incastonate 8 mila stelle in metallo, e non a caso, perché riflettono naturalmente la luce e creano effetti policromi veramente suggestivi.
Il Louvre d’Oriente non viene dalla lampada magica di Aladino, ha un costo vicino ad 1 miliardo di euro, ed è frutto della lungimiranza dei paesi arabi, ai quali tanto dobbiamo in termini di Scienza e Cultura. La vocazione all’Arte di questi paesi non si è smarrita nei secoli, forse per ragioni storiche e sociali ha subito una stasi, dovuta in gran parte alla mancanza di mezzi finanziari, ma a partire dal novecento la riscossa del petrolio ha rimesso in moto il desiderio di rivolgere alla Cultura le dovute attenzioni.
Il Museo esporrà, anche con il contributo del Louvre di Parigi (300 opere), importanti opere d’arte e reperti, si andrà dai prestigiosi ‘pezzi’ preistorici alle opere d’arte contemporanea, che abbracciano la Cultura e la Civiltà Umana nelle sue fasi più essenziali di progresso e di crescita.
Nel perimetro espositivo del Museo, che sembra galleggiare sull’acqua, ci sono 23 gallerie permanenti, dove, come si è accennato, il percorso artistico delle opere rifletterà l’evoluzione della civiltà umana, dalle sue origini a quella contemporanea, anche se lo spazio che occuperà quest’ultima sarà solo il 5% del totale.
Troveranno posto pezzi di grande pregio nell’esposizione, come un Corano risalente al VI secolo, un Testo della Torah (ebraica), giunto dallo Yemen, e una Bibbia gotica. E tantissimi altri; saranno in tutto 600 quelli provenienti dalla cultura dei paesi arabi.
L’assetto architettonico esterno è di ispirazione araba, richiama le medine, e comprende 55 edifici e una promenade sul mare.
L’isola di Saadiyat accoglie anche altre strutture destinate all’Arte e alla Cultura, alcune già inaugurate e altre da ultimare. Il Guggnheim, per esempio, è un progetto firmato da Frank Gehry, mentre lo Zayed National Museum porta quella di Norman Foster.
La lungimiranza e il desiderio di spezzare le barriere culturali, che non di rado creano urti nei rapporti tra i popoli, viene dal ministro del Turismo e della Cultura di Abu Dhabi, Mohamed Khalifa Al Moubarak, aperto alle diversità e al rispetto di ogni cultura, nella stessa linea di vedute del principe ereditario dell’Arabia Saudita, Mohammed Bin Salman.
Potrebbe essere considerato normale per noi dell’Occidente, non lo è per queste civiltà chiuse, che stentano a trovare la chiave di un’alleanza basata sulla tolleranza, soprattutto in ambito religioso.
Un vecchio adagio dice che ‘la Cultura è l’unico bene dell’Umanità che diviso tra tutti, anziché diminuire aumenta sempre di più’: è forse questa consapevolezza che manca in piena epoca di globalizzazione. Ci sono tuttavia queste persone illuminate nei regni dell’Islam a fare la differenza, le quali stanno portando avanti riforme e iniziative che cambieranno i ‘connotati’ del nostro tempo. Non si torna indietro: si tratta delle prime pietre miliari di un cambiamento storico già in atto.
E’ il miracolo del dio petrolio e del dio denaro? Certamente stanno dando una buona mano. Le grandi, colossali opere sorte in Arabia e negli Emirati, e non solo, vengono dalla miniera di risorse che il petrolio ha contribuito a creare. Non sarebbero state altrimenti possibili. Inutile negarlo.
Come sostiene l’ex ministro della Cultura francese, Jack Lang, in primo piano nella supervisione del Louvre di Abu Dhabi:
“il Museo degli Emirati è più Universale di quello di Parigi, paradossalmente, perché è il simbolo, il trait-d’union di culture diverse”.
Nel complesso della struttura sono previste mostre anche per il mondo dell’infanzia, vi sono sale per ogni esigenza, per meeting di carattere culturale, convegni; e poi ristoranti e ogni locale commerciale utile ai visitatori.
L’atrio del Louvre di Abu Dhabi è una direzione di segnali che indicano ai visitatori del museo i temi delle gallerie, le quali sono sia tematiche che cronologiche, quanto a datazione. Si prevedono infatti opere risalenti alla civiltà dei primi imperi del Mediterraneo, e non solo. Ci sarà un’esposizione a tema religioso di carattere universale, per mantenere vivo l’impegno verso il rispetto di ogni cultura e religione.
Trattandosi di una grande struttura a stretto contatto con il mare, l’acqua è protagonista del progetto, e la si scorge alla base di questa città museo, dove è stata sfruttata per la realizzazione di piscine e altri parchi acquatici che hanno lo scopo d’intrattenere i visitatori.
L’architettura si porta dietro anni di studi, anche sul versante dei consumi, in primo piano nella stesura del progetto. Alla fine si è riusciti ad adeguare l’esigenza dei più bassi consumi energetici alle prerogative estetiche degli edifici, che sono stati resi luminosissimi attraverso la naturale infiltrazione di luce, che arriva ovunque, consentendo l’energy free per lunghe ore durante le visite.
La cupola è stata studiata e realizzata secondo le tecniche più moderne, con l’uso di materiali idonei a mantenere costanti le temperature, evitando le radiazioni solari e dunque proteggendo gli interni. Ma anche i materiali di rivestimento utilizzati per i volumi dell’edificio sono frutto di ricerche avanzate, che consentono la creazione di un microclima controllato, non dannoso per i visitatori e tanto meno per le opere esposte.

LA CENSURA NON PUO’ ESSERE LA MATITA ROSSA DELLA CORRETTA INFORMAZIONE

DI VIRGINIA MURRU

Il blog “Remocontro” – testata giornalistica molto seguita – ieri è stato oscurato dalla censura. I dirigenti di Facebook, con i loro droni, evidentemente passano al vaglio l’informazione che raggiunge le maglie strette del network, e avendo riscontrato dettagli non conformi ai loro ‘criteri’ di valutazione della correttezza, sono intervenuti.

Con un provvedimento ‘esemplare’: una settimana di oscurità, il blog non potrà diffondere gli articoli via Facebook fino a punizione conclusa.
Queste non sono lezioni da impartire ad una società civile, non vengono dalla fonte della libertà d’espressione alla quale siamo stati formati.

Si pensava che ‘censura’, all’alba del terzo millennio, fosse solo un ‘reperto archeologico’ (d’epoche non poi tanto remote), tuttavia ci sentivamo autorizzati a cancellarla dalla memoria, perché esorcizzata dal tempo, retaggio di un passato nemmeno tanto lontano, ma non più degno d’essere ‘traslata’ nel nuovo millennio.

E invece certe calamità vanno oltre le pietre miliari della storia, attraversano con inquietante immunità il nostro tempo, percorrono a velocità supersonica le autostrade telematiche della  comunicazione, e colpiscono bersagli che hanno solo il torto di portare avanti i valori impliciti nella libertà di pensiero.

E siamo costretti, ancora, nella galassia dell’informazione, a fare appello all’art. 21 della Costituzione, che sembra un ‘dettaglio’ scontato, e invece è sempre una buona sentinella per i fondamentali diritti umani sui quali si fondano i presupposti di una società civile.

Remocontro è una fonte d’informazione gestita peraltro da giornalisti che hanno alle spalle lunghi anni d’esperienza professionale, certamente una garanzia di correttezza e qualità, per quel che concerne gli articoli diffusi in rete. Leggendo l’articolo di Ennio Remondino, non si riesce a capire quale sia la ragione del provvedimento dei dirigenti di Facebook, lo sconcerto è grande, perché a questo punto, si rischia di precipitare nel girone infernale degli interrogativi senza risposta.

In apparenza, infatti, una motivazione sensata non esiste, non si riscontrano offese, riferimenti allusivi e tendenziosi, rimandi alle concezioni discutibili dell’Islam sui diritti umani riguardanti le donne. Poi, ‘la virtù del dubbio’, porta a ragionare sulle cause che hanno determinato e acceso la miccia della censura, e si conclude che solo l’azzardo, l’idea di mettere in risalto una semplice notizia che ha viaggiato velocemente nel web, è stato ritenuto, forse, un atto d’irriverenza.

L’ironia, ingrediente naturale della libertà d’espressione, ha reso l’articolo non ‘commestibile’ per certi palati sensibili, ma tant’è: nella mannaia della censura esiste talvolta un peccato originale che si chiama ‘rispetto della verità’.

La censura è un valore che viaggia al contrario, quasi teoria degli opposti, in un clima di tolleranza e rispetto della libertà di pensiero e opinione; non ‘rema contro’ per regolare gli eccessi, pure possibili in un regime di piena democrazia, ma perché tiene conto di una gerarchia di valori che ha simmetrie diverse in altri versanti.

In definitiva perché si difendono altre ragioni, che trascendono; intanto perché non sono limpide.
Nell’articolo si esprimono opinioni favorevoli, e non potrebbe essere altrimenti, verso la scelta operata dal principe saudita Salman, di concedere la libertà di guidare l’auto alle donne. Si sottolinea l’entusiasmo delle donne a Riad, che sono scese in piazza, insieme a tanti uomini (buon segno, decisamente), per festeggiare, a suon di clacson, questa svolta epocale per l’ortodossia del Wahabbismo Sunnita.

L’articolo mette in rilievo il clima da Medioevo in cui i diritti delle donne devono misurarsi, e questa felice intuizione del giovane principe, che ancora deve salire al potere, segno di lungimiranza, lacerazione di quella cortina d’acciaio in cui languiscono i diritti umani: una speranza della quale si doveva parlare. Si tratta di un avvenimento di grande importanza, un evento da celebrare, anche in Occidente.

Allora, non è piaciuto il rimando al Medioevo? Si doveva parlare d’Illuminismo, in riferimento al regime di Riad? In un clima di democrazia si chiamano le cose per nome, a volte perfino col cognome.

Non si ravvisano offese di alcun genere nell’articolo, ben altro corre in forma di raffica nel linguaggio del web, e basterebbe soffermarsi sui commenti nei confronti del radicalismo islamico, per comprendere che la gente non mette in bilancia le parole quando deve esprimere un’opinione.
C’era la verità sostanziale dei fatti, che poi è tutto per la deontologia professionale di un giornalista.

L’Arabia Saudita, grande alleata di Washington, è uno scacchiere sensibile nel Mediterraneo, forse, qualora si fosse puntato l’osservatorio sull’Iran, paese islamico a maggioranza sciita, l’eco avrebbe potuto essere diverso. A questo punto è lecito ragionare, dato che non si ha nemmeno il diritto di conosce il motivo della censura.

L’articolo pubblicato nel blog di ‘Remocontro’, firmato da Remondino, è davvero asettico, non reca nemmeno traccia di offesa diretta o indiretta, a questo punto tutti siamo suscettibili di censura e degni d’essere ‘perseguiti’ via web.

Non riconosciamo queste vie contorte della libertà d’espressione. Scorre sangue e lacrime dietro questi valori. Noi, in Italia, pensavamo d’avere lasciato la censura dietro il filo spinato di un regime autoritario che ha chiuso i suoi battenti nel ’45. Credevamo, anzi ne eravamo convinti, nonostante le difficoltà in cui si muove la stampa in Italia, e gli oltre cento giornalisti costretti a svolgere il proprio lavoro sotto scorta (perché minacciati dalla criminalità organizzata).

E nonostante fossimo consapevoli che siamo il fanalino di coda in Europa per quel che concerne la libertà di stampa. Malgrado questo, ci si illudeva d’essere al di là della sponda, oltre quel muro, nel quale troppi eroi sono stati immolati.