PIÙ CHE UN LAVORO UNA MODERNA SCHIAVITÙ

DI PIERLUIGI PENNATI

L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.

Questo l’articolo 1 della nostra Costituzione nella quale la parola lavoro sarà poi ripetuta per altre sedici volte per un totale di diciassette: il concetto più nominato dell’intero testo.

Nell’articolo 4, la seconda citazione “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro”, elevando il concetto a diritto e nell’articolo 35 “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”, lo protegge e tutela, ma forse l’articolo più importante è quello successivo, quando afferma: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a se´ e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Intrinseca la distinzione tra chi lavora liberamente e chi vi è costretto, separando le prestazioni in attività civili e schiavitù, ma oggi per logistica, call center, centri commerciali, distribuzione, compagnie low cost, mensa, vigilanza, etc., etc., si lavora ancora in Italia o si viene solo sfruttati?

Se il lavoro umano in quanto tale può essere definito come sfruttamento della manodopera, deve evidentemente esistere un confine oltre il quale l’attività dell’uomo non soddisfa più le condizioni di esistenza libera e dignitosa, citate nel documento costituzionale, e diventa quindi schiavitù.

Questo confine in alcune nazioni europee è stato codificato: esso corrisponde all’incirca alla soglia economica di reddito al di sotto della quale non si può più considerare la vita dignitosa e diventa sopravvivenza.

In Svizzera, per esempio, nel 2015 fu modificata la Costituzione per introdurre questo principio, che in questo modo si allineava con la nostra, il concetto introdotto è stato in sintesi il diritto di ogni persona, non solo i cittadini, ad avere un salario minimo dignitoso che se non è garantito da un contratto collettivo di lavoro è stabilito dal Consiglio di Stato e corrisponde a una percentuale del salario mediano nazionale per mansione e settore economico interessati.

Dopo un meticoloso lavoro una commissione del Gran Consiglio ha poi stabilito un valore del salario minimo applicabile per legge in quello stato è di poco superiore ai 19 CHF all’ora, ad oggi circa 16,50 €, che corrispondono a poco più di 3.000 CHF mensili, 2.560 €.

La ragione di tutto ciò nasceva dalla una osservazione semplice, chi non guadagna abbastanza è costretto a tagliare le spese: le tasse, il cibo e la salute, in quest’ordine.

Il risultato è una società che si impoverisce, con uno stato con meno risorse a disposizione e persone in condizioni fisiche peggiori che non si curano ed aumentano le emergenze da fronteggiare con meno denaro pubblico, in una spirale perversa che tende al basso.

Anche negli USA esiste un salario minimo fissato per legge, si tratta di 7,25 dollari che però in 19 Stati è più elevato fino ai 12,5 della Columbia, ma Svizzera ed America, seppur liberali, sono al di fuori della comunità europea e fanno spesso eccezione, mentre questa volta, l’eccezione la facciamo comunque noi, dato che in Europa ben 26 stati hanno questa norma: Lussemburgo, Irlanda, Olanda, Belgio, Germania, Francia, UK, Spagna, Slovenia, Malta, Grecia, Portogallo, Turchia, Estonia, Polonia, Slovacchia, Croazia, Ungheria, Rep. Ceca, Lettonia, Lituania, Montenegro, Romania, Serbia, Bulgaria ed Albania.

Pur tutelato per legge, però, le differenze tra gli stati sono enormi ed in questa Europa incapace di organizzarsi con giustizia al suo interno, si passa, secondo i dati ufficiali di gennaio 2017, dai 1.998,59 € mensili del Lussemburgo ai 235,20 € della Bulgaria.

Curiosamente il concetto che “il lavoro nobilita l’uomo e lo rende libero” è attribuito non ad uno statista ma allo scienziato evoluzionista Darwin, che evidentemente non è riuscito a trovare l’anello di congiunzione tra l’uomo e la scimmia ma aveva capito comunque molte cose dell’umanità, in particolare la differenza tra i “nobili” ed i “dignitari” delle corti di tutto il mondo, il cui “lavoro” era sempre qualcosa di piacevole e scelto da essi stessi, e la plebe, che era costretta a fornire prestazioni di lavoro in regime di semi o totale schiavitù.

Quindi avere un lavoro libero che permettesse una vita serena rendeva quegli schiavi molto vicini a quei dignitari, “nobilitando” l’uomo che lo produceva, mentre per avere la prima definizione di lavoro come “azione che conferisce dignità all’uomo” dobbiamo aspettare il filosofo Carl Marx.

Fin qui statistica e filosofia, ma se queste sono le linee di principio e come sono applicate in alcuni stati del mondo a noi affini o vicini, quale lavoro nella nostra nazione è oggi ancora considerabile “nobile”?

Ormai le informazioni sull’eccessivo sfruttamento dei lavoratori in Italia non fanno nemmeno più notizia, quello che solo una ventina di anni fa era considerato scandaloso e fortemente osteggiato sia dalle parti sociali che dallo stato, oggi sembra essere diventato “normale”, tanto da adeguare la normativa alla situazione di sfruttamento anziché combatterla.

Ovviamente il primo riferimento è al Jobs Act, ma non solo a questo, perché le situazioni di eccessivo sfruttamento del lavoro erano comunque in atto quando sotto i riflettori vi erano solo le grandi industrie e le grandi tutele, con forse i lavoratori del settore meccanico davanti a tutti.

Nell’ombra, incapaci di organizzarsi, restavano comunque le piccole realtà, nelle quali anche solo un permesso per maternità o delle malattie prolungate potevano costare il posto di lavoro.

I luoghi dove regnava un precariato più diffuso erano, forse, il commercio e tutte le realtà con un numero esiguo di dipendenti, nelle quali oggi come ieri non è cambiato quasi nulla a livello normativo, con l’unica differenza che l’abrogazione di una norma di legge che tutelava il frazionamento aziendale in determinate condizioni anche le realtà più grandi sono state oggi polverizzate in centinaia di migliaia di piccole aziende dove le tutele, comunque esigue, hanno finito per scomparire del tutto sotto la pressione del profitto.

La norma citata è l’articolo 1 della legge 1369 del 1960 che fu abolito tramite la legge del 14 febbraio 2003 n. 30, detta anche legge Biagi dal nome del suo promotore Marco Biagi, assassinato dalle BR proprio mentre studiava la legge che, anche dietro la pressione politica a seguito del suo omicidio, fu poi approvata nel 2003 ispirandosi ad una maggior flessibilità dei contratti di lavoro.

L’articolo abrogato è talmente importante e fondamentale da valere la pena di essere riportato integralmente.

Prima di essere cancellato esso citava: “È vietato all’imprenditore di affidare in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario, qualunque sia la natura dell’opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono. È altresì vietato all’imprenditore di affidare ad intermediari, siano questi dipendenti, terzi o società anche se cooperative, lavori da eseguirsi a cottimo da prestatori di opere assunti e retribuiti da tali intermediari. È considerato appalto di mere prestazioni di lavoro ogni forma di appalto o subappalto, anche per esecuzione di opere o di servizi, ove l’appaltatore impieghi capitali, macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante, quand’anche per il loro uso venga corrisposto un compenso all’appaltante.

Leggendo la norma è immediatamente comprensibile come fin dal primo periodo sia esattamente all’opposto della situazione attuale, nella quale ormai appalti e subappalti si concatenano in modo selvaggio e sempre e solo al ribasso della mano d’opera, rendendo il lavoro schiavitù ed alle volte persino difficile definire chi sia realmente il datore di lavoro, al punto che in recenti casi di morti in cantieri edili non si è riuscito a colpire nessuno per le violazioni incredibili alla sicurezza del lavoro, finendo persino per incolpare il lavoratore morto di trovarsi “per caso” e “senza autorizzazione” in cima ad una impalcatura a costruire case…

Sembra tutto assurdo, ma è il prodotto di decenni di riforme, passate inosservate dalla popolazione, ma ben conosciute ed orchestrate dal mondo della grande imprenditoria che, con la complicità o la disattenzione del legislatore, ha compiuto poco alla volta piccoli passi nella direzione di distruggere diritti e tutele nella nostra nazione, vanificando persino il concetto costituzionale alla base della nostra società civile.

Si sentono spesso gridare dai partiti grandi proclami e slogan in difesa dell’economia, dalle destre si leva il grido “prima gli italiani”, ma nessuno ha ancora gridato “prima la costituzione”!

Prima degli italiani viene la loro dignità di stato civile, prima di tutto la Costituzione Antifascista ed i diritti in essa contenuti, non saremo mai veri e buoni italiani se prima di cercare di modificarla ancora non applicheremo finalmente in pieno la nostra Costituzione e facciamo tornare il lavoro e le sue tutele che già avevamo quella cosa che nobilita l’uomo, e lo rende libero.