
DI NELLO BALZANO
Si può contrastare un provvedimento legislativo se questo nelle previsioni dei risultati non risponde alle aspettative?
Sì è doveroso, bisogna farlo perché è nell’interesse generale, soprattutto se il tema è il futuro delle persone, ad esempio temi come lavoro, scuola, sanità, previdenza devono essere seguiti con attenzione, condivisi il più possibile con gli interessati e devono tenere conto di suggerimenti che potrebbero arrivare dalle parti sociali e dalle forze politiche di opposizione.
Entriamo nel particolare, parliamo del “Decreto Dignità“, un nome che dovrebbe richiamare ad aspettative importanti, che in effetti tocca, principalmente, contesti in questi ultimi anni spinosi, delicati e divisivi nell’ambito del lavoro, più precisamente di chi non ha ancora un’occupazione stabile, nel decreto si è cercato di costruire un sistema di protezione maggiore nei confronti di chi è assunto con un contratto a termine, quindi maggiori vincoli nei rinnovi e altri accorgimenti a tutele del dipendente.
In questo articolo non si vuole entrare nel merito di ciò che è stato deciso, ampliamente discusso in questi giorni, si vuol cercare, piuttosto, di analizzare le pesanti critiche espresse nei numeri dei contratti che non potrebbero essere rinnovati, nei conseguenti risvolti negativi verso i dati dell’occupazione che non riescono a trovare una crescita decisa, nei costi sociali che riguardano il bilancio generale per la mancata crescita, insomma numeri freddi, ma che nelle singole scomposizioni non danno un’idea del dramma vissuto da chi è colpito.
Le opposizioni in ordine sparso cercano con questi dati di motivare la loro posizione, a parte l’apprezzabile, provocazione non raccolta purtroppo dalla maggioranza parlamentare, da parte dei 13 deputati di Liberi e Uguali, di reinserire l’art. 18, gli altri non sono altro che il megafono di chi invece rappresenta l’elemento controverso del problema lavoro: gli imprenditori e gli analisti finanziari, cerchiamo quindi di approfondire, anche se non sarà semplice.
Un punto di vista alternativo, controcorrente, qualcosa che in questi ultimi anni dove sempre più spesso si sono viste pesanti penalizzazioni nei diritti dei lavoratori, da più parti considerati privilegiati e ingrati verso chi si ergeva a paladino dei loro bisogni, insomma non si è più fondamentali nel sistema impresa per produrre benessere e ricchezza.
Questo significa che l’imprenditoria italiana ha perso definitivamente ogni primato a livello mondiale, quel livello che le permetteva di non preoccuparsi di quale modalità di assunzione poteva privilegiarsi perché al primo posto c’era la qualità del lavoro garantita da personale altamente specializzato, di qualsiasi livello, non preoccupava il divieto di licenziamento o un risarcimento nel caso di un numero di dipendenti sotto i quindici, al contrario era un grande danno perdere un operaio, e spesso, pur di non perderlo, gli venivano riconosciuti aumenti di stipendio.
Insomma lo statuto dei lavoratori del 1970 che conteneva nella sua versione originale garanzie, tutele e diritti sindacali era uno strumento che aveva permesso una crescita enorme dell’economia del Paese, nonostante la pressoché inesistente presenza di materie prime, se oggi il problema è garantirsi con l’aiuto della politica maggior facilità di potersi liberare di personale con strumenti legislativi, significa che non c’è più da parte degli imprenditori la considerazione dei lavoratori quale patrimonio unico ed indispensabile per il progredire dell’attività.
Se oggi le imprese lamentano che il decreto dignità impedirà il rinnovo del 28% dei contratti a termine, a prescindere dal giudizio dei provvedimenti contenuti nel dispositivo varato dal governo, non significa che questi saranno posti che saranno cancellati, ma semplicemente cambieranno le persone, alla stessa stregua di un bene materiale, questo è ben più grave delle critiche politiche che si limitano ad enfatizzare numeri delle parti sociali imprenditoriali o istituzionali.
Un Paese che ha perso ogni prerogativa che lo poneva tra i primi nel mondo in termini di formazione, scolastica ed extrascolastica, che non ha più le potenzialità economiche di costruire una manodopera specializzata, uno vale l’altro, tutto questo significa non sfruttare, dal punto di vista positivo per ambo le parti, le potenzialità manuali ed intellettive insite in ogni persona.
Significa altresì non privilegiarsi di un ricambio generazionale, di perdere quel tramandare da un lavoratore anziano a quello più giovane una cultura lavorativa utile anche nella prevenzione degli infortuni, non è un caso che in questi ultimi anni a fronte di due milioni di lavoratori in meno rispetto all’inizio della crisi del 2008, ci siano sostanzialmente gli stessi numeri in termini di incidenti e vittime.
Tutta qui l’incapacità politica che invece di spingere verso politiche industriali serie, che generi anche una sana selezione nelle capacità di saper fare impresa, si limita a riportare le preoccupazioni, sicuramente motivate, di chi lamenta solo problemi economici, ma non riesce più a creare una competizione qualitativa della produzione materiale ed immateriale, un cane che si morde la coda, che non riesce a trovare una sintesi condivisa tra forze politiche e parti sociali, ma solo divisioni.
Se continua così non ci sarà Jobs Act o Decreto Dignità che riuscirà a risolvere i problemi strutturalmente.