LA CENA DE LE CENERI

DIALOGO QUINTO

Image8TEO. Perché non son più né altramente fisse le altre stelle al cielo, che questa stella, che è la terra, è fissa nel medesmo firmamento, che è l’aria; e non è più degno d’esser chiamato ottava sfera, dove è la coda de l’Orsa, che dove è la terra, nella quale siamo noi; perché in una medesma eterea reggione, come in un medesmo gran spacio e campo, son questi corpi distinti e con certi convenienti intervalli allontanati gli uni da gli altri; considerate la caggione, per la quale son stati giudicati sette cieli degli erranti, ed uno solo di tutti gli altri. Il vario moto, che si vedeva in sette, ed uno regolato in tutte l’altre stelle, che serbano perpetuamente la medesma equidistanza e regola, fa parer a tutte quelle convenir un moto, una fissione ed un orbe, e non esser più che otto sfere sensibili per gli luminari, che sono com’inchiodati in quelle. Or, se noi venemo a tanto lume e tal regolato senso, che conosciamo questa apparenza del moto mondano procedere dal giro de la terra, se dalla similitudine della consistenzia di questo corpo in mezzo l’aria giudichiamo la consistenza di tutti gli altri corpi, potremo prima credere, e poi demostrativamente conchiudere il contrario di quel sogno e quella fantasia, che è stato quel primo inconveniente, che ne ha generati ed è per generarne tanti altri innumerabili. Quindi accade quello errore, come a noi, che dal centro de l’orizonte, voltando gli occhi da ogni parte, possiamo giudicar la maggior e minor distanza da, tra, ed in quelle cose, che son più vicine, ma da un certo termine in oltre tutte ne parranno equalmente lontane; cossì, alle stelle del firmamento guardando, apprendiamo la differenza de’ moti e distanze d’alcuni astri più vicini, ma gli più lontani e lontanissimi ne appaiono inmobili, ed equalmente distanti e lontani, quanto alla longitudine; qualmente un arbore talvolta parrà più vicino e l’altro, perché si accosta al medesmo semidiametro; e perché sarà in quello indifferente, parrà tutt’uno: e pure con tutto ciò sarà più lontananza tra questi, che tra quelli che son giudicati molto più discosti per la differenza di semidiametri. Cossì accade che tal stella è stimata molto maggiore, che è molto minore; tale molto più lontana, che è molto più vicina. Come nella seguente figura [fig. 8], dove ad O, occhio, la stella A pare la medesma con la stella B; e, se pur si mostra distinta, gli parrà vicinissima; e la stella C, per essere in un semidiametro molto differente, parrà molto più lontana; ed in fatto è molto più vicina. Dunque, che noi non veggiamo molti moti in quelle stelle, e non si mostrino allontanarsi ed accostarsi l’une da l’altre, e l’une all’altre, non è perché non facciano cossì quelle come queste gli lor giri; atteso che non è raggione alcuna, per la quale in quelle non siano gli medesmi accidenti che in queste, per i quali medesmamente un corpo, per prendere virtù da l’altro, debba muoversi circa l’altro. E però non denno esser chiamate fisse perché veramente serbino la medesma equidistanza da noi e tra loro; ma perché il lor moto non è sensibile a noi. Questo si può veder in essempio d’una nave molto lontana, la quale, se farà un giro di trenta o di quaranta passi, non meno parrà che la stii ferma, che se non si movesse punto. Cossì, proporzionalmente, è da considerare in distanze maggiori, in corpi grandissimi e luminosissimi, de’ quali è possibile che molti altri ed innumerabili siino cossì grandi e cossì lucenti come il sole, e di vantaggio. I circoli e moti di quali molto più grandi non si veggono; onde, se in alcuni astri di quelli accade varietà d’approssimanza, non si può conoscere, se non per lunghissime osservazioni; le quali non son state cominciate, né perseguite, perché tal moto nessuno l’ha creduto, né cercato, né presupposto; e sappiamo che il principio de l’inquisizione è il sapere e conoscere, che la cosa sii, o sii possibile e conveniente, e da quello si cave profitto.

PRU. Rem acu tangis.

TEO. Or questa distinzion di corpi ne la eterea reggione l’ha conosciuta Eraclito, Democrito, Epicuro, Pitagora, Parmenide, Melisso, come ne fan manifesto que’ stracci che n’abbiamo: onde si vede, che conobbero un spacio infinito, regione infinita, selva infinita, capacità infinita di mondi innumerabili simili a questo, i quali cossì compiscono i lor circoli, come la terra il suo; e però anticamente si chiamavano ethera, cioè corridori, corrieri, ambasciadori, nuncii della magnificenza de l’unico altissimo, che con musicale armonia contemprano l’ordine della constituzion della natura, vivo specchio dell’infinita deità. Il qual nome di ethera dalla cieca ignoranza è stato tolto a questi, ed attribuito a certe quinte essenze, nelle quali, come tanti chiodi, siino inchiodate queste lucciole e lanterne. Questi corridori hanno il principio di moti intrinseco, la propria natura, la propria anima, la propria intelligenza: perché non è sufficiente il liquido e sottile aria a muovere sì dense e gran machine. Perché a far questo gli bisognarebbe virtù trattiva o impulsiva ed altre simili, che non si fanno senza contatto di dui corpi almeno, de’ quali l’uno con l’estremità sua risospinge e l’altro è risospinto. E certo tutte cose, che son mosse in questo modo, riconoscono il principio de lor moto o contra o fuor de la propria natura; dico o violento, o almeno non naturale. È dunque cosa conveniente alla commodità delle cose che sono ed a l’effetto della perfettissima causa, che questo moto sii naturale da principio interno e proprio appulso senza resistenza. Questo conviene a tutti corpi, che senza contatto sensibile di altro impellente o attraente si muoveno. Però la intendeno al rovescio quei che dicono, che la calamita tira il ferro, l’ambra la paglia, il getto la piuma, il sole l’elitropia; ma nel ferro è come un senso, il qual è svegliato da una virtù spirituale, che si diffonde dalla calamita, col quale si muove a quella, la paglia a l’ambra; e generalmente tutto quel che desidera ed ha indigenza, si muove alla cosa desiderata, e si converte in quella al suo possibile, cominciando dal voler essere nel medesmo loco. Da questo considerar, che nulla cosa si muove localmente da principio estrinseco senza contatto più vigoroso della resistenza del mobile, depende il considerare quanto sii sollenne goffaria e cosa impossibile a persuadere ad un regolato sentimento, che la luna muove l’acqui del mare, caggionando il flusso in quello, fa crescere gli umori, feconda i pesci, empie l’ostreche e produce altri effetti; atteso che quella di tutte queste cose è propriamente segno, e non causa.

Segno ed indizio, dico, perché il vedere queste cose con certe disposizioni della luna, ed altre cose contrarie e diverse con contrarie e diverse disposizioni, procede da l’ordine e corispondenza delle cose, e le leggi d’una mutazione che son conformi e corrispondenti alle leggi de l’altra.

SMI. Dall’ignoranza di questa distinzione procede, che di simili errori son pieni molti scartafazzi, che ne insegnano tante strane filosofie; dove le cose, che son segni, circonstanze ed accidenti, son chiamate cause; tra quali inezie quella è una delle reggine, che dice li raggi perpendicolari e retti esser causa di maggior caldo, e li acuti ed obliqui di maggior freddo. Il che però è accidente del sole, vera causa di ciò, quando persevera più o meno sopra la terra. Raggio reflesso e diretto, angolo acuto ed ottuso, linea perpendicolare, incidente e piana, arco maggiore e minore, aspetto tale e quale son circostanze matematiche e non cause naturali. Altro è giocare con la geometria, altro è verificare con la natura. Non son le linee e gli angoli, che fanno scaldar più o meno il fuoco, ma le vicine e distanti situazioni, lunghe e brieve dimore.

TEO. La intendete molto bene; ecco come una verità chiarisce l’altra. Or per conchiudere il proposito, questi gran corpi, se fusser mossi dall’estrinseco altrimente che come dal fine e bene desiderato, sarrebono mossi violente- ed accidentalmente; ancor che avessero quella potenza, la qual è detta non repugnante, perché il vero non repugnante è il naturale; e il naturale, o vogli o non, è principio intrinseco, il quale da per sé porta la cosa dove conviene. Altrimente l’estrinseco motore non moverrà senza fatica, o pur non sarà necessario, ma soverchio; e se vuoi che sia necessario, accusi la causa efficiente per deficiente nel suo effetto, e che occupa gli nobilissimi motori a mobili assai più indegni; come fanno quelli, che dicono l’azioni delle formiche ed aragne esserno, non da propria prudenza e artificio, ma da l’intelligenze divine non erranti che gli donano, verbigrazia, le spinte, che si chiamano istinti naturali, ed altre cose significate per voci senza sentimento. Perché, se domandate a questi savii, che cosa è quello instinto, non sapranno dir altro, che instinto, o qualche altra voce così indeterminata e sciocca, come questo instinto, che significa principio istigativo, ch’è un nome comunissimo, per non dir o un sesto senso o raggione o pur intelletto.

PRU. Nimis arduae quaestiones!

SMI. A quelli che non le vogliono intendere, ma che vogliono ostinatamente credere il falso. Ma ritorniamo a noi. Io saprei bene, che rispondere a costoro, che hanno per cosa difficile, che la terra si muova, dicendo, ch’è un corpo cossì grande, cossì spesso e cossì grave. Pure vorrei udire il vostro modo di rispondere, perché vi veggio tanto risoluto nelle raggioni.

PRU. Non talis mihi.

SMI. Perché voi siete una talpa.

TEO. Il modo di rispondere consiste in questo: che il medesmo potreste dir della luna, il sole e d’altri grandissimi corpi, e tanti innumerabili, che gli aversarii vogliono che sì velocemente circondino la terra con giri tanto smisurati. E pur hanno per gran cosa, che la terra in 24 ore si svolga circa il proprio centro, ed in un anno circa il sole. Sappi, che né la terra, né altro corpo è assolutamente grave o lieve. Nessuno corpo nel suo loco è grave né leggiero; ma queste differenze e qualità accadeno non a’ corpi principali e particolari individui perfetti dell’universo, ma convegnono alle parti, che son divise dal tutto, e che se ritrovano fuor del proprio continente, e come peregrine: queste non meno naturalmente si forzano verso il loco della conservazione, che il ferro verso la calamita; il quale va a ritrovarla non determinatamente al basso o sopra o a destra, ma ad ogni differenza locale, ovunque sia. Le parti della terra da l’aria vengono verso noi, perché qua è la lor sfera; la qual però se fusse alla parte opposita, se parterebono da noi, a quella drizzando il corso. Cossì l’acqui, cossì il fuoco. L’acqua nel suo loco non è grave, e non aggrava quelli, che son nel profondo del mare. Le braccia, il capo ed altre membra non son grievi al proprio busto; e nessuna cosa naturalmente costituita caggiona atto di violenza nel suo loco naturale. Gravità e levità non si vede attualmente in cosa, che possiede il suo loco e disposizione naturale; ma si trova nelle cose, che hanno un certo empito; col quale si forzano al loco conveniente a sé. Però è cosa assorda di chiamar corpo alcuno naturalmente grave o lieve, essendo che queste qualità non convengono a cosa che è nella sua constituzione naturale, ma fuor di quella; il che non aviene alla sfera giamai, ma qualche volta alle parti di quella, le quali però non sono determinate a certa differenza locale secondo il nostro riguardo, ma sempre si determinano al loco, dove è la propria sfera ed il centro della sua conservazione. Onde, se infra la terra si ritrovasse un’altra spezie di corpo, le parti della terra da quel loco naturalmente montarebbono; e se alcuna scintilla di foco si trovasse, per parlar secondo il comone, sopra il concavo della luna, verrebbe a basso con quella velocità, con la quale dal convesso de la terra ascende in alto. Cossì l’acqua non meno descende in sino al centro della terra, se si gli dà spacio, che dal centro della terra ascende alla superficie di quella. Parimente l’aria ad ogni differenza locale con medesma facilità si muove. Che vuol dir dunque grave e lieve? Non veggiamo noi la fiamma talvolta andar al basso ed altri lati ad accendere un corpo disposto al suo nutrimento e conservazione? Ogni cosa dunque, che è naturale, è facilissima; ogni loco e moto naturale è convenientissimo. Con quella facilità, con la quale le cose che naturalmente non si muoveno persisteno fisse nel suo loco, le altre cose che naturalmente si muoveno, marciano pe gli lor spacii. E come violentemente e contra sua natura quelle arrebono moto, cossì violentemente e contra natura queste arrebono fissione. Certo è dunque che, se alla terra naturalmente convenesse l’esser fissa, il suo moto sarrebbe violento, contra natura e difficile. Ma chi ha trovato questo? chi l’ha provato? La comone ignoranza, il difetto di senso e di raggione.

SMI. Questo ho molto ben capito, che la terra nel suo loco non è più grave che il sole nel suo, e gli membri de’ corpi principali, come le acqui, nelle sue sfere; da le quali divise, da ogni loco, sito e verso si moverrebono a quelle. Onde noi al nostro riguardo le potreimo dire non meno gravi che lieve, gravi e lieve che indifferenti: come veggiamo ne le comete ed altre accensioni, le quali dai corpi che bruggiano alle volte mandano la fiamma a’ luoghi oppositi, onde le chiamano comate; alle volte verso noi, onde le dicono barbate; alle volte da altri lati, onde le dicono caudate. L’aria, il qual è generalissimo continente, ed è il firmamento di corpi sferici, da tutte parti esce, in tutte parti entra, per tutto penetra, a tutto si diffonde; e però è vano l’argomento che costoro apportano, della raggione della fissione de la terra, per esser corpo ponderoso, denso e freddo.

TEO. Lodo Iddio, che vi veggio tanto capace, e che mi togliete tal fatica, ed avete ben compreso quel principio, col quale possete rispondere a più gagliarde persuasioni di volgari filosofi, e avete adito a molte profonde contemplazioni della natura.

SMI. Prima che venghi ad altre questioni, al presente vorrei sapere, come vogliamo noi dire che il sole è l’elemento vero del fuoco, e primo caldo, e quello è fisso in mezzo di questi corpi erranti, tra’ quali intendiamo la terra. Perché mi occorre ch’è più verisimile che questo corpo si muova, che li altri, che noi possiamo veder per esperienza del senso.

TEO. Dite la raggione.

SMI. Le parti della terra, ovonque siino o naturalmente o per violenza ritenute, non si muoveno. Cossì le parti de l’acqui fuor del mare, fiumi ed altri vivi continenti, stanno ferme. Ma le parti del foco, quando non hanno facultà di montare in alto, come quando son ritenute dalle concavità delle fornaci, si svolgeno e ruotano in tondo, e non è modo che le ritegna. Se dunque vogliamo prendere qualche argumento e fede dalle parti, il moto conviene più al sole ed elemento di foco, che alla terra.

TEO. A questo rispondo prima, che perciò si potrebe concedere, che il sole si muova circa il proprio centro, ma non già circa altro mezzo; atteso che basta, che tutti i circostanti corpi si muovano circa lui, per tanto che di esso quelli han bisogno; ed anco per quel, che forse anco lui potesse desiderar da essi. Secondo, è da considerare, che l’elemento del foco è soggetto del primo caldo e corpo cossì denso e dissimilare in parti e membri, come è la terra. Però quello che noi veggiamo muoversi di tal sorte, è aria acceso, che si chiama fiamma, come il medesmo aria alterato dal freddo della terra si chiama vapore.

SMI. E da questo mi par aver mezzo di confirmar quel che dico, perché il vapore si muove tardo e pigro, la fiamma ed esalazione velocissimamente; e però quello, che è più simile al foco, si vede molto più mobile che quello aria, ch’è simigliante più alla terra.

TEO. La caggione è, che il fuoco più si forza di fuggire da questa reggione, la quale è più connaturale al corpo di contraria qualità. Come se l’acqua o il vapore se ritrovasse nella reggione del fuoco, o loco simile a quella, con più velocità fuggirebbe che l’exalazione, la quale ha con lui certa participazione e connaturalità maggiore che contrarietà o differenza. Bastivi di tener questo, perché della intenzione del Nolano non trovo determinazione alcuna circa il moto o quiete del sole. Quel moto, dunque, che veggiamo nella fiamma, ch’è ritenuta e contenuta nelle concavità de le fornaci, procede da quel, che la virtù del foco perseguita, accende, altera e trasmuta l’aria vaporoso, del quale vuole aumentarsi e nodrirsi, e quell’altro si ritira e fugge il nemico del suo essere e la sua correzione.

SMI. Avete detto l’aria vaporoso; che direste dell’aria puro e semplice?

TEO. Quello non è più soggetto di calore, che di freddo; non è più capace e ricetto di umore, quando viene inspessato dal freddo, che di vapore ed essalazione, quando viene attenuata l’acqua dal caldo.

SMI. Essendo che nella natura non è cosa senza providenza e senza causa finale, vorrei di nuovo saper da voi (perché, per quel ch’avete detto, ciò si può perfettamente comprendere): per qual causa è il moto locale della terra?

TEO. La caggione di cotal moto è la rinovazione e rinascenza di questo corpo; il quale, secondo la medesma disposizione, non può essere perpetuo; come le cose che non possono essere perpetue secondo il numero (per parlar secondo il comune) si fanno perpetue secondo la spezie, le sustanze che non possono perpetuarsi sotto il medesmo volto, si vanno tutta via cangiando di faccia. Perché, essendo la materia e sustanza delle cose incorrottibile, e dovendo quella secondo tutte le parti esser soggetto di tutte forme, a fin che secondo tutte le parti, per quanto è capace, si fia tutto, sia tutto, se non in un medesmo tempo ed instante d’eternità, al meno in diversi tempi, in varii instanti d’eternità successiva e vicissitudinalmente; perché, quantunque tutta la materia sia capace di tutte le forme insieme, non però de tutte quelle insieme può essere capace ogni parte della materia; però a questa massa intiera, della qual consta questo globo, questo astro, non essendo conveniente la morte e la dissoluzione, ed essendo a tutta natura impossibile l’annichilazione, a tempi a tempi, con certo ordine, viene a rinovarsi, alterando, cangiando, le sue parti tutte: il che conviene che sia con certa successione, ognuna prendendo il loco de l’altre tutte; perché altrimente questi corpi, che sono dissolubili, attualmente talvolta si dissolverebbono, come avviene a noi particolari e minori animali. Ma a costoro, come crede Platone nel Timeo, e crediamo ancor noi, è stato detto dal primo principio: «Voi siete dissolubili, ma non vi dissolverete». Accade dunque, che non è parte nel centro e mezzo della stella, che non si faccia nella circonferenza e fuor di quella: non è porzione in quella extima ed esterna, che non debba tal volta farsi ed essere intima ed interna. E questo l’esperienza d’ogni giorno ne ‘l dimostra; ché nel grembo e viscere della terra altre cose s’accoglieno, ed altre cose da quelle ne si mandan fuori. E noi medesmi e le cose nostre andiamo e vegnamo, passiamo e ritorniamo, e non è cosa nostra che non si faccia aliena e non è cosa aliena che non si faccia nostra. E non è cosa della quale noi siamo, che tal volta non debba esser nostra, come non è cosa la quale è nostra, della quale non doviamo talvolta essere, se una è la materia delle cose, in un geno, se due sono le materie, in dui geni: perché ancora non determino, se la sustanza e materia, che chiamiamo spirituale, si cangia in quella che diciamo corporale e per il contrario, o veramente non. Cossì tutte cose nel suo geno hanno tutte vicissitudine di dominio e servitù, felicità ed infelicità, de quel stato che si chiama vita e quello che si chiama morte, di luce e tenebre, di bene e male. E non è cosa alla quale naturalmente convegna esser eterna, eccetto che alla sustanza, che è la materia, a cui non meno conviene essere in continua mutazione. Della sustanza soprasustanziale non parlo al presente, ma ritorno a raggionar particularmente di questo grande individuo, ch’è la nostra perpetua nutrice e madre, di cui dimandaste per qual caggione fusse il moto locale. E dico, che la causa del moto locale, tanto del tutto intiero quanto di ciascuna delle parti, è il fine della vicissitudine, non solo perché tutto si ritrove in tutti luoghi, ma ancora perché con tal mezzo tutto abbia tutte disposizioni e forme: per ciò che degnissimamente il moto locale è stato stimato principio d’ogni altra mutazione e forma; e che, tolto questo, non può essere alcun altro. Aristotele s’ha possuto accorgere della mutazione secondo le disposizioni e qualità, che sono nelle parti tutte de la terra; ma non intese quel moto locale, che è principio di quelle. Pure nel fine del primo libro della sua Meteora ha parlato come un che profetiza e divina. Ché, benché lui medesmo tal volta non s’intenda, pure in certo modo zoppigando e meschiando sempre qualche cosa del proprio errore al divino furore, dice per il più e per il principale il vero. Or apportiamo quel che lui dice, e vero e degno d’essere considerato; e poi soggiungeremo le cause di ciò, quali lui non ha possuto conoscere. «Non sempre», dice egli, «gli medesmi luoghi della terra son umidi o secchi; ma, secondo la generazione e difetto di fiumi, si cangiano. Però quel che fu ed è mare, non sempre è stato e sarà mare; quello che sarà ed è stato terra, non è, né fu sempre terra; ma, con certa vicissitudine, determinato circolo ed ordine si de’ credere, che dov’è l’uno, sarà l’altro, e dov’è l’altro sarà l’uno». E se dimandate ad Aristotele il principio e causa di ciò, risponde, che «gl’interiori de la terra, come gli corpi delle piante ed animali hanno la perfezione, e poi invecchiano. Ma è differenza tra la terra e gli altri detti corpi. Perché essi intieri in un medesmo tempo secondo tutte le parti hanno il progresso, la perfezione ed il mancamento come lui dice, il stato e la vecchiaia: ma nella terra questo accade successivamente a parte a parte, con la successione del freddo e del caldo, che caggiona l’aumento e la diminuzione, la qual séguita il sole ed il giro par cui le parti della terra acquistano complessioni e virtù diverse. Da qua i luoghi acquosi in certo tempo rimagnono, poi di novo si disseccano ed invecchiano, altri si ravvivano e secondo certe parti s’inacquano. Quindi veggiamo svanir i fonti, i fiumi or da piccioli dovenir grandi, or da grandi farsi piccioli, e secchi al fine. E da questo, che gli fiumi si cassano, proviene, che per necessaria conseguenza si tolgano i stagni e mutinsi gli mari; il che però, accadendo successivamente circa la terra a tempi lunghissimi e tardi, a gran pena la nostra e di nostri padri la vita può giudicare; atteso che più tosto cade la età e la memoria de tutte genti, ed avvengono grandissime corrozioni e mutazioni, per desolazioni e desertitudini, per guerre, per pestilenze e per diluvii, alterazioni di lingue e di scritture, trasmigrazioni e sterilità de luoghi, che possiamo ricordarci di queste cose da principio sin al fine per sì lunghi, varii e turbolentissimi secoli. Queste gran mutazioni assai ne si monstrano nelle antiquità de l’Egitto, nelle porte del Nilo; le quali tutte, tolto il Canobico esito, son fatte a opra di mano; nell’abitazioni della città di Memfi, dove i luoghi inferiori son abitati dopo i superiori; ed in Argo e Micena, de’ quali al tempo di troiani la prima reggione era paludosa, e pochissimi vivevano in quella; Micena, per esser più fertile, era molto più onorata: del che a’ tempi nostri è tutto il contrario, perché Micena è al tutto secca ed Argo è dovenuta temperata ed assai fertile.» Or come accade in questi luoghi piccioli, il medesmo doviamo pensar circa grandi e reggioni intiere. Però come veggiamo che molti loghi, che prima erano acquosi, ora son continenti, cossì a molti altri è sopravenuto il mare. Le quali mutazioni veggiamo farsi a poco a poco, come le già dette, e come ne fan vedere le corrosioni de monti altissimi e lontanissimi dal mare, che quasi fusser freschi mostrano gli vestigii dell’onde impetuose. E ne costa dall’istorie di Felice Martire Nolano, quale dechiarano al tempo suo, che è stato poco più o meno di mill’anni passati, era il mare vicino alle mura della città, dove è un tempio, che ritiene il nome di Porto, onde al presente è discosto dodeci milia passi. Non si vede il medesmo in tutta la Provenza? Tutte le pietre, che son sparse per gli campi, non mostrano un tempo esser state agitate da l’onde? La temperie della Francia parvi che dal tempo di Cesare al nostro sia cangiata poco? Allora in loco alcuno non era atta alle viti; ed ora manda vini cossì deliziosi come altre parti del mondo, e da’ settentrionalissimi terreni di quella si raccoglieno gli frutti de le vigne. E questo anno ancora ho mangiate de l’uve de gli orti di Londra, non già cossì perfette come de’ peggiori di Francia, ma pur tale quali affermano mai esserne prodotte simili in terra inglesa. Da questo dunque, che il mare Mediterraneo, lasciando più secca e calda la Francia e le parti de l’Italia, quali io con li miei occhi ho viste, va inchinando verso la Libia, séguita che, venendosi più e più a scaldarsi l’Italia e la Francia e temprarsi la Britannia, doviamo giudicare che generalmente si mutano gli abiti de le reggioni, con questo che la disposizion fredda si va disminuendo verso l’Artico polo. Dimandate ad Aristotele: onde questo avviene? Risponde: dal sole e dal moto circolare. Non tanto confusa- ed oscuramente, quanto ancora da lui divina- ed alta- e verissimamente detto. Ma come? forse come da un filosofo? Non: ma più presto come da un divinatore, o pur da uno che intendeva e non ardiva de dire, forse come colui che vede e non crede a quel che vede, e se pur il crede, dubita d’affirmarlo, temendo che alcuno non venghi a constringerlo di apportar quella raggione, la qual non ha. Referisce, ma in modo col quale chiuda la bocca a chi volesse oltre sapere; o forse è modo di parlar tolto dagli antichi filosofi. Dice dunque, che il caldo, il freddo, l’arido, l’umido crescono e mancano sopra tutte le parti della terra, ne la quale ogni cosa ha la rinovazione, consistenza, vecchiaia e diminuzione; e volendo apportar la causa di questo, dice: propter solem et circumlationem. Or perché non dice: propter solis circulationem? Perché era determinato appresso lui, e conceduto appo tutti filosofi di suoi tempi e di suo umore, che il sole con il suo moto non possea caggionar questa diversità; perché, in quanto che l’ecliptica declina dall’Equinoziale, il sole eternamente versava tra i doi punti Tropici; e però esser impossibile d’esser scaldata altra parte di terra, ma eternamente le zone ed i climi essere in medesma disposizione. Perché non disse: per circolazione d’altri pianeti? Perché era determinato già, che tutti quelli (se pur alcuni per qualche poco non trapassano) si muoveno sol per quanto è la latitudine del zodiaco detto trito camino degli erranti. Perché non disse: per circolazione del primo mobile? Perché non conosceva altro moto, che il diurno ed era a’ suoi tempi un poco de suspizione d’un moto di retardazione, simile a quello di pianeti. Perché non disse: per la circolazion del cielo? Perché non possea dire, come e quale ella potesse essere. Perché non disse: per la circolazion de la terra? Perché avea quasi come un principio supposto, che la terra è inmobile. Perché dunque lo disse? Forzato da la verità, la quale per gli effetti naturali si fa udire. Resta dunque, che sia dal sole e dal moto. Dal sole, dico, perché lui è quell’unico che diffonde e comunica la virtù vitale; dal moto ancora, perché, se non si movesse o lui agli altri corpi o gli altri corpi a lui, come potrebbe ricevere quel che non ha, o donar quel ch’ha? È dunque necessario, che sia il moto, e questo di tal sorte che non sia parziale, ma con quella raggione con cui causa la rinovazione di certe parti, venga ad apportarla a quell’altre, che, come sono di medesma condizione e natura, hanno la medesima potenza passiva, alla quale, se la natura non è ingiuriosa, deve corrispondere la potenza attiva. Ma con ciò troviamo molto minor raggione, per la quale il sole e tutta l’università de le stelle s’abbino a muovere circa questo globo, che esso per il contrario debba voltarsi a l’aspetto dell’universo facendo il circolo annuale circa il sole, e diversamente con certe regolate successioni per tutti i lati svolgersi ed inchinarsi a quello, come a vivo elemento del fuoco. Non è ragione alcuna, che, senza un certo fine ed occasione urgente, gli astri innumerabili, che son tanti mondi, anco maggiori che questo, abbino sì violenta relazione a questo unico. Non è raggione, che ne faccia dir più tosto trepidar il polo, nutar l’asse del mondo, cespitar gli cardini de l’universo, e sì innumerabili, più grandi e più magnifici globi, ch’esser possono, scuotersi, svoltarsi, ritorcersi, rappezzarsi, e, al dispetto de la natura, squartarsi in tanto, che la terra cossì malamente, come possono dimostrare i sottili optici e geometri, venghi ad ottener il mezzo, come quel corpo che solo è grave e freddo; il qual però non si può provar dissimile a qualsivoglia altro, che riluce nel firmamento, tanto nella sustanza e materia, quanto nel modo della situazione: perché, se questo corpo può esser vagheggiato da questo aria, nel quale è fisso, e quelli possono parimente esser vagheggiati da quello, che le circonda; se quelli da per se stessi, come da propria anima e natura possono, dividendo l’aria, circuire qualche mezzo, e questo niente meno.

SMI. Vi priego, questo punto al presente si presuppona, sì perché, quanto a me, tengo per cosa certissima, che più tosto la terra necessariamente si muova, che sii possibile quella intavolatura ed inchiodatura di lampe; sì anco, perché, quanto a quelli che non l’han capito, è più espediente dechiararlo come materia principale, che in altro proposito toccarlo per modo di digressione. Però, se volete compiacermi, venite presto a specificarme i moti, che convegnono a questo globo.

TEO. Molto volentieri; perché questa digressione ne arebbe fatto troppo differire di conchiudere quel che io volevo della necessità ed il fatto de tutte le parti de la terra, che successivamente devono participar tutti gli aspetti e relazioni del sole, facendosi soggetto di tutte complessioni ed abiti.

Or dunque, per questo fine è cosa conveniente e necessaria, che il moto de la terra sia tale, per quale con certa vicissitudine, dove è il mare, sia il continente, e per il contrario; dove è il caldo, sii il freddo, e per il contrario; dove è l’abitabile e più temprato, sia il meno abitabile e temprato, e per il contrario; in conclusione, ciascuna parte venghi ad aver ogni risguardo, c’hanno tutte l’altre parti al sole: a fin che ogni parte venghi a participar ogni vita, ogni generazione, ogni felicità. Prima, dunque, per la sua vita e delle cose che in quella si contengono, e dar come una respirazione ed inspirazione col diurno caldo e freddo, luce e tenebre, in spacio di vintiquattro ore equali la terra si muove circa il proprio centro, esponendo al suo possibile il dorso tutto al sole. Secondo, per la regenerazione delle cose, che nel suo dorso vivono e si dissolveno, con il centro suo circuisce il lucido corpo del sole in trecento sessantacinque giorni ed un quadrante in circa; ove da quattro punti della ecliptica fa la crida della generazione, dell’adolescenzia, della consistenzia e della declinazione di sue cose. Terzo, per la rinovazione di secoli participa un altro moto, per il quale quella relazione, c’ha questo emisfero superiore della terra a l’universo, venga ad ottener l’emisfero inferiore, e quello succeda a quella del superiore. Quarto, per la mutazione di volti e complessioni della terra, necessariamente gli conviene un altro moto, per il quale l’abitudine, ch’ha questo vertice de la terra verso il punto circa l’Artico, si cangia con l’abitudine, ch’ha quell’altro verso l’opposito punto de l’Antartico polo. Il primo moto si misura da un punto de l’equinoziale della terra; sin che torna o al medesmo, o circa il medesmo. Il secondo moto si misura da un punto imaginario de l’ecliptica (ch’è la via della terra circa il sole), sin che ritorna al medesmo, o circa quello. Il terzo moto si misura da la abitudine, ch’ha una linea emisferica della terra, che vale per l’orizonte, con le sue differenze a l’universo, sin che torni la medesima linea, o proporzionale a quella, alla medesma abitudine. Il quarto moto si misura per il progresso d’un punto polare de la terra, che, per il dritto di qualche meridiano passando per l’altro polo, si converta al medesmo, o circa il medesmo aspetto, dove era prima. E circa questo è da considerare, che, quantunque diciamo esser quattro moti, nulla di meno tutti concorreno in un moto composto. Considerate che di questi quattro moti il primo si prende da quel, che in un giorno naturale par che circa la terra ogni cosa si muova sopra i poli del mondo, come dicono. Il secondo si prende da quel che appare, ch’il sole in un anno circuisce il zodiaco tutto, facendo ogni giorno, secondo Tolomeo nella terza dizione de l’Almagesto, cinquanta nove minuti, 8 secondi, 17 terzi, 13 quarti, 12 quinti, 31 sesti; secondo Alfonso, cinquanta nove minuti, 8 secondi, 11 terzi, 37 quarti, 19 quinti, 13 sesti, 56 settimi; secondo Copernico, cinquanta nove minuti, 8 secondi, 11 terzi. Il terzo moto si prende da quel, che par che l’ottava sfera, secondo l’ordine de’ segni, a l’incontro del moto diurno, sopra i poli del zodiaco si muove sì tardi, che in ducento anni non si muove più ch’un grado e 28 minuti; di modo che in quaranta nove milia anni vien a compir il circolo: il principio del qual moto attribuiscono ad una nona sfera. Il quarto moto si prende dalla trepidazione, accesso e recesso, che dicono far l’ottava sfera, sopra dui circoli equali, che fingono nella concavità della nona sfera, sopra i principii dell’Ariete e Libra del suo zodiaco; si prende da quel, che veggono esser necessario, che l’ecliptica dell’ottava sfera non sempre s’intenda intersecare l’equinoziale ne’ medesmi punti, ma tal volta essere nel capo d’Ariete, talvolta oltre quello da l’una e l’altra parte dell’ecliptica; da quel, che veggono, le grandissime declinazioni del zodiaco non esser sempre medesme; onde necessariamente séguita, che gli equinozii e solstizii continuamente si variino, come effettualmente è stato da molto tempo visto. Considerate, che, quantunque diciamo quattro essere questi moti, nulla di meno da notar, che tutti concorreno in un composto. Secondo, che, benché le chiamiamo circulari, nullo però di quelli è veramente circulare. Terzo, che, benché molti si siino affaticati di trovar la vera regola de tai moti, l’han fatto, e quei che s’affaticaranno, lo faranno invano; perché nessuno di que’ moti è a fatto regolare e capace di lima geometrica. Son dunque quattro, e non denno esser più né meno moti (voglio dir differenze di mutazion locale nella terra), de’ quali l’uno irregolare necessariamente rende gli altri irregolari, i quali voglio che si discrivano nel moto di una palla che è gittata nell’aria.

Image9Quella prima col centro si muove da A in B [fig. 9]. Secondo, intra tanto che con il centro si muove da alto a basso, o da basso in alto, si svolge circa il proprio centro, movendo il punto I al loco del punto K ed il punto K al loco del punto I. Terzo, tornando a poco a poco, ed avanzando di camino e velocità di giro, over perdendo e scemando (come accade alla palla che, montando in alto da quel che prima si moveva più velocemente, poi si muove più tardi ed il contrario fa ritornando al basso, e in mediocre proporzione nelle mezze distanze, per le quali ascende e descende) a quella abitudine che tiene questa metà della circonferenza, che è notata per 1, 2, 3, 4, promoverrà quell’altra metà la quale è 5, 6, 7, 8. Quarto, perché questa conversione non è retta, atteso che non è come d’una ruota, che corre con l’impeto d’un circolo, in cui consista il momento della gravità; ma si va obliquando, perché è di un globo, il quale facilmente può inchinarsi a tutte parti, però il punto I e K non sempre si converteno per la medesma rettitudine; onde è necessario, che o a lungo o a breve, o ad interrotto o a continuo andare si dovenghi a tanto, che si adempisca quel moto, per il quale il punto O si faccia dove è il punto V, e per il contrario. Di questi moti uno, che non sii regolato, è sufficiente a far che nessuno de gli altri sia regolato; uno ignoto fa tutti gli altri ignoti. Tuttavolta hanno un certo ordine, con il quale più e meno s’accostano ed allontanano dalla regolarità. Onde in queste differenze di moti il più regolato, che è più vicino al regolatissimo, è quello del centro. Appresso a questo è quello circa il centro per diametro, più veloce. Terzo è quello, che con la regolarità del secondo (quale consiste nell’avanzar di velocità e tardità) a mano a mano muta l’intiero aspetto dell’emisfero. L’ultimo, irregolatissimo ed incertissimo, è quello che cangia i lati; perché talvolta, in loco d’andar avanti, torna a dietro, e con grandissima inconstanzia viene al fine a cangiar la sedia d’un punto opposito con la sedia d’un altro. Similmente la terra: prima ha il moto del suo centro, che è annuale, più regolato che tutti, e più che gli altri simile a se stesso; secondo, men regolato, è il diurno; terzo, l’irregolato, chiamiamo l’emisferico; quarto, irregolatissimo, è il polare over colurale.

SMI. Questi moti vorrei sapere, con qual ordine e regola il Nolano ne farà comprendere.

PRU. Ecquis erit modus? Novis usque semper indigebimus theoriis?

TEO. Non dubitate, Prudenzio, perché del bon vecchio non vi si guastarà nulla. A voi, Smitho, mandarò quel dialogo del Nolano, che si chiama Purgatorio de l’inferno; e ivi vedrai il frutto della redenzione. Voi, Frulla, tenete secreti i nostri discorsi, e fate che non venghino a l’orecchie di quelli ch’abbiamo rimorduti, a fin che non s’adirino contra di noi e venghino e donarne nove occasioni, per farsi trattar peggio e ricever meglio castigo. Voi, maestro Prudenzio, fate la conclusione ed una epilogazione morale solamente del nostro tetralogo; perché l’occasione specolativa, tolta dalla cena de le ceneri, è già conclusa.

PRU. Io ti scongiuro, Nolano, per la speranza ch’hai nell’altissima ed infinita unità, che t’avviva e adori; per gli eminenti numi, che ti protegeno e che onori; per il divino tuo genio, che ti defende e in cui ti fidi, che vogli guardarti di vile, ignobili, barbare e indegne conversazioni; a fin che non contrai per sorte tal rabbia e tanta ritrosia, che dovenghi forse come un satirico Momo tra gli dèi, e come un misantropo Timon tra gli uomini. Rimanti tra tanto appo l’illustrissimo e generosissimo animo del signor di Mauvissiero (sotto l’auspicii del quale cominci a publicar tanto sollenne filosofia), che forse verrà qualche sufficientissimo mezzo, per cui gli astri e’ potentissimi superi ti guidaranno a termine tale, onde da lungi possi riguardar simil brutaglia. E voi altri, assai nobili personaggi, siete scongiurati per il scettro del fulgorante Giove, per la civilità famosa di Priamidi, per la magnanimità del senato e popolo Quirino, e per il nettareo convito che sopra l’Etiopia bugliente fan gli Dei, che, se per sorte un’altra volta avviene che il Nolano, per farvi servizio o piacere o favore, venghi a pernottar in vostre case, facciate di modo, che da voi sii difeso da simili rancontri; e dovendo per l’oscuro cielo ritornar a la sua stanza, se non lo volete far accompagnar con cinquanta o cento torchi, i quali, ancor che debba marciar di mezo giorno, non gli mancaranno, se gli avverrà di morir in terra catolica romana, fatelo al meno accompagnar con un di quelli; o pur, se questo vi parrà troppo, improntategli una lanterna con un candelotto di sevo dentro; a fin ch’abbiamo faconda materia di parlar della sua buona venuta da vostre case, della qual non si è parlato ora.

Adiuro vos, o dottori Nundinio e Torquato, per il pasto de gli antropofagi, per la pila del cinico Anaxarco, per gli smisurati serpenti di Laocoonte e per la tremebonda piaga di san Rocco, che richiamate, se fusse nel profondo abisso, e dovesse essere nel giorno del giudizio, quel rustico ed incivile vostro pedagogo che vi dié creanza, e quell’altro archiasino ed ignorante che v’insegnò di disputare; a fin che vi risaldano le male spese e l’interesse del tempo e cervello, che v’han fatto perdere. Adiuro vos, barcaroli londrioti, che con gli vostri remi battete l’onde del Tamesi superbo, per l’onor d’Eveno e Tiberino, per quali son nomati dui famosi fiumi, e per la celebrata e spaciosa sepoltura di Palinuro, che per nostri danari ne guidate al porto. E voi altri, Trasoni salvatici e fieri mavorzii del popolo villano, siete scongiurati per le carezze che ferno le Strimonie ad Orfeo, per l’ultimo servizio che ferno i cavalli a Diomede ed al fratel di Semele e per la virtù del sassifico brocchier di Cefeo, che, quando vedete ed incontrate i forastieri e viandanti, se non volete astenervi da que’ visi torvi ed erinnici, al meno l’astinenza da quegli urti vi sii raccomandata. Torno a scongiurarvi tutti insieme, altri per il scudo ed asta di Minerva, altri per la generosa prole del Troiano cavallo, altri per la veneranda barba d’Esculapio, altri per il tridente di Nettuno, altri per i baci che dierno le cavalle a Glauco, ch’un’altra volta con meglior dialogi ne facciate far notomia di fatti vostri, o almen tacere.

IL FINE DELLA CENA DELLE CENERI