IN QUALE GIRONE INFERNALE SI E’ SMARRITA L’ECONOMIA TEDESCA?

DI VIRGINIA MURRU

 

Che l’economia tedesca non vada più al ritmo della marcia di Radetzky non è notizia di oggi, considerati i dati statistici diffusi da un anno e mezzo a questa parte.  Alle ragioni di carattere interno si sono aggiunte le ‘correnti globali’, delle quali risente al pari di altri Paesi;  la sferzata proveniente dall’emergenza coronavirus non ha contribuito a riportare il Pil tedesco ai valori ai quali ci aveva abituati.

L’ultimo bollettino di questa guerra in sordina che si combatte in Germania nel versante economico riguarda un dato importante, l’indice Zew, che riflette il clima di fiducia degli investitori nel Paese. Secondo il dato diffuso ieri, l’indice è crollato a 8,7 punti nel corrente mese, mentre a gennaio era a 26,7.

Non uno shift di poco conto. Gli analisti si attendevano un calo meno drastico, intorno ai 21 punti, e in definitiva sono segnali che mettono in rilievo le difficoltà della ripresa,  più in particolare, al momento, le preoccupazioni per la diffusione del coronavirus e il suo impatto nel commercio a livello globale. Secondo alcuni analisti, Italia e Germania sarebbero i paesi più esposti alle conseguenze dell’emergenza coronavirus.

Ma le ragioni di questa persistenza nella crisi, per la Germania vengono soprattutto da altri versanti. E’ in primo luogo un dato di fatto che sia  uno storico partner commerciale degli Stati Uniti. In questa logica certamente la politica dei dazi portata avanti dall’Amministrazione Trump non è stata un incentivo per l’export, e qui c’è una delle cause che hanno condotto il complesso meccanismo della produzione industriale della locomotiva d’Europa ad una flessione sempre più critica.

Non stupisce dato che la metà del Pil tedesco dipende dalle esportazioni, e la contrazione notevole registrata da oltre un anno a questa parte, ha fatto pure fibrillare il mercato interno. Lo ammette anche la Bundesbank nelle sue analisi: ‘è il perdurare di questa insidia nell’export che ha avuto un riflesso pesante nella produzione industriale e nella domanda interna’. Ma com’è arrivata la Germania, nel volgere di pochi anni, a diventare, da ‘Anfitrione’ dell’economia europea, quasi a   battere cassa, o comunque a scivolare in un terreno limaccioso d’incertezze dal quale non riesce a smuovere le ruote robuste della locomotiva?

La Germania che solo fino a pochi anni fa sembrava una roccaforte eretta sull’acciaio, talmente solida da trovare un riparo ad ogni intemperia, sta mostrando cedimenti preoccupanti. Un’economia che appariva davvero blindata, con scudi invulnerabili praticamente in ogni settore, dimostra adesso evidenti segni di arresa. Anche nel settore finanziario, che comunque i maggiori istituti di credito tedeschi hanno messo a dura prova da oltre una decina d’anni. E basterebbe citare in quest’area franosa Deutsche Bank e Commerzbank, i due gioielli della finanza teutonica, giganti che hanno messo in mostra in tante circostanze i loro piedi d’argilla.

L’Economia della Germania, da più di un anno ormai, dimostra che nei confronti della crisi non ha difese a prova di scasso, le vulnerabilità ci sono, le falle si sono aperte soprattutto nel versante della produzione industriale e dell’export. Eppure sono trascorsi solo pochi anni da quando Bruxelles bacchettava i tedeschi sulla questione ‘surplus commerciale’. Ma tant’è: le spire urticanti della crisi hanno le sembianze di un enigma non facile da sbrogliare, neppure per tutti gli analisti ed economisti che cercano di tirare le somme da una impasse che si presenta come un intrico di fattori e cause in apparenza indipendenti, che comunque hanno non di rado seguito percorsi e sviluppi autonomi (basta pensare alle due maggiori banche tedesche, che sono arrivate sull’orlo del default quando l’economia del Paese viaggiava a gonfie vele).

Dopo un decennio di crescita quasi ininterrotto la Germania si è fermata, e da Paese guida dell’area euro è diventato la controfigura di questo ruolo.

“Scampando di strettissima misura alla recessione tecnica nel terzo trimestre del 2019, continua a registrare risultati negativi in termini di crescita, con la minaccia di una contrazione economica dovuta in primis alla fragilità del settore manifatturiero, che si riflette poi nei consumi e nei servizi”. Lo scriveva a gennaio il Financial Times, osservando inoltre che il Pil lo scorso anno ha messo in rilievo il più basso ‘rate’ in termini di crescita degli ultimi sei anni, certamente per ragioni riconducibili a fenomeni globali, debolezza nell’export e persistenza di crisi nelle vendite riguardanti l’industria dell’automotive. Il Pil è cresciuto in termini tendenziali dello 0,6%, secondo i dati pubblicati dall’Istituto di Statistiche tedesco, e si è pertanto attestato come valore più basso dal 2013.

Un decennio di grande espansione sta aprendo il passaggio dunque ad un periodo di stagnazione economica, e la causa prima è proprio da ricercare nelle tensioni commerciali tra le due superpotenze, ossia Usa e Cina. Neppure la Brexit che incombe sta dando una mano alla crescita dell’economia tedesca, insieme ai sopraggiunti problemi di carattere strutturale, che dovranno essere affrontati con determinazione per superare il tunnel nel quale si è inoltrata la locomotiva d’Europa.

I fondamentali hanno piedi d’acciaio in Germania, non d’argilla, e la resilienza a questo stress in settori chiave potrebbe essere affrontata in maniera ben più efficiente che in altri Paesi dell’Ue, Italia in primis. Eppure questa ripartenza stenta a riscaldare i motori, e anzi, nonostante le misure di politica economica intraprese dal Governo per bypassarne i sintomi poco rassicuranti, non si riparte con decisione e con lo sprint che ci si aspetterebbe da un gigante così potente.

La globalizzazione e i suoi condizionamenti non sono un fenomeno dal quale ci si può facilmente schermire, di certo questa è la realtà del terzo millennio. Nessun paese nel mondo può erigere barriere tali da impedire che le ‘correnti’, quand’anche si chiudessero le porte, possano entrare dalle finestre. Da oltre un trentennio l’economia dei singoli Stati fa i conti con questo assioma, e più sono potenti e solidi, più sono esposti, dato che in definitiva l’export è vitale.

Lo hanno capito molto bene gli Usa, che tentano di erigere muri (non solo materiali) attraverso misure di politica economica, con l’inasprimento dei dazi e un protezionismo che per i nostri tempi suona come anacronistico: la globalizzazione non è suscettibile di grandi cambiamenti, e indietro non si torna, è la legge del progresso.

La scorsa primavera si facevano  i conti in tasca ad alcuni dati macro dell’economia tedesca, alla fine del 2019 si analizzavano i dati rilasciati dall’Istituto di Statistica, dai quali emergeva che, nel 2018 il Governo aveva ottenuto due risultati importanti, ossia un surplus di bilancio pari all’1,7% del Pil (circa 58 miliardi di euro, il più elevato degli ultimi 30 anni) e un surplus delle partite correnti al 7,3%, più o meno vicino ai massimi raggiunti nel 2016.

Non sono numeri fini a se stessi, poiché dimostrano in spiccioli che il complesso industriale e finanziario tedesco è il maggiore esportatore di merci e capitali a livello globale, e non è uno scherzo precedere colossi come la Cina e il suo export, così come gli Usa.

Ci si chiede se ci sia qualche paese in Europa che esulti per questa débacle della Germania e il clima di austerity nei settori chiave della sua economia. Il FMI ha provato a mettere in discussione l’operato del Governo che non ha ancora espresso formule efficaci per affrontare la tempesta. In uno degli ultimi report infatti ipotizza un reimpiego del surplus di bilancio tedesco in un programma d’investimenti pubblici, quale antidoto al clima di stagnazione.

Suggerimenti sono arrivati anche dalle conclusioni della Commissione europea, tramite il Commissario agli Affari Economici e Monetari, ma soprattutto dall’implacabile Jens Weidmann, Governatore della Bundesbank. Il surplus commerciale avrebbe potuto essere il salvagente di un’economia che stenta a riprendere il passo, la dimostrazione che in fondo la forza e la potenza delle risorse esiste, bisognerebbe solo trovare il modo di rimettere nei binari la locomotiva che ha in qualche modo deragliato. Il surplus, secondo un’analisi pubblicata qualche mese fa da Il Sole 24 Ore, è stato finora protetto ‘egregiamente grazie all’impalcatura normativa blindata dell’ex ministro Schauble, che impone il pareggio di bilancio a livello costituzionale, con il noto “Schwarze Null”.’

Sempre secondo questa analisi articolata, nonostante il basso tasso di disoccupazione e la stabilità economica di una decina d’anni, tenuti saldi dalle performance dell’export, il surplus commerciale in Germania ha creato anche conseguenze negative.

A subirne il peso è stata la spesa per gli investimenti, sia nel versante pubblico che privato. Dopo il piano di grandi investimenti seguito alla riunificazione delle ‘due Germanie’ negli anni novanta, si è verificato in questo settore della politica economica un ristagno, ed è invece emersa la tendenza al risparmio. “Sembrerebbe che la Germania, per quel che riguarda gli investimenti, viva di rendita sul piano infrastrutturale dal passato,  e non investa abbastanza per il rinnovamento e la manutenzione. Investono poco anche le imprese, e si adagiano sul trend dei loro profitti, restituendo perfino meno dividendi.” Critica espressa dall’autorevole osservatorio della Bundesbank.

E’ venuto meno il ruolo guida dell’economia tedesca in ambito Ue ed europeo in generale. La Germania che bacchettava i Paesi meno virtuosi dell’Unione, che esigeva la quadratura dei conti pubblici secondo i parametri fissati dai Trattati – quello di Maastricht in particolare – che assaltava con critiche fredde e implacabili la politica economica e di bilancio italiani, dov’è finita?

Possibile che sia ostaggio dello ‘shark’ americano, che controlla il traffico delle merci nelle sue frontiere, e va avanti a colpi di ‘America first’, incurante di tutto, al di là di tutto?

Non è stato  d’aiuto in questa red line sicuramente il WTO (Il World Trade Organization), che ha autorizzato gli Usa ad imporre tariffe doganali nei confronti di diversi prodotti europei. Decisione proprio in favore del protezionismo più cinico.

La Germania fa i conti con la crisi del settore industriale e manifatturiero, le cui performance non sono quelle di alcuni anni fa, perché ordinativi ed export sono  in calo, così come il livello di fiducia di consumatori e imprese, nonché l’indice Pmi manifatturiero (che è sempre stato il migliore della zona euro, solo una volta quello italiano lo ha superato).

In questa graticola ci sono anche gli istituti di credito, ma su questo versante non ci sono grandi novità, dato che il Governo tedesco ha contribuito al salvataggio e alla ripresa anche dei più grandi, in periodi di vacche grasse per l’economia, realtà che ha sempre creato perplessità negli ambienti economici e finanziari.

Non sembra la panacea per tutti i mali il cosiddetto Piano Green varato dal Governo, e così gli esponenti politici più critici verso la politica monetaria che aveva portato avanti  Mario Draghi, in questo momento non hanno nulla da obiettare nei confronti di Christine Lagarde, che ha da sempre approvato l’accomodamento monetario, quale mezzo di sostegno per l’economia dell’Eurozona.

Non potrebbero del resto permetterselo negli ambienti finanziari tedeschi, con la Deutsche Bank (e Commerzbank nella stessa barca) che ancora stenta a stare a galla, e ora alle prese con le conseguenze della politica protezionistica degli Usa, che ha fortemente colpito la più grande potenza d’Europa.

Ormai anche Lufthansa, uno dei fiori all’occhiello dell’economia teutonica, simbolo di efficienza e stabilità, con i suoi quasi 130 mila dipendenti, dimostra vulnerabilità non indifferenti, e conti che deragliano.

Saranno la solidità delle risorse di questo Stato, le sue potenzialità, a portarla fuori da questo giro infernale, nel quale comunque, nonostante la sua indiscutibile forza, si è smarrita.

Non è certo che i ‘rattoppi’ riporteranno il giusto livello di ossigeno all’economia tedesca, riforme strutturali e investimenti saranno strategie indispensabili per ripartire.

 

 

 

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