CGIA MESTRE: SULLE PMI UN CARICO FISCALE DOPPIO RISPETTO ALLE MULTINAZIONALI

DI VIRGINIA MURRU

 

Era già noto che sulle piccole e medie imprese gravasse un carico fiscale rilevante, che non di rado schiaccia soprattutto quelle che hanno un esiguo giro d’affari, blocca iniziative che potrebbero allargare gli orizzonti degli investimenti e dunque favorire il tasso di occupazione.

Nell’altro versante ci sono le multinazionali, le quali, secondo i dati dell’Ufficio studi della CGIA di Mestre, versano all’erario quasi la metà rispetto alle tartassate piccole e medie imprese italiane. Da questi studi è emerso che le Pmi hanno un carico fiscale complessivo pari al 59,1% dei profitti; i colossi del web presenti nel nostro paese (le controllate di questi multinazionali), hanno un tax rate del 33,1%, ossia viene esatto il doppio proprio dalle imprese che hanno stretti margini di utili.

La differenza è stridente, si potrebbe dire. Si tratta di percentuali che fanno riferimento al 2018, ma da allora non ci sono stati miglioramenti di rilievo. Il coordinatore dell’Ufficio Studi CGIA, Paolo Zebeo, precisa che i dati sono stati estrapolati da fonti diverse, e pertanto non sarebbero comparabili sul versante scientifico.

“Tuttavia – sostiene – è verosimile ritenere che sulle piccole imprese il carico fiscale sia quasi doppio rispetto a quello che si impone alle multinazionali.” Il gap sul piano fiscale è quindi di questa portata. “Un’ingiustizia che grida vendetta” – aggiunge – non solo perché sui giganti dell’eCommerce il carico è più agevole, ma anche perché sulle piccole e medie imprese di casa nostra il gravame di tasse e contributi è tra i più elevati in Europa”.

Tra i paesi dell’Eurozona, infatti, secondo i dati rilevati dalla Banca Mondiale, solo la Francia presenta una situazione peggiore di quella italiana, per quel che concerne il carico fiscale subito dalle Pmi (si è accertato il 60,7% sui ricavi). La media dell’area euro (ossia dei 19 Paesi che ne fanno parte) però si attesta al 42,8%, il che significa che c’è una differenza con l’Italia di oltre 16 punti percentuali.

Questi studi hanno tenuto conto di multinazionali come Amazon, Alphbet, Apple, Booking, ADP, Microsoft, Oracle, Otto, e diverse altre che operano in territorio italiano.

Google di recente ha versato al Fisco 306 milioni all’Agenzia delle Entrate per saldare i conti sulle tasse non versate,  riguardanti il periodo 2002/2015. La Guardia di Finanza ha messo al muro con le sue indagini tanti dei colossi del web che operano in Italia, la cui tendenza è stata quella di evadere allegramente il Fisco. Tra il 2009/2014 Amazon risulta che abbia evaso 130 mln di euro, e non è la sola. Tutto questo mentre alcuni di questi giganti dichiarano utili in crescita di oltre il 40%.

Un po’ a ritroso nel tempo, ma non poi tanto, c’è il contenzioso riguardante Apple con l’Agenzia delle Entrate. Nel 2015, Apple ha chiuso il contenzioso con il Fisco, versando 318 milioni di euro, su una base di contestazione che aveva stabilito i mancati versamenti Ires in 880 mln di euro (in 5 anni).

E ci sono anche gli accertamenti dell’Antitrust europeo, che ogni tanto agisce contro i benefici fiscali illegali delle Aziende che le tentano tutte, per dirla con un luogo comune fanno proprio carte false, pur di aggirare gli obblighi fiscali. Solo pochi anni fa, proprio l’Antitrust europeo stabilì che il gruppo Mac aveva beneficiato in Irlanda di ben 13 miliardi di euro in termini di benefici fiscali, ovviamente illegali, e secondo la normativa Ue al riguardo, sono riconducibili ad illeciti aiuti di Stato, e pertanto da restituire.

In quella circostanza Dublino tentò di dribblare sostenendo che le autorità irlandesi avessero firmato accordi fiscali attraverso la cosiddetta procedura del ‘tax ruling’ (considerata legale), ovvero a regola d’arte per sfuggire le eventuali contestazioni dell’Ue. Il tax ruling è una pratica che va a vantaggio delle multinazionali, si tratta infatti di chiarire in anticipo il trattamento relativo alle questioni fiscali internazionali. Sono in definitiva ‘lettere d’intenti’ emesse da un Paese  (che a sua volta tenta di aggirare le norme dell’Autorità sovranazionale..) e volte a rendere nota  a queste grandi aziende la procedura con la quale un’imposta sarà calcolata. Secondo il ‘tax ruling’, la multinazionale, naturalmente, sceglierà la destinazione dell’imponibile che risulti più conveniente. Come dire ‘fatta la legge e trovato l’inganno’.

La Guardia di Finanza, scoprì alcuni anni fa nella sede milanese di Credit Suisse, dopo un’indagine, che la banca aveva evaso 14 miliardi di euro, la vicenda si era chiusa con il pagamento di circa 100 milioni di euro in termini di sanzioni al Fisco italiano. Più o meno quello che è accaduto per UBS, il più grande istituto di credito svizzero. Entrambe hanno patteggiato, e sono cadute su un tappeto alquanto soft.

Ci si chiede, tanto per rientrare nelle affermazioni sacrosante del coordinatore dell’Ufficio Studi CGIE, Paolo Zebeo, per quale ragione l’Agenzia delle Entrate dimostri indulgenza ad oltranza sulle multinazionali operanti in Italia, e l’imposizione risulti quasi il doppio per le piccole e medie imprese del Paese. Inutile dire quanto questo trattamento fiscale sia penalizzante, la maggior parte sono costrette a sopravvivere.

Il Segretario della CGIA, Renato Mason è piuttosto perplesso, e sostiene: “se con la manovra abbiamo scongiurato l’aumento dell’Iva, entro l’anno in corso dovremo trovare le risorse affinché nel 2021 l’Iva e le accise sui carburanti non aumentino.”

Si dovranno reperire risorse importanti, ossia oltre 20 miliardi di euro, slalom non semplice per il Governo, ma di fatto un vincolo al quale sarà difficile sottrarsi, condizione che non risulta essere un buon presupposto per alleggerire la pressione  fiscale, strategia che invece porterebbe le Pmi a respirare meglio e a pianificare in maniera più solida il futuro. Stesso discorso vale per il cuneo fiscale a carico delle famiglie, dalle quali dipendono i consumi, ossia una ruota dell’ingranaggio macroeconomico di rilevante importanza per l’economia del Paese.

 

MEF. MIGLIORA IL FABBISOGNO NEL 2019: -2.800 MLN RISPETTO AL 2018

DI VIRGINIA MURRU

 

Il fabbisogno del settore statale si chiude a dicembre 2019, in via provvisoria, secondo il comunicato stampa del Mef, con un avanzo di 9.700 milioni, ossia in diminuzione rispetto a dicembre 2018, che si chiuse a 12.506 milioni di euro (cala così di 2.800 milioni).

Il fabbisogno del settore statale relativo al 2019 è di 41.780 milioni, dunque in miglioramento rispetto ai 45.218 milioni dello stesso periodo lo scorso anno.

Le ragioni del miglioramento, lo rende noto il Mef, sono dovute al fatto che il saldo ha beneficiato di maggiori incassi fiscali, i cui proventi riguardano la seconda e ultima rata del 2019 della definizione agevolata delle cartelle esattoriali – così come previsto dal D.L. 119 del 2018, la cosiddetta Rottamazione ter – e le entrate derivanti dalle aste delle quote di CO2.  

 Per quel che riguarda la spesa, in rilievo la ricapitalizzazione della società AMCO (ex SGA), spiega il Mef, per mille milioni; il prestito destinato ad Alitalia, 400 milioni, e ulteriori prelievi dagli Enti territoriali.

In diminuzione risulta la spesa per interessi sui titoli di Stato, di circa 250 mln. Nel 2019, il fabbisogno annuale del settore statale nel 2019, in generale ha potuto beneficiare di superiori incassi fiscali e contributivi, maggiori utili e dividendi, rispetto al 2018 versati dalla Banca d’Italia e Cassa Depositi e Prestiti, nonché maggiori accrediti dall’Unione Europea ai Fondi di rotazione.

Sul versante delle spese si rileva nell’anno in corso (2019) un aumento dei prelievi dai conti di tesoreria relativi agli Enti previdenziali ed Enti territoriali, oltre ad un incremento della quota di partecipazione dell’Italia al Bilancio comunitario.

In diminuzione risulta la spesa per interessi sui titoli di Stato, con una diminuzione intorno agli 800 mln, rispetto al 2018.

 

COMINCIA OGGI LA MARATONA DEI SALDI

DI VIRGINIA MURRU

 

Dal 2 gennaio parte il programma dei saldi invernali 2020, non è previsto un vero e proprio assalto ai negozi, specie quelli di abbigliamento, ma un po’ ovunque nella penisola si ripeterà il rito degli acquisti a prezzi scontati, ovvero la caccia alle occasioni di fine stagione.

Secondo il calendario  parte per prima la Sicilia, che ha fissato le vendite con gli sconti a cominciare dalla data odierna; per sabato 4 gennaio il via ai saldi riguarderà Lombardia, Toscana, Liguria e Marche. Il 5 gennaio Emilia Romagna e Umbria, e a seguire le altre regioni.

Secondo Confcommercio, nel 2019 il giro d’affari riguardante le vendite con i saldi è stato intorno ai 5 miliardi di euro, con una spesa pro capite di circa 140 euro. Per l’anno in corso non ci sono previsioni ottimistiche, si stima anzi una contrazione notevole delle vendite, con 4 italiani su dieci interessati agli acquisti di articoli scontati. Sono previsti importi di spesa più elevati (pro capite) rispetto allo scorso anno, ma si valuta che ci sarà anche una flessione del 10% in termini di volume di vendite.

I dati di previsione sulle vendite sono diversi per Federconsumatori, che vede un andamento più positivo, mentre Codacons non è sulla stessa linea di valutazione, e stima una flessione quando la ‘rassegna’ dei saldi terminerà, dopo circa due mesi.

Secondo il parere degli esperti che monitorano queste performance nel commercio, a tirare il freno a mano sui saldi di fine stagione, a partire da gennaio, sarebbero le varie iniziative di eCommerce tra novembre e dicembre, con il lancio dei cosiddetti ‘Black Friday’, volutamente fissati nel periodo precedente il Natale, in modo tale che una quota notevole di spesa destinata agli acquisti  relativi a questa importante ricorrenza sia orientata in tale direzione, con proposte allettanti per gli acquirenti del web.

Le vendite online hanno maggiori probabilità di raggiungere i consumatori, per ovvie ragioni, perché gli acquisti in primis si possono effettuare comodamente viaggiando in rete, è possibile fare confronti con maggiore facilità, e dunque scegliere secondo il criterio della migliore opportunità, semplicemente attraverso una carta di credito.

I commercianti che attendono la stagione dei saldi per un recupero delle vendite, hanno già protestato sulle mani lunghe del ‘Black-Friday’, e vorrebbero posticipare il periodo dei saldi, nonché  ridurne  la durata. Secondo Carlo Rienzi (presidente Codacons), i saldi si dovrebbero addirittura abolire, concedendo ai commercianti iniziative più libere nel praticare sconti sui prodotti nel corso dell’anno.  Intanto, secondo l’Associazione, gli italiani disposti a fare shopping a partire da questo mese con la convenienza dei saldi, saranno il 40%.

Secondo il presidente della Federazione Moda Italia-Confcommercio, la stagione quest’anno partirà con il presupposto dei saldi sostenibili, dato che gli acquisti presso commercianti che operano in prossimità della propria abitazione, e nei pressi dei centri storici, risultano essere ‘più ecologici’: meglio dunque che affidarsi a ciò che offre la rete online. La procedura di reso, infatti, qualora la circostanza ricorresse, è più semplice, e in ogni caso si ha la possibilità di misurare il capo di vestiario che s’intende acquistare, mentre per ovvie ragioni non è possibile per gli acquisti online.

La maratona dei saldi  terminerà tra metà febbraio-primi di marzo, anche se non in tutte le regioni, in alcune potrebbe andare avanti fino alla fine di marzo.