PER L’ITALIA LA FINE DEL QE SARA’ UNA CATASTROFE?

DI VIRGINIA MURRU

 

Il programma di acquisto di titoli governativi di quasi tutti i paesi dell’area euro è giunto al suo capolinea: dal primo di gennaio 2019, il ‘protocollo di cura’ è stato chiuso.

Missione compiuta? Non propriamente, nell’area persistono ancora difficoltà, legate non solo al basso tasso d’inflazione. In alcuni Stati, i conti con la crisi economica non sono ancora chiusi. Per dirla alla ‘Merkel’: in Eurozona si viaggia a due velocità, ed è anche per questo che l’Eurotower ha deciso di lasciare i tassi invariati.

L’Europa, dopo essere stata investita e quasi travolta dalla grande crisi economica del 2008, per la Bce è stata un “paziente” non facile da trattare. La terapia intensiva, ossia l’acquisto di asset tramite le Banche Centrali, è durato più del previsto, perché le conseguenze contorte della crisi sul sistema – che ha presentato problemi di deflazione e d’instabilità dei prezzi – hanno richiesto accomodamenti di politica monetaria necessari a sollevare e sostenere i consumi negli Stati coinvolti nei negativi rivolgimenti economici e finanziari.

In un tweet del presidente della Bce, Mario Draghi, del 13 dicembre scorso, si leggeva: “Il Qe fa parte dei nostri strumenti d’intervento monetario, il nostro Consiglio Direttivo ha previsto che debba essere usato in casi di crisi o  di contingenza di carattere economico, lo abbiamo sempre tenuto presente, e ora è stato ritenuto legittimo  dall’ECJ (European Court of Justice).

Draghi si riferiva certamente al verdetto della Corte europea di Giustizia, che l’11 dicembre scorso, sanciva, in risposta ad un rinvio pregiudiziale della Corte Costituzionale tedesca di Karlsruhe  – alla quale si erano appellati diversi soggetti privati della Germania, contro la politica di accomodamento seguita dalla Bce – la legittimità del Qe quale strumento d’intervento della Bce da adottare in casi di emergenza economica. La vertenza ha dunque dato ragione alla Banca Centrale e alla sua politica monetaria, dopo un’annosa polemica che ha spesso contrapposto  le opinioni di Jens Weidmann, governatore della Bundesbank, a quelle del presidente Mario Draghi.

Weidmann del resto non ha mai fatto mistero della sua ostilità nei confronti della politica monetaria seguita dall’Eurotower, la quale è spesso stata oggetto di dibattito all’interno del Consiglio Direttivo, e di aspri dibattiti pubblici, argomento che i media hanno ampiamente trattato.

La Corte di Giustizia ha anche precisato che l’Ue ha competenza esclusiva nell’ambito della politica monetaria concernente gli Stati membri facenti parte dell’Eurozona.

Il Programma è stato attivo dal 4 marzo 2015, fino al 31 dicembre dell’anno che si è appena concluso. ll fine era quello di tenere un tasso d’inflazione inferiore ma prossimo al 2%, supportando così le condizioni finanziarie, sia delle imprese che delle famiglie, sostenendo nel contempo i consumi globali e le spese per investimenti in area euro. La convinzione della Bce era che l’acquisto di titoli del debito pubblico doveva rendere più agevole l’accesso ai finanziamenti e al credito, e pertanto favorire l’espansione economica. Un altro obiettivo era quello di tenere bassi i tassi d’interesse reali, incoraggiando gli Istituti di credito a rendere più disponibile il credito.

La Banca centrale negli anni scorsi ha attuato i suoi interventi attraverso l’acquisto di asset, ossia titoli del debito pubblico dei paesi dell’Eurozona per centinaia di miliardi di euro, su mercati secondari. Tale ‘procedura’, secondo la Corte, non ha violato il divieto di finanziamento monetario stabilito dai Trattati, e, di conseguenza, non agisce contro il mandato della Bce. Viene meno pertanto l’accusa mossa dai vari gruppi di soggetti privati tedeschi – che hanno fatto ricorso tramite la loro Corte costituzionale – cioè l’”ultra vires”, ovvero un modo di operare che eccede i poteri della Bce, attraverso il supposto finanziamento monetario del debito degli Stati membri,  in violazione del divieto prescritto dal Trattato Ue.

 La fine degli acquisti netti di attività è stata annunciata da tempo, ma la politica monetaria accomodante non è finita con l’acquisto di asset, lo ha ribadito Draghi in diverse circostanze e anche il 13 dicembre 2018, nel corso della conferenza stampa. La linea di politica monetaria, tramite il complesso delle indicazioni che fornisce agli operatori economici, investitori, mercati (ossia la forward guidance), resterà accomodante. L’Eurotower continuerà a reinvestire il capitale rimborsato dei titoli in scadenza acquistati tramite l’Asset purchase programme (APP), che si aggira sui 2.500 mld.

L’espressione immancabile, nei rendiconti di ogni conferenza stampa, che segue la riunione del Consiglio Direttivo della Bce, “or beyond if necessary”, prosegue sulla via dell’accomodamento, poiché gli obiettivi, nonostante i segnali di crescita registrati negli ultimi tre anni nell’area euro, non sono stati pienamente raggiunti. Il programma di reinvestimento del capitale rimborsato dei titoli in scadenza proseguirà anche dopo l’avvio del rialzo dei tassi, o, appunto, “beyond if necessary” (anche oltre qualora necessario..). Per ora fino all’estate 2019, poi, ‘strada facendo’, si vedrà.

Certamente la fase di ‘adattamento’ ad una ‘normale’ politica monetaria, non sarà semplice, negli Usa gli accomodamenti monetari sono finiti nel 2016, e la Fed ha poi dato inizio ad un ciclo di rialzo dei tassi d’interesse. Difficile presentire ogni passo del piano strategico della Bce, certamente il processo di normalizzazione sarà lento e graduale per i Paesi dell’area euro, i tassi saranno comunque fermi, come già anticipato da Draghi, fino alla prossima estate. Tra qualche mese, tuttavia, è possibile che scompaiano i tassi d’interesse negativi sulle emissioni di titoli pubblici, e gli investimenti in questo ambito diventeranno così remunerativi.

E’ stato proprio questo aspetto il più discusso dagli ‘avversari’ della politica monetaria avviata da Draghi. L’assenza di remunerazione del rischio è stata per anni messa in discussione, poiché la logica vuole che il rischio sia adeguatamente ricompensato con rendimenti più congrui. I rendimenti positivi andranno  pertanto in favore di un’allocazione del risparmio verso gli investimenti più sicuri e remunerativi. In questo senso il Qe ha penalizzato gli investitori.

Tra i riflessi indiretti prodotti dalla politica di acquisto di titoli da parte della Banca centrale, c’è quello relativo alla ‘stretta’ dello spread. Il processo esercitato dal Qe ha compresso il differenziale di rendimento tra i decennali  Btp e Bund. Indiretto, si diceva, proprio perché il reale obiettivo della Bce era quello di controllare il livello dei prezzi di beni e servizi, con cali prolungati, e agire in contrasto verso la tendenza alla deflazione, le cui conseguenze a catena causano effetti deleteri sull’economia di un Paese o un’area, deprimendo la crescita, abbassando il livello dei consumi e alzando il tasso di disoccupazione.  L’obiettivo è stato raggiunto in questo versante dalla Bce, dato che il tasso d’inflazione ha raggiunto il target desiderato, tenendosi poco sotto il 2%.

Certamente, per quel che concerne la congiuntura italiana, si può dire che interventi sistemici, quali il Qe, funzionano, se si considera che, nel 2015, lo spread oscillava intorno ai 360 punti base, mentre negli anni successivi si è gradatamente abbassato, fino ad andare poco oltre i 100 punti base (a febbraio 2018 era sui 130 punti base). Attraverso le dinamiche della politica monetaria espansiva, di fatto è stata bloccata la speculazione sui titoli di Stato italiani, sui quali si erano scatenati ‘i corvi’ nei mercati tra il 2011/2012, portando il Paese nel baratro della recessione.

Ora, nonostante le politiche di reinvestimento dei capitali promessa dalla Bce, ogni Stato dell’Eurozona affronterà senza scudi le sfide dei mercati, e la fiducia degli investitori dipenderà dalla politica economica credibile che i rispettivi governi saranno in grado di realizzare.

Secondo l’analisi di tanti economisti, per l’economia italiana, la fine del ‘bazooka’ di Draghi, innescherebbe una serie di effetti negativi a catena, tali da provocare un vero e proprio fenomeno recessivo. Ci sono invece analisti ed operatori economici che non sono della stessa opinione, tra questi Ken Fisher, Presidente di Fisher Investments Europe e Presidente Esecutivo di Fischer Investments Twitter.

Secondo una sua analisi pubblicata sul Sole 24 Ore, la fine del Qe non potrà che portare benefici all’Italia e al suo mercato azionario. Questo l’assioma di Fisher:

“Man mano che il Qe giungerà al termine e le curve dei rendimenti diventeranno più ripide, l’aumento dei prestiti costituirà uno stimolo per l’Italia”.

Ma sarà poi così scontato, considerando tutte le turbolenze che hanno attraversato in lungo e in largo l’economia italiana, nel volgere di quasi un anno? Non è detto, anzi.. ma vediamo quali sono le ipotesi formulate da Fisher.

Secondo l’opinione comune il Qe avrebbe un effetto stimolante perché tende a contrarre i tassi d’interesse a lungo termine, favorendo così anche l’accesso al credito. Il motivo sarebbe semplice: il fine della Bce è proprio quello di sommergere le banche “di denaro a basso costo”.  In questo modo s’innesca un processo che dà impulso all’inflazione, e mette in moto la crescita. Nei fatti – sempre secondo Fisher – avviene il contrario.

“Mentre la Bce acquista titoli i tassi d’interesse a lungo termine scendono, e intanto i tassi d’interesse a breve termine restano fissi, poco sotto lo 0. In questo modo il divario tra tassi a lungo e a breve termine si riducono, rendendo piatta la curva dei rendimenti. Tale meccanismo produce per logica un riflesso di contrazione e deflazione.  Secondo le teorie economiche di oltre un secolo, i dati avrebbero dimostrato che le curve di rendimenti ripide sono in grado di stimolare una crescita maggiore, rispetto a quelle piatte.”

Fisher avvalora le sue tesi secondo i risultati ottenuti negli Usa e nel Regno Unito, i quali hanno dimostrato che la fine del programma di acquisti di asset aiuta la crescita. Per quanto riguarda il RU, il Qe era in vigore dal 2009 al 2012, gli effetti non sono stati positivi in quanto si è verificato l’appiattimento della curva dei rendimenti,  una riduzione della massa monetaria e contrazione dei prestiti.  Le conseguenze: una recessione.  A conclusione della politica monetaria espansiva, il livello dei prestiti è aumentato, il Pil se n’è avvantaggiato, c’è stato un incremento degli investimenti da parte delle imprese. Con buona pace dei mercati azionari. Situazione più o meno analoga negli States.

 Dovrebbe – in teoria – secondo questa ‘scuola di pensiero’, avvenire così anche per l’Italia, ma il nostro Paese fa storia a sé, e questi risultati potrebbero non essere un fenomeno pressoché automatico.

Dunque non è detto che in Italia le curve dei rendimenti diventino più ripide, e che i profitti delle banche migliorino, così come quelli dei mercati azionari. Non è neppure scontato che le medie imprese italiane abbiano più accesso ai capitali, e che la crescita sia una pura conseguenza.

“E più italiani felici e benestanti” – conclude Fisher, ma la svolta per questo Paese è ancora un’incognita legata alle dinamiche di una legge di Bilancio che basa lo sviluppo sul debito, senza garanzie di coperture. Insomma ancora troppa foschia nel futuro dell’economia, con enigmi da risolvere e incertezze che i mercati ancora tengono strette come nodi.