Vita nova

Indice

capitolo contenuto poesia
proemio Incipit vita nova
I Primo incontro con Beatrice (a nove anni)
II Secondo incontro con Beatrice (a 18 anni) e primo saluto di Beatrice
III Innamoramento di dante – La meravigliosa visione (1) sonetto I
A ciascun’alma presa e gentil core
IV dante cerca di celare agli altri il suo amore – Effetti dell’innamoramento – segreto serbato da Dante
V La donna dello schermo: amore finto, prima difesa
VI Sirventese sulle 60 donne più belle di Firenze (nono posto per Beatrice)
VII Lamentanza per la partenza della donna dello schermo sonetto II
O voi che per via d’Amor passate
VIII Pianto di Dante per la morte di una “donna giovane di gentile aspetto” amica di Beatrice sonetto III
Piangete, amanti, poi che piange Amore
sonetto IV
Morte villana, di pietà nemica
IX Viaggio di Dante e seconda visione: apparizione di Amore nelle vesti d’un viandante e pensiero d’un’altra difesa sonetto V
Cavalcando l’altr’ier per un cammino
X La seconda donna dello schermo
Beatrice nega il saluto a Dante
XI Natura ed effetti del saluto di Beatrice:
a) la speranza del saluto (induce nell’animo di Dante sentimenti di pace e carità
b) la vicinanza del saluto: lo commuove tanto da togliergli la facoltà della vista
c) l’atto del saluto: ha tanta efficacia da togliergli il dominio del corpo
XII 3° visione: Amore, giovane vestito di bianco, col quale parla del saluto di Beatrice – Dante pensa di riconciliarsi con Beatrice ballata 1
Ballata, i’ vo’ che tu ritrovi Amore
XIII La signoria d’Amore: quattro pensieri:
a) come bene
b) come male
c) come dolcezza
d) la donna amata non è come le altre donne
sonetto VI
Tutti li miei pensier parlan d’amore
XIV Insieme a un amico vede Beatrice insieme a molte donne, riunite per un matrimonio: Trafigurazione di Dante davanti a Beatrice sonetto VII
Con l’altre donne mia vista gabbate
XV Ragioni delle reazioni di Dante di fronte alla visione di Beatrice – Desideri e timori di vedere Beatrice sonetto VIII
Ciò, che m’incontra ne la mente, more
XVI Effetti della vista di Beatrice: 4 movimenti dell’animo:
1 – dolore provato al ricordo degli affanni amorosi;
2 – permanere del pensiero della sua donna;
3 – dimenticare gli effetti della vista di lei;
4 – tremito doloroso che lo prende dinanzi a Beatrice
sonetto IX
Spesse fïate vegnonmi a la mente
XVII Proponimento di ripigliare materia nova e più nobile
XVIII Ragionamenti tra Dante e le donne sulla natura e sul fine del suo amore per Beatrice
– il tema della loda
XIX Dante canta alle donne il suo amore per Beatrice, che può essere compreso solo da coloro che provano amore e hanno il cuore gentile – Dante loda Beatrice canzone I
Donne, ch’ avete intelletto d’amore
XX La natura dell’Amore: aspirazione dell’anima determinata dalla vista della donna amata sonetto X
Amore e ‘l cor gentil sono una cosa
XXI Beatrice suscita amore in Dante; effetti della visione della donna su altre persone sonetto XI
Ne li occhi porta la mia donna Amore
XXII La morte di Folco Portinari, padre di Beatrice: il pianto di Beatrice e Dante sonetto XII
Voi, che portate la sembianza umíle
sonetto XIII
Se’ tu colui c’ hai trattato sovente
XXIII Dante malato per nove giorni: presentimento della morte di Beatrice –
Dolore di Dante che viene consolato dalla sorella e da altre donne che non sanno l’origine del suo dolore
qyarta visione
canzone II
Donna pietosa e di novella etate
XXIV Dante lieto per il presentimento di una nuova apparizione di Beatrice
– quinta visione: incontro di Dante con Giovanna Primavera e Beatrice
sonetto XIV
Io mi sentí’ svegliar dentro lo core
XXV La figura di Amore come sentimento e personaggio: digressione sulle personificazioni e sul parlare figurato
XXVI Effetti di Beatrice sugli uomini e sulle donne in generale sonetto XV
Tanto gentile e tanto onesta pare
sonetto XVI
Vede perfettamente onne salute
XXVII Effetti di Beatrice su Dante stanza
Sí lungiamente m’ ha tenuto Amore
XXVIII La morte di Beatrice
XXIX Spiegazione del numero 9: sua presenza nella data della morte di Beatrice (17-6-1290)
XXX Epistola di Dante sugli effetti su Firenze della morte di Beatrice
XXXI Stato d’animo di Dante per la morte di Beatrice canzone III
Li occhi dolenti per pietà del core
XXXII Un amico (forse Manetto fratello di Beatrice) chiede a Dante versi per la morte della gentilissima donna sonetto XVII
Venite a ‘ntender li sospiri miei
XXXIII Dolore di Dante e di Manetto (?) per la morte di Beatrice canzone IV
Quantunque volte, lasso! mi rimembra
XXXIV Dante commemora il primo anniversario della morte di Beatrice (dipingendo) sonetto XVIII
Era venuta ne la mente mia
XXXV Dante e la prima apparizione della gentile donna di piacevole aspetto sonetto XIX
Videro li occhi miei quanta pietate
XXXVI Inclinazione di Dante per la donna gentile che gli ricorda Beatrice sonetto XX
Color d’amore e di pietà sembianti
XXXVII Lotta in Dante tra due affetti: per Beatrice e per la donna gentile, ed è vinto da quest’ultimo sonetto XXI
«L’amaro lagrimar che voi faceste»
XXXVIII Pregi della donna gentile: gentilezza e saviezza: lotta tra il nuovo affetto e il vecchio nell’animo di Dante che attribuisce al cuore i pensieri per la donna gentile e alla ragione i pensieri per Beatrice sonetto XXII
Gentil pensero, che parla di vui
XXXIX Dante ritorna al culto di Beatrice; sesta visione: si pente dell’amore per la donna gentile e ritorna all’amore per Beatrice sonetto XXIII
Lasso! per forza di molti sospiri
XL Il culto della Veronica e passaggio dei peregrini ai quali Dante vorrebbe raccontare di Beatrice sonetto XXIV
Deh peregrini, che pensosi andate
XLI Settima visione: aspirazione di Dante al cielo – Non sempre l’intelletto riesce a capire per difetto di fantasia sonetto XXV
Oltre la spera, che più larga gira
XLII Visione ottava – Proposito di dire di Beatrice quello che mai fu detto di altra donna

 

Vita Nuova

 

Proemio

In quella parte del libro de la mia memoria, dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice: INCIPIT VITA NOVA. Sotto la qual’ io trovo scritte le parole le quali è mio intendimento d’assemprare in questo libello; e se non tutte, almeno la loro sentenzia.

I

Nove fiate già, appresso lo mio nascimento, era tornato lo cielo de la luce quasi a uno medesimo punto quanto a la sua propria girazione, quando a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la qual fu da molti chiamata Beatrice, li quali non sapeano che si chiamare.
Ell’ era in questa vita già stata tanto, che nel suo tempo lo cielo stellato era mosso verso la parte d’oriente de le dodici parti l’una d’un grado: sí che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, ed io la vidi quasi da la fine del mio nono.
Apparve vestita di nobilissimo colore, umile ed onesto sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima età si convenia. In quel punto dico veramente che lo spirito de la vita, lo qual dimora ne la secretissima camera del mi’ cuore, cominciò a tremar sí fortemente, che apparia ne li menimi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole: Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur mihi. In quel punto lo spirito animale, lo qual dimora ne l’alta camera, ne la quale tutti li spiriti sensitivi portano le loro percezioni, si cominciò a maravigliar molto, e, parlando spezialmente a li spiriti del viso, sí disse queste parole: Apparuit jam beatitudo vestra. In quel punto lo spirito naturale, lo qual dimora in quella parte, ove si ministra ‘l nudrimento nostro, cominciò a piangere, e piangendo disse queste parole: Heu miser! quia frequenter impeditus ero deinceps.
D’allora innanzi dico che Amore segnoreggiò la mia anima, la qual fu a lui sí tosto disponsata, e cominciò a prendere sopra me tanta sicurtade e tanta signoria per la virtù che li dava la mia imaginazione, che mi convenìa fare tutti li suoi piaceri compiutamente. E’ mi comandava molte volte ch’ io cercasse per vedere questa angiola giovanissima, onde io ne la mia puerizia molte fiate l’andai cercando; e vedeala di sí nobili e laudabili portamenti, che certo di lei si potea dire quella parola del poeta Omero: Ella non parea figliuola d’uom mortale, ma di dio. E avvegna che la sua imagine, la qual continuatamente meco stava, fosse baldanza d’Amore a segnoreggiare me, tuttavia era di sí nobilissima vertú, che neun’ ora sofferse ch’ Amore mi reggesse sanza ‘l fedele consiglio de la ragione in quelle cose, là ove cotale consiglio fosse utile a udire. E però che soprastare a le passioni e atti di tanta gioventudine pare alcuno parlare fabuloso, mi partirò da esse; e, trapassando molte cose le quali si potrebbero trarre da l’ esemplo onde nascono queste, verrò a quelle parole le quali sono scritte ne la mia memoria sotto maggiori paragrafi.

II

Poi che furono passati tanti dí, che appunto eran compiuti li nove anni appresso l’apparimento soprascritto di questa gentilissima, ne l’ ultimo di questi dí avvenne che questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo, in mezzo a due gentili donne, le quali erano di più lunga età; e, passando per una via, volse gli occhi verso quella parte ov’io era molto pauroso; e per la sua ineffabile cortesia, la quale è oggi meritata nel grande secolo, mi salutò molto virtuosamente, tanto che mi parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine.
L’ ora che ‘l su’ dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona di quel giorno; e però che quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire a’ miei orecchi, presi tanta dolcezza, che come inebriato mi partío da le genti, e ricorsi al solingo luogo d’una mia camera, e puosimi a pensare di questa cortesissima.

III

E pensando di lei, mi sopraggiunse uno soave sonno, ne lo quale m’apparve una maravigliosa visione: ché mi parea vedere ne la mia camera una nebula di colore di fuoco, dentro a la quale i’ discernea una figura d’uno segnore di pauroso aspetto a chi la guardasse; e pareami con tanta letizia, quanto a sé, che mirabile cosa era; e ne le sue parole dicea molte cose, le quali non intendea se non poche; tra le quali intendea queste: Ego dominus tuus. Ne le sue braccia mi parea vedere una persona dormir nuda, salvo che involta mi parea in un drappo sanguigno leggeramente; la qual guardando molto intentivamente, conobbi ch’ era la donna de la salute, la quale m’ avea lo giorno dinanzi degnato di salutare. E ne l’ una de le sue mani mi parea che questi tenesse una cosa, la quale ardesse tutta; e pareami che mi dicesse queste parole: Vide cor tuum. E quando elli era stato alquanto, pareami che disvegliasse questa che dormía; e tanto si sforzava per suo ingegno, che le facea mangiare questa cosa che ‘n mano li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente. Appresso ciò poco dimorava che la sua letizia si convertía in amarissimo pianto: e così piangendo, si ricogliea questa donna ne le sue braccia, e con essa mi parea che sí ne gisse verso lo cielo; ond’ io sostenea sí grande angoscia, che ‘l mio deboletto sonno non poteo sostenere anzi si ruppe, e fui isvegliato. E mantenente cominciai a pensare; e trovai che l’ora ne la quale m’era questa visione apparita, era la quarta de la notte stata; sí che appare manifestamente ch’ella fue la prima ora de le nove ultime ore de la notte.
Pensando io a ciò che m’era apparuto, propuosi di farlo sentire a molti li quali erano famosi trovatori in quello tempo; e con ciò fosse cosa che io avesse già veduto per me medesimo l’arte del dire parole per rima, propuosi di fare un sonetto, ne lo quale io salutasse tutti li fedeli d’Amore, e, pregandoli che giudicassero la mia visione, scrissi a loro ciò che io avea nel mio sonno veduto. E cominciai allora questo sonetto:

[Sonetto I]

 

A ciascun’alma presa e gentil core
nel cui cospetto ven lo dir presente,
in ciò che mi rescriva in su’ parvente,
salute in lor segnor, ciò è Amore.
Già eran quasi che atterzate l’ore
del tempo che onne stella n’è lucente,
quando m’apparve Amor subitamente,
cui essenza membrar mi dà orrore.
Allegro mi sembrava Amor tenendo
meo core in mano, e ne le bracci’ avea
madonna, involta ‘n un drappo dormendo;
poi la svegliava, d’esto core ardendo
lei paventosa umilmente pascea:
appresso gir lo ne vedea piangendo.

 

Questo sonetto si divide in due parti; ché ne la prima parte saluto e domando risponsione, ne la seconda significo a che si dee rispondere. La seconda parte comincia quivi: Già eran [v. 5].
A questo sonetto fue risposto da molti e di diverse sentenzie, tra li quali fue risponditore quelli, cu’ io chiamo primo de li miei amici; e disse allora un sonetto, lo quale comincia: Vedeste, al mio parere onne valore. E questo fue quasi lo principio de l’amistà tra lui e me, quando elli seppe ch’ io era quelli che li avea ciò mandato. Lo verace giudicio del detto sogno non fue veduto allora per alcuno, ma ora è manifestissimo a li più semplici.

IV

Da questa visione innanzi cominciò lo mio spirito naturale ad essere impedito ne la sua operazione, però che l’anima era tutta data nel pensare di questa gentilissima; ond’ io divenni in picciolo tempo poi di sí fraile e debole condizione, che a molti amici pesava de la mia vista; e molti pieni d’invidia già si procacciavano di sapere di me quello che io volea del tutto celare ad altrui. Ed io, accorgendomi del malvagio domandare che mi faceano, per volontà d’Amore, lo qual mi comandava secondo ‘l consiglio de la ragione, rispondea loro, che Amore era quelli che così m’avea governato: dicea d’Amore, però ch’ i’ portava nel viso tante de le sue insegne, che questo non si poría ricovrire. E quando mi domandavano: «per cui t’ ha cosí distrutto questo amore?» ed io sorridendo li guardava, e nulla dicea loro.

V

Uno giorno avvenne che questa gentilissima sedea in parte, ove s’udiano parole de la reina de la gloria, ed io era in luogo, dal quale vedea la mia beatitudine: e nel mezzo di lei e di me, per la retta linea sedea una gentile donna di molto piacevole aspetto, la quale mi mirava spesse volte, maravigliandosi del mio sguardare, che parea che sopra lei terminasse; onde molti s’accorsero del suo mirare. Ed in tanto vi fue posto mente, che, partendomi di questo luogo, mi sentio dicere appresso di me: «Vedi come cotale donna distrugge la persona di costui»; e nominandola, intesi che dicea di colei, ch’ era stata nel mezzo de la ritta linea la qual movea da la gentilissima Beatrice e terminava ne gli occhi miei. Allora mi confortai molto, assicurandomi che ‘l mio secreto non era comunicato, il giorno, altrui per mia vista. E mantenente pensai di fare di questa gentile donna schermo de la veritade; e tanto ne mostrai in poco di tempo, che il mio segreto fu creduto sapere da le più persone che di me ragionavano. Con questa donna mi celai alquanti anni e mesi; e per più fare credente altrui, feci per lei certe cosette per rima, le quali non è mio intendimento di scriverle qui, se non in quanto facesse a trattare di quella gentilissima Beatrice; e però le lascerò tutte, salvo che alcuna cosa ne scriverò che pare che sia loda di lei.

VI

Dico che in questo tempo, che questa donna era schermo di tanto amore, quanto da la mia parte, sí mi venne una volonta di volere ricordare il nome di quella gentilissima e d’ accompagnarlo di molti nomi di donne, e specialmente del nome di questa gentile donna. E presi li nomi di sessanta le più belle donne de la cittade dove la mia donna fue posta da l’altissimo sire, compuosi una pistola sotto forma di serventese, la quale io non scriverò: e non n’ avrei fatto menzione, se non per dire quello, che componendola, maravigliosamente addivenne, ciò è che in alcuno altro numero non sofferse lo nome de la mia donna stare se non in sul nove, tra li nomi di queste donne.

VII

La donna, co la quale io avea tanto tempo celata la mia volontade, convenne che si partisse de la sopradetta cittade e andasse in paese molto lontano: per che io, quasi sbigottito de la bella difesa che mi era venuta meno, assai me ne disconfortai, più ch’ io medesimo non avrei creduto dinanzi. E pensando che, se de la sua partita io non parlassi alquanto dolorosamente, le persone sarebbero accorte più tosto del mio nascondere, propuosi di farne alcuna lamentanza in un sonetto, lo quale io scriverò; per ciò che la mia donna fue immediata cagione di certe parole, che nel sonetto sono, sí come appare a chi lo intende. E allora dissi questo sonetto:

[Sonetto 2]

 

O voi, che per la via d’Amor passate,
attendete e guardate
s’egli è dolore alcun, quanto ‘l mio, grave;
e prego sol, ch’audir mi sofferiate;
e poi imaginate
s’io son d’ogni tormento ostello e chiave.
Amor, non già per mia poca bontate,
ma per sua nobiltate,
mi pose in vita sí dolce e soave,
ch’ i’ mi sentía dir dietro spesse fiate:
«Deo! per qual dignitate
così leggiadro questi lo core have!»
Or ho perduta tutta mia baldanza,
che si movea d’amoroso tesoro;
ond’ io pover dimoro,
in guisa che di dir mi ven dottanza.
Sí che, volendo far come coloro
che per vergogna celâr lor mancanza,
di fuor mostro allegranza,
e dentro da lo core struggo e ploro.

 

Questo sonetto ha due parti principali; ché ne la prima intendo chiamare li fedeli d’Amore per quelle parole di Geremia profeta: O vos omnes qui transitis per viam, attendite et videte, si est dolor sicut dolor meus; e pregare che mi sofferino d’audire. Ne la seconda narro là ove Amore m’avea posto, con altro intendimento che l’estreme parti del sonetto non mostrano: e dico ch’ i’ ho ciò perduto. La seconda parte comincia quivi: Amor, non già [v. 7].

VIII

Appresso lo partire di questa gentil donna fu piacere del signore de li angeli di chiamare a la sua gloria una donna giovane di gentile aspetto molto, la quale fu assai graziosa in questa sopradetta cittade; lo cui corpo io vidi giacere sanza l’anima in mezzo di molte donne, le quali piangeano assai pietosamente. Allora, ricordandomi che già l’avea veduta fare compagnia a quella gentilissima, non poteo sostenere alquante lagrime; anzi piangendo mi propuosi di dire alquante parole de la sua morte in guiderdone di ciò, che alcuna fiata l’avea veduta con la mia donna. E di ciò toccai alcuna cosa ne l’ultima parte de le parole che io ne dissi, sí come appare manifestamente a chi lo ‘ntende: e dissi allora questi due sonetti; de li quali comincia il primo: Piangete, amanti, il secondo: Morte villana.

[Sonetto III]

 

Piangete, amanti, poi che piange Amore,
udendo qual cagion lui fa plorare:
Amor sente a Pietà donne chiamare,
mostrando amaro duol per gli occhi fore,
perché villana Morte in gentil core
ha messo il suo crudele adoperare,
guastando ciò ch’ al mondo è da laudare
in gentil donna, fuora de l’onore.
Udite quanto Amor le fece orranza,
ch’ io ‘l vidi lamentare in forma vera
sovra la morta imagine avvenente;
e riguardava verso ‘l ciel sovente,
ove l’ alma gentil già locata era,
che donna fue di sí gaia sembianza.

 

Questo primo sonetto si divide in tre parti. Ne la prima chiamo e sollicito li fedeli d’Amore a piangere; e dico del signore loro che piange, e dico udendo la cagione per ch’ e’ piange, acciò che si acconcino più ad ascoltarmi; ne la seconda narro la cagione; ne la terza parlo d’alcuno onore che Amore fece a questa donna. La seconda parte comincia quivi: Amor sente [v. 3], la terza quivi: Udite [v. 9].

[Sonetto IV]

 

Morte villana, di pietà nemica,
di dolor madre antica,
giudicio incontastabile gravoso,
poi che hai data matera al cor doglioso,
ond’ io vado pensoso,
di te blasmar la lingua s’affatica.
E s’ io di grazia ti vo’ far mendica,
convienesi ch’io dica
lo tuo fallar, d’ogni torto tortoso;
non però ch’ a la gente sia nascoso,
ma per farne cruccioso
chi d’Amor per innanzi si notrica.
Dal secolo hai partita cortesia,
e, ciò ch’ è in donna da pregiar, virtute:
in gaia gioventute
distrutta hai l’amorosa leggiadria.
Piú non voi’ discovrir qual donna sia,
che per le propietà sue conosciute:
chi non merta salute,
non speri mai d’aver sua compagnia.

 

Questo sonetto si divide in quattro parti: ne la prima parte chiamo la morte per certi suoi nomi propî; ne la seconda parlando a lei, dico la cagione per ch’ io mi movo a biasimarla; ne la terza la vitupero; ne la quarta mi volgo a parlare a indifinita persona, avvegna che quanto al mio intendimento sia difinita. La seconda comincia quivi: Poi che hai data [v. 4]; la terza quivi: E s’ io di grazia [v. 7]; la quarta quivi: Chi non merta salute [v. 19].

IX

Appresso la morte di questa donna alquanti die, avvenne cosa, per la quale mi convenne partire de la sopradetta cittade, ed ire verso quelle parti, dov’ era la gentile donna ch’ era stata mia difesa, avvegna che non tanto fosse lontano il termine del mio andare, quanto ell’ era. E tutto ch’ io fossi a la compagnia di molti quanto a la vista, l’ andare mi dispiacea sí, che quasi li sospiri non poteano disfogare l’angoscia che lo cuor sentia, però ch’ io mi dilungava da la mia beatitudine. E però lo dolcissimo signore, il qual mi segnoreggiava per la vertù de la gentilissima donna, ne la mia imaginazione apparve come peregrino leggeramente vestito, e di vil drappi. Elli mi parea sbigottito, e guardava la terra, salvo che talora li suoi occhi mi parea che si volgessero ad un fiume bello e corrente e chiarissimo, lo quale sen gía lungo questo cammino là ov’ io era.
A me parve che Amore mi chiamasse, e dicessemi queste parole: «Io vengo da quella donna, la quale è stata tua lunga difesa, e so che ‘l suo rivenire non sarà a gran tempi; e però quello cuore ch’ io ti facea avere a lei, io l’ ho meco, e portolo a donna, la qual sarà tua difensione, come questa era (e nominollami per nome, sí ch’ io la conobbi bene). Ma tuttavia, di queste parole ch’ io t’ ho ragionate, se alcuna cosa ne dicessi, dillo nel modo che per loro non si discernesse ‘l simulato amore, che tu hai mostrato a questa e che ti converrà mostrare ad altri». E dette queste parole, disparve questa mia imaginazione tutta subitamente, per la grandissima parte, che mi parve che Amore mi desse di sé; e, quasi cambiato ne la vista mia, cavalcai quel giorno pensoso e accompagnato da molti sospiri. Appresso lo giorno cominciai di ciò questo sonetto:

[Sonetto V]

 

Cavalcando l’altr’ ier per un cammino,
pensoso de l’andar, che mi sgradía,
trovai Amore in mezzo de la via,
in abito legger di peregrino.
Ne la sembianza mi parea meschino,
come avesse perduto segnoria;
e sospirando pensoso venía,
per non veder la gente, a capo chino.
Quando mi vide, mi chiamò per nome,
e disse: «Io vegno di lontana parte,
ov’era lo tuo cor per mio volere;
e recolo a servir novo piacere».
Allora presi di lui sí gran parte,
ch’ elli disparve, e non m’accorsi come.

 

Questo sonetto ha tre parti: ne la prima parte dico sí come io trovai Amore, e quale mi parea; ne la seconda dico quello ch’ elli mi disse, avvegna che non compiutamente per tema ch’ avea di discovrire lo mio segreto; ne la terza dico com’ elli mi disparve.La seconda comincia quivi: Quando mi vide [v. 9]; la terza: Allora presi [v. 13].

X

Appresso la mia ritornata, mi misi a cercare di questa donna che ‘l mio segnore m’ avea nominata nel cammino de’ sospiri; e acciò che ‘l mio parlare sia più brieve, dico che in poco tempo la feci mia difesa tanto, che troppa gente ne ragionava oltre li termini de la cortesia; onde molte volte mi pensava duramente. E per questa cagione, ciò è di questa soverchievole voce che parea che m’ infamasse viziosamente, quella gentilissima, la quale fu distruggitrice di tutti vizi e reina de le virtudi, passando per alcuna parte, mi negò lo suo dolcissimo salutare, nel quale stava tutta la mia beatitudine. Ed uscendo alquanto del proposito presente, voglio dare a ‘ntendere quello che ‘l suo salutare in me vertudiosamente operava.

XI

Dico che quand’ ella apparía da alcuna parte, per la speranza de la mirabile salute neun nemico mi rimanea, anzi mi giugnea una fiamma di caritade, la quale mi facea perdonare a chiunque m’avesse offeso; e chi allora m’avesse domandato di cosa alcuna, la mia risponsione sarebbe stata solamente «Amore», con viso vestito d’ umiltà. E quand’ ella fosse alquanto propinqua al salutare, uno spirito d’Amore, distruggiendo tutti gli altri spiriti sensitivi, pingea fori li deboletti spiriti del viso, e dicea loro: «Andate a onorare la donna vostra»; ed elli si rimanea nel luogo loro. E chi avesse voluto conoscere Amore, fare lo potea mirando lo tremare de gli occhi miei. E quando questa gentilissima salute salutava, non che Amore fosse tal mezzo, che potesse obumbrare a me la intollerabile beatitudine, ma elli quasi per soverchio di dolcezza divenía tale, che ‘l mio corpo, lo quale era tutto allora sotto ‘l suo reggimento, molte volte si movea come cosa grave inanimata. Sí che appare manifestamente che ne le sue salute abitava la mia beatitudine, la quale molte volte passava e redundava la mia capacitate.

XII

Ora tornando al proposito, dico che, poi che la mia beatitudine mi fu negata, mi giunse tanto dolore, che, partito me da le genti, in solinga parte andai a bagnare la terra d’amarissime lagrime: e poi che alquanto mi fue sollenato questo lagrimare, misimi ne la mia camera, là ov’ io potea lamentarmi sanza essere udito. E quivi, chiamando misericordia a la donna de la cortesia, e dicendo: «Amore, aiuta ‘l tuo fedele», m’addormentai, come un pargoletto battuto lagrimando. Avvenne quasi nel mezzo del mio dormire, che mi parea vedere ne la mia camera lungo me sedere uno giovane vestito di bianchissime vestimenta; e pensando molto quanto a la vista sua, mi riguardava là dov’ io giacea, e quando m’ avea guardato alquanto, pareami che sospirando mi chiamasse, e diceami queste parole: Fili mi, tempus est ut pretermittantur simulacra nostra. Allora mi parea che io ‘l conoscesse, però che mi chiamava così come assai fiate ne li miei sonni m’ avea già chiamato: e riguardandolo, parvemi che piangesse pietosamente, e parea che attendesse da me alcuna parola; ond’ io, assicurandomi, cominciai a parlare così con esso: «Segnore de la nobiltade, e perché piangi tu?». E quelli mi dicea queste parole: Ego tanquam centrum circuli, cui simili modo se habent circumferentie partes; tu autem non sic». Allora pensando a le sue parole, mi parea che m’avesse parlato molto oscuramente; sí ch’io mi sforzava di parlare, e diceali queste parole: «Che è ciò, signore, che mi parli con tanta oscuritade?». E que’ mi dicea in parole volgari: «Non dimandare più che utile ti sia». E però cominciai allora con lui a ragionare de la salute la qual mi fue negata, e domandàlo de la cagione; onde in questa guisa da lui mi fue risposto: «Quella nostra Beatrice udío da certe persone, di te ragionando, che la donna la quale io ti nominai nel cammino de li sospiri, ricevea da te alcuna noia; e però questa gentilissima, la quale è contraria di tutte le noie, non degnò salutare la tua persona, temendo non fosse noiosa. Onde con ciò sia cosa che veracemente sia conosciuto per lei alquanto lo tuo secreto per lunga consuetudine, voglio che tu dichi certe parole per rima, ne le quali tu comprendi la forza ch’ io tegno sopra te per lei, e come tu fosti suo tostamente da la tua puerizia. E di ciò chiama testimonio colui che lo sa, e come tu prieghi lui che gli le dica: ed io, che son quelli, volentieri le ne ragionerò; e per questo sentirà ella la tua volontà, la quale sentendo, conoscerà le parole de li ingannati. Queste parole fa che siano quasi un mezzo, sí che tu non parli a lei immediatamente, che non è degno; e nolle mandare in parte sanza me, dove potessero essere intese da lei, ma falle adornare di soave armonia, ne la quale io sarò tutte le volte che sarà mestiere». E, dette queste parole, disparve, e ‘l mio sonno fue rotto. Onde io ricordandomi, trovai che questa visione m’ era apparita ne la nona ora del díe; e anzi io uscisse de la detta camera, propuosi di fare una ballata, ne la quale io seguitassi ciò che ‘l mio segnore m’avea proposto, e feci poi questa ballata, che comincia cosí:

[Ballata I]

 

Ballata, i’ vo’ che tu ritrovi Amore,
e con lui vade a madonna davante,
sí che la scusa mia, la qual tu cante,
ragioni poi con lei lo mio segnore.Tu vai, ballata, sí cortesemente,
che senza compagnia
dovresti avere in tutte parti ardire:
ma, se tu vuoli andar sicuramente,
retrova l’Amor pria,
ché forse non è buon sanza lui gire:
però che quella che ti de’ audire,
se, com’ io credo, è vêr di me adirata,
e tu di lui non fossi accompagnata,
leggeramente ti faría disnore.Con dolce sono, quando se’ con lui,
comincia este parole,
appresso che averai chesta pietate:
«Madonna, quelli, che mi manda a vui,
quando vi piaccia, vole,
sed elli ha scusa, che la m’ intendiate.
Amore è qui, che per vostra bieltate
lo face, come vol, vista cangiare:
dunque, perché li fece altra guardare
pensatel voi, da ch’ e’non mutò ‘l core».Dille: «Madonna, lo suo core è stato
con sí fermata fede,
che ‘n voi servir l’ ha pronto ogne pensero:
tosto fu vostro, e mai non s’è smagato».
Sed ella non ti crede,
dí’ che domandi Amor, sed egli è lo vero:
ed a la fine falle umil preghero,
lo perdonare se le fosse a noia,
che mi comandi per messo ch’ eo moia;
e vedrassi ubidir ben servidore.E dí’ a colui ch’ è d’ogni pietà chiave,
avante che sdonnei,
che le saprà contar mia ragion bona:
«Per grazia de la mia nota soave
reman tu qui con lei,
e del tuo servo, ciò che vuoi, ragiona;
e s’ella per tuo prego li perdona,
fa’ che li annunzi un bel sembiante pace».
Gentil ballata mia, quando ti piace,
movi in quel punto, che tu n’aggie onore.

 

Questa ballata in tre parti si divide: ne la prima dico a lei dov’ ella vada, e confortola però che vada più sicura, e dico ne la cui compagnia si metta, se vuole sicuramente andare, e sanza pericolo alcuno; ne la seconda dico quello, che lei si pertiene di fare intendere; ne la terza la licenzio del gire quando vuole, raccomandando lo suo movimento ne le braccia de la sua fortuna. La seconda parte comincia quivi: Con dolce sono [v. 15]; la terza quivi: Gentil ballata [v. 43]. Potrebbe già l’uomo opporre contra me e dire, che non sapesse a cui fosse lo mio parlare in seconda persona, però che la ballata non è altro, che queste parole ched io parlo: e però dico che questo dubbio io lo intendo solvere e dichiarare in questo libello ancora in parte più dubbiosa; e allora intenda qui chi più dubita, o chi qui volesse opporre, in questo modo.

XIII

Appresso di questa soprascritta visione, avendo già dette le parole, ch’ Amore m’avea imposte di dire, mi cominciaro molti e diversi pensamenti a combattere ed a tentare, ciascuno quasi indefensibilemente: tra li quali pensamenti quattro m’ ingombravano più lo riposo de la vita. L’uno de li quali era questo: buona è la signoria d’Amore, però che trae lo ‘ntendimento del suo fedele da tutte le vili cose. L’altro era questo: non buona è la signoria d’Amore, però che quanto lo suo fedele più fede li porta, tanto più gravi e dolorosi punti li conviene passare. L’altro era questo: lo nome d’Amore è sí dolce a udire, che impossibile mi pare che la sua propria operazione sia ne le più cose altro che dolce, con ciò sia cosa che li nomi seguitino le nominate cose, sí com’ è scritto: Nomina sunt consequentia rerum. Lo quarto era questo: la donna per cui Amore ti stringe così, non è come l’altre donne, che leggeramente si mova del suo core. E ciascuno mi combattea tanto, che mi facea stare quasi come colui che non sa per qual via pigli il suo cammino, e che vuole andare e non sa onde se ne vada; e sed io pensava di volere cercare una comune via di costoro, cio è là dove tutti si accordassero, questa era molto inimica verso me, cioè di chiamare e di mettermi ne le braccia de la pietà. Ed in questo stato dimorando, mi giunse volontà di scrivere parole rimate; e dissine allora questo sonetto, lo qual comincia:

[Sonetto VI]

 

Tutti li miei penser parlan d’amore;
e hanno in loro sí gran varietate,
ch’ altro mi fa voler sua potestate,
altro folle ragiona il suo valore,
altro sperando m’apporta dolzore,
altro pianger mi fa spesse fïate;
e sol s’accordano in cherer pietate,
tremando di paura ch’ è nel core.
Ond’ io non so da qual matera prenda;
e vorrei dire, e non so ch’ i’ mi dica:
cosí mi trovo in amorosa erranza!
E se con tutti voi’ fare accordanza,
convenemi chiamar la mia nemica,
madonna la pietà, che mi difenda.

 

Questo sonetto in quattro parti si divide: ne la prima dico e soppongo che tutti li miei pensieri parlano d’Amore; ne la seconda dico che sono diversi, e narro la loro diversitade; ne la terza dico in che tutti pare che s’accordino; ne la quarta dico che, volendo dire d’Amore, non so da qual parte pigli matera; e se la voglio pigliare da tutti, conviene ched io chiami la mia nemica, madonna la pietade, e dico madonna, quasi per disdegnoso modo di parlare. La seconda parte comincia quivi: E hanno in loro [v. 2]; la terza quivi: E sol s’accordano [v. 7]; la quarta quivi: Ond’ io non so [v. 9].

XIV

Appresso la battaglia de’ diversi pensieri, avvenne che questa gentilissima venne in parte, dove molte gentili donne erano raunate; a la qual parte io fui condotto per amica persona, credendosi fare a me grande piacere in quanto mi menava là ove tante donne mostravano le lor bellezze. Onde io quasi non sappiendo a ch’ io fossi menato, e fidandomi ne la persona, la quale un suo amico a l’estremità de la vita condotto avea, dissi a lui: «Perché siamo noi venuti a queste donne?». Allora que’ mi rispuose: «Per fare sí ch’elle siano degnamente servite». E ‘l vero è, che raunate quivi erano a la compagnia d’una gentile donna, che disposata era il giorno; e però, secondo l’usanza de la sopradetta cittade, convenía che le facessero compagnia nel primo sedere a la mensa che facea ne la magione del suo novello sposo. Sí ched io, credendomi fare piacere di questo amico, propuosi di stare al servigio de le donne ne la sua compagnia. E nel fine del mio proponimento parvemi sentire uno mirabile tremore incominciare nel mio petto da la sinistra parte, e distendersi di subito per tutte le parti del mio corpo. Allora dico ched io poggiai la mia persona simulatamente ad una pintura, la quale circundava questa magione: e temendo che altri non si fosse accorto del mio tremare, levai gli occhi, e, mirando le donne, vidi tra loro la gentilissima Beatrice. Allora fuoro sí distrutti li miei spiriti per la forza ch’ Amore prese veggendosi in tanta propinquitade a la gentilissima donna, che non ne rimasero in vita più che li spiriti del viso; ed ancora questi rimasero fuori de li loro strumenti, però che Amore volea stare nel loro nobilissimo luogo per vedere la mirabile donna: e avvegna ched io fossi altro che prima, molto mi dolea di questi spiritelli, che si lamentavano forte, e diceano: «Se questi non ci infolgorasse cosí fuori del nostro luogo, noi potremmo stare a vedere la maraviglia di questa donna, così come stanno gli altri nostri pari». Io dico che molte di queste donne, accorgendosi de la mia trasfigurazione, si cominciaro a maravigliare, e ragionando si gabbavano di me con questa gentilissima: onde, di ciò accorgendosi l’ amico mio di buona fede mi prese per la mano, e traendomi fuori de la veduta di queste donne, sí mi domandò che io avesse. Allora io riposato alquanto, e resurressiti li morti spiriti miei, e li discacciati rivenuti a le loro possessioni, dissi a questo mio amico queste parole: «Io tenni li piedi in quella parte de la vita, di là da la quale non si puote ire più per intendimento di ritornare». E partitomi da lui, mi ritornai ne la camera de le lagrime, ne la quale, piangendo e vergognandomi, fra me medesimo dicea: «Se questa donna sapesse la mia condizione, io non credo che cosí gabbasse la mia persona, anzi credo che molta pietà ne le verrebbe». Ed in questo pianto stando cosí, propuosi di dire parole, ne le quali, parlando a lei, significasse la cagione del mio trasfiguramento, e dicessi che io so bene ch’ ella non è saputa, e che se fosse saputa, io credo che pietà ne giungerebbe altrui: e propuosile di dire, desiderando che venissero per avventura ne la sua audienza. Ed allora dissi questo sonetto, il quale comincia cosí:

[Sonetto VII]

 

Con l’altre donne mia vista gabbate,
e non pensate, donna, onde si mova
ch’ io vi rassembri sí figura nova,
quando riguardo la vostra beltate.
Se lo saveste, non poría pietate
tener più contra me l’ usata prova,
ché amor, quando sí presso a vo’ mi trova,
prende baldanza e tanta securtate,
che fere tra’ miei spiriti paurosi,
e quale ancide, e qual pinge di fora,
sí che solo remane a veder vui.
Ond’ io mi cangio in figura d’altrui,
ma non sí, ch’ io non senta bene allora
li guai de li scacciati tormentosi.

 

Questo sonetto non divido in parti, però che la divisione non si fa, se non per aprire la sentenzia de la cosa divisa; onde, con ciò sia cosa che per la sua ragionata cagione assai sia manifesto, però non ha mestiere di divisione. Vero è che tra le parole, dove si manifesta la cagione di questo sonetto, si scrivono dubbiose parole; ciò è quando dico, che Amore uccide tutti li miei spiriti, e li visivi rimangono in vita, salvo che fuori de li strumenti loro. E questo dubbio è impossibile a solvere a chi non fosse in simile grado fedele d’Amore; ed a coloro che vi sono è manifesto ciò che solverebbe le dubitose parole: e però non è bene a me di dichiarare cotale dubitazione, acciò che ‘l mio parlare dichiarando sarebbe indarno, o vero di soperchio.

 

XV

Appresso la nuova trasfigurazione mi giunse uno pensamento forte, lo quale poco si partía da me, anzi continuamente mi riprendea, ed era di cotale ragionamento meco: «Poscia che tu pervieni a così dischernevole vista quando tu se’ presso di questa donna, perché pur cerchi di vedere lei? Ecco che tu fossi domandato da lei: che avresti da rispondere, ponendo che tu avessi libera ciascuna tua vertude in quanto tu le rispondessi?» Ed a costui rispondea un altro umile pensiero, e dicea: «S’ io non perdessi le mie vertudi, e fossi libero tanto ch’ io le potessi rispondere, io le direi, che sí tosto com’ io imagino la sua mirabile bellezza, sí tosto mi giugne un disiderio di vederla, lo quale è di tanta vertude, che uccide e distrugge ne la mia memoria ciò che contra lui si potesse levare; e però non mi ritraggono le passate passioni da cercare la veduta di costei». Onde io, mosso da cotali pensamenti, propuosi di dire certe parole, ne le quali, scusandomi a lei di cotale riprensione, ponessi anche di dire di quello che mi diviene presso di lei; e dissi questo sonetto, lo quale comincia cosí:

[Sonetto VIII]

 

Ciò che m’incontra ne la mente, more
quand’ i’ vegno a veder voi, bella gioia,
e quand’ io vi son presso, io sento Amore,
che dice: «Fuggi se ‘l perir t’è noia».
Lo viso mostra lo color del core,
che, tramortendo, ovunque può s’appoia;
e per la ebrietà del gran tremore
le pietre par che gridin: «Moia, moia».
Peccato face chi allora mi vide,
se l’alma sbigottita non conforta,
sol dimostrando che di me gli doglia,
per la pietà, che ‘l vostro gabbo ancide,
la qual si cria ne la vista morta
de gli occhi, c’ hanno di lor morte voglia.

 

Questo sonetto si divide in due parti: ne la prima dico la cagione, per che non mi tengo di gire presso di questa donna; ne la seconda dico quello che mi diviene per andare presso di lei; e comincia questa parte quivi: E quand’ io vi son presso [v. 3]. Anche, si divide questa seconda parte in cinque, secondo cinque diverse narrazioni: ché ne la prima dico quello che Amore consigliato da la ragione mi dice quando le so’ presso; ne la seconda manifesto lo stato del cuore per esemplo del viso; ne la terza dico, sí come ogni sicurtà mi viene meno; ne la quarta dico che pecca quelli che non mostra pietà di me, acciò che mi sarebbe alcuno conforto; ne l’ultima dico perché altri dovrebbe avere pietà, e ciò è per la pietosa vista, che ne li occhi mi giunge; la qual vista pietosa è distrutta, ciò è non pare altrui, per lo gabbare di questa donna, lo qual trae a sua simile operazione coloro, che forse vedrebbero questa pietà. La seconda parte comincia quivi: Lo viso mostra [v. 5]; la terza quivi: E per la ebrietà [v. 7]; la quarta: Peccato face [v. 9]; la quinta: Per la pietà [v. 12].

XVI

Appresso ciò ched io dissi, questo sonetto, mi mosse una volontà di dire anche parole, ne le quali io dicessi quattro cose ancora sopra ‘l mio stato, le qua’ non mi parea che fossero manifestate ancora per me. La prima de le quali si è che molte volte io mi dolea, quando la mia memoria movesse la fantasia ad imaginare quale Amor mi facea: la seconda si è ch’ Amore spesse volte di subito m’ assalía sí forte, che ‘n me non rimanea altro di vita se non un pensero che parlava di questa donna: la terza si è che quando questa battaglia d’Amore mi pugnava cosí, io mi movea, quasi discolorato tutto, per vedere questa donna, credendo che mi difendesse la sua veduta da questa battaglia, dimenticando quello che a propinquare a tanta gentilezza m’ addivenía. La quarta si è come cotal veduta non solamente non mi difendea, ma finalmente disconfiggea la mia poca vita; e però dissi questo sonetto, lo qual comincia:

[Sonetto IX]

 

Spesse fïate vegnonmi a la mente
l’ oscure qualità ch’ Amor mi dona,
e vemmene pietà sí che sovente
io dico: «lasso! avviene egli a persona?»;
ch’ Amor m’ assale subitanamente
sí che la vita quasi m’abbandona:
campami un spirto vivo solamente,
e que’ riman perché di voi ragiona.
Poi mi sforzo, ché mi voglio aitare;
e cosí smorto, e d’ogne valor vòto,
vegno a vedervi, credendo guerire:
e s’ i’ levo gli occhi per guardare,
nel cor mi si comincia un terremuoto,
che da’ polsi fa l’anima partire.

 

Questo sonetto si divide in quattro parti, secondo che quattro cose sono in esso narrate; imperò che son di sopra ragionate, non m’intrametto se non di strignere le parti per li loro cominciamenti; onde dico che la seconda parte comincia quivi: Ch’ Amor [v. 5]; la terza quivi: Poi mi sforzo [v. 9]; la quarta quivi: E s’ i’ levo [v. 12].

XVII

Poi che dissi questi tre sonetti, ne li quali parlai a questa donna, però che fuoro narratori di tutto quasi lo mio stato, credendomi tacere e non dire più però che mi parea di me aver assai manifestato, avvegna che sempre poi tacesse di dire a lei, a me convenne ripigliare matera nova e più nobile che la passata. E però che la cagione de la nova matera è dilettevole a udire, la dicerò quanto potrò più brievemente.

XVIII

Con ciò sia cosa che per la vista mia molte persone avessero compreso lo secreto del mio cuore, certe donne, le quali raunate s’ erano dilettandosi l’ una ne la compagnia de l’altra, sapeano bene lo mio cuore, però che ciascuna di loro era stata a molte mie sconfitte. Ed io passando appresso di loro, sí come da la fortuna menato, fui chiamato da una di queste gentili donne; e quella, che m’avea chiamato, era di molto gentile parlare e leggiadro. Sí che quand’ io fu’ giunto dinanzi da loro, e vidi bene che la mia gentilissima donna non era con esse, rassicurandomi le salutai, e domandai che piacesse loro. Le donne erano molte, tra le quali n’avea certe che si rideano tra loro. Altre v’erano che mi guardavano aspettando che io dovessi dire. Altre v’erano simigliantemente che parlavano tra loro, de le quali una volgendo li suoi occhi verso me, e chiamandomi per nome, disse queste parole: «A che fine ami tu questa tua donna, poi che tu non puoi sostenere la sua presenza? Dilloci, ché certo lo fine di cotale amore conviene che sia novissimo». E poi che m’ebbe dette queste parole, non solamente ella, ma tutte l’ altre cominciarono ad attendere in vista la mia risponsione. Allora dissi queste parole loro: «Madonne, lo fine del mio amore fue già lo saluto di questa donna, forse di cui voi intendete; ed in quello dimorava la beatitudine, ché era fine di tutti li miei desiderî. Ma poi che le piacque di negarlo a me, lo mio signore Amore, la sua mercede, ha posta tutta la mia beatitudine in quello, che non mi puote venire meno». Allora queste donne cominciaro a parlare tra loro; e sí come talora vedemo cadere l’acqua mischiata di bella neve, cosí mi pare udire le loro parole uscire mischiate di sospiri. E poi che alquanto ebbero parlato tra loro, anche mi disse questa donna, che m’avea prima parlato, queste parole: «Noi ti preghiamo che tu ci dichi dov’ è questa questa tua beatitudine». Ed io rispondendole dissi cotanto: «In quelle parole che lodano la donna mia». Allora mi rispuose questa che mi parlava: «Se tu ne dicessi vero, quelle parole che tu n’hai dette innotificando la tua condizione, avrestù operate con altro intendimento». Ond’ io pensando a queste parole, quasi vergognoso mi partío da loro, e venía dicendo fra me medesimo: «Poi ch’ i’ ebbi tanta beatitudine in quelle parole che lodano la mia donna, perché altro parlare è stato lo mio?». E però propuosi di prendere per matera del mio parlare sempre mai quello che fosse loda di questa gentilissima; e pensando molto a ciò, pareami avere impresa troppo alta matera quanto a me, sí che non ardía di cominciare; e cosí dimorai alquanti dí con disiderio di dire e con paura di cominciare.

XIX

Avvenne poi che, passando io per uno cammino, lungo lo quale sen gía uno rivo chiaro molto, a me giunse tanta volontade di dire, ched io incominciai a pensare lo modo ch’io tenesse; e pensai che parlare di lei non si convenía ched io facesse, sed io non parlassi a donne in seconda persona, e non ad ogni donna, ma solamente a coloro, che sono gentili, e che non sono pure femmine. Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa, e disse: Donne ch’avete intelletto d’amore. Queste parole io riposi ne la mente con grande letizia, pensando di prenderle per mio cominciamento: onde poi, ritornato a la sopradetta cittade, e pensando alquanti dí, cominciai una canzone con questo cominciamento, ordinata nel modo che si vedrà di sotto ne la sua divisione. La canzone comincia cosí:

[Canzone 1]

 

Donne, ch’ avete intelletto d’amore,
io vo’ con voi de la mia donna dire,
non perch’ io creda sua lauda finire,
ma ragionar per isfogar la mente.
Io dico che, pensando il suo valore,
Amor sí dolce mi si fa sentire,
che s’ io allora non perdessi ardire,
farei, parlando, innamorar la gente.
E io non vo’ parlar sí altamente,
ch’ io divenissi per temenza vile;
ma tratterò del suo stato gentile
a respetto di lei leggeramente,
donne e donzelle amorose, con vui,
ché non è cosa da parlarne altrui.
Angelo clama il divino intelletto
e dice: «Sire, nel mondo si vede
maraviglia ne l’atto che procede
d’ un’ anima che ‘nfin qua su risplende».
Lo cielo, che non ha altro difetto
che d’aver lei, al suo Segnor la chiede,
e ciascun santo ne grida merzede.
Sola pietà nostra parte difende,
ché parla dio, che di madonna intende:
«Diletti miei, or sofferite in pace,
che vostra speme sia quanto me piace
là, dov’ è alcun che perder lei s’attende,
e che dirà ne lo inferno: – o malnati,
io vidi la speranza de’ beati».
Madonna è desiata in sommo cielo:
or vo’ di sua virtú farvi sapere.
Dico: qual vuol gentil donna parere
vada con lei; ché quando va per via,
gitta nei cor villani Amore un gelo,
per che ogne lor pensero agghiaccia e père;
e qual soffrisse di starla a vedere
diverría nobil cosa, o si morría:
e quando trova alcun che degno sia
di veder lei, quei prova sua vertute;
ché li avvien ciò che li dona salute,
e sí l’umilia, ch’ogni offesa obblía.
Ancor l’ ha dio per maggior grazia dato,
che non può mal finir chi l’ ha parlato.
Dice di lei Amor: «Cosa mortale
come esser può sí adorna e sí pura?»
Poi la reguarda, e fra sé stesso giura
che dio ne ‘ntenda di far cosa nova.
Color di perle ha quasi in forma, quale
convene a donna aver, non for misura;
ella è quanto de ben può far natura;
per esempio di lei bieltà si prova.
De gli occhi suoi, come ch’ ella li mova,
escono spirti d’amore infiammati,
che feron li occhi a qual, che allor la guati,
e passan sí che ‘l cor ciascun retrova.
Voi le vedete Amor pinto nel viso,
là o’ non pote alcun mirarla fiso.
Canzone, io so che tu girai parlando
a donne assai, quand’ io t’ avrò avanzata;
Or t’ammonisco, perch’ io t’ ho allevata
per figliuola d’Amor giovane e piana,
che là ove giugni, tu dichi pregando:
«Insegnatemi gir, ch’ io son mandata
a quella di cui loda io somo ornata».
E se non vuoli andar, sí come vana,
non restare ove sia gente villana:
ingégnati, se puoi, d’esser palese
solo con donne o con uom cortese,
che ti merranno là per via tostana.
Tu troverai Amor con esso lei;
raccomandami a lui come tu dèi.

 

Questa canzone, acciò che sia meglio intesa, la dividerò più artificiosamente che l’altre cose di sopra. E però prima ne fo tre parti. La prima parte è proemio de le seguenti parole; la seconda è lo ‘ntento trattato; la terza è quasi una serviziale de le precedenti parole. La seconda comincia quivi: Angelo clama [v. 15]; la terza quivi: Canzone, io so che [v. 57]. La prima parte si divide in quattro: ne la prima dico a cu’ io dicer voglio de la mia donna, e perché io voglio dire; ne la seconda dico quale me pare avere a me stesso quand’ io penso lo suo valore, e come io direi s’ io non perdessi l’ardimento; ne la terza dico come credo dire, acciò ch’ io non sia impedito da viltà; ne la quarta ridicendo anche a cui ne intendea dire, dico la cagione per che dico a loro. La seconda comincia quivi: Io dico [v. 5]; la terza quivi: E io non vo’ parlar [v. 9]; la quarta: Donne e donzelle [v. 13]. Poscia quando dico: Angelo clama, comincio a trattare di questa donna; e dividesi questa parte in due. Ne la prima dico che di lei si comprende in cielo; ne la seconda dico che di lei si comprende in terra, quivi: Madonna è desiata [v. 29]. Questa seconda parte si divide in due: ché ne la prima dico di lei quanto da la parte de la nobilitade de la sua anima, narrando alquante de le sue vertudi, che de la sua anima procedeano; ne la seconda dico di lei quanto da la nobiltà del suo corpo, narrando alquanto de le sue bellezze, qui: Dice di lei Amor [v. 43]. Questa seconda parte si divide in due: ché ne la prima dico d’alquante bellezze, che sono secondo tutta la persona; ne la seconda dico d’alquante bellezze, che sono secondo diterminata parte de la persona, quivi: De li occhi suoi [v. 51]. Questa seconda parte si divide in due; ché ne l’ una dico de gli occhi, li quali sono principio de l’ Amore; ne la seconda dico de la bocca, la quale è fine d’ Amore. E acciò che quinci si lievi ogni vizioso pensiero, ricordisi chi ci legge, che di sopra è scritto che ‘l saluto di questa donna, lo quale era de le operazioni de la bocca sua, fue fine de li miei desiderî, mentre ch’io lo potei ricevere. Poi quando dico: Canzone, io so che tu, aggiungo una stanza quasi come ancella a le altre, ne la quale dico quello, che di questa mia canzone desidero. E però che in questa ultima parte è lieve a intendere, non mi travaglio di più divisioni. Dico bene, che a più aprire lo ‘ntendimento di questa canzone si converrebbe usare di più minute divisioni; ma tuttavia chi non è di tanto ingegno, che per queste che sono fatte la possa intendere, a me non dispiace se la mi lascia stare, ché certo io temo d’ avere a troppi comunicato lo suo intendimento, pur per queste divisioni che fatte sono, s’ elli avvenisse che molti lo potessero audire.

XX

Appresso che questa canzone fue alquanto divolgata tra le genti, con ciò fosse cosa che alcuno amico l’udisse, volontà lo mosse a pregarmi che io gli dovessi dire che è Amore, avendo forse, per le parole udite, speranza di me oltre che degna. Ond’ io, pensando che appresso di cotale trattato, bello era trattare alquanto d’ Amore, e pensando che l’ amico era da servire, propuosi di dire parole, ne le quali io trattassi d’Amore; e allora dissi questo sonetto:

[Sonetto X]

 

Amore e ‘l cor gentil sono una cosa,
sí come il saggio in su’ dittare pone,
e cosí esser l’ un sanza l’ altro osa
com’ alma razional sanza ragione.
Falli natura, quand’ è amorosa,
Amor per sire e ‘l cor per sua magione,
dentro la qual dormendo si riposa
tal volta poca, e tal lunga stagione.
Bieltate appare in saggia donna pui,
che piace a gli occhi sí, che dentro al core
nasce un disío de la cosa piacente:
e tanto dura talora in costui,
che fa svegliar lo spirito d’amore:
e simil face in donna omo valente.

 

Questo sonetto si divide in due parti. Ne la prima dico di lui in quanto è in potenza; ne la seconda dico di lui in quanto di potenza si riduce in atto. La seconda comincia quivi: Bieltate appare [v. 9]. La prima si divide in due: ne la prima dico in che suggetto sia questa potenza, e ne la seconda dico sí come questo suggetto e questa potenza siano produtti in essere, e come l’ uno guarda l’ altro, come forma materia. La seconda comincia quivi: Falli natura [v. 5]. Poi quando dico: Bieltate appare, dico come questa potenza si riduce in atto; e prima come si riduce in uomo, poi come si riduce in donna, quivi: E simil face in donna [v. 14].

XXI

Poscia che trattai d’Amore ne la soprascritta rima, vennemi volontà di dire anche, in loda di questa gentilissima parole, per le quali io mostrassi come per lei si sveglia quest’ amore, e come non solamente si sveglia là dove dorme, ma là ove non è in potenza, ella mirabilemente operando lo fa venire. E allora dissi questo sonetto:

[Sonetto XI]

 

Ne li occhi porta la mia donna Amore,
per che si fa gentil ciò ch’ ella mira;
ov’ ella passa, ogni uom vêr lei si gira,
e cui saluta fa tremar lo core,
sí che, bassando il viso, tutto ismore,
e d’ogni suo difetto allor sospira:
fugge dinanzi a lei superbia ed ira.
Aiutatemi, donne, farle onore.
Ogne dolcezza, ogne pensero umile
nasce nel core a chi parlar la sente;
ond’ è laudato chi prima la vide.
Quel ch’ ella par quand’ un poco sorride,
non si può dire né tenere a mente,
sí è novo miracolo e gentile.

 

Questo sonetto si ha tre parti. Ne la prima dico sí come questa donna riduce questa potenza in atto secondo la nobilissima parte de’ suoi occhi: e ne la terza dico questo medesimo, secondo la nobilissima parte de la sua bocca. E intra queste due parti è una particella, ch’ è quasi domandatrice d’aiuto a la precedente parte ed a la seguente, e comincia quivi: Aiutatemi, donne [v. 8]. La terza comincia quivi: Ogne dolcezza [v. 9]. La prima si divide in tre; ché ne la prima parte dico sí come virtuosamente fae gentile tutto ciò che vede; e questo è tanto a dire, quanto inducere Amore in potenza là ove non è. Ne la seconda dico come reduce in atto Amore ne li cuori di tutti coloro cui vede. Ne la terza dico quello che poi virtuosamente adopera ne’ loro cuori. La seconda comincia: Ov’ella passa [v. 3], la terza: E cui saluta [v. 4]. Poi quando dico: Aiutatemi, donne, do a intendere a cui la mia intenzione è di parlare, chiamando le donne che m’aiutino onorare costei. Poi quando dico: Ogne dolcezza, dico quello medesimo che detto è ne la prima parte, secondo due atti de la sua bocca; l’ uno de’ quali è ‘l suo dolcissimo parlare, e l’ altro lo suo mirabile riso; salvo che non dico di questo ultimo come adopera ne li cuori altrui, però che la memoria non puote ritenere lui, né sua operazione.

XXII

Appresso non molti dí passati, sí come piacque al glorioso Sire lo quale non negoe la morte a sé, colui ch’ era stato genitore di tanta maraviglia, quanta si vedea ch’ era questa nobilissima Beatrice, di questa vita uscendo, a la gloria eternale sen gío veracemente. Onde, con ciò sia cosa che cotale partire sia doloroso a coloro che rimangono, e sono stati amici di colui che se ne va; e nulla sia sí intima amistade, come da buono padre a buon figliuolo, e da buon figliuolo a buon padre; e questa donna fosse in altissimo grado di bontade, e ‘l suo padre (sí come da molti si crede, e vero è) fossi bono in alto grado; manifesto è, che questa donna fue amarissimamente piena di dolore. E con ciò sia cosa che, secondo l’usanza de la sopradetta cittade, donne con donne e uomini con uomini si raunino a cotale tristizia, molte donne si raunarono colà, dove questa Beatrice piangea pietosamente: onde io veggendo ritornare alquante donne da lei, udío dire loro parole di questa gentilissima, com’ ella si lamentava. Tra le quali parole udío che diceano: «Certo ella piange sí, che quale la mirasse dovrebbe morire di pietade». Allora trapassaro queste donne; ed io rimasi in tanta tristizia, che alcuna lagrima talora bagnava la mia faccia, onde io mi ricopría con porre le mani spesso a li miei occhi. E se non fosse ch’ io attendea udire anche di lei (però ch’ io era in luogo onde sen gíano la maggiore parte di quelle donne le quali da lei si dipartíano), io men sarei nascoso incontanente che le lagrime m’ aveano assalito. E però dimorando ancora nel medesimo luogo, donne anche passaro presso di me, le quali andavano ragionando tra loro queste parole: «Chi dee mai essere lieta di noi, che avemo udita parlare questa donna cosí pietosamente?». Appresso di costoro passaro altre donne, che veníano dicendo: «Questi ch’ è qui piange né piú né meno come se l’avesse veduta, come noi avemo». Altre diceano di poi di me: «Vedi questi che non pare esso; tale è divenuto». E cosí passando queste donne, udío parole di lei e di me in questo modo che detto è. Onde io poi pensando propuosi di dire parole, acciò che degnamente avea cagione di dire, ne le quali parole io conchiudessi tutto ciò che inteso avea da queste donne. E però che volentieri l’ averei domandate, se non mi fosse stata riprensione, presi tanta matera di dire, come se io l’avessi domandate, ed elle m’ avessero risposto. E feci due sonetti; ché nel primo domando, in quel modo che voglia mi giunse di domandare; ne l’ altro dico la loro risponsione, pigliando ciò ch’ io udío da loro, sí come lo m’ avessero detto rispondendo. E comincia lo primo: Voi, che portate la sembianza umíle, e l’ altro: Se’ tu colui c’ hai trattato sovente.

[Sonetto 12]

 

Voi, che portate la sembianza umíle,
con li occhi bassi mostrando dolore,
onde venite, che ‘l vostro colore
par divenuto de pietà simíle?
Vedeste voi nostra donna gentile
bagnar nel viso suo di pianto Amore?
Ditelmi, donne, ché mel dice il core,
perch’ io vi veggio andar sanz’ atto vile.
E se venite da tanta pietate,
piacciavi di restar qui meco alquanto,
e qual che sia di lei, nol mi celate:
io veggio gli occhi vostri c’ hanno pianto,
e veggiovi tornar sí sfigurate,
che ‘l cor mi trema di vederne tanto.

 

Questo sonetto si divide in due parti. Ne la prima chiamo e domando queste donne se vengono da lei, dicendo loro ch’ io lo credo, imperò che tornano quasi ingentilite. Ne la seconda le prego che mi dicano di lei. La seconda comincia quivi: E se venite [v. 9].
Qui appresso è l’altro sonetto, sí come dinanzi avemo narrato.

[Sonetto XIII]

 

Se’ tu colui, c’ hai trattato sovente
di nostra donna, sol parlando a nui?
Tu risomigli a la voce pur lui,
ma la figura ne par d’altra gente.
E perché piangi tu sí coralmente,
che fai di te pietà venire altrui?
Vedestù pianger lei, che tu non pui
punto celar la dolorosa mente?
Lascia piangere a noi, e triste andare,
(e’ fa peccato chi mai ne conforta),
che nel su’ pianto l’udimmo parlare.
Ell’ ha nel viso la pietà sí scorta,
che qual l’avesse voluta mirare
sarebbe innanzi lei piangendo morta.

 

Questo sonetto ha quattro parti, secondo che quattro modi di parlare ebbero in loro le donne per cu’ rispondo. e però che son di sopra assai manifesti, non mi trametto di narrare la sentenzia de le parti, e però le distinguo solamente. La seconda comincia quivi: E perché piangi [v. 5]; la terza: Lascia piangere noi [v. 9]; la quarta: Ell’ ha nel viso [v. 12].

 

XXIII

Appresso ciò pochi dí, avvenne che in alcuna parte de la mia persona mi giunse una dolorosa infermitade, ond’ io soffersi per nove dí amarissima pena; la quale mi condusse a tanta debolezza, che me convenía stare come coloro, li quali non si possono muovere. Io dico che nel nono giorno sentendo me dolere quasi intollerabilemente, a me giunse un pensero, lo quale era de la mia donna. E quando ebbi alquanto pensato di lei, ed io ritornai pensando a la mia debile vita; e veggendo come leggero era ‘l suo durare, ancora che sano fosse, sí cominciai a piangere fra me stesso di tanta miseria. Onde sospirando forte, dicea fra me medesimo: «Di necessità conviene, che la gentilissima Beatrice alcuna volta si moia». E però mi giunse uno sí forte smarrimento, che chiusi gli occhi e cominciami a travagliare sí come farnetica persona ed a imaginare in questo modo: che nel cominciamento de l’ errare che fece la mia fantasia, apparvero a me certi visi di donne scapigliate, che mi diceano: «Tu pur morrai». E poi, dopo queste donne, m’ apparvero certi visi diversi e orribili a vedere, li quali mi diceano: «Tu se’ morto». Cosí cominciando ad errare la mia fantasia, venni a quello, che non sapea ov’ io mi fossi; e vedere mi parea donne andare scapigliate piangendo per via, maravigliosamente triste; e pareami vedere lo sole oscurare sí, che le stelle si mostravano di colore, ch’ elle mi faceano giudicare che piangessero: e pareami che gli uccelli volando per l’aria cadessero morti, e che fossero grandissimi terremuoti. E maravigliandomi in cotale fantasia, e paventando assai, imaginai alcuno amico, che mi venisse a dire: «Or non sai? la tua mirabile donna è partita di questo secolo». Allora cominciai a piangere molto pietosamente; e non solamente piangea ne la immaginazione, ma piangea con gli occhi, bagnandoli di vere lagrime. Io imaginava di guardare verso lo cielo, e pareami vedere moltitudine d’ angeli li quali tornassero in suso, ed aveano dinanzi da loro una nebuletta bianchissima. A me parea che questi angeli cantassero gloriosamente; e le parole del loro canto mi parea udire che fossero queste: Osanna in excelsis; ed altro non mi parea udire. Allora mi parea che ‘l cuore, ov’ era tanto amore, mi dicesse: «Vero è che morta giace la nostra donna». E per questo mi parea andare per vedere lo corpo nel quale era stata quella nobilissima e beata anima. E fue sí forte la erronea fantasia, che mi mostrò questa donna morta: e pareami che donne la covrissero, ciò è la sua testa, con un bianco velo: e pareami che la sua faccia avesse tanto aspetto d’umilitade, che parea che dicesse: «Io sono a vedere lo principio de la pace». In questa imaginazione mi giunse tanta umilitade per vedere lei, che io chiamava la morte, e dicea: «Dolcissima Morte, vieni a me, e non m’ essere villana, però che tu dèi essere gentile, in tal parte se’ stata! or vieni a me che molto ti disidero: e tu ‘l vedi, ch’ i’ porto già lo tuo colore». E quando io avea veduto compiere tutti li dolorosi mestieri, che a le corpora de’ morti s’ usano di fare, mi parea tornare ne la mia camera, e quivi mi parea guardare verso lo cielo: e sí forte era la mia imaginazione, che, piangendo incominciai a dire con verace voce: «Oi, anima bellissima, come è beato colui che ti vede!». E dicendo io queste parole con doloroso singulto di pianto, e chiamando la morte che venisse a me, una donna giovane e gentile, la quale era lungo ‘l mio letto, credendo che ‘l mio piangere e le mie parole fossero solamente per lo dolore de la mia infermitade, con grande paura cominciò a piangere. Onde altre donne che per la camera erano, s’accorsero di me, ched io piangea, per lo pianto che vedeano fare a questa: onde facendo lei partire da me, la quale era a me di propinquissima sanguinità congiunta, elle si trassero verso me per isvegliarmi, credendo ch’ io sognasse, e diceanmi: «Non dormire più», e «non ti sconfortare». E parlandomi cosí, sí mi cessò la forte fantasia entro in quello punto ch’ io volea dire: «O Beatrice, benedetta sie tu». E già detto avea: «O Beatrice», quando riscotendomi apersi li occhi, e vidi ch’ io era ingannato; e con tutto ch’ io chiamasse questo nome, la mia voce era sí rotta dal singulto del piangere, che queste donne non mi potettero intendere, secondo il mio parere. Et avvegna che io vergognassi molto, tuttavia per alcuno ammonimento d’Amore mi rivolsi a loro. E quando mi videro, cominciaro a dire: «Questi pare morto», e a dire tra loro: «procuriamo di confortarlo». Onde molte parole mi diceano da confortarmi, e talora mi domandavano di che io avessi avuto paura. Onde io, essendo alquanto riconfortato, e conosciuto lo fallace imaginare, rispuosi loro: «Io vi dirò quello ch’ i’ ho avuto». Allora cominciai dal principio infino a la fine e dissi loro quello che veduto avea, tacendo il nome di questa gentilissima. Onde poi, sanato di questa infermitade, propuosi di dire parole di questo che m’ era divenuto, però che mi parea che fosse amorosa cosa da udire; e però ne dissi questa canzone: Donna pietosa e di novella etate, ordinata sí come manifesta la infrascritta divisione.

[Canzone II]

 

Donna pietosa e di novella etate,
adorna assai di gentilezze umane,
ch’ era là ov’ io chiamava spesso morte,
veggendo li occhi miei pien di pietate,
e ascoltando le parole vane,
si mosse con paura a pianger forte;
e altre donne, che si fuoro accorte
di me per quella che meco piangía,
fecer lei partir via,
e approssimârsi per farmi sentire.
Qual dicea: «Non dormire»;
e qual dicea: «Perché sí ti sconforte?»
Allor lassai la nova fantasia,
chiamando il nome de la donna mia.
Era la voce mia sí dolorosa
e rotta sí da l’angoscia del pianto,
ch’ io solo intesi il nome nel mio core;
e con tutta la vista vergognosa,
ch’ era nel viso mio giunta cotanto,
mi fece verso lor volgere Amore.
Elli era tale a veder mio colore,
che facea ragionar di morte altrui:
«Deh, consoliam costui»
pregava l’ una l’ altra umilemente;
e dicevan sovente:
«Che vedestù, che tu non hai valore?»
E quando un poco confortato fui,
io dissi: «Donne, dicerollo a vui.
Mentr’ io pensava la mia frale vita,
e vedea ‘l suo durar com’ è leggiero,
piansemi Amor nel core, ove dimora;
per che l’anima mia fu sí smarrita,
che sospirando dicea nel pensero:
– ben converrà che la mia donna mora. –
Io presi tanto smarrimento allora,
ch’ io chiusi li occhi vilmente gravati,
e furon sí smagati
li spirti miei, che ciascun giva errando;
e poscia imaginando,
di conoscenza e di verità fora,
visi di donne m’ apparver crucciati,
che mi dicean: – pur morràti, morràti. –
Poi vidi cose dubitose molte,
nel vano imaginar, dov’io entrai;
ed esser mi parea non so in qual loco,
e veder donne andar per via disciolte,
qual lagrimando, e qual traendo guai,
che di tristizia saettavan foco.
Poi mi parve vedere a poco a poco
turbar lo sole ed apparir la stella,
e pianger elli ed ella;
cader li augelli volando per l’âre,
e la terra tremare;
ed omo apparve scolorito e fioco,
dicendomi: – Che fai? Non sai novella?
morta è la donna tua, ch’ era sí bella. –
Levava li occhi miei bagnati in pianti,
e vedea (che parean pioggia di manna),
li angeli che tornavan suso in cielo,
e una nuvoletta avean davanti,
dopo la qual gridavan tutti: – Osanna, –
e se altro avesser detto, a voi dirèlo.
Allor diceva Amor: – Più nol ti celo;
vieni a veder nostra donna che giace. –
Lo imaginar fallace
mi condusse a veder madonna morta;
e quand’ io l’ebbi scorta,
vedea che donne la covrían d’ un velo;
ed avea seco umilità verace,
che parea che dicesse: – Io sono in pace. –
Io divenía nel dolor sí umile,
veggendo in lei tanta umiltà formata,
ch’ io dicea: – Morte, assai dolce ti tegno;
tu dèi omai esser cosa gentile,
poi che tu se’ ne la mia donna stata,
e dèi aver pietate e non disdegno.
Vedi che sí desideroso vegno
d’ esser de’ tuoi, ch’ io ti somiglio in fede.
Vieni, ché ‘l cor te chiede.-
Poi mi partía, consumato ogni duolo;
e quand’ io era solo,
dicea, guardando verso l’alto regno:
– Beato, anima bella, chi ti vede! –
Voi mi chiamaste allor, vostra mercede.»

 

Questa canzone ha due parti: ne la prima dico, parlando a indifinita persona, com’ io fui levato d’ una vana fantasia da certe donne, e come promisi loro di dirla: ne la seconda dico, comeio dissi a loro. La seconda comincia quivi: Mentr’io pensava la mia frale vita [v. 29]. La prima parte si divide in due: ne la prima dico quello che certe donne, e che una sola, dissero e fecero per la mia fantasia, quanto è dinanzi ched io fossi tornato in verace condizione; ne la seconda dico quello che queste donne mi dissero, poi che io lasciai questo farneticare; e comincia questa parte quivi: Era la voce mia [v. 15]. Poscia quando dico: Mentr’io pensava, dico com’ io dissi loro questa mia imaginazione; ed intorno a ciò fo due parti: ne la prima dico per ordine questa imaginazione; ne la seconda, dicendo a che ora mi chiamaro, le ringrazio chiusamente; e comincia quivi questa parte: Voi mi chiamaste [v. 84].

XXIV

Appresso questa vana imaginazione, avvenne un die che, sedendo io pensoso in alcuna parte, ed io mi sentío cominciare un terremuoto nel cuore, cosí come io fossi stato presente a questa donna. Allora dico che mi giunse una imaginazione d’Amore: che mi parve vederlo venire da quella parte ove la mia donna stava; e pareami che lietamente mi dicesse nel cor mio: «Pensa di benedicere lo dí che io ti presi, però che tu lo dèi fare». E certo mi parea avere lo core sí lieto, che non mi parea che fosse lo mio cuore, per la sua nuova condizione. E poco dopo queste parole, che lo core mi disse con la lingua d’Amore, io vidi venire verso me una gentile donna, la quale era di famosa bieltade, e fu già molto donna di questo primo mio amico. E lo nome di questa donna era Giovanna, salvo che per la sua bieltade, secondo che altri crede, imposto l’era nome Primavera: e cosí era chiamata. E appresso lei, guardando, vidi venire la mirabile Beatrice. Queste donne andaro presso di me cosí l’ una appresso l’ altra, e parve che Amore mi parlasse nel cuore, e dicesse: «Quella prima è nominata Primavera solo per questa venuta d’oggi; ché io mossi lo imponitore del nome a chiamarla cosí Primavera, ciò è prima verrà lo díe che Beatrice si mosterrà dopo la imaginazione del suo fedele. E se anco voli considerare lo primo nome suo, tanto è quanto dire prima verrà, però che lo suo nome Giovanna è da quello Giovanni, lo quale precedette la verace luce, dicendo: Ego vox clamans in deserto: parate viam domini». Ed anche mi parve che mi dicesse, dopo, queste parole: «E chi volesse sottilmente considerare, quella Beatrice chiamerebbe Amore, per molta simiglianza che ha meco». Onde io poi ripensando, propuosi di scrivere in rima al mio primo amico (tacendomi certe parole le quali pareano da tacere), credendo io che ancora lo suo cuore mirasse la bieltade di questa Primavera gentile. Dissi questo sonetto:

[Sonetto XIV]

 

Io mi sentí’ svegliar dentro a lo core
un spirito amoroso che dormía:
e poi vidi venir da lungi Amore
allegro sí, che appena il conoscía,
dicendo: «Or pensa pur di farmi onore»;
e ‘n ciascuna parola sua ridía.
E, poco stando meco il mio segnore,
guardando in quella parte, onde venía,
io vidi monna Vanna e monna Bice
venire invêr lo loco là ov’ io era,
l’ una appresso de l’ altra maraviglia:
e sí come la mente mi ridice,
Amor mi disse: «Quell’ è Primavera,
e quell’ ha nome Amor, sí mi somiglia».

 

Questo sonetto ha molte parti: la prima de le quali dice, come io mi sentí’ svegliare lo tremore usato nel cuore, e come parve che Amore m’ apparisse allegro da lunga parte; la seconda dice, come mi parea che Amore mi dicesse nel mio cuore, e quale mi parea; la terza dice come, poi che questi fue alquanto stato meco cotale, io vidi ed udío certe cose. La seconda parte comincia quivi: Dicendo: Or pensa pur di farmi onore [v. 5]; la terza quivi: E poco stando [v. 7]. La terza parte si divide in due: ne la prima dico quello ch’ io vidi; ne la seconda dico quello ch’ io udío; e comincia quivi: Amor mi disse [v. 13].

XXV

Potrebbe qui dubitare persona degna da dichiararle ogni dubitazione, e dubitare potrebbe di ciò ch’ io dico d’Amore, come se fosse una cosa per sé, e non solamente sustanzia intelligente, ma sí come fosse sustanzia corporale. La quale cosa, secondo la verità, è falsa; ché Amore non è per sé sí come sustanzia, ma è uno accidente in sustanzia. E che io dica di lui come se fosse corpo, e ancora sí come se fosse uomo, appare per tre cose che dico di lui. Dico che lo vidi venire; onde, con ciò sia cosa che venire lo dica moto locale, e localmente mobile per sé, secondo lo filosofo, sia solamente corpo, appare che io ponga Amore essere corpo. Dico anche di lui che ridea, ed anche che parlava; le quali cose paiono essere proprie de l’uomo, e spezialmente essere risibile; e però appare ch’ io ponga lui essere uomo. A cotale cosa dichiarare, secondo che è buono a presente, prima è da intendere che anticamente non erano dicitori d’Amore in lingua volgare, anzi erano dicitori d’Amore certi poeti in lingua latina: tra noi, dico, avvegna forse che tra altra gente addivenisse, e addivegna ancora sí come in Grecia, non volgari ma litterati poeti queste cose trattavano. E non è molto numero d’ anni passati, che apparirono prima questi poeti volgari; ché dire per rima in volgare tanto è quanto dire per versi in latino, secondo alcuna proporzione. E segno che sia picciolo tempo, è che, se volemo cercare in lingua d’oco e in lingua di , noi non troviamo cose dette anzi lo presente tempo per cento e cinquanta anni. E la cagione, per che alquanti grossi ebbero fama di sapere dire, è che quasi fuoro li primi che dissero in lingua di . E ‘l primo, che cominciò a dire sí come poeta volgare, si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna, a la quale era malagevole d’ intendere li versi latini. E questo è contra coloro, che rimano sopr’ altra matera che amorosa, con ciò sia cosa che cotale modo di parlare fosse dal principio trovato per dire d’ Amore. Onde, con ciò sia cosa che a li poeti sia conceduta maggiore licenza di parlare che a li prosaici dittatori, e questi dicitori per rima non siano altro che poeti volgari, degno è e ragionevole che, a loro sia maggiore licenzia largita di parlare, che a li altri parlatori volgari: onde, se alcuna figura o colore retorico è conceduto a li poeti, conceduto è a li rimatori. Dunque se noi vedemo, che li poeti hanno parlato a le cose inanimate sí come se avessero senso o ragione, e fattele parlare insieme; e non solamente cose vere, ma cose non vere (ciò è che detto hanno, di cose le quali non sono che parlano, e detto che molti accidenti parlano, sí come se fossero sustanzie ed uomini); degno è ‘l dicitore per rima di fare lo somigliante, ma non sanza ragione alcuna, ma con ragione, la quale poi sia possibile ad aprire per prosa. Che li poeti abbiano cosí parlato, come detto è, appare per Virgilio; lo quale dice che Giuno, ciò è una dea nemica de li Troiani, parlòe ad Eolo, segnore de li venti, quivi nel primo de lo Eneida: Eole, nanque tibi, e che questo segnore le rispuose quivi: Tuus, o regina, quid optes explorare labor; mihi iussa capessere fas est. Per questo medesimo poeta parla la cosa, che non è animata, a le cose animate nel terzo de lo Eneida, quivi: Dardanide duri. Per Lucano parla la cosa animata a la cosa inanimata, quivi: Multum, Roma, tamen debes civilibus armis. Per Orazio parla l’uomo a la sua scienzia medesima, sí come ad altra persona; e non solamente sono parole d’Orazio, ma dicele quasi ne lo modo del buono Omero, quivi ne la sua Poetria: Dic mihi, Musa, virum. Per Ovidio parla Amore sí come se fosse persona umana, nel principio del libro c’ ha nome Remedio d’ Amore, quivi: Bella mihi, video, bella parantur, ait. E per questo puote essere manifesto a chi dubita in alcuna parte di questo mio libello. E acciò che non ne pigli alcuna baldanza persona grossa, dico che né li poeti parlano cosí sanza ragione, né quelli che rimano deono parlare cosí, non avendo alcuno ragionamento in loro di quello che dicono; però che grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cosa sotto vesta di figura o di colore retorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta, in guisa che avessero verace intendimento. E questo mio primo amico ed io ne sapemo bene di quelli che cosí rimano stoltamente.

XXVI

Questa gentilissima donna, di cui ragionato è ne le precedenti parole, venne in tanta grazia de le genti, che quando passava per via, le persone correano per vedere lei; onde mirabile letizia me ne giungea. E quando ella fosse presso d’ alcuno, tanta onestade giungea nel cuore di quello, che non ardía di levare li occhi, né di rispondere al suo saluto; e di questo molti, sí come esperti, mi potrebbero testimoniare a chi nollo credesse. Ella coronata e vestita d’umiltade s’ andava, nulla gloria mostrando di ciò ch’ ella vedea e udía. Diceano molti, poi che passata era: «Questa non è femina, anzi è uno de li bellissimi angeli del cielo». Ed altri diceano: «Questa è una maraviglia; che benedetto sia lo Segnore, che sí mirabilemente sae adoperare!». Io dico ch’ ella si mostrava sí gentile e sí piena di tutti li piaceri, che quelli che la miravano comprendeano in loro una dolcezza onesta e soave tanto che ridire nollo sapeano; né alcuno era lo quale potesse mirare lei, che nel principio non gli convenisse sospirare. Queste e più mirabili cose da lei procedeano virtuosamente. Onde io pensando a ciò, volendo ripigliare lo stilo de la sua loda, propuosi di dire parole, ne le quali io dessi ad intendere de le sue mirabili ed eccellenti operazioni; acciò che non pur coloro che la poteano sensibilemente vedere, ma gli altri sappiano di lei quello che per le parole ne posso fare intendere. Allora dissi questo sonetto, lo quale comincia cosí:

[Sonetto XV]

 

Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia, quand’ ella altrui saluta,
ch’ ogne lingua deven tremando muta,
e gli occhi no l’ ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente e d’umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
dal cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi sí piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ‘ntender nolla può chi nolla prova.
E par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’ anima: Sospira.

 

Questo sonetto è sí piano ad intendere, per quello che narrato è dinanzi, che non abbisogna d’ alcuna divisione; e però lassando lui, dico che questa mia donna venne in tanta grazia, che non solamente ella era onorata e laudata, ma per lei erano onorate e laudate molte. Ond’ io veggendo ciò e volendolo manifestare a chi ciò non vedea, propuosi anche di dire parole, ne le quali ciò fosse significato; e dissi allora questo sonetto, lo quale narra di lei come la sua vertude adoperava ne l’ altre, sí come appare ne la sua divisione.

[Sonetto XVI]

 

Vede perfettamente ogne salute
chi la mia donna tra le donne vede;
quelle, che vanno con lei, son tenute
di bella grazia a dio render merzede.
E sua beltate è di tanta vertute,
che nulla invidia a l’ altre ne procede,
anzi le face andar seco vestute
di gentilezza e d’amore e di fede.
La vista sua fa onne cosa umíle;
e non fa sola sé parer piacente,
ma ciascuna per lei riceve onore.
Ed è ne gli atti suoi tanto gentile,
che nessun la si può recare a mente,
che non sospiri in dolcezza d’amore.

 

Questo sonetto ha tre parti; ne la prima dico tra che gente questa donna più mirabile parea; ne la seconda dico sí come era graziosa la sua compagnia; ne la terza dico di quelle cose che vertuosamente operava in altrui. La seconda parte comincia quivi: Quelle, che vanno [v. 3]; la terza quivi: E sua beltate [v. 5]. Questa ultima parte si divide in tre: ne la prima dico quello che operava ne le donne, ciò è per loro medesime; ne la seconda dico quello che operava in loro per altrui; ne la terza dico come non solamente ne le donne, ma in tutte le persone, e non solamente la sua presenza, ma, ricordandosi di lei, mirabilemente operava. La seconda comincia quivi: La vista sua [v. 9]; la terza quivi: Ed è ne gli atti [v. 12].

XXVII

Appresso ciò, comincia’ a pensare uno giorno sopra quello che detto avea de la mia donna, ciò è in questi due sonetti precedenti; e veggendo nel mio pensiero che io non avea detto di quello che al presente tempo adoperava in me, pareami difettivamente avere parlato; e però propuosi di dire parole, ne le quali io dicessi come mi parea essere disposto a la sua operazione, e come operava in me la sua vertude; e non credendo potere ciò narrare in brevitade di sonetto, cominciai allora una canzone, la quale comincia:

[Stanza]

 

Sí lungiamente m’ ha tenuto Amore,
e costumato a la sua segnoria,
che sí com’ elli m’ era forte in pria,
cosí mi sta soave ora nel core.
Però quando mi tolle sí ‘l valore,
che li spiriti par che fuggan via,
allor sente la frale anima mia
tanta dolcezza, che ‘l viso ne smore.
Poi prende Amore in me tanta vertute,
che fa li spirti miei gire parlando,
ed escon for chiamando
la donna mia, per darmi più salute.
Questo m’avvene ovunqu’ ella mi vede,
e sí è cosa umil, che nol si crede.

 

XXVIII

Quomodo sedet sola civitas plena populo! facta est quasi vidua domina gentium. Io era nel proponimento ancora di questa canzone, e compiuta n’ avea questa soprascritta stanzia, quando lo segnore de la giustizia chiamò questa gentilissima a gloriare sotto la ‘nsegna di quella reina benedetta Maria, lo cui nome fue in grandissima reverenzia ne le parole di questa Beatrice beata. E avvegna che forse piacerebbe a presente trattare alquanto de la sua partita da noi, non è lo mio intendimento di trattarne qui per tre ragioni: la prima che ciò non è del presente proposito, se volemo guardare nel proemio che precede questo libello; la seconda si è che, posto che fosse del presente proposito, ancora non sarebbe sufficiente la mia lingua a trattare, come si converrebbe, di ciò; la terza si è che, posto che fosse l’ uno e l’ altro, non è convenevole a me trattare di ciò, per quello che, trattando, converrebbe esser me laudatore di me medesimo, la qual cosa è al postutto biasimevole a chi lo fae: e però lascio cotale trattato ad altro chiosatore. Tuttavia, perché molte volte lo numero del nove ha preso luogo tra le parole dinanzi, onde pare che sia non sanza ragione, e ne la sua partita cotale numero pare ch’ avesse molto luogo, conviensi di dire quindi alcuna cosa, acciò che pare al proposito convenirsi. Onde prima dirò come ebbe luogo ne la sua partita, e poi n’ assegnerò alcuna ragione, per che questo numero fue a lei cotanto

XXIX

Io dico che, secondo l’ usanza d’ Arabia, l’ anima sua nobilissima si partío ne la prima ora del nono giorno del mese; e secondo l’ usanza di Siria, ella si partío nel nono mese de l’anno, però che ‘l primo mese è ivi Tisirin primo, lo quale a noi è Ottobre. E secondo l’usanza nostra, ella si partío in quello anno de la nostra indizione, ciò è de li anni Domini, in cui lo perfetto numero era compiuto nove volte in quello centinaio, nel quale in questo mondo ella fue posta: ed ella fue de li cristiani del terzodecimo centinaio. Perché questo numero fosse in tanto amico di lei, questa potrebbe essere una ragione: con ciò sia cosa che, secondo Tolomeo e secondo la cristiana veritade, nove siano li cieli che si muovono, e secondo comune opinione astrologa, li detti cieli adoperino qua giuso secondo la loro abitudine insieme; questo numero fue amico di lei per dare a intendere, che ne la sua generazione tutti e nove li mobili cieli perfettissimamente s’ avíano insieme. Questa è una ragione di ciò; ma più sottilmente pensando, e secondo la infallibile verità, questo numero fue ella medesima; per similitudine dico, e ciò intendo cosí. Lo numero del tre è la radice del nove, però che sanza numero altro alcuno, per sé medesimo fa nove, sí come vedemo manifestamente che tre via tre fa nove. Dunque se ‘l tre è fattore per sé medesimo del nove, e cosí ‘l fattore de’ miracoli è tre, ciò è Padre e Figliuolo e Spirito santo, li quali sono tre ed uno, questa donna fue accompagnata da questo numero del nove a dare ad intendere, ch’ ella era un nove, ciò è uno miracolo, la cui radice, ciò è del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade. Forse ancora per più sottile persona si vederebbe in ciò più sottile ragione; ma questa è quella ch’ io ne veggio, e che più mi piace.

XXX

Poi che fue partita da questo secolo, rimase tutta la sopradetta cittade quasi vedova e dispogliata da ogni dignitade; onde io, ancora lagrimando in questa desolata cittade, scrissi a li principi de la terra alquanto de la sua condizione, pigliando quello cominciamento di Geremia profeta che dice: Quomodo sedet sola. E questo dico, acciò che altri non si maravigli, perché io l’abbia allegato di sopra, quasi come entrata de la nova materia che appresso viene. E se alcuno volesse me riprendere di ciò, ch’ io non iscrivo qui le parole che seguitano a quelle allegate, scusomene, però che lo ‘ntendimento mio non fue dal principio di scrivere altro che per volgare: onde, con ciò sia cosa che le parole, che seguitano a quelle che sono allegate, siano tutte latine, sarebbe fuori del mio intendimento se le scrivessi; e simile intenzione so ch’ ebbe questo mio primo amico, a cui io ciò scrivo, ciò è ch’ io li scrivessi solamente in volgare.

XXXI

Poi che li miei occhi ebbero per alquanto lagrimato un tempo, e’ tanto affaticati erano che non poteano disfogare la mia trestizia, onde pensai di volere sfogarla con alquante parole dolorose; e però propuosi di fare una canzone, ne la quale piangendo ragionassi di lei, per cui tanto dolore era fatto distruggitore de la mia anima; e cominciai allora una canzone, la qual comincia: Li occhi dolenti per pietà del core. Ed acciò che questa canzone paia rimanere più vedova dopo lo suo fine, la dividerò prima che io la scriva: e cotale modo terrò da qui innanzi. Io dico che questa cattivella canzone ha tre parti: la prima è proemio; ne la seconda ragiono di lei; ne la terza parlo a la canzone pietosamente. La seconda parte comincia quivi: Ita n’ è Beatrice [v. 15]; la terza quivi: Pietosa mia canzone [v. 71]. La prima parte si divide in tre: ne la prima dico perché io mi muovo a dire; ne la seconda dico, a cu’ io voglio dire; ne la terza dico, di cu’ io voglio dire. La seconda comincia quivi: E perché me ricorda [v. 7]; la terza quivi: E dicerò [v. 12]. Poscia quando dico: Ita n’ è Beatrice, ragiono di lei; e intorno a ciò foe due parti. Prima dico la cagione per che tolta ne fue; appresso dico come altri si piange de la sua partita, e comincia questa parte quivi: Partí si de la sua [v. 29]. Questa parte si divide in tre: ne la prima dico chi non la piange; ne la seconda dico chi la piange; ne la terza dico de la mia condizione. La seconda comincia quivi: Ma ven trestizia e voglia [v. 38]; la terza quivi: Dannomi angoscia li sospiri miei [v. 43]. Poscia quando dico: Pietosa mia canzone, parlo a questa canzone, disignandole a quali donne se ne vada, e steasi con loro.

[Canzone III]

 

Li occhi dolenti per pietà del core
hanno di lagrimar sofferta pena,
sí che per vinti son remasi omai.
Ora, s’ i’ voglio sfogar lo dolore,
che a poco a poco a la morte mi mena,
convïemmi parlar traendo guai.
E perché me ricorda che io parlai
de la mia donna, mentre che vivía,
donne gentili, volentier con vui,
non voi’ parlare altrui,
se no a cor gentil che in donna sia;
e dicerò di lei piangendo, pui
che sí n’ è gita in ciel subitamente,
e ha lasciato Amor meco dolente.
Ita n’ è Beatrice ‘n l’ alto cielo,
nel reame ove li angeli hanno pace,
e sta con loro; e voi, donne, ha lassate:
no la ci tolse qualità di gelo
né di calore, come l’ altre face,
ma solo fue sua gran benignitate;
ché luce de la sua umilitate
passò li cieli con tanta vertute,
che fe’ maravigliar l’eterno Sire,
sí che dolce disire
l o giunse di chiamar tanta salute;
e fêlla di qua giù a sé venire,
perché vedea ch’ esta vita noiosa
non era degna di sí gentil cosa.
Partí si de la sua bella persona
piena di grazia l’anima gentile,
ed è si glorïosa in loco degno.
Chi no la piange, quando ne ragiona,
core ha di pietra sí malvagio e vile,
ch’ entrar no i puote spirito benegno.
No è di cor villan sí alto ingegno,
che possa imaginar di lei alquanto,
e però no gli ven di pianger doglia:
ma ven trestizia e voglia
di sospirare e di morir di pianto,
e d’ ogne consolar l’anima spoglia
chi vede nel pensero alcuna volta
quale ella fue, e com’ ella n’ è tolta.
Dannomi angoscia li sospiri forte,
quando ‘l pensero ne la mente grave
mi reca quella che m’ ha ‘l cor diviso:
e spesse fiate pensando a la morte,
vïemmene un disío tanto soave,
che mi tramuta lo core nel viso.
Quando lo imaginar mi ven ben fiso,
giugnemi tanta pena d’ ogni parte,
ch’ io mi riscuoto per dolor ch’ i’ sento;
e sí fatto divento,
che da le genti vergogna mi parte.
Poscia piangendo, sol nel mio lamento
chiamo Beatrice, e dico: «Or se’ tu morta?»;
e mentre ch’io la chiamo, mi conforta.
Pianger di doglia e sospirar d’angoscia
mi strugge ‘l core ovunque sol mi trovo,
sí che ne ‘ncrescerebbe a chi ‘l vedesse:
e quale è stata la mia vita, poscia
che la mia donna andò nel secol novo,
lingua no è che dicer lo sapesse:
e però, donne mie, pur ch’ io volesse,
non vi sapre’ io dir ben quel ch’ io sono,
sí mi fa travagliar l’acerba vita;
la quale è sí ‘nvilita,
che ogn’ om par che mi dica: «Io t’abbandono»,
veggendo la mia labbia tramortita.
Ma qual ch’ io sia, la mia donna il si vede,
e io ne spero ancor da lei merzede.
Pietosa mia canzone, or va piangendo;
e ritruova le donne e le donzelle,
a cui le tue sorelle
erano usate di portar letizia;
e tu, che se’ figliuola di trestizia,
vatten disconsolata a star con elle.

 

XXXII

Poi che detta fue questa canzone, si venne a me uno, lo quale, secondo li gradi de l’amistade, è amico a me immediatamente dopo lo primo: e questi fue tanto distretto di sanguinitade con questa gloriosa, che nullo più presso l’ era. E poi che fue meco a ragionare, mi pregò ch’ io li dovessi dire alcuna cosa per una donna che s’ era morta; e simulava sue parole, acciò che paresse che dicesse d’ un’ altra, la quale morta era certamente: onde io accorgendomi che questi dicea solamente per questa benedetta, sí li dissi di fare ciò, che mi domandava lo suo prego. Onde poi pensando a ciò, propuosi di fare uno sonetto, nel quale mi lamentassi alquanto, e di darlo a questo mio amico, acciò che paresse, che per lui l’ avessi fatto; e dissi allora questo sonetto: Venite a ‘ntender li sospiri miei, lo quale ha due parti: ne la prima chiamo li fedeli d’Amore che m’ intendano; ne la seconda narro de la mia misera condizione. La seconda comincia quivi: li quai disconsolati [v. 3].

[Sonetto XVII]

 

Venite a ‘ntender li sospiri miei,
oi cor gentili, ché pietà ‘l disía:
li quai disconsolati vanno via,
e s’ e’ non fosser, di dolor morrei;
però che gli occhi mi sarebber rei
molte fïate più ch’ io non vorría,
lasso di pianger sí la donna mia,
che sfogasser lo cor, piangendo lei.
Voi udirete lor chiamar sovente
la mia donna gentil, che si n’ è gita
al secol degno de la sua vertute;
e dispregiar talora questa vita,
in persona de l’anima dolente,
abbandonata de la sua salute.

 

XXXIII

Poi che detto ebbi questo sonetto, pensandomi che questi era a cui lo intendea dare quasi come per lui fatto, vidi che povero mi parea lo servigio e nudo a cosí distretta persona di questa gloriosa. E però anzi che li dessi questo soprascritto sonetto, sí dissi due stanzie d’una canzone; l’ una per costui veracemente, e l’ altra per me, avvegna che paia l’ una e l’ altra per una persona detta, a chi non guarda sottilmente. Ma chi sottilmente le mira vede bene che diverse persone parlano, acciò che l’ una non chiama sua donna costei, e l’ altra sí, come appare manifestamente. Questa canzone e questo soprascritto sonetto lo diedi, dicendo io lui che per lui solo fatto l’avea.
La canzone comincia: Quantunque volte, e ha due parti: ne l’ una, ciò è ne la prima stanzia, si lamenta questo mio caro e distretto a lei; ne la seconda mi lamento io, ciò è ne l’ altra stanzia, che comincia: E’ si raccoglie ne li miei [v. 14]. E cosí appare che in questa canzone si lamentano due persone, l’ una de le quali si lamenta come fratello, l’ altra come servitore.

[Canzone IV]

 

Quantunque volte, lasso! mi rimembra
ch’ io non debbo già mai
veder la donna ond’ io vo sí dolente,
tanto dolore intorno ‘l cor m’ assembra
la dolorosa mente,
ch’ io dico: «Anima mia, ché non ten vai?
ché li tormenti, che tu porterai
nel secol, che t’ è già tanto noioso,
mi fan pensoso di paura forte;
ond’ io chiamo la morte,
come soave e dolce mio riposo;
e dico: – Vieni a me – con tanto amore,
che sono astioso di chïunque more».
E’ si raccoglie ne li miei sospiri
un sòno di pietate,
che va chiamando Morte tuttavia.
A lei si volser tutti i miei disiri,
quando la donna mia
fu giunta da la sua crudelitate;
per che ‘l piacere de la sua bieltate,
partendo sé da la nostra veduta,
divenne spirital bellezza grande,
che per lo cielo spande
luce d’amor, che li angeli saluta
e lo intelletto loro alto, sottile
face maravigliar, sí v’ è gentile.

 

XXXIV

In quello giorno nel quale si compiea l’ anno, che questa donna era fatta de li cittadini di vita eterna, io mi sedea in parte ne la quale, ricordandomi di lei, disegnava uno angelo sopra certe tavolette: e mentre io lo disegnava, volsi li occhi, e vidi lungo me uomini a li quali si convenía di fare onore. E’ riguardavano quello che io facea; e secondo che mi fu detto poi, elli erano stati già alquanto anzi che io me ne accorgesse. Quando li vidi, mi levai, e salutando loro dissi: «Altri era testé meco, però pensava». Onde partiti costoro, ritornai a la mia opera, cioè del disegnare de li angeli: e facendo ciò, mi venne uno pensiero di dire parole, quasi per annoale, e di scrivere a costoro li quali erano venuti a me; e dissi allora questo sonetto, lo quale comincia: Era venuta; lo quale ha due cominciamenti, e però lo dividerò secondo l’ uno e secondo l’ altro.
Dico che secondo lo primo, questo sonetto ha tre parti: ne la prima dico che questa donna era già ne la mia memoria; ne la seconda dico quello che Amore però mi facea; ne la terza dico de gli effetti d’ Amore. La seconda comincia quivi: Amor, che [v. 5]; la terza quivi: Piangendo uscivan for [v. 9]. Questa parte si divide in due: ne l’ una dico che tutti li miei sospiri uscivano parlando; ne la seconda dico che alquanti diceano certe parole diverse da gli altri. La seconda comincia quivi: Ma quelli [v. 12]. Per questo medesimo modo si divide secondo l’ altro cominciamento, salvo che ne la prima parte dico quando questa donna era cosí venuta ne la mia memoria, e ciò non dico ne l’ altro.

[Sonetto XVIII]

 

Primo
cominciamento
Secondo cominciamento
Era venuta ne la mente mia
la gentil donna, che per suo valore
fu posta da l’altissimo signore
nel ciel de l’ umiltate, ov’ è Maria.Era venuta ne la mente mia
quella donna gentil, cui piange Amore,
entro ‘n quel punto che lo suo valore
vi trasse a riguardar quel ch’ ‘i facía.Amor, che ne la mente la sentía,
s’ era svegliato nel destrutto core,
e diceva a’ sospiri: «Andate fore»;
per che ciascun dolente sen partía.
Piangendo uscivan for de lo mi’ petto
con una voce che sovente mena
le lagrime dogliose a li occhi tristi.
Ma quelli che n’uscían con maggior pena,
venían dicendo: «O nobile intelletto,
oggi fa l’ anno che nel ciel salisti».

 

XXXV

Poi per alquanto tempo, con ciò fosse cosa ched io fosse in parte, ne la quale mi ricordava del passato tempo, molto stava pensoso, e con dolorosi pensamenti, tanto che mi faceano parere de fore una vista di terribile sbigottimento. Onde io, accorgendomi del mio travagliare, levai li occhi per vedere se altri mi vedesse; Allora vidi una gentile donna giovane e bella molto, la quale da una finestra mi riguardava sí pietosamente, quanto a la vista, che tutta la pietà parea in lei accolta. Onde, con ciò sia cosa che quando li miseri veggiono di loro compassione altrui più tosto si muovono a lagrimare, quasi come di loro medesimi avendo pietade, io sentii allora cominciare li miei occhi a volere piangere; e però, temendo di non mostrare la mia vile vita, mi partío dinanzi da gli occhi di questa gentile; e dicea poi fra me medesimo: «E’ non puote essere, che con quella pietosa donna non sia nobilissimo amore». E però propuosi di dire un sonetto, nel quale io parlasse a lei, e conchiudesse in esso tutto ciò che narrato è in questa ragione. E però che per questa ragione è assai manifesto, sí nollo dividerò. Lo sonetto comincia:

[Sonetto XIX]

 

Videro li occhi miei quanta pietate
era apparita in la vostra figura,
quando guardaste gli atti e la statura,
ch’ io faccio per dolor molte fïate.
Allor m’ accorsi che voi pensavate
la qualità de la mia vita oscura,
sí che mi giunse ne lo cor paura
di dimostrar con li occhi mia viltate.
E tolsimi dinanzi a voi, sentendo
che si movean le lagrime dal core,
ch’ era sommosso da la vostra vista.
Io dicea poscia ne l’ anima trista:
«ben è con quella donna quello Amore,
lo qual mi face andar cosí piangendo».

 

 

XXXVI

 

Avvenne poi che là ‘vunque questa donna mi vedea, sí si facea d’ una vista pietosa e d’ un colore pallido quasi come d’ amore: onde molte fiate mi ricordava de la mia nobilissima donna, che di simile colore si mostrava tuttavia. E certo molte volte non potendo lagrimare né sfogare la mia trestizia, io andava per vedere questa pietosa donna, la quale parea che tirasse le lagrime fori de li miei occhi per la sua vista. E però mi venne volontà di dire anche parole, parlando a lei, e dissi questo sonetto, lo quale comincia: Color d’amore; ed è piano sanza dividerlo, per la sua precedente ragione. E questo è desso:

 

[Sonetto XX]

 

Color d’amore e di pietà sembianti
non preser mai cosí mirabilmente
viso di donna, per veder sovente
occhi gentili o dolorosi pianti,
come lo vostro, qualora davanti
vedetevi la mia labbia dolente;
sí che per voi mi ven cosa a la mente,
ch’ io temo forte non lo cor si schianti.
Io non posso tener li occhi distrutti
che non reguardin voi spesse fïate,
per desiderio di pianger ch’ elli hanno:
e voi crescete sí lor volontate,
che de la voglia si consumâr tutti;
ma lagrimar dinanzi a voi non sanno.

 

 

 

XXXVII

 

Io venni a tanto per la vista di questa donna, che li miei occhi si cominciaro a dilettare troppo di vederla; onde molte volte me ne crucciava nel mio cuore ed aveamene per vile assai; onde più volte bestemmiava la vanitade de li occhi miei, e dicea loro nel mio pensiero: «Or voi solevate fare piangere chi vedea la vostra condizione dolorosa, ed ora pare che vogliate dimenticarlo per questa donna che vi mira; che non mira voi, se non in quanto le pesa de la gloriosa donna di cui piangere solete; ma quanto potete fate, fate ché io la vi rimembrerò molto spesso, maladetti occhi! ché mai, se non dopo la morte, non dovrebbero le vostre lagrime aver restate». E quando cosí avea detto fra me medesimo a li miei occhi, e li sospiri m’ assalivano grandissimi ed angosciosi. E acciò che questa battaglia ched io avea meco non rimanesse saputa pur dal misero che la sentía, propuosi di fare un sonetto, e di comprendere in ello questa orribile condizione. E dissi questo sonetto, lo quale comincia: L’amaro lagrimar, ed hae due parti: ne la prima parlo a gli occhi miei sí come parlava il mio cuore in me medesimo: ne la seconda rimuovo alcuna dubitazione, manifestando chi è chi cosí parla; e comincia questa parte quivi: Cosí dice [v. 14]. Potrebbe bene ancora ricevere più divisioni, ma sarebbero indarno, però che è manifesto per la precedente ragione. E questo è ‘l sonetto che comincia:

 

[Sonetto XXI]

 

«L’amaro lagrimar che voi faceste,
oi occhi miei, cosí lunga stagione,
facea maravigliar l’ altre persone
de la pietate, come voi vedeste.
Ora mi par che voi l’ obliereste,
s’ io fosse dal mio lato sí fellone,
ch’ i’ non ven disturbasse ogne cagione,
membrandovi colei cu’ voi piangeste.
La vostra vanità mi fa pensare,
e spaventami sí, ch’ io temo forte
del viso d’ una donna che vi mira:
voi non dovreste mai, se non per morte,
la vostra donna, ch’ è morta, obliare».
Cosí dice ‘l mio core, e poi sospira.

 

 

 

XXXVIII

 

Recommi la vista di questa donna in sí nova condizione, che molte volte ne pensava sí come di persona che troppo mi piacesse; e pensava di lei cosí: «Questa è una donna gentile, bella, giovane e savia, e apparita forse per volontà d’Amore, acciò che la mia vita si riposi». E molte volte pensava più amorosamente, tanto che ‘l cuore consentiva in lui, ciò è nel suo ragionare. E quando io avea consentito ciò, e io mi ripensava sí come da la ragione mosso, e dicea fra me medesimo: «Deo, che pensiero è questo, che in cosí vil modo vuole consolar me e non mi lascia quasi altro pensare?» Poi si rilevava un altro pensiero, e diceami: «Or tu se’ stato in tanta tribulazione, perché non vuoli tu ritrarre da tanta amaritudine? Tu vedi che questo è uno spiramento d’Amore, che ne reca li desii d’Amore dinanzi, ed è mosso da cosí gentil parte, com’ è quella de gli occhi de la donna, che tanto pietosa ci s’ ha mostrata». Onde io avendo cosí più volte combattuto in me medesimo, ancora ne volli dire alquante parole; e però che la battaglia de’ pensieri vinceano coloro che per lei parlavano, mi parve che si convenisse di parlare a lei; e dissi questo sonetto, il quale comincia: Gentil pensero; e dico gentile in quanto ragionava di gentile donna, che per altro era vilissimo.
In questo sonetto fo due parti di me, secondo che li miei pensieri erano divisi. L’una parte chiamo cuore, ciò è l’ appetito; l’ altra chiamo anima, ciò è la ragione; e dico come l’ uno dice con l’ altro. E che degno sia di chiamare l’ appetito cuore, e la ragione anima, assai è manifesto a coloro, a cui mi piace che ciò sia aperto. Vero è che nel precedente sonetto io fo la parte del cuore contra quella de li occhi, e ciò pare contrario di quello che io dico nel presente; e però dico, che ivi lo cuore anche intendo per lo appetito, però che maggiore desiderio era ‘l mio ancora di ricordarmi de la gentilissima donna mia, che di vedere costei, avvegna che alcuno appetito n’ avessi già, ma leggero parea: onde appare che l’ un detto non è contrario a l’ altro. Questo sonetto ha tre parti: ne la prima comincio a dire a questa donna come lo mio desiderio si volge tutto verso lei; ne la seconda dico come l’ anima, ciò è la ragione, dice al cuore, ciò è a lo appetito; ne la terza dico come le risponde. La seconda parte comincia quivi: L’anima dice [v. 5]; la terza quivi: E’ le risponde [v. 9]. E questo è ‘l sonetto, che comincia quivi:

 

[Sonetto XXII]

 

Gentil pensero, che parla di vui,
sen vene a dimorar meco sovente,
e ragiona d’ amor sí dolcemente,
che face consentir lo core in lui.
L’anima dice al cor: «Chi è costui,
che vene a consolar la nostra mente;
ed è la sua vertù tanto possente,
ch’ altro penser no lascia star con nui?»
E’ le risponde: «Oi anima pensosa,
questi è uno spiritel novo d’amore,
che reca innanzi me li suoi desiri:
e la sua vita, e tutto ‘l suo valore,
mosse de li occhi di quella pietosa,
che si turbava de’ nostri martíri».

 

 

 

XXXIX

 

Contra questo avversario de la ragione si levòe un díe, quasi ne l’ ora de la nona, una forte imaginazione in me; ché mi parve vedere questa gloriosa Beatrice con quelle vestimenta sanguigne co le quali apparve prima a li occhi miei, e pareami giovane in simile etade in quale io primieramente sí la vidi. Allora cominciai a pensare di lei; e ricordandomi di lei secondo l’ ordine del tempo passato, lo mio cuore cominciò dolorosamente a pentère de lo desiderio a cui sí vilmente s’ avea lasciato possedere alquanti díe contra la costanzia de la ragione: e discacciato questo cotale malvagio desiderio, sí si rivolsero tutti li miei pensamenti a la loro gentilissima Beatrice. E dico che d’allora innanzi cominciai a pensare di lei sí con tutto lo vergognoso cuore, che li sospiri manifestavano ciò molte volte; però che tutti quasi diceano nel loro uscire quello che nel cuore si ragionava, ciò è lo nome di quella gentilissima, e come si partío da noi. E molte volte avvenía che tanto dolore avea in sé alcuno pensero, ch’ io dimenticava lui e là dov’ io era. Per questo raccendimento de’ sospiri si raccese lo sollenato lagrimare in guisa, che li miei occhi pareano due cose che disiderassero pur di piangere; e spesso avvenía che per lo lungo continuare del pianto, dintorno loro si facea un colore purpureo, lo quale suole apparire per alcuno martirio che altri riceva; onde appare che de la loro vanitade fuoro degnamente guiderdonati; sí che d’ allora innanzi non potero mirare persona che li guardasse, sí che loro potesse retrarre a simile intendimento. Onde io, volendo che cotale desiderio malvagio e vana intenzione paresse distrutto sí che alcuno dubbio non potessero inducere le rimate parole ch’ io avea dette innanzi, propuosi di fare un sonetto nel quale io comprendesse la sentenzia di questa ragione. E dissi allora: Lasso! per forza di molti sospiri; e dissi lasso in quanto mi vergognava di ciò, che li miei occhi aveano cosí vaneggiato. Questo sonetto non divido, però che assai lo manifesta la sua ragione.

 

[Sonetto XXIII]

 

Lasso! per forza di molti sospiri,
che nascon de’ pensier che son nel core,
li occhi son vinti, e non hanno valore
di riguardar persona che li miri.
E fatti son, che paion due disiri
di lagrimare e di mostrar dolore,
e spesse volte piangon sí, ch’ Amore
li ‘ncierchia di corona di martíri.
Questi penseri, e li sospir che io gitto,
diventan ne lo cor sí angosciosi,
ch’ Amor vi tramortisce, sí lien dole;
però ch’ elli hanno in lor li dolorosi
quel dolce nome di madonna scritto,
e de la morte sua molte parole.

 

 

 

XL

 

Dopo questa tribulazione avvenne (in quel tempo che molta gente va per vedere quella imagine benedetta la quale Gesú Cristo lasciò a noi per esemplo de la sua bellissima figura, la quale vede la mia donna gloriosamente), che alquanti peregrini passavano per una via la quale è quasi mezzo de la cittade, ove nacque e vivette e morío la gentilissima donna; li quali peregrini andavano, secondo che mi parve, molto pensosi. Ond’io pensando a loro, dissi fra me medesimo: «Questi peregrini mi paiono di lontana parte, e non credo che anche udissero parlare di questa donna, e non ne sanno niente; anzi li loro pensieri sono d’ altre cose che di queste qui; ché forse pensano de li loro amici lontani, li quali noi non conoscemo». Poi dicea fra me medesimo: «Io so che s’ elli fossero di propinquo paese, in alcuna vista parrebbero turbati, passando per lo mezzo de la dolorosa cittade». Poi dicea fra me medesimo: «Se io li potesse tenere alquanto, io li pur farei piangere anzi ch’ elli uscissero di questa cittade, però ched io direi parole, le quali farebbero piangere chiunque le intendesse».Onde, passati costoro da la mia veduta, propuosi di fare un sonetto, nel quale io manifestasse ciò che io avea detto fra me medesimo; e acciò che più paresse pietoso, propuosi di dire come se io avessi parlato a loro; e dissi questo sonetto, lo quale comincia: Deh peregrini che pensosi andate, e dissi peregrini secondo la larga significazione del vocabulo: ché peregrini si possono intendere in due modi, in uno largo ed in uno stretto. In largo, in quanto è peregrino chiunque è fuori de la sua patria; in modo stretto non s’ intende peregrino se non chiunque va verso la casa di sa’ Jacopo o riede: e però è da sapere, che in tre modi si chiamano propriamente le genti, che vanno al servigio de l’Altissimo. Chiamansi palmieri in quanto vanno oltremare, là onde molte volte recano la palma; chiamansi peregrini in quanto vanno a la casa di Galizia, però che la sepultura di sa’ Iacopo fue più lontana de la sua patria, che d’ alcuno altro apostolo; chiamansi romei in quanto vanno a Roma, là ove questi cu’ io chiamo peregrini andavano. Questo sonetto non divido, però che assai lo manifesta la sua ragione.

 

[Sonetto XXIV]

 

Deh peregrini che pensosi andate
forse di cosa che non v’ è presente,
venite voi da sí lontana gente,
com’ a la vista voi ne dimostrate?
che non piangete quando voi passate
per lo suo mezzo la città dolente,
come quelle persone, che neente
par che ‘ntendesser la sua gravitate.
Se voi restate per volerla udire,
certo lo cor de’ sospiri mi dice,
che lagrimando n’ uscireste pui.
Ell’ ha perduta la sua Beatrice;
e le parole, ch’ om di lei può dire,
hanno vertù di far piangere altrui.

 

 

 

XLI

 

Poi mandaro due donne gentili a me pregando che io mandassi loro di queste mie parole rimate; onde io, pensando la loro nobilità, propuosi di mandare loro e di fare una cosa nuova, la quale io mandassi a loro con esse, acciò che più onorevolmente adempiessi li loro prieghi. E dissi allora un sonetto, lo quale narra del mio stato, e mandàlo a loro col precedente sonetto accompagnato, e con un altro che comincia: Venite a ‘ntender. Lo sonetto, lo quale io feci allora, comincia: Oltre la spera; lo quale ha in sé cinque parti. Ne la prima dico là ove va lo mio pensero, nominandolo per lo nome d’ alcuno suo effetto. Ne la seconda dico per che va là suso, ciò è chi ‘l fa cosí andare. Ne la terza dico quello che vide, ciò è una donna onorata là suso: e chiamolo allora spirito peregrino, acciò che spiritualmente va là suso e sí come peregrino lo quale è fuori de la sua patria. Ne la quarta dico come elli la vede tale, cioè in tal qualitade, che io nol posso intendere, ciò è a dire che ‘l mio pensiero sale ne la qualità di costei in grado che ‘l mio intelletto nol puote comprendere; con ciò sia cosa che ‘l nostro intelletto s’ abbia a quelle benedette anime, sí come l’occhio debole al sole: e ciò dice lo Filosofo nel secondo de la Metafisica. Ne la quinta dico che, avvegna che io non possa intendere là ove lo pensero mi trae, ciò è a la sua mirabile qualitade, almeno intendo questo, ciò è che tutto è lo cotal pensare de la mia donna, però ch’ io sento lo suo nome spesso nel mio pensiero: e nel fine di questa quinta parte dico donne mie care, a dare ad intendere che sono donne coloro a cu’ io parlo. La seconda parte comincia quivi: Intelligenza nova [v. 3]; la terza quivi: Quand’elli è giunto [v. 5]; la quarta quivi: Vedela tal [v. 9]; la quinta quivi: So io che parla [v. 12]. Potrebbesi più sottilmente ancora dividere, e più sottilmente fare intendere; ma puotesi passare con questa divisione, e però non m’ intrametto di più dividerlo. E questo è ‘l sonetto, che comincia qui.

 

[Sonetto XXV]

 

Oltre la spera che più larga gira,
passa ‘l sospiro ch’ esce del meo core:
intelligenza nova, che l’ Amore
piangendo mette in lui, pur su lo tira.
Quand’ elli è giunto là dove disira,
vede una donna, che riceve onore,
e luce sí, che per lo suo splendore
lo peregrino spirito la mira.
Vedela tal, che quando ‘l mi ridice,
io non lo ‘ntendo, sí parla sottile
al cor dolente, che lo fa parlare.
So io che parla di quella gentile,
però che spesso recorda Beatrice,
sí ch’ i’ lo ‘ntendo ben, donne mie care.

 

 

 

XLII

 

Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potessi più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso, sí com’ ella sae veracemente. Sí che, se piacere sarà di colui, a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dire di lei quello che mai non fue detto d’alcuna. E poi piaccia a colui, che è sire de la cortesia, che la mia anima sen possa gire a vedere la gloria de la sua donna, ciò è di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui, qui est per omnia saecula benedictus. AMEN.