ISTAT. RECESSIONE TECNICA O ALLARME ECCESSIVO SULLA FLESSIONE DELLA CRESCITA?

DI VIRGINIA MURRU

 

L’Istituto Nazionale di Statistica è il termometro che misura le coordinate della nostra economia, che piaccia o no, e l’ultimo dato conferma il trend assai poco incoraggiante degli ultimi trimestri. Già i dati relativi al terzo del 2018 mettevano in rilievo il fatto che, dopo 14 trimestri consecutivi di crescita, e quattro anni di progressi lenti ma positivi, emergeva una contrazione, una flessione in negativo, peraltro confermata da analisti, Agenzie di rating, Organizzazioni internazionali, che fanno impietosamente i conti in tasca agli Stati del pianeta, con i riflettori puntati in particolar modo sulle economie occidentali e  quelle emergenti.

L’allarme c’è, nonostante il vicepremier Matteo Salvini stia tentando di ridimensionarlo, ipotizzando anche possibili ‘trucchi’ sui dati riguardanti gli ultimi due trimestre del 2018.

Il Sole 24 Ore tuttavia taglia corto, non ignora i dati appena diffusi, e titola così un suo articolo: “La recessione tecnica non esiste, l’Italia è in fase di recessione e basta”.

A dimostrazione di quest’atmosfera d’incertezza e allarme, il differenziale di rendimento tra Btp e Bund è schizzato di 18 punti, l’ennesima conferma che i mercati sono gangli sensibilissimi del sistema, a livello globale. Si respira aria pesante, a dirlo non è solo l’Istat, ma anche Eurostat.

Secondo i rilevamenti dell’Istat, nel quarto trimestre 2018, il Pil è diminuito per un valore pari allo 0,2% rispetto al trimestre precedente, espresso in valori concatenati, e prendendo come riferimento l’anno 2010 (corretto per gli effetti del calendario e destagionalizzato). Nell’ultimo comunicato si precisa che il IV trimestre ha avuto una giornata lavorativa in meno rispetto al precedente, e due in più rispetto allo stesso periodo del 2017.

I rilievi, sempre secondo l’Istat,  tengono conto del fatto che la variazione congiunturale è la risultanza di una diminuzione del valore aggiunto derivante dal settore agricolo, silvicoltura e pesca, nonché nel settore industriale, mentre sono stabili (o meglio in stallo) i dati inerenti i servizi. Secondo le analisi emerge un contributo negativo per quel che concerne la domanda, espressione della componente nazionale e al lordo delle scorte. Mentre è positivo il contributo della componente estera netta.

Considerando il Prodotto interno lordo relativo al 2018 si riscontra una crescita dello 0,8%, dato che, nonostante l’evidente flessione rispetto al 2017, non dovrebbe impressionare, vista la contrazione dei dati nell’Unione europea, e in Germania, la cui economia, rispetto all’andamento di quella italiana, è avanzata di poco (1%). L’Istat fa sapere che i risultati dei conti nazionali annuali riguardanti il 2018, saranno diffusi il 1°giorno del prossimo mese, mentre quelli trimestrali il 5 (sempre di marzo). La variazione acquisita per il corrente anno è negativa, pari a -0,2%.

Un po’ ovunque, ma soprattutto negli ambienti economici e finanziari, si parla di recessione tecnica, spiegata col fatto che i dati evidenziano una variazione congiunturale negativa per due trimestri consecutivi. Com’è noto, si parla di variazione congiunturale quando i dati vengono messi a confronto con quelli del trimestre che precede, mentre la variazione tendenziale, “che pure – fa notare l’Istat – ha un rilievo statisticamente importante per valutare l’andamento economico di un Paese”, si riferisce allo stesso periodo, ovvero trimestre, dell’anno precedente.

E’ evidente che quando si argomenta intorno ad una “recessione tecnica”, le condizioni economiche del Paese sono allarmanti, in primis per ragioni di contrazione dell’attività produttiva, che avrebbe potuto riflettere un andamento diverso qualora si fossero utilizzati in maniera sinergica ed efficiente tutti i fattori produttivi disponibili.

L’indicatore che riflette questa condizione d’instabilità, riconducibile appunto alla recessione tecnica, non esprime tuttavia tutti gli ‘indizi’ per risalire esattamente ai fattori ‘scatenanti’, anche se, da un’analisi profonda, la genesi non è certo oscura, ma soprattutto queste risultanze di carattere congiunturale non esprimono risposte chiare sul trend dei trimestri successivi, né sulle reali implicazioni concernenti il rallentamento.

E’ necessario pertanto, afferma l’Istat, per certificare che siamo di fronte ad una recessione conclamata, e non destinata ad esaurirsi nel volgere di pochi trimestri, puntare su riferimenti precisi, ossia tutti gli altri indicatori economici (al di là del Pil), dunque i dati relativi al tasso di occupazione, reddito di imprese e famiglie, produzione industriale (tra i più indicativi), consumi, e non ultime le considerazioni sui movimenti demografici nella nazione. E’ altresì evidente che un andamento proiettato sulla crescita o per converso sulla recessione, producano effetti di rilievo sulle scelte di politica economica di uno Stato, e per conseguenza diretta sui cittadini.

E’ ovvio che accertare la crescita o la flessione dell’economia di un Paese – perché dall’analisi dei dati riguardanti il Pil, tanto per citare quello più eloquente, si mettono le basi per un intervento sul debito e il deficit – sia fondamentale anche secondo le direttive Ue, che per una valutazione del quadro economico di uno Stato, mette in relazione il rapporto tra debito, o anche deficit, col Pil.

In riferimento al quarto trimestre del 2018, emerge quindi chiaro che l’economia italiana segna il passo e si avvia verso una contrazione della crescita; non è stato un fulmine a ciel sereno, le avvisaglie sono partite già dal secondo trimestre dello scorso anno. Questi riscontri, in ogni caso, allungano il trend negativo che ha interessato quasi tutto l’arco del 2018, determinando un ulteriore diminuzione del tasso di crescita tendenziale del Pil, e lo si appura facilmente confrontando i dati del quarto trimestre (sul Pil): scende infatti dello 0,1% dal trimestre precedente, che era  dello 0,6%.

Si tratta, secondo un commento dei tecnici dell’Istat, di una stima che ha natura provvisoria, e rispecchia, “dal lato dell’offerta un netto peggioramento della congiuntura del settore industriale, al quale si somma il negativo contributo di quello agricolo, e uno stallo delle attività terziarie.”

Senza entrare in merito a considerazioni assai poco ottimistiche, non di rado catastrofiche davanti a questi dati, che pure non contribuiscono a portare in alto gli umori della gente, bisognerebbe orientarsi in percorsi di ragionamento più affini allo status di un’economia che presenta un quadro certamente non incoraggiante, ma neppure di totale emergenza. I fondamentali dell’economia, secondo il tam tam del Governo, sarebbero comunque solidi, e a rassicurare ci pensa anche il ministro dell’Economia Giovanni Tria, che invita alla perseveranza, garantendo che i conti dello Stato non sono in dissesto  come si pensa, e le strategie in atto sarebbero già orientate verso la diminuzione del debito.

Vorremmo credere assolutamente a queste continue ‘infusioni’ di ottimismo, preferendo orientarci, sul fatto che uno Stato può avere un debito pubblico elevato, ma anche ritmi di crescita altrettanto alti, e dunque un florido Pil, come accade negli Stati Uniti, il cui debito è sempre stata la rogna di tutti gli esecutivi che si sono succeduti da decenni ormai. L’economia Usa, nonostante i ‘billions’ di debito in mano ad istituti di credito stranieri (Cina e Giappone in particolare..), gode buona salute, perché il rapporto tra i due valori (o grandezze), ossia Pil e debito, seguono percorsi che non mettono in pericolo realmente l’equilibrio dei conti pubblici, e difficilmente si rischierebbe un default, nonostante l’up and down degli altri indicatori economici.

Questo ragionamento potrebbe essere di conforto per le acque piuttosto agitate in cui naviga l’economia italiana, ma è necessario mettere in rilievo  la constatazione che c’è una bella distanza tra l’economia americana e la nostra, e pertanto questi orientamenti di pensiero hanno una valenza comunque relativa. Il problema è che quando un Paese finisce nei fondali limacciosi della recessione, possono attivarsi una serie di conseguenze che non sostengono la ripresa, ne acuiscono anzi i sintomi.

Ci sono le Agenzie di rating, che come corvi si avventano sulla vulnerabilità dello Stato in evidente difficoltà, e c’è poi il rischio di speculazione dei mercati, altro avvoltoio pronto ad inghiottire senza pietà chi non ha difese abbastanza credibili per tirare fuori le unghie e prevenire possibili attacchi.  Insomma, in queste circostanze, i titoli di Stato sono i bersagli a rischio, e la politica economica deve trovare strumenti idonei per affrontare le insidie.

Si può concludere con alcune considerazioni de Il Sole 24 Ore, che non ama il termine “recessione tecnica”, e scrive riguardo ai dati in flessione sul piano congiunturale:

La recessione tecnica non esiste. La recessione è recessione e basta. Il governo penta-leghista ha trasformato in un progetto politico lo sbeffeggiamento della cultura, considerata strumento di dominio delle élite global-catto-demo. Dunque, bando alle ciance e ai distinguo per economisti con la puzza sotto il naso, non importa che siano laureati in un qualche ateneo di provincia o abbiano preso il master alla London School of Economics o abbiano conseguito il dottorato al Mit di Boston. E, quindi, in coerenza con lo spirito dei tempi ripetiamolo: la recessione è recessione e basta.”

Si protrebbe concludere con un clima di fiducia nei confronti delle parole del premier Giuseppe Conte, il quale aveva già presentito le raffiche dei dati in arrivo dall’Istituto Nazionale di Statistica, e sosteneva, alcuni giorni fa, che il rilancio dell’economia è atteso nella seconda metà del corrente anno, e bisogna pertanto attendere “tempi migliori”. Più moderato dei due vicepremier, che invece, per celare situazioni di fragilità emerse comunque solo dopo la salita al potere del nuovo esecutivo, riversano le responsabilità sul precedente governo, il quale continua ad essere il capro espiatorio favorito, una discarica in cui le proprie responsabilità rotolano come fosse una compiacente scarpata.

Ma un’ultima considerazione in merito è un atto dovuto nei confronti di chi ci ha governato in precedenza, non foss’altro perché si ritrova ancora al centro di continui bersagliamenti. Come mai, sempre e solo secondo i dati Istat, l’economia italiana ha seguito un costante percorso di crescita in termini di Pil, proprio a partire dal 2015, quando la politica economica del governo Dem, era in pieno svolgimento?

Non dimenticando il fatto che  aveva preso le redini di uno Stato già in fase recessiva, e da allora, lentamente, ma costantemente, si è avviato un ciclo economico di crescita, fino agli ultimi riscontri delle Agenzie di Rating, il cui rating, alla fine del 2017 si avviava, in termini di Pil, sul +1,9%. ‘To be honest’, direbbero gli inglesi, il precedente esecutivo non ha consegnato il Paese nelle medesime condizioni in cui lo ha ‘rilevato’.

Purtroppo la questione dello spread, tanto per citarne una, è stata gestita nel modo peggiore, ed è stata la dimostrazione che non paga la polemica aspra nei confronti delle Autorità di Bruxelles, che vengono riconosciute quale legittimo Organismo sovranazionale, ma poi di fatto è stato come scagliare pietre sulla porta di casa.