ALESSANDRO A 24 ANNI NON È NORMALE E SI LICENZIA

DI PIERLUIGI PENNATI

Alessandro a 24 anni non è normale e si licenzia, o meglio: non è normale che Alessandro a 24 anni si licenzi.

Già sono tempi strani, nei quali il lavoro è soggetto non ad un mercato, ma ad un mercimonio continuo dove l’unico valore in gioco è il profitto e la dignità umana non è più considerata, per questo non è normale licenziarsi, di questi tempi “ti” licenziano e la frase normale, “mi” licenzio equivale ad un suicidio civile che nessuno farebbe.

Eppure Alessandro, a 24 anni, prende questa decisione: “Ho pensato a lungo prima di pronunciare ad alta voce questa parola” – dice ad Invece Concita di Repubblica – “nel 2017. Ho lavorato per quasi un anno come barista”, “Ottimo ambiente, coi datori di lavoro e coi colleghi. Il mio problema era lo stipendio che, per quanto mi permettesse di vivacchiare, non mi consentiva di pensare al futuro“.

Ecco: un lavoro certo, ottimo ambiente e bravi colleghi, ma stipendio inadeguato e quando ti dicono così la prima cosa che ti viene in mente è di chiederti quanto sarà mai stato lo stipendio, dato che oggi se hai un lavoro è già una fortuna.

Ma Alessandro non è un caso isolato, Alessandro è solo uno che ne ha parlato, i nostri baristi e camerieri emigrano, dato che in Italia il loro lavoro non è più adeguatamente pagato, vanno in altre nazioni dove il loro lavoro è ancora valorizzato adeguatamente e con questo la loro dignità di persone.

Secondo il Centro Studi e Ricerche IDOS, della Caritas Migrantes, dal 2014 in poi nel nostro paese sono più gli italiani che emigrano all’estero che i migranti in arrivo, con un impressionante bilancio negativo che fa davvero riflettere: forse dobbiamo cominciare a renderci conto che dall’Italia non fuggono i cervelli, dall’Italia fuggono persone che non sono più disposte ad accettare lavori che non rispettano la loro dignità, mentre accettano gli stessi lavori in altri stati dove la persona è ancora considerata un valore e per questo retribuita in modo da poter “pensare al futuro”.

Alessandro, dopo il bar ci prova con “un noto marchio d’abbigliamento italiano”, viene assunto e “Il primo giorno mi vengono illustrate alcune regole basilari, del tipo: è vietato instaurare rapporti d’amicizia con i colleghi; è vietato perdersi in chiacchiere con i clienti; se non per esigenze eccezionali è vietato andare ai servizi durante le ore di lavoro, ci si va nei 10 minuti di pausa, rigorosamente timbrati, concessi solo con un minimo di 6 ore di lavoro giornaliere. È vietato bere un caffè nella pausa concessa, dato che l’azienda non dispone di macchinette“.

Il suo ruolo è cassiere e commesso, per il quale è anche “vietato lasciare il posto di lavoro entro il turno stabilito senza prima aver svuotato gli appositi carrelli carichi di merce usata durante la giornata, il tutto solamente dopo aver timbrato, evitando così di andare in straordinario.

Non solo, ogni “infrazione” viene catalogata e porta ad un “verbale”, vale a dire una nota negativa che peserà sui successivi rinnovi dell’impiego, in un ricatto continuo, della durata di tutto il periodo di vigenza contrattuale, che considera anche i “centesimi in più perché il cliente non li ha voluti di resto”, la “troppa confidenza” con clienti e conoscenti, costringendoti a non instaurare alcun rapporto umano nemmeno con i clienti abituali, ed il terrore “di aver piegato male una maglietta”, in una continua ed ininterrotta ansia da prestazione di lavoro.

Per Alessandro la domanda è “Perché mi lamento così tanto, direte voi? Quando c’è gente che un lavoro non ce l’ha o deve sottostare a regole peggiori delle mie?

La sua risposta è “Perché ho 24 anni. A queste regole io non ci sto” e se ne va ancora una volta, poi dice: “per fortuna al bar mi riprendono. Guadagnerò molto meno, ma racconterò una barzelletta ogni tanto, rispetterò il prossimo se mi rispetterà. Siamo esseri umani, non siamo macchine. Il lavoro è importante, ma anche la nostra vita. Non dobbiamo sempre subire, non dobbiamo per forza adattarci a tutto. Lavoriamo ma non dimentichiamoci di rispettarci”.

Nell’intervista, Alessandro Paola, 24 anni, ha deciso che non si possono sacrificare diritti in cambio di soldi, ma questo è proprio il problema, da troppi anni si discute di dare impulso all’economia rilanciando il lavoro e per farlo, invece di fissare regole di base che impediscano il suo eccessivo sfruttamento, si favorisce la precarietà e la compressione dei diritti in favore di dati statistici di occupazione che sono solo numeri matematici costruiti ad arte e che non rispettano più l’uomo che li produce.

Con il Decreto Scuola Lavoro, poi, questi numeri si gonfiano ancora chiamando persino gli studenti ad aumentare le statistiche con il loro lavoro, mentre nella realtà sono ancora a scuola, per l’INAIL uno studente assicurato anche un solo giorno perché “studia lavorando” è un occupato in più, per la società è solo uno studente sfruttato mentre sta ancora studiando.

Il tutto in nome di un “mercato del lavoro” i cui numeri devono essere in costante crescita, pena il fallimento del governo di turno che li snocciola, apparentemente numeri falsati solo per garantire una carriera politica, nella quale nel dire mercato del lavoro sembra si pensi invece al solo valore numerico che produce, senza nemmeno più considerare l’uomo che vi sta dietro, la sua dignità, libertà e morale.

Quando si mettono le persone nella necessità di dover rinunciare a queste cose, si sta facendo male alla società intera, il lavoro rende nobili proprio perché dà dignità e rende liberi ed autonomi, prerogativa un tempo riservata solo a regnanti, nobili e “dignitari”, appunto, cioè “meritevoli di dignità”.

Il lavoro che nobilita dovrebbe avere regole incomprimibili, sicurezza e diritti certi, invece oggi si agisce sempre più in nome di un mercato del lavoro, che altri non è che una mera competizione al ribasso di diritti e dignità in cambio di poca moneta.

Un mercimonio dell’umanità e dell’individuo, azzerati in nome del profitto.

Ci dicono da molto tempo che la competizione ed il mercato facciano bene al progresso dell’economia, ma un’economia che accumula beni a costo di uccidere la dignità delle persone non può essere considerata progresso.

Sono servite lotte anche cruente per nobilitare l’uomo attraverso il lavoro ed oggi gli chiediamo di lavorare senza alcuna nobiltà.

La prima frase dell’articolo 1 della nostra Costituzione cita: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” e prosegue con “La sovranità appartiene al popolo”.

Oggi, attraverso un sistema sempre più complicato di regole che rendono quasi impossibile la partecipazione democratica alla vita dello stato, la sovranità ci è già negata, cosa ne sarà del lavoro?

La parola lavoro è ripetuta ben 17 volte nei primi 40 articoli della costituzione, la frequenza maggiore tra gli argomenti in essa trattati e non è chiamata esplicitamente diritto solo perché di essi è il più importante, essendo il lavoro ben più che un “semplice diritto”, ma uno strumento, “lo strumento” per eccellenza, di emancipazione e progresso, quindi chi fa del lavoro un mercato privo di dignità per l’uomo rinnega, nei fatti, anche la nostra costituzione e non dovrebbe meritare la cittadinanza italiana.

Voglio uno stato che pensa alle persone e non persone che pensano ad uno stato, voglio vivere con dignità, voglio che il lavoro nobiliti e non solo debiliti.

Quasi cento anni fa Adriano Olivetti, che non era certo un semplice operaio, anche se fece brevemente l’operaio per imparare il mestiere, ma un industriale figlio di un industriale che poteva benissimo pensare solo al suo profitto, scrisse: “La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica” ed a chi gli chiese se tutto questo non fosse utopia, rispose: “spesso il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia a lavorarci. E allora può diventare qualcosa di infinitamente più grande”.

Caro babbo natale, ti prego, quest’anno non portarmi doni, portami dignità, sicurezza, autonomia, portami la certezza che quando trovo lavoro questo sia un lavoro vero, che possa essere chiamato tale e che soddisfi il famoso aforisma “il lavoro nobilita l’uomo“.

Portami nobiltà nel lavoro, per Alessandro e per tutti noi.