A BRUXELLES CONTE SORRIDE (TROPPO?), MANOVRA ANCORA SULLA VIA DI DAMASCO

DI VIRGINIA MURRU

 

Gli avvenimenti degli ultimi giorni autorizzano ad essere ottimisti sul tenore delle relazioni tra Roma e Bruxelles, l’atmosfera di tensione che ha contribuito ad esacerbare il “sentiment” dei mercati si è stemperata, e sia nel risultato dell’incontro tra il presidente della Commissione e il premier, sia nelle ultime dichiarazioni dei due vicepremier, c’è disponibilità ad allentare la presa di un braccio di ferro che non ha portato altro che danni.

I mercati hanno gradito, è sceso al di sotto dei 300 punti base il differenziale, e anche Piazza Affari marcia in positivo.

Il premier Giuseppe Conte, da Bruxelles, ha addirittura ventilato l’ipotesi che si riesca, attraverso il dialogo e qualche concessione sui numeri blindati della manovra, ad evitare la procedura d’infrazione, verso la quale sembrano orientati anche i paesi membri dell’Ue, che a breve, su richiesta della Commissione, esprimeranno il loro parere al riguardo.

Nuove prospettive, dunque, in questo nebuloso orizzonte, che finora ha precluso ogni svolta, e ogni giorno, a causa della sfiducia dei mercati, il Governo ha incassato solo ulteriori complicazioni, tramite il gravame degli interessi, finora circa 6 miliardi in più, ossia una parte della spesa programmata per il cosiddetto ‘reddito di cittadinanza’.  Ma non si può nemmeno sottovalutare l’esito dell’ultima asta sui Btp, dalla quale si è incassato circa il 70% in meno degli importi previsti. E nonostante le rassicurazioni del governo sulla presunta solidità e tenuta dell’economia del Paese, gli investitori evitano i titoli italiani, perché il rischio dell’instabilità avvelena tutto.

All’ottimismo dichiarato alla stampa, il premier Conte aggiunge tuttavia che l’incontro con Jean-Claude Juncker “non è stato risolutivo”, nonostante i toni distesi e la cordialità, e perfino la sortita del presidente della Commissione, il quale, davanti ai microfoni, ha esclamato: ‘ti amo Italia’. Insomma, la cautela è un imperativo di questi tempi, e quella porta a lungo sbattuta in faccia all’Ue, resta ora socchiusa, non spalancata.

Il premier italiano certamente riscuote maggiore credibilità a Bruxelles, perché non ha mai espresso toni propriamente ostili verso le autorità dell’Unione, e tanto meno invettive, come invece hanno fatto i due vicepremier, con  proclami di sfida, intransigenza assoluta verso le raccomandazioni sulla manovra e il rispetto della Legge di Stabilità e Crescita, alla quale sono vincolati i paesi dell’area euro.

Proprio sabato, l’ultimo siluro del vicepremier Matteo Salvini, il quale, mentre a Bruxelles il premier Conte si serviva di tutte le armi della diplomazia e del buon senso, per convincere Juncker della buona fede del Governo e dell’efficacia della manovra, egli dichiarava con disinvoltura: “Io non arretro, chiedo rispetto all’Europa..”

E proprio su questo aspetto si è soffermato Juncker, sui toni troppo duri, sulle parole che somigliano ormai a lanciafiamme, per le istituzioni europee, diventate, da diversi mesi, un tiro al bersaglio, tattiche sovraniste che nessuno in Europa si era mai permesso, a torto peraltro, dato che è il Governo italiano responsabile della violazione di punti importanti del Trattato di Maastricht. Per questa ragione gli altri stati membri, perfino l’Austria, hanno condannato l’operato dell’Italia; non ci si può stupire dello sdegno che ci si è lasciato dietro.

Il premier era accompagnato dal ministro dell’Economia, Giovanni Tria, anch’egli stimato a Bruxelles, nonostante le riserve sul contenuto del documento programmatico di Bilancio. Stimato perché è un ministro che basa le relazioni politiche sulla correttezza e la moderazione dei toni: sul rispetto, che è già tutto. Il dialogo con Bruxelles, sembra abbia imboccato una direzione più rassicurante, resta tuttavia incerto per quel che concerne gli esiti: di fatto sul rapporto deficit/Pil, il governo di Roma è ancora granitico, si parla di ‘limare’ le voci della spesa, ma si tratterebbe di decimali, non ci sono ancora dichiarazioni su cedimenti di sostanza, che sarebbe poi la condizione per evitare la procedura d’infrazione e fare definitivamente pace con l’Ue.

Dichiara il premier Conte: “nell’incontro con Juncker non si è parlato specificamente di saldi finali, ma non ho lasciato intendere che avrei messo limiti alle misure qualificanti della nostra politica economica”. Al pressing dei giornalisti, che gli hanno chiesto maggiori dettagli, ha risposto: “cercate di capire che le negoziazioni – se ci sono in gioco intese di questo tipo – devono restare riservate”.

Traducendo: la mediazione è in corso, non c’è ancora nulla di certo, si è trattato di un’apertura il cui esito si vedrà prossimamente. Ed è chiaro che l’incontro, nonostante le dichiarazioni d’intenti fossero il lasciapassare migliore per dialogare con la Commissione, sia incerto, il premier italiano era  ‘blindato’ dalle resistenze dei due vicepremier, che non autorizzano al momento concessioni che intacchino in misura considerevole le previsioni di spesa contenute nel documento programmatico.

Non ci si è recati a Bruxelles con la bandierina bianca, ma con una non ben definita volontà di giungere a qualche lieve compromesso, termine in realtà mai pronunciato, perché si spera ancora di farla franca con qualche leggera ferita. Ma le autorità italiane, forse, non hanno ancora recepito il fatto che il dialogo e i toni più distesi, d’accordo, sono una premessa, ma sarà alquanto difficile ottenere il disarmo sulla procedura d’infrazione, e una manovra ‘appena infranta’ con una rimodulazione ‘soft’, tanto da non pregiudicare gli obiettivi fondamentali, quelli che rientrano nelle promesse solenni fatte in una campagna elettorale vinta sugli azzardi. Insomma sarà difficile prendere due piccioni con una fava, a Bruxelles non sono degli allocchi, e sanno insinuarsi molto bene nelle strategie politiche dei paesi membri, allorché s’instaura un conflitto per ragioni di inadempienze.

Il vicepremier Salvini, nelle ultime dichiarazioni, sostiene che sarebbe disponibile a rettificare quel tanto discusso 2,4% sul deficit, ma giusto i decimali: “non sono quelli a fare la differenza, può trattarsi di 2,2% o di 2,6%, non è qui la sostanza quando si tratta di serietà”. Ancora irremovibile invece sulla cosiddetta ‘quota 100’, non è disponibile a differire i termini d’inizio di questa misura, per ora nessuna intenzione di farlo slittare a favore di altri impieghi. Il vicepremier Luigi Di Maio, si è sottomesso allo slittamento dei tempi previsti per l’avvio del reddito di cittadinanza, che partirebbe ad aprile, non più a gennaio 2019, ma la Lega è ancora ferma sui tempi stabiliti per fare partire la ‘quota 100’.

Le ragioni per le quali Salvini tiene tanto alla quota 100 sono più o meno le stesse che lasciano in trincea l’altro vicepremier Di Maio, (disposto a rimandare di qualche mese, ma inflessibile sul reddito di cittadinanza), ossia le promesse fatte al Nord, perché davvero ad avvantaggiarsi di questa misura saranno soprattutto al Nord.

Con questo provvedimento previsto dal disegno di legge di Bilancio, si potrà andare in pensione in anticipo di 5 anni, e chi avrà maturato 38 anni di contributi, potrà lasciare il lavoro a 62 anni, ovvero 5 in anticipo rispetto alle norme sulla pensione di vecchiaia. Oppure potrebbero essere necessari 43 anni e tre mesi di contributi maturati per uscire prima dei 67, indipendentemente dall’età. Tale misura riguarderebbe, secondo le stime del Governo, circa 400 mila lavoratori, già in regola per beneficiarne, e sarebbero in gran parte uomini, il 78% del totale. Come già accennato, riguarderebbe specialmente le province del Nord, cinque in particolare sono in testa in Piemonte (da Vercelli a Novara, Biella, Cuneo, Asti).

Questi sono gli argomenti portati sul tavolo di Bruxelles, per convincere la Commissione che la disponibilità alle rettifiche c’è, e l’importante per il governo sarà l’obiettivo della crescita per il 2019, che resta fermo, secondo le previsioni contenute nel documento programmatico, all’1,5%, anche se la congiuntura è diventata più ostica, e difficilmente questo target sarà raggiunto.

Tra le promesse del ministro dell’Economia fatte a Bruxelles, redatte in 40 pagine di dossier, c’è il rinvio di pensioni e reddito di cittadinanza, lo spostamento di circa 5 miliardi per l’incentivazione degli investimenti, che dovrebbero anche agire sul versante occupazionale.

C’è un autentico rigetto per una eventuale patrimoniale, già ventilata dall’Ocse e dalla Bundesbank poche settimane fa, contrario anche il Centro Studi di Mestre (Cgia), che sostiene:

“nel 2017 tra Imu, Tasi, bolli sono stati versati al fisco 45,7 miliardi. Rispetto al 1990 il gettito è cresciuto del 400%.

Ed aggiunge:

“famiglie e imprese, dal 2016 beneficiano dell’abolizione della Tasi sulla prima casa, Imu agricola e Imu sugli imbullonati. Si tratta di misure approvate dal Governo Renzi, e ad oggi hanno prodotto un risparmio di circa 4 miliardi di euro l’anno. Risultato positivo, ma ancora insufficiente, dato che l’incidenza del prelievo sul pil è ascrivibile alle patrimoniali, ed infatti incide per il 2,7%”.

Il piano Tria per la dismissione di immobili, per un valore che si aggirerebbe sui 18 miliardi di euro, non convince, e nemmeno il tanto discusso Fondo, nel quale fare convogliare queste risorse. Il valore dei fabbricati (ma il 77% è inalienabile), è di circa 280 miliardi. Qualcuno ironizza sulla vendita del Colosseo, ma purtroppo c’è poco da sorridere. Sarebbe la ricetta ideale per fare pace col debito pubblico, ma è sempre stata un’impresa difficile da portare avanti, anche se il fine giustificherebbe i mezzi. Qui si tratta di patrimonio dello Stato, e arrivare a ragionare sulla questione, significa essere proprio all’ultima spiaggia.

L’idea di Tria, per rabbonire Bruxelles, non suscita entusiasmo, vendere ‘i preziosi di famiglia’, non sarebbe la migliore prospettiva, il vicepremier Di Maio, orientato più verso la nazionalizzazione (come Alitalia e Autostrade, considerate le vicissitudini di entrambe..), assicura che enti storici quali Enel o Eni, per esempio, non si toccano, sono punti fermi dello Stato. Ma Tria stima che i possibili 18 miliardi di entrate derivanti dalle dismissioni sarebbero ora una manna .

In questo modo si prenderebbe il sentiero più corto per ridurre il rapporto debito/Pil, dunque si caldeggia la prospettiva (ossia la privatizzazione di una piccola parte del patrimonio pubblico),strategia che si innalzerebbe fino all’1% del Pil nel 2019 (col programma straordinario di privatizzazioni). Il debito calerebbe dello 0,3 nel 2018; 1,7 il prossimo anno, 1,9 punti nel 2020. Mentre il rapporto sul debito scenderebbe fino al 126% nel 2021.

Si tratta del ‘pacchetto’ di misure contenute nel dossier che il ministro Tria ha presentato a Bruxelles, si attende ora di sapere se queste misure sono ritenute sufficienti per le autorità dell’Unione europea.