LA TERZA REPUBBLICA

DI PIERLUIGI PENNATI
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Ci siamo svegliati una mattina con le città tappezzate di grandi manifesti di bambini che sorridendo esclamavano “Fozza Itaia”, è servito un po’ di tempo per capirlo, ma era il partito di Berlusconi che nasceva e con esso nasceva il cambiamento, non della politica, ma del modo di fare politica fino ad allora conosciuto, quello basato su di una solida e riconosciuta costituzione repubblicana antifascista che nessuno osava criticare, abusare, forse.
Era il 1994 e Berlusconi si poneva come il nuovo, il cambiamento e nel contempo un cittadino normale, operaio, artigiano, popolare. Nasceva in quel tempo l’idea di seconda repubblica, che gli esperti collocano tra il 1992 ed il 1994 a seguito dell’inchiesta “mani pulite”, e che ha visto cambiamenti davvero epocali, anche se non in ordine cronologico, tra i quali la famosa “svolta di Fiuggi” con la quale il Movimento Sociale Italiano abbandonò ufficialmente, per bocca del suo segretario Gianfranco Fini, i riferimenti ideologici al fascismo al fine di qualificarsi come forza politica legittimata a governare.
La scomparsa della Democrazia Cristiana e del Partito Socialista Italiano, ma più specificatamente dell’alleanza politica fra Craxi, Andreotti e Forlani, il cosiddetto CAF, la crescita forse inaspettata della Lega Nord e il suo ingresso in Parlamento insieme alla nuova legge elettorale maggioritaria denominata Mattarellum del 1994, approvata a seguito dei referendum del 1991 e del 1993 sulla legge elettorale del Senato, segnarono il confine definitivo in pochi anni tra la prima e la seconda repubblica italiana.
Il referendum costituzionale del 4 dicembre scorso poteva, forse, segnare un ulteriore passo verso una terza repubblica, con cambiamenti importanti per la governabilità e la democrazia: a seconda dei punti di vista, scampato pericolo o mancata occasione.
Renzi, dopo Berlusconi, fallisce il secondo tentativo di modifica costituzionale nella stessa direzione, una sorta di abolizione, od almeno riduzione, del Senato così come lo conosciamo ora.
Non è un mistero che io fossi personalmente contrario, ma forse erano contrari anche molti tra coloro che hanno votato SI a questa riforma. Io ne conosco diversi, che, però, riconoscevano ad essa il merito di segnare un cambiamento, qualunque esso fosse.
Lo slogan del 1992, alla ricerca di un consenso popolare preventivo per introdurre il cambiamento, era “La politica, l’economia, la società, adesso si cambia davvero!”, nel 2016 il cambiamento lo si è cercato senza un preventivo consenso popolare con un “Basta un SI” recitato come un mantra nelle sole ultime due settimane di una campagna referendaria durata per il NO oltre otto mesi, da quando, cioè era mancata la maggioranza dei due terzi del parlamento per la sua approvazione senza voto popolare.
Quello che è successo fin dal risultato elettorale delle elezioni politiche del 24 e 25 febbraio 2013 è ormai cronaca e quasi tutta con il solo PD vero protagonista nel ruolo di suonatore e cantante, promotore di tre governi, tutti retti da una composizione in minima parte variabile, e con il suo ruolo centrale fisso insieme ad NCD ed UDC come alleati di maggioranza sempre presenti.
Così sia il Governo Letta, in dieci mesi, che quello di Renzi, in ventidue, non sono riusciti a convincere né il parlamento, né soprattutto gli italiani della qualità della loro azione di governo, il primo che non voleva essere il “Re Travicello” ed il secondo, forse, ha imitato troppo il successore della stessa favola di Esopo, fino a diventarne simbolo e vittima.
Oggi, il nuovo Presidente del Consiglio dei Ministri Paolo Gentiloni si è proposto dapprima come governo di scopo, dichiarato da molti fotocopia del precedente, per «Accompagnare e, se possibile, facilitare il percorso delle forze parlamentari per arrivare a nuove regole elettorali». Una nuova legge elettorale, quindi, e poi al voto. Invece ha formato un ampio governo “provvisorio”, con diciotto i ministri di cui ben 5 nuovi ingressi e la riconferma di tutti gli uscenti, tranne Stefania Giannini e Maria Elena Boschi che cambia ruolo e viene “promossa” a sottosegretario alla presidenza del consiglio.
Un governo tutt’altro che fotocopia, quindi, ma nemmeno provvisorio, almeno apparentemente, altrimenti perché allargare la cerchia dei ministeri? Solamente per allargare la maggioranza ed incassare la fiducia? Francamente sembra poco credibile e con il conforto delle dichiarazioni degli esponenti dello stesso PD, come Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza, che affermano di votare si la fiducia, ma di riservarsi di decidere successivamente provvedimento per provvedimento.
Una legge elettorale e poi il voto non prevedono grandi provvedimenti ulteriori, se non quelli urgenti, quindi non vi sarebbe nemmeno ragione di altri cinque ministeri, ma, soprattutto, non vi era ragione di confermare tutti i ministri contro ogni pronostico e di fornire una sorta di promozione alla ministra Boschi, che il 22 maggio 2016, intervistata durante la trasmissione “In mezz’ora” ed incalzata da Lucia Annunziata che chiedeva “Io voglio un sì o un no, ma se Renzi perde e lascia la politica, lei lascia la politica o no?”, rispose “Si, perché è un lavoro che abbiamo fatto insieme e quindi ci assumiamo insieme le responsabilità di un progetto politico nel quale abbiamo creduto e lavorato per tanto tempo”.
Gentiloni, invece, la ricicla: si farà Gentiloni ingolosire dall’esperienza di governo e pensare di poter restare a sua volta fino a fine legislatura?
Comunque vada potrebbe essere un suicidio e se la prima repubblica non sembrava governabile per via di un sistema proporzionale che permetteva ai piccoli partiti di ricattare i grandi, la seconda repubblica non sembra aver prodotto un risultato apprezzabile. La montagna ha partorito il topolino. I governi non hanno mai davvero visto coalizioni ristrette. Quello di Letta ha visto il sostegno di ben 7 coalizioni. Quello di Renzi, 6, contraddicendo il mito di una governabilità a suon di maggioranze.
È proprio questa necessità sempre attuale di trovare accordi tra i partiti che, forse, ha spinto Renzi a tentare la modifica costituzionale, come già fece Berlusconi, ma entrambi hanno fallito ed entrambi hanno visto ridurre il consenso elettorale per i loro partiti ottenendo la reazione contraria e disgustata di molti italiani che prima li sostenevano.
La personalizzazione della politica, fatta di slogan, demagogia e populismo ha portato già una volta alla riduzione ai minimi termini o addirittura all’estinzione dei partiti che l’hanno promossa, come per Forza Italia ed AN e, dopo una prima aggregazione eterogenea, potrebbe oggi toccare al PD scindersi di nuovo e disperdersi ulteriormente permettendo ai partiti emergenti, e francamente vedo solo il movimento 5 stelle, di imporsi.
Saranno loro ad avviare il processo di riforme necessario per andare verso la terza repubblica? Non lo so. Penso però che non siano né il governo Gentiloni, né il Pd ancora troppo diviso, a gestire il cambiamento.
Attendiamo una repubblica che forse non verrà mai.

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