BREXIT. L’INDETERMINAZIONE TIENE IN OSTAGGIO IL POPOLO BRITANNICO

DI VIRGINIA MURRU

 

Nessuno immaginava all’indomani del voto che ha dato ragione alla ‘fazione’ dei ‘Leave’ (23 giugno 2016), e spalancato le porte alla Brexit, che il percorso per l’uscita del Regno Unito dall’Ue sarebbe stato così contorto e travagliato. Un iter che si credeva automatico – secondo le norme previste dai Trattati sull’Unione europea – nello specifico quello di Lisbona, tramite l’art. 50, che è appunto la clausola di recesso.

Tale articolo, che rimanda al meccanismo di recesso volontario e unilaterale, qualora uno Stato membro notifichi al Consiglio europeo l’intento di uscita dall’Unione, prevede modi e tempi opportuni per la definizione di un accordo che soddisfi entrambe le parti.

L’accordo si raggiunge con una serie di incontri, tra i rappresentanti dell’Ue e quelli del governo che intende recedere, e dunque, come si è accennato, dal Consiglio europeo, con deliberazione a maggioranza qualificata e previa approvazione del Parlamento europeo.

Raggiunta l’intesa, i Trattati firmati dal Paese ‘in uscita’, non saranno più applicati a partire dalla data in cui entra in vigore il recesso, o due anni dopo la notifica, anche se discrezionalmente, qualora ne ricorresse il caso, il Consiglio può prolungarne i termini.

L’Unione europea lascia sempre aperte le porte per un eventuale rientro, nel caso vi fosse un ‘ripensamento’ in merito, per esempio, come si sta ipotizzando ultimamente in Gran Bretagna, se il popolo chiedesse di tornare alle urne con l’indizione di un secondo referendum, il quale, di fatto, annullerebbe quello precedente che ne ha sancito l’uscita.

Non è affatto semplice la questione, quando vi è un popolo diviso, che partecipa e fa sentire il proprio dissenso sulle scelte operate dal governo in carica, e anche sulle delibere del Parlamento stesso, quando non riflettono propriamente la volontà popolare.

Di certo nel Regno Unito, se non si è arrivati alla soglia della guerra civile, non si è molto lontani. Gli ultimi due anni, che dopo il referendum del 2016, si ritenevano solo una fase di ‘acclimatamento’, e avrebbero determinato step by step il divorzio dall’Ue, sono stati invece gli anni più conflittuali per la democrazia britannica.

Non si riesce a trovare una via d’uscita; quando gli accordi con l’Ue sembravano finalmente decisivi, il ‘deal’ che ha presentato la premier Theresa May in Parlamento, ha scatenato un’ondata di proteste e di rigetto, che è poi sfociata nella clamorosa sconfitta della proposta, con un esito travolgente di voti contrari.

E così, l’accordo faticosamente raggiunto dalla delegazione del governo britannico e i rappresentanti Ue, è diventato poco meno di carta straccia, perché il volere di Westminster in fatto di democrazia, quando si tratta di temi così importanti, prevale su tutto, com’è naturale che sia in un regime democratico.

Ben pochi accetterebbero un’uscita dall’Ue senza accordi, il cosiddetto ‘no deal’, perché l’Unione europea sarebbe severissima al riguardo, e in questo momento metterebbe a serio repentaglio le finanze della Gran Bretagna, che già ha riportato ingenti danni dall’esito del referendum sul piano economico. Tartassata in primis dai mercati, che non hanno mai accettato la Brexit, né tanto meno è stata benedetta dalla City, cuore pulsante della finanza del Paese, e fortemente penalizzata, ancora prima del divorzio effettivo dall’Ue.

A fare la differenza è l’ostinazione di una leader di ferro: Theresa May non è una che si lascia impressionare dal dissenso, nemmeno da quello che sta imperversando tra i Tory, lei va avanti imperterrita, non si cura nemmeno dell’ironia dei parlamentari, che non le risparmiano la loro ostilità, frecciatine caustiche, quando non risate sarcastiche.

Se non è una copia fedele di Margaret Thatcher, di sicuro le assomiglia parecchio. Solo che la ‘lady di ferro’, aveva davanti a sé uno scenario  ben diverso. Allora l’Europa era un faro, una terra promessa per i britannici, almeno se si argomentava intorno al mercato unico, nella quale la Thatcher credeva fermamente.

Non credeva nella federazione di carattere politico, ossia negli Stati Uniti d’Europa, e dopo alcuni anni dalla firma dell’’Atto Unico’,  ebbe comunque qualche ripensamento, in quanto era persuasa che l’Unione costasse troppo al Regno Unito. Cominciò così a rimbrottare sulle quote versate, fino a dichiarare pubblicamente, rivolgendosi alle autorità di Bruxelles: “I want my money back” (rivoglio indietro i miei soldi). Frase rimasta famosa, che era poi il riflesso degli umori dell’establishment di Londra, emerso infine con il rifiuto di aderire alla moneta unica. E’ sempre stato un rapporto di odio-amore, in definitiva.

Operatori economici e finanziari, il mondo dell’industria e dell’imprenditoria in generale, sono in allarme da anni sulla questione Brexit: abbandonare il mercato unico significa ignorare mezzo miliardo di potenziali consumatori, con i quali la Gran Bretagna ha stabilito nel tempo un rapporto d’interdipendenza commerciale non di poco conto. Entrare in rapporto con i ‘27’ Paesi dell’Unione in qualità di partner “extra europeo”, per quel che concerne le frontiere doganali, non sarà più semplice come lo è stato finora, sarà anzi piuttosto penalizzante. Sono queste le ragioni – senza tuttavia trascurare i forti legami culturali di appartenenza – che hanno indotto tanti cittadini britannici a cambiare opinione sul voto, al punto che, gli ultimi polls, danno i ‘Remain’ avanti rispetto ai ‘Leave’, con al seguito una buona percentuale d’indecisi.

Intanto, anche Airbus e Sony hanno annunciato che, in caso di Brexit no-deal, saranno costretti a fare scelte molto dure per il Regno Unito. Tom Enders, Ceo di Airbus ha fatto sapere che seguirebbe Dyson, multinazionale inglese che produce elettrodomestici in più di 70 paesi, e ha circa 7 mila dipendenti in tutto il mondo, pronta a lasciare la Gran Bretagna se non vi sarà un’intesa commerciale con i partners dell’Ue. Intesa che non penalizzi il libero scambio, naturalmente.

Airbus è una grande azienda che produce le ali dei suoi aerei, con oltre 14 mila dipendenti in RU, ma non ci saranno ripensamenti qualora Theresa May volesse percorrere a tutti i costi la via della Brexit: lasceranno il Paese, come tante altre grandi aziende, alcune delle quali si sono già trasferite in Cina.

Anche  Sony ha deciso di spostare la sede europea in Olanda, affinché siano garantite le relazioni commerciale con i ‘27’ dell’Ue, qualora si prospetti la peggiore ipotesi sulla Brexit, quella che va avanti anche senza accordi con l’Unione. E del resto Sony non è l’unico gruppo giapponese ad avere abbandonato la sede di Londra, anche Panasonic, a fine 2018, ha deciso di trasferirsi in Olanda. Il modo migliore di tutelarsi dal ciclone che si abbatterebbe sul Regno Unito, nel quale regnano il caos e il disorientamento da oltre due anni. In coda, pronte ad emigrare in lidi più accoglient,i ci sono anche Hitachi e Toshiba, cancellati i loro piani d’investimento sul nucleare nel Galles. E altri ricollocamenti (favorita Amsterdam), sarebbero già pronti.

Il fatto è che una scelta di questo tipo, soprattutto per quel che concerne l’assetto politico e territoriale del Paese, non è per nulla facile. Ci sono le frontiere con l’Irlanda, che di certo non vuole saperne di lasciare l’Unione europea, a creare non pochi problemi, e poi c’è la Scozia, che dai tempi di Maria Stuarda non ha mai avuto un rapporto propriamente disteso e in armonia con Londra, ne ha piuttosto subito il potere.

Un’ostilità, quella della Scozia, sfociata in un referendum per la secessione nel 2014, che ha perso per poco. La premier scozzese Nicola Sturgeon, non ha mai gettato la spugna, e sta esercitando pressioni più che mai per favorire un secondo referendum sulla Brexit, consapevole che gran parte del popolo non vorrebbe abbandonare le relazioni con il vecchio continente. Ci sono ostacoli che rendono la strada del divorzio dall’Ue praticamente impercorribile, non si trova un’intesa in Parlamento, ed è  veramente il caos, basti pensare al fatto che l’accordo raggiunto con l’Unione europea a novembre – che la premier May ha poi presentato il 14 gennaio – è stato bocciato con il doppio dei voti che sono stati espressi a favore.

Quando si è posta la questione ‘fiducia’ sulla premier, il Parlamento l’ha fatta passare, sia pure per una manciata di voti. E’ la dimostrazione in definitiva che tra i rappresentanti del popolo vi è ancora molto disorientamento, e di questo ne stanno pagando le spese anche i laburisti, con il leader Jeremy Corbyn, travolti da queste raffiche d’incertezza e indeterminazione. I laburisti, sostenuti dai parlamentari scozzesi e tanti anche dell’Ulster, taglierebbero la testa al toro e andrebbero diritti verso una seconda consultazione referendaria; ma in Parlamento su questa scelta estrema – ma forse la più sensata – sarebbe dubbia la maggioranza dei consensi.

Il fatto è che i politici contrari ad un secondo referendum – Theresa May in primis – stanno ossessionando l’opinione pubblica con la supposta incostituzionalità di un simile provvedimento, come fosse un tradimento della volontà popolare. Ma intanto nella consultazione del 2016 non si sono raggiunti i due terzi dei consensi per i sostenitori della Brexit, e quindi una seconda ‘chiamata’ rientrerebbe pienamente nelle opzioni previste dalla normativa. Una scelta di questa importanza, proprio per il rispetto della volontà popolare, non si potrebbe fare passare con un margine di scarto che non raggiunge neppure il 2% (Il Leave prevalse con il 51,9%).

E si dimentica che la Corte europea di Giustizia, proprio due mesi fa, si è pronunciata in merito, e ha sancito che l’Art. 50 del TUE, o Trattato di Lisbona, il quale prevede l’uscita di uno Stato membro dell’Unione, anche qualora siano state create le condizioni per questa scelta, possa essere revocato (dal Regno Unito in questo caso) unilateralmente,  senza il voto favorevole degli altri Stati membri.

Certamente un ulteriore colpo per la premier May, dato che tale delibera della Corte è arrivata proprio quando si stava presentando in Parlamento il fatidico ‘accordo-compromesso’ con l’Unione, raggiunto a novembre scorso.

Com’è noto il nodo più stretto da sciogliere era Westminster, che ha respinto i negoziati con Bruxelles, perché non va giù la questione delle frontiere in Irlanda del Nord. C’è già un allarmante fermento al riguardo: l’Official Ira (Irish Republican Army), mette in guardia su scintille di tensioni che potrebbero riesplodere, ci sono i dissidenti che non si sono mai rassegnati agli accordi di pace del 1998.

In ogni caso se nell’isola si ripristinasse la frontiera, il rischio sarebbe altissimo, la recente esplosione dell’autobomba a Derry, è già sintomatico di un’atmosfera in cui si respira pesante. I passi successivi saranno determinanti per un assetto che garantisca la pace nell’isola. Eppure la premier non sembra  abbia dato finora grande peso a quella miccia che rischia di scaraventare di nuovo l’Irlanda in un incubo di tensioni (definite anche ‘troubles’), che ha causato in pochi decenni 3.500 vittime.

Una guerra civile terminata vent’anni fa con il cosiddetto “Accordo del Venerdì Santo, o Belfast Agreement”, tra i rappresentanti del Regno Unito e della Repubblica d’Irlanda. Le tensioni in Irlanda, del resto, erano iniziate già un millennio prima, in seguito all’invasione degli inglesi, mai accettata veramente, nonostante la divisione in due dell’isola, stabilito dal “Government of Ireland Act”, siglato nel 1920.

Non c’è mai stata piena accettazione dei confini, quella sfera d’influenza che delimita la giurisdizione dei due Stati.  L’autorità del Regno Unito è stata sempre avvertita come un abuso, un atto di prepotenza. Cattolici e protestanti non sanno convivere serenamente, e lo dimostrano le 150 vittime che si contano anche dopo i negoziati di pace del 1998.

La Gran Bretagna, che dopo Elisabetta I, ha cominciato il suo dominio sui mari e intrapreso una politica di colonialismo sistematico, permettendole di diventare nel corso dei secoli uno dei più grandi Stati imperialistici della storia –  madre patria del Commonwealth – oggi lotta per evitare la disgregazione delle tre ‘nazioni’ che la compongono, ossia Inghilterra, Galles e Scozia.

Quest’ultima insidia l’autorità politica di Londra e continua con forza a chiedere la secessione. Gli avvenimenti storici, che già hanno ridotto ai minimi termini il territorio britannico, ora prospettano ulteriori rivolgimenti, che potrebbero ulteriormente cambiarne le sorti. La Brexit si sta presentando come un vero e proprio ordigno, che deflagra in ogni direzione, destabilizza equilibri conquistati a fatica, e somiglia al lancio potente di un sasso su una superficie di acqua, che provoca cerchi concentrici, ne agita l’immobilità: crea movimenti che non ci si aspettava.

Certo se l’ex premier David Cameron, non avesse indetto la fatidica consultazione referendaria (per ragioni di compliance elettorali), oggi tutto sarebbe stato diverso. Ma certamente non immaginava che, veramente in quel momento, si preparava un ordigno che rischiava di aprire le porte ad una guerra civile: il popolo è sicuramente diviso.

Churchill, con la sua proverbiale calma, e la tendenza a risolvere le questioni con buon senso, acuto nel presentire e abile nelle strategie, avrebbe trovato un modo per spezzare questa sorta d’indeterminismo e disorientamento del  popolo britannico. Vista dall’esterno, la Brexit è un focolaio di confusione: caos, non affine all’ortodossia dell’ordine concepito dall’indole degli inglesi.

Perfino in parlamento le iniziative si concludono in risoluzioni che restano indefinite, non c’è un decisionismo tale da portare, per dirla con un luogo comune, “a tagliare la testa al toro”. Un secondo referendum è ritenuto un abuso contro la volontà del popolo, ma in realtà è sempre un mezzo democratico che permetterebbe di avere oggi una visione più chiara di quello che realmente i britannici vorrebbero su una scelta così importante sul piano politico ed economico.

E invece si temporeggia, si va avanti con rimbalzi di presunte responsabilità, accuse sterili: indecisionismo che sta facendo molto male all’economia del Regno Unito, ma soprattutto non si dovrebbe sottovalutare la tensione che serpeggia ovunque, anche nelle istituzioni. E basterebbe pensare alle dichiarazioni del ministro della Salute Hancock, che ha accennato  alla possibilità d’introdurre la pena capitale, qualora ci fossero individui che si rendessero responsabili di disordini volti a mettere a rischio la stabilità dei ritmi di vita nel Paese. Siamo a questi livelli, e dopo l’esplosione dell’autobomba nell’Irlanda del Nord, il Regno Unito sta affrontando davvero una seria emergenza sul piano politico, civile e sociale.

Se Londra deciderà di non cedere ad un secondo referendum, e optasse per il no-deal, l’Irlanda si presenterà davanti ai rappresentanti degli altri Stati membri dell’Unione, alla fase due dell’iter previsto dalla Brexit, con un veto, se non ci saranno precisi accordi sui confini con l’Ulster. Nel corso dei negoziati di pace di Belfast del 1998, per imporre la pace dopo una sanguinosa guerra civile, si stabilì che non sarebbero state più ripristinate frontiere dure. Ma la storia insegna che nulla è per sempre.

La premier Theresa May è riuscita a concludere l’accordo con i 27 paesi dell’Unione, proprio facendo concessioni sui confini con l’Ulster, per quel che riguarda i traffici commerciali. Accordo che non è stato accettato dalla maggior parte dei parlamentari di Westeminster. Si sta seriamente pensando ad una dilazione dei termini che rendono attivo l’art. 50, il quale doveva scattare a fine marzo. Il Paese non è preparato ai passi successivi, né i 27 Paesi membri dell’Unione europea intendono fare ulteriori concessioni a favore del governo britannico.

In primavera le prospettive saranno sicuramente più chiare, al  momento una soluzione risolutiva sembra interdetta proprio dalla situazione d’indecisionismo e di stallo che si è determinato,  in gran parte dovuto all’ostinazione della premier di non dimettersi, nonostante, in termini di consensi, abbia collezionato una serie di sconfitte.

 

 

 

SARDEGNA. GLI AMBIENTALISTI HANNO ACQUISTATO LE DUNE E LA SPIAGGIA DI CHIA

DI VIRGINIA MURRU

 

L’acquisto delle dune e spiagge di Chia, in territorio comunale di Domus de Maria, è ormai una certezza, il Gruppo d’intervento giuridico di Cagliari ha versato una caparra, e da ieri 18 dicembre, un meraviglioso tratto di costa sarà protetto e destinato alla comunità. In tutto saranno vincolati 40mila mq,  il fine è quello di salvaguardarlo da un eventuale scempio edilizio in futuro, che potrebbe pregiudicarne il delicato ecosistema, e alterare le caratteristiche ambientali e paesaggistiche del territorio.

Il sud della Sardegna è caratterizzato da decine di km di dune bianche, che nella stagione estiva, da Chia a Porto Pino (ma  anche oltre) rimanda a i paesaggi caraibici, con il bianco abbagliante della sabbia finissima, modellata con eclettico estro dal maestrale. Un paradiso di bellezze naturali che richiama migliaia di turisti, li stordisce con visioni che non si dimenticano. L’insidia del cemento è stata finora scongiurata, forse anche per i  vincoli legati alle servitù militari. Is Arenas Biancas, nella punta a sud-ovest dell’isola, è ubicata infatti nei dintorni di Capo Teulada, dove da decenni la costa è retaggio del poligono militare. Qui dagli anni cinquanta è sempre stato vietato  l’accesso ai bagnanti.

Per fortuna si parla di passato recente, dato che, in seguito ad un accordo siglato lo scorso anno fra la regione Sardegna e il Ministero della Difesa, i tratti di costa interdetti ai turisti e alla gente del posto, sono stati ‘liberati’, e dall’estate 2018, sono fruibili da tutti, sia nel periodo estivo che in quello pasquale.

Insieme al litorale di Is Arenas Biancas è stato ‘affrancata’ anche la spiaggia di Porto Tramatzu, in giurisdizione di Teulada. Diversi tuttavia sono i tratti di costa liberati dalle servitù, siti occupati da militari Nato, che della Sardegna ne aveva fatto un polo strategico militare contro l’ex Unione Sovietica.

Tanto per dirla in numeri, 35mila ettari sono sotto vincolo militare, con presidi anche internazionali; la Sardegna in termini di servitù militari contribuisce per oltre il 60% del totale nazionale. Vergognoso. E infatti, quando un anno fa fu siglato l’accordo tra la regione Sardegna e il ministro della Difesa, il presidente della Giunta, Francesco Pigliaru, commentò: Sì, certo una giornata storica per l’isola, attesa da quarant’anni, ma anche una pagine imbarazzante per questa legislatura..”

I sardi si sono ripresi i diritti di accesso al proprio territorio, e insieme a queste conquiste si esulta ora per la sorte delle dune e litorale di Chia, autentici gioielli incastonati nel sud dell’isola, una garanzia e insieme una vittoria per gli ambientalisti, che hanno condotto fino in fondo questa battaglia e hanno vinto.

La sfida era quella di sottrarre il territorio alle mire di acquisto da parte di privati, soggetti immobiliari con capitale arabo, secondo il Gruppo d’intervento giuridico, che avrebbero  impostato una strategia di rastrellamento di terreni adiacenti le dune.

Il pericolo pertanto riguarda la privatizzazione delle spiagge, ma c’è anche il rischio di possibili integrazioni normative che diano il ‘là’ a volumetrie edilizie a ridosso delle dune, assolutamente da scongiurare. Si tratterebbe di violare un paradiso sul piano naturalistico ed ecologico, un ‘paradiso perduto’, se non si intervenisse con strumenti in grado di sottrarlo alla bramosia della forza finanziaria dell’edilizia internazionale.

C’è da sottolineare che al momento è stata versata una caparra da parte del “Gruppo d’intervento giuridico” (gruppo Onlus), il resto sarà versato al termine della sottoscrizione che è stata già  lanciata, e che conta di recuperare i fondi necessari alla conclusione dell’acquisto. Per chi deciderà di donare il proprio contributo, precisa il Gruppo d’intervento giuridico,  è prevista la detrazione del 19% degli importi donati fino a un massimo di 2.065,83 euro (art. 15,comma 1°, lettera i – quater, del D.P.R. n. 917/1986 e s.m.i., testo unico delle imposte sui redditi – T.U.I.R.).

Si legge nel sito:

“Per concludere questo ambizioso progetto abbiamo bisogno dell’aiuto di tutte le persone che tengono al proprio ambiente, alla propria identità, al futuro della propria Terra.

Contribuisci all’acquisto delle dune e della spiaggia di Chia con un  versamento su un conto intestato all’Associazione. A chi contribuirà verrà inviato Attestato di benemerenza e tessera associativa, per almeno 30 euro di contributo”

E per dare enfasi alle proprie convinzioni, il Gruppo precisa che ci si deve scordare un intervento di salvaguardia da parte dell’Agenzia per la Conservatoria delle coste, voluta e istituita alcuni anni fa proprio dall’Associazione, ma di fatto inattiva, responsabile d’inerzia davanti ad urgenti problematiche ambientali come queste.

Non ci saranno più ‘location’ riservate ad eventi esclusivi, destinati al turismo d’élite, la priorità prima di tutto ai sardi, ai quali in vario modo è stato interdetto l’accesso alle meraviglie di diversi tratti di  costa.

L’acquisto riguarderà una parte delle dune e spiaggia di Chia, di fronte all’isolotto Su Giudeu. Il fine è ovvio, ossia proteggere l’ecosistema di queste bellezze naturali ancora integre, e consentirne la fruizione ai comuni mortali dell’isola, al pubblico. Uno slogan ne sottolinea gli intenti:

“Il nostro ambiente e la nostra identità non sono in vendita, insieme possiamo dimostrarlo concretamente”.

 

OGGI SI CELEBRA LA “GIORNATA INTERNAZIONALE DEI RAGGI COSMICI”

DI VIRGINIA MURRU

 

Oggi, ovunque nel mondo, si celebra l’”International  Cosmic day”, ossia la giornata dedicata ai cosiddetti ‘raggi cosmici’, o radiazione cosmica. Studenti e appassionati  collaborano con le Università, per comprendere, attraverso la ricerca e lo studio, che cosa sia quel flusso regolare di particelle elementari, quali protoni, elettroni, nuclei di atomi pesanti, che provengono dallo spazio e ‘avvolgono’ il pianeta. Il fenomeno può anche essere inteso come sistema di particelle secondarie derivanti dall’interazione di quelle menzionate.

La scienza, e la Fisica in particolare, è una stupefacente avventura che conduce quasi sempre ai confini dell’intelligibile, dove la mente umana rivela il prodigio del proprio ingegno, arrivando a leggere i codici criptati del Cosmo decifrandone le leggi, le formule, i misteri..

Percorrere queste vie dell’Universo irte di ostacoli attrae anche le giovani generazioni, e oggi sono qualche migliaio gli studenti che in Italia partecipano alla celebrazione, collaborando con i protagonisti di questa scienza: i fisici dei centri di ricerca. In questo caso è il centro Desydi di Amburgo, in coordinazione con l’Infn, ossia l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, ma collaborano anche  centri di ricerca importanti a livello mondiale, come il Cern e il Fermilab di Chicago.

Il fine  è ovviamente quello di stimolare la conoscenza e i percorsi di ricerca, dove i progressi nello studio dei raggi cosmici, saranno la base e il fulcro per avvicinarsi alla Fisica e ‘analizzare’  i dati attualmente disponibili dai ricercatori di tutto il mondo. Dati derivanti dall’impiego di un particolare strumento: il rivelatore di raggi cosmici. Attraverso il suo utilizzo fisici e ricercatori possono osservare il flusso di particelle che invadono la Terra dallo spazio, dal Cosmo.

Gli studi degli italiani hanno svolto un ruolo decisivo, è di quest’estate la notizia (data dalla National Science Foundation degli Usa), della scoperta dell’origine dei raggi cosmici, grazie alla ‘cattura dei neutrini cosmici’, ossia quei messaggeri celesti che silenziosamente circondano l’atmosfera terrestre, come ‘presenze’ discrete dell’Universo. Ma i fisici e ricercatori italiani  sono sempre in prima linea sui traguardi raggiunti soprattutto negli ultimi 30 anni, e competono a pari livello con i risultati delle grandi potenze, che dedicano ingenti risorse alla ricerca.

Gli italiani hanno all’attivo  numerose pubblicazioni nelle riviste scientifiche più quotate, alla scoperta dell’origine dei raggi cosmici; hanno partecipato con successo agli studi l’Agenzia Spaziale Italiana, l’Istituto di Astrofisica, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, oltre a numerosi Atenei.

Tramite la ricerca si è portato a conoscenza il ruolo di ‘terzi messaggeri cosmici’ svolto dai neutrini, e sono in buona compagnia con le onde gravitazionali e i fotoni (o particelle di luce); tutti insieme diventano strumenti al servizio della conoscenza nel campo della fisica.

Introdursi in punta di piedi, nei meandri dello spazio, significa correre il rischio d’essere in qualche modo sopraffatti dal fascino  e i misteri della Scienza, quella che s’inoltra al di là degli avamposti del Cosmo, e ne percorre, talvolta con una ‘candela’ in mano, i percorsi accidentati, a volte preclusi dai limiti del sapere. Un sapere che ha compiuto, specie nell’era moderna, progressi enormi, che solo qualche decennio fa non si credevano possibili, certamente coadiuvati, oltre che dall’intuito degli scienziati, anche da strumenti potentissimi che rendono meno ostica la comprensione e la conoscenza dei fenomeni più oscuri dell’Universo.

La fisica, per i profani, può essere solo avvicinata con cautela, perché consapevoli dei limiti del proprio sapere, ma questo non significa rinunciare a sfiorare col pensiero la meraviglia delle scoperte in questo ambito.

Fin dall’epoca in cui si è cominciato a studiare il fenomeno dei ‘raggi cosmici’, si comprese l’importanza della loro esistenza, e si partì da lontano, fin dal XVIII secolo. Nel 1785, il fisico e ingegnere Charles Augustin Coulomb (conosciuto come fondatore di teorie matematiche sull’elettricità e magnetismo, ossia l’unità di misura della carica elettrica), misurò la ionizzazione dell’atmosfera. Tanti studi furono compiuti tra il ‘700 e l’’800, e infatti fu alla fine dell’ottocento che si portarono alla luce scoperte importantissime, le quali fecero da apripista alla fisica moderna. Alcuni esempi riguardano i ‘raggi catodici’ (1879, elettrodo con carica negativa); i ‘raggi X’ nel 1895; ‘la radioattività naturale’, l’anno seguente – e un anno più avanti ancora si elimina un altro velo alla conoscenza di questi raggi, con la scoperta dell’elettrone.  Nel corso dell’ultimo anno del secolo – 1899 – lo scienziato Rutherford scopre i raggi α e poi i β e i γ.

E tuttavia, fu nei primi decenni del ‘900 che si assistette alla “Nascita della Fisica dei Raggi Cosmici”, il famoso fisico tedesco, Victor Franz Hess, sperimentò un volo in ‘pallone’, fino a raggiungere gli oltre cinquemila m. d’altezza.  Con sé aveva un elettroscopio a fibre di quarzo e un microscopio a scala graduata, con i quali misurò le radiazioni e la loro intensità, arrivando alla conclusione che era il doppio di quella rilevata sulla Terra. L’elettroscopio fu uno strumento importante, che permise già nell’’800 la scoperta della ionizzazione dell’aria.

Negli studi ‘precursori’ concernenti la scoperta dei raggi cosmici, c’è anche un autentico pioniere: il fisico italiano, Domenico Pacini, che aveva lavorato all’”Ufficio Centrale di Meteorologia e Geodinamica”, e in seguito diventò docente di Fisica Sperimentale all’Università di Bari. Visse tra l’ottocento e la prima metà del novecento.

Collaborava con lo scienziato austriaco suo contemporaneo, Victor Franz Hess, al quale inviava missive sulle sue intuizioni, e in una di queste lettere si rammaricava del fatto che nelle pubblicazioni del dott. Hesse non si citassero per nulla le ricerche dei fisici italiani. Rivendicava inoltre il fatto che ‘i lavori’ dei ricercatori italiani erano arrivati a conclusioni importantissime, che erano diventate la base per ulteriori progressi e ricerche da parte dei migliori scienziati dell’epoca.

Il prof. Hess rispose in modo cordiale, e si scusò delle omissioni – ‘non volute’ – scrisse, ma comunque nel 1936, il Premio Nobel per la scoperta dei ‘Raggi Cosmici’, fu assegnato proprio a lui e ad un altro ricercatore, Carl David Anderson.

Anderson, era un americano nativo di New York,  ma di origini svedesi, per tutta la vita si dedicò alla ricerca (terminando la sua esistenza a S. Marino nel 1991). E’ noto proprio per la motivazione che gli valse il Nobel in giovanissima età (aveva solo 30 anni), e per una vita di studi e ricerche, i quali hanno riguardato l’irraggiamento della luce solare che si trasforma in elettricità – dovuta alla diffusione spaziale degli elettroni, che derivano da gas diversi, facenti parte dei cosiddetti Raggi X – e in tanti altri ambiti della Fisica.

 

 

LUIGI GUBITOSI, NUOVO AD DI TIM, GUIDERA’ LA SVOLTA

DI VIRGINIA MURRU

 

Poche, stringate parole, nel comunicato stampa di Tim, per annunciare la nomina di Luigi Gubitosi ad Ad, nessuna sorpresa per chi ha seguito le ultime vicende riguardanti  i movimenti ai vertici del gruppo, dopo le dimissioni di Amos Genish, Ceo entrato alla guida della società circa un anno fa, e liquidato dal board, con revoca di tutte le deleghe, per risultati incompatibili con le attese.

I mercati hanno accolto con entusiasmo la nomina di Gubitosi, il titolo ieri è andato in rialzo, con +3%, mentre manca sempre più la fiducia nell’economia italiana in generale, e la manovra in particolare, con lo spread che raggiunge  nuovi record, negativi ovviamente. Il differenziale Btp/Bund ha registrato un ulteriore balzo, arrivando a 330 punti base.

La decisione del cambio di guardia ai vertici di Tim, è  giunta in seguito all’analisi di una trimestrale che ha presentato una perdita di 800 mln di euro,  dovuta alla “svalutazione del business domestico” pari a 2 mld. Un lungo braccio di ferro tra gli americani del Fondo Elliot e i francesi di Vivendi,  il verdetto, considerata la prevalenza di voti di Elliot nel Cda, era praticamente scontato. Il comunicato stampa diffuso da Tim è essenziale, ma mette in rilievo in poche note il nuovo assetto.

Due giorni fa si è riunito il Cda di Tim, sotto la presidenza di Fulvio Conti – e dopo la condivisione della raccomandazione proveniente dal Comitato Nomine e Remunerazione – si è scelta la nomina di Luigi Gubitosi ad Ad e Direttore Generale, al quale sono state conferite deleghe esecutive. La deliberazione è avvenuta a maggioranza, e sono state anche confermate le deleghe ad oggi attive, nonché l’assetto interno. E pertanto:

il Presidente svolgerà il mandato attraverso le attribuzioni conferitegli per legge, Statuto e regolamento relativo all’autodisciplina. L’Ad potrà avvalersi dei poteri necessari a portare avanti gli atti concernenti l’attività sociale. Faranno eccezione i poteri riservati per legge e Statuto al Cda.

Stefano Grassi, attuale responsabile di Security, acquisirà deleghe temporanee in funzione di Delegato alla Sicurezza.

Il trattamento economico, secondo il comunicato stampa diffuso da Tim, corrisponderà a quello già fissato per il suo predecessore, nessun cambiamento in questo ambito, prevarrà la linea di politica e remunerazione stabilità dalla Società.

La nomina di Luigi Gubitosi ad Ad e Direttore Generale, significa la qualifica ad Amministratore Esecutivo, non indipendente, e per conseguenza esce dal Comitato per il controllo e i rischi. Il comunicato, precisa altresì, che il nuovo Ceo non possiede azioni di Telecom Italia S.p.A.

La scelta di Gubitosi potrebbe essere l’asso vincente per il gruppo Telecom, in particolare si parla con insistenza del possibile scorporo della rete, al quale farà seguito una società unica dopo la fusione con Open Fiber, caldeggiata dal governo, ma anche dalla destra, e non dispiace al PD.

Polemico al riguardo l’ex ministro del Mise, Carlo Calenda, il quale, su Radio Capital afferma:

“Siamo stati noi del precedente governo ad attivarci per lo scorporo della rete Tim, noi a lanciare l’idea e a tracciarne il programma, con la golden power prima, e in seguito con  Tim, dopo il lavoro svolto con Agcom. Ma rispetto ai piani dell’attuale governo, noi avevamo un progetto a costo zero, mentre oggi s’intende espropriare la rete a Tim: tutto questo avrà un costo che oscilla tra i 30 e i 35 mld, sempre che si possa attuare. Il governo oggi ci sta copiando, e va bene, il problema è che ci sta copiando male. Sono del parere che non riusciranno a portare avanti questo piano di scorporo, perché mancano le risorse, non hanno proprio i mezzi per affrontarlo.”

Il nuovo Ad di Tim, napoletano,  è tuttavia pertinace e sempre orientato verso la svolta, il prossimo anno sarà decisivo in questo ambito.

Luigi Gubitosi ha una vita privata piuttosto riservata, in ambito politico è gradito ad un altro napoletano, Luigi Di Maio, ma in generale alla coalizione Lega-Movimento 5 Stelle. Sul profilo pubblicato nel sito ufficiale Tim, si trovano le tappe più rilevanti della sua carriera.

E’ nato a Napoli nel 1961, ha un percorso di studi a carattere economico-giuridico, con una laurea in Giurisprudenza all’Università di Napoli e un titolo presso la London School of Economics . Ha ottenuto poi un master in Business Administration all’I.N.S.E.A.D. di Fontainbleau.

E’ stato Vice Presidente di Confindustria Servizi Innovativi e Tecnologici, Vice presidente di Asstel e membro del Comitato Fisco e Corporate Governance di Confindustria. Membro anche del Comitato organizzatore delle Olimpiadi di Scacchi di Torino nel 2006, e del Cda di Cometa (Fondo pensione dei lavoratori metalmeccanici).

Dal 1986 al 2005 ha ricoperti diversi ruoli nel Gruppo Fiat, da Chief Financial Officer, a Direttore Finanza e Responsabile Tesoreria. Presidente del Cda di Fiat Partecipazioni, nonché membro del Cda di Fiat Auto, Ferrari, Iveco, Itedi, Comau e Magneti Marelli. Nel 2005 l’ingresso a Wind Telecomunicazioni, in qualità di Chief Financial Officer, quindi ha ricoperto il ruolo di Ad, dal 2007 al 2011.

E’ stato poi Country manager e responsabile della Divisione Corporate and Investment Baking di Bank of America Merrill Lynch Italia, dal 2011 al 2012. Dal 2012 al 2015 ha rivestito la carica di Direttore Generale Rai.

Chairman dell’European Advocacy Committee del CFA Institute, Consigliere indipendente di Tim, dal maggio scorso, fino alla sua nomina ad Ad e Direttore Generale, il 18 novembre 2018.

 

 

“UE EQUAL PAY DAY”, PER RICORDARE CHE LE DONNE LAVORANO DUE MESI ALL’ANNO GRATIS

DI VIRGINIA MURRU
Non è esattamente una celebrazione, ma almeno, il 3 novembre, si rivolge lo sguardo verso l’altra metà del cielo, dove la “luce” giunge un po’ in diagonale, nel senso che i diritti non sono uguali all’altro “versante”: le donne, soprattutto in alcune aree del pianeta, sono ancora vite di serie ‘B’, e le disparità di trattamento rispetto al mondo maschile, sono veramente inconcepibili nel terzo millennio.
L’Ue allo scopo di favorire la parità di genere fra uomo e donna in ambito lavorativo, ha fissato nel calendario una data significativa, l’”Equal pay day”, che comincia proprio il 3 novembre; a partire da questo giorno, infatti, in media, la donna europea lavora gratis, fino al 31 dicembre.
Si parla della media europea, perché osservando la situazione di ciascun paese membro, ci troviamo davanti qualche sorpresa: per esempio le donne tedesche cominciano a lavorare gratis, a partire da metà ottobre, così come, accade alle donne in Estonia e Cecoslovacchia, queste lavoratrici prendono circa il 22% in meno rispetto agli uomini. Sorprendente (quasi un primato per i diritti civili) che le donne italiane invece, comincino a lavorare gratis da metà dicembre (fino al 31, periodo di riferimento).
Afferma il vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans, sostenuto dalla Commissaria Marianne Thyssen e Vera Jourova:
“Donne e uomini devono avere pari diritti, si tratta di un valore fondante dell’Unione europea. Nonostante questo le donne europee, in media, lavorano due mesi gratis rispetto ai loro colleghi, è una situazione inaccettabile, bisogna intervenire per tutelare le donne che lavorano.”
In media, le donne europee, secondo Eurostat, quanto a trattamento economico sul lavoro, prendono il 16,2% in meno rispetto agli uomini, e dunque a partire dal 3 novembre, lavorano gratis fino alla fine dell’anno. Se si volesse precisare meglio, per ogni euro che un uomo guadagna, la donna prende circa 16 centesimi in meno (in Italia, secondo i dati Eurostat, le donne prenderebbero invece il 5,3% in meno).
Questa data è diventata un simbolo, si spera di riscatto, Equal Pay Day, per indurre a riflettere, e soprattutto per restituire dignità e parità di diritti a tutte le donne che lavorano.
Le differenze sono comunque rilevanti, e parliamo dell’Occidente, dove i diritti civili e umani dovrebbero essere molto avanzati, e invece anche qui siamo ben lontani dal raggiungere il traguardo delle ‘pari opportunità’, sancite da princìpi giuridici contenuti nella Costituzione (e non solo in quella italiana).
Ben 3 articoli vi fanno infatti riferimento: il N. 3, il 37 e il 51.
Afferma l’Art. 3:
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
E potrebbe anche essere sufficiente ad eliminare qualsiasi forma di dubbio o discriminazione di genere, ma l’Art. 37 entra nello specifico, e recita:
“La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.
La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato.”
E infine è bene citare anche l’Art. 51:
“Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini.”
Eppure di fatto questi fondamentali princìpi della nostra Costituzione sono stati solo relativamente applicati, considerato che, ancora oggi, i risultati sono questi.
Si è detto che la parità di genere, anche in ambito lavorativo, è anche un diritto stabilito dell’Ue, e infatti, fin dalla sua istituzione, la Comunità europea, ha messo in rilievo l’importanza della parità di retribuzione, proprio come principio fondante, e sulla base di questa tutela ha promulgato una normativa che tende a garantire i medesimi diritti tra uomo e donna. Dunque stesse opportunità per l’accesso all’occupazione, condizioni di lavoro non discriminanti, diritto alla formazione professionale con gli stessi criteri dei colleghi maschi, e soprattutto attenzione per quel che concerne la protezione sociale, welfare..
A partire dal 1957, anno di fondazione della Comunità europea, troviamo nella normativa, un articolo che entra nello specifico, il N. 119 dei Trattati sostitutivi, che disciplina e sancisce il principio della parità di retribuzione tra lavoratori maschi e femmine, allorché svolgano lo stesso lavoro. Purtroppo, oggi sappiamo che non si è dato seguito a questi diritti fondamentali che caratterizzano una società evoluta sul piano sociale qual è quella europea.
Il concetto fu ripreso una ventina d’anni più tardi, ossia nel 1975, quando la Comunità europea emanò delle norme precise sulla parità di retribuzione, si trattava della Direttiva 75/117/CEE, che aveva il fine di ‘omologare’ il trattamento retributivo nell’ambito della legislazione degli stati membri. A questo intervento giuridico seguì un’altra Direttiva l’anno successivo, la 76/207/CEE, emanata dal Consiglio del 9 febbraio 1976, che riportava l’attenzione sulla parità di diritti nell’accesso al lavoro tra uomini e donne, formazione professionale e tutte quelle materie oggetto di discriminazione di genere, che restavano di fatto problematiche sociali ancora irrisolte.
Da allora le Direttive su questa materia sono state diverse, come quella del 1986 (e non certo l’ultima), ossia l’86/378/CEE, la quale ribadisce con eloquenza la necessità di stabilire il principio della parità di trattamento (richiamo in particolare al settore dei regimi professionali di sicurezza sociale, tutela della maternità, ecc.), e relativa applicazione da parte degli Stati membri, che dovevano, per ovvie ragioni, recepire la normativa.
Altri interventi di carattere normativo sono seguiti, ma siamo ancora qui, nel terzo millennio, a parlare e a scrivere di trattamento discriminatorio tra i due sessi, disparità di genere anche nell’ambiente di lavoro, ed è difficile essere ottimisti, pensare che nel volgere di pochi anni, alle donne, finalmente, nel lavoro saranno riconosciuti gli stessi diritti dei colleghi maschi.

ALITALIA. PRONTO IL PIANO DI RILANCIO DELLA COMPAGNIA, TRIA E DI MAIO AI FERRI CORTI

DI VIRGINIA MURRU

 

Certo che l’ex compagnia di bandiera italiana, da quando è cominciata l’Amministrazione controllata con i 3 commissari straordinari (2 maggio 2017), ha seguito una ‘rotta’ di rigore per quel che concerne la gestione. E i risultati sono evidenti, con un trend di crescita che fa ben sperare sul suo destino travagliato, che, fra alterne vicende, va avanti ormai da oltre vent’anni.

Il controllo dei costi e la conseguente riduzione, l’attenzione verso il rispetto degli orari e le esigenze dei viaggiatori, la riapertura di ‘vecchie’ rotte, insieme ad altre nuove, un assetto interno più efficiente, hanno fatto la differenza. Decisamente, ‘si viaggia meglio’, in tutti i sensi, ed è pertanto lecito sperare su migliori prospettive per il futuro.

Il clima di fiducia traspare anche dalle dichiarazioni di Luigi Gubitosi e degli altri Commissari, i quali, alla fine di settembre (il 26), si sono presentati in audizione in Parlamento. Le stime sui ricavi, secondo il loro resoconto, sarebbero buone anche per l’ultimo trimestre del 2018, tanto che il bilancio dovrebbe chiudersi in positivo, ossia con un modesto ma importante margine di utili.

“Cosa che – hanno spiegato i Commissari – induce all’ottimismo, poiché, com’è noto, non accadeva da tempo. Si tratterà infatti di circa 2 milioni di utile netto (nel 2018), ma già nel terzo trimestre dell’anno in corso vi è una disponibilità di cassa di poco inferiore ad un milione di euro.”

Un anno fa la situazione, dopo sei mesi di amministrazione straordinaria, era sicuramente meno rassicurante, il ‘paziente’ era sottoposto a terapia intensiva di riduzione di costi, e gli utili relativi all’acquisto dei ticket, si dissolvevano nelle maglie delle strategie di risanamento.

C’è attualmente una differenza di 140 miliardi in termini di ricavi dalla vendita di biglietti, rispetto allo stesso periodo del 2017, e nei tre trimestri del 2018, la crescita è stata del 7%. Praticamente al di là delle previsioni, se si considera la situazione dei conti a maggio dello scorso anno, quando i Commissari hanno preso in mano le redini dell’azienda.

Intanto il termine previsto per il rimborso del cosiddetto ‘prestito ponte’, è stato portato a metà dicembre prossimo.

La restituzione del finanziamento concesso dallo Stato (tra polemiche e contestazioni da parte dell’Unione europea), la cui prima tranche è stata di 600 milioni di euro, e la seconda di 300 milioni, sancirà il ‘closing dell’operazione’.

Siamo giunti comunque alla scadenza dei termini previsti per l’Amministrazione straordinaria della compagnia: il 31 ottobre, data in cui scadranno anche i termini per l’inoltro delle offerte vincolanti. La data era stata prorogata, era previsto infatti che dovesse chiudersi entro il 10 aprile.

I problemi sulle sorti della Compagnia sembra si siano spostati sul versante politico, il vice premier Luigi Di Maio, vorrebbe una partecipazione diretta dello Stato, ma il titolare del Mef, sembrerebbe non concordare su questa scelta, e non è certo l’unica linea di demarcazione tra le vedute dei due ministri. In più circostanze, negli ultimi mesi, la mancanza di convergenza ha creato dibattiti e urti nel Governo, nonostante la ‘spugna’ fosse sempre pronta a cancellare i dissidi, compiacente verso un’immagine che riflettesse all’esterno piena armonia.

Ma sulla futura gestione di Alitalia, lo scontro è praticamente palese. Di Maio, e lo ha dichiarato in più occasioni, aspira ad un “modello Ilva”, con un piano industriale a lungo termine. Il rilancio dovrebbe essere attuato tramite il Ministero dell’Economia. Ma su questi proclami Giovanni Tria dissente: “Io rappresento il Mef, non devono essere altri a fare dichiarazioni sui programmi del mio Ministero.”

Eppure- quello che un cittadino percepisce dall’esterno -è che la politica economica del Governo sia in mano ai due vice premier, loro sembrano i piloti che decidono rotte e strategie, perfino il premier Giuseppe Conte, appare come il terzo incomodo. I rappresentanti del M5S e della Lega, si atteggiano a factotum, saltano, in termini di competenze (o ingerenze?) da un ministero all’altro, e se oppongono il loro veto, se ostano su iniziative che non rientrano negli interessi dei due schieramenti, difficilmente queste andranno in porto.

Questa è l’immagine allo specchio dell’establishment politico delle egemonie, che porta avanti disegni – su alcuni importanti aspetti del cosiddetto contratto di governo, o ‘compromesso’ tra i due vice premier (il reddito di cittadinanza ne è un esempio) – che creano attriti come cortocircuiti per la fragilità della finanza pubblica, ma soddisfano requisiti di ‘compliance elettorale’.

E non importa se questi punti programmatici alimentano il rischio nei conti, a tutti i costi sembrerebbe necessario mantenere le promesse, tenere in cassaforte i voti del ‘popolo’. Ma siamo sicuri che lo “slalom” di cifre nel Def (che questa strategia puramente politica ha causato), sia la migliore garanzia in termini di ‘ritorni’ nella prossima legislatura?

Su Alitalia il fermento è forte, più volte è stato messo in discussione il ruolo di Giovanni Tria, ma non è l’unica poltrona a rischio, il prossimo anno potrebbero saltarne diverse.

E basterebbero le dichiarazioni del vice premier Di Maio, per comprendere l’aria che tira nei rapporti con il titolare del Mef:

“Ma quello non vuole veramente capire.. c’è una maggioranza politica siglata con un contratto di governo, perciò un tecnico deve attenersi a quello che si decide in questo ambito. Altrimenti è libero di andarsene..”

Che altro? Si può con discrezione aggiungere che il Mef è un ministero chiave per il Governo, lo è sempre stato, ma ora è cruciale se si tiene conto della delicatissima congiuntura economica del Paese.

Tra i due ‘litiganti’, c’è l’ombra discreta del presidente Mattarella, che scongiura l’allontanamento del ministro dell’Economia, poiché ritiene che rappresenti la moderazione e l’equilibrio, anche con il modo di proporsi e i continui appelli ad ‘abbassare i toni’, con ‘quelli’ di Bruxelles.

Che bisogna tenersi buoni, perché si sa: da là arrivano tuoni e fulmini, che finiscono per cadere sul tetto dei mercati, e le conseguenze ormai sono note. Il ministro Tria non deve solo essere circospetto nei confronti del vice premier del M5s, ma anche verso il ministro dei Rapporti con l’Europa, l’economista Paolo Savona. Ingerenze e interventi ‘a gamba tesa’, vengono anche da qui, ed è ovvio che al Mef ci sia aria di sdegno, ci si sente un po’ estromessi dal ruolo.

Alitalia tuttavia non ha tempo da perdere. Intanto, il piano di salvataggio deve essere concluso perché ormai non vi sono margini per continuare a temporeggiare.

L’Amministrazione straordinaria ha comunque conseguito notevoli risultati, basti pensare che le perdite operative Ebitda (ossia Earnings Before Interest, Taxes, Depreciation and Amortization – utili prima degli interessi, delle imposte, del deprezzamento e degli ammortamenti), sono state ridotte fino a 37 milioni di euro, ed erano ben 258 milioni nove mesi fa, cioè a gennaio dell’anno in corso. Alla riduzione della spesa, va aggiunto il rigore per quel che concerne la puntualità nel rispetto degli orari sui voli, diventati al primo posto in Europa; dettagli non di poco conto.

Quando si risolverà la questione salvataggio, e la gestione diventerà regolare, sarà tuttavia necessario intervenire sulla potenzialità della flotta, che dovrebbe essere incrementata, fondamentale per l’aumento del traffico e la vendita di tickets. Questi dati restano ancora punti sensibili da migliorare. Buoni i risultati raggiunti sul numero dei passeggeri di lungo raggio, con un incremento pari al 7,5%. I commissari però, al riguardo, osservano che l’Italia è sotto servita sui voli a lungo raggio: c’è una flotta di appena 26 velivoli.

I dati irrisori partono dal confronto con il gruppo leader europeo, ossia Lufthansa, la quale ha trasportato ben 130 milioni di passeggeri nel 2017, mentre la nostra compagnia poco più di 20 milioni.. Certo è necessario anche sottolineare che Alitalia ha meno di 12 mila dipendenti (prima della crisi erano 20 mila), e una flotta di velivoli per ovvie ragioni non paragonabile, mentre la compagnia tedesca ha 130 mila dipendenti. Non regge proprio il confronto.

Se fosse portato a termine il progetto di una nuova compagnia, una newco con Fs, le prospettive potrebbero cambiare in termini di potenzialità ed efficienza. Intanto entro la fine di ottobre arriverà l’offerta vincolante per l’acquisizione. Sono dichiarazioni rese dal ministro Di Maio in occasione di un recente incontro con i sindacati.

La procedura di vendita e i termini saranno rispettati, secondo il ministro, che afferma:

“Si tratta di un progetto ambizioso, non rivolto al salvataggio della compagnia, ma al suo rilancio, l’esecutivo ha le idee chiare in merito.”

E aggiunge che ci sarà una dotazione di 2 miliardi, e non solo: si sta prospettando la conversione di una parte del finanziamento che Alitalia ha ricevuto dallo Stato, in equity (o capitale sociale) per la newco in dirittura d’arrivo. La partecipazione dello Stato nel capitale, tramite il Mef, è dunque praticamente decisa. Parteciperebbero anche Fs (con una partnership strategica e finanziaria) e Cassa Depositi e Prestiti con finanziamenti adeguati, considerando che il piano industriale è ambizioso e prevede l’incremento della flotta di velivoli, e delle rotte a lungo raggio.

Per quel che concerne i dipendenti, il cui stipendio viene integrato da Cigs (Cassa integrazione straordinaria), in scadenza il 31 di ottobre, il vice premier Di Maio ha garantito una proroga. Nel contempo assicura ai sindacati che non vi sarà una svendita ad eventuali partner stranieri della Compagnia, il piano di rilancio presterà attenzione a tutti quei punti di vulnerabilità che hanno determinato l’amministrazione straordinaria, e portato disastri finanziari.

La Cgil auspica una soluzione in tempi brevi, la leader Susanna Camusso, dichiara: “dopo le promesse si aspettano i fatti.”

A questo riguardo, il 12 ottobre, si è tenuto l’incontro tra i rappresentanti dei sindacati e le delegazioni dei Ministeri dello Sviluppo Economico e del Lavoro – presente dunque il titolare dei due Ministeri, Luigi di Maio – sul tema della crisi di Alitalia.

 

FMI: OUTLOOK AL RIBASSO PER L’ITALIA. E UN MONITO PRO FORNERO

DI VIRGINIA MURRU

 

L’Fmi, secondo l’ultimo rapporto relativo al World Economic Outlook, è stato piuttosto esplicito sulla delicata fase congiunturale dell’economia italiana: a rischio shock. In riferimento al rallentamento riscontrato nella crescita, esprime perplessità e rimanda alle dinamiche ‘involutive’ della domanda interna ed estera, quali cause dirette della flessione, nonché allo stato di evidente insicurezza derivante dalle misure varate ultimamente dal Governo, già peraltro ‘respinte’ dalla Commissione europea.

Sull’economia italiana c’è un clima di riserva, o meglio, dichiarata diffidenza, da parte degli Organismi economici globali che contano, in quanto essi vigilano sull’andamento dell’economia globale, e sugli eventuali ‘focolai di contagio’ che si riflettono poi ad ampio raggio, condizionando i mercati. Sono proprio i Btp italiani “a rischio contagio”, secondo le valutazioni del Fmi, il quale potrebbe creare un circolo vizioso e serie conseguenze nel settore bancario; ma in rilievo restano le ripercussioni del debito pubblico italiano, che potrebbe avere ricadute su altri Paesi, soprattutto in area euro.

I timori del Fondo sono proprio rivolti all’aspetto finanziario e al coinvolgimento delle banche, in questo trend che riporta indietro la crescita, e vincolerebbe progresso e sviluppo nei prossimi anni.
L’Organizzazione internazionale presieduta da Christine Legarde (ne fa parte in qualità di vice direttore del Dipartimento di Ricerca, anche l’economista italiano Gian Maria Milesi-Ferretti) – sulla base delle incertezze politiche  e secondo il piano di crescita presentato dal Governo, basato sullo sforamento del rapporto deficit/Pil, e quindi su un maggiore indebitamento – ha espresso riserve sulla politica economica espansiva che mette a rischio la finanza pubblica, e ha ridotto le stime di crescita per il Paese.

L’ Fmi, nel contesto di un quadro previsionale che tiene conto delle più solide economie mondiali, stima che in Italia ci sarà una contrazione del Pil, con una crescita di +1,2% nel 2018, ossia lo 0,3% in meno rispetto al 2017; per il 2019 si prevede ancora un calo, e pertanto il Pil è stimato all’1% (stime ridotte anche rispetto ad aprile: +1,5% anno in corso e 1,1% nel 2019).

In area euro, l’outlook riduce la crescita: si passa da +2,2% del 2017 a +2% nell’anno in corso. L’Fmi (che ha sede a Washington) sostiene che le manovre di bilancio in Italia sono esigue (per via di un debito che schiaccia la finanza pubblica), perché i margini sono stretti, così come, del resto, avviene anche per la Spagna e la Francia. Questi paesi, secondo il rapporto del Fondo, dovrebbero impostare criteri di crescita oltre il potenziale, per aumentare margini di risorse e creare più sicurezza sui conti. In Italia, la via intrapresa in questo ambito, creerebbe ulteriore rischio poiché si procede verso la deviazione di un piano di riduzione del deficit strutturale.

Il tasso di disoccupazione è previsto (sempre secondo l’Outolook Fmi) in calo, ossia passerà dall’11,3% dello scorso anno al 10,8% del 2018. Per il prossimo è atteso al 10,5%.

Anche il debito pubblico, nonostante gli allarmi prospettati per via della recente manovra, è previsto in calo: passerà dal 131,3% del 2017 a 130,3% del Pil nell’anno in corso. Nel 2019 andrà in contrazione ancora fino al 128,7%, fino a raggiungere nel volgere del quinquennio il 124,1% del Pil.

Nel comunicato si precisa che, per ciò che riguarda le previsioni sull’Italia, non si è tenuto conto della Nota di Aggiornamento presentata di recente, le valutazioni si basano invece sugli orientamenti e il quadro di riforme del precedente governo, con disinnesco, a gennaio prossimo, delle clausole di salvaguardia sull’Iva.

L’Organizzazione sottolinea anche l’importanza di lasciare ‘incolume’ la legge Fornero, è quasi un monito, e del resto non è solo l’Fmi a insistere su questo punto, oggi è stata la Banca d’Italia a chiedere al Governo di non procedere con scostamenti che potrebbero tradursi in scompensi già nel breve periodo. Insomma la Legge Fornero non si dovrebbe cambiare.

“Roma – si legge nel rapporto – dovrebbe proseguire con le riforme sull’occupazione e mercato del lavoro, particolare attenzione si dovrebbe riservare alle pensioni”.
Il Def, così com’è stato redatto, è in attrito con le valutazioni della Commissione europea, ma anche delle Agenzie di rating (Fitch è già orientata a ‘castigare’ il paese con un rating che presumibilmente continuerà ad inasprire le reazioni dei mercati). Insomma, nessuno, nello scenario economico internazionale, auspica un florido futuro all’economia italiana, tenuto conto delle svolte previste nel programma di politica economica del Governo.

Si legge, tra l’altro nel rapporto del Fondo: “The issues of Italy and Brexit are, you know, of more systemic significance. Our concern about Italy is that there is a real imperative for the fiscal policy to maintain confidence, the confidence of markets. And we have seen spreads increase over the past months. This has certainly contributed to our downgrade of Italian growth and makes the economy more susceptible to shocks. So, we think it is important that the government operate within the framework of the European rules, which are also important for the stability of the eurozone, itself”.

(Le situazioni concernenti l’Italia e la Brexit, hanno, lo sapete, maggiori implicazioni di carattere sistemico. La nostra ‘preoccupazione’ circa l’Italia, è che si deve considerare un imperativo la politica fiscale volta a instaurare un clima di fiducia, soprattutto nei mercati. Abbiamo anche rilevato l’aumento dello spread nei mesi scorsi. Tutto questo ha sicuramente contribuito ad abbassare le previsioni di crescita per l’Italia, perché (la espone) rende l’economia più suscettibile di shocks. Pertanto, noi riteniamo importante che il Governo operi nel rispetto dei parametri e delle regole europee, altresì importanti per la stabilità stessa dell’area euro).

CGIL. A TUTELA DELLA DONNA UNA PIATTAFORMA DI GENERE

DI VIRGINIA MURRU

 

L’assemblea nazionale delle donne, tenutasi due giorni fa a Roma, al Teatro Brancaccio, con la presenza della Segretaria Generale Susanna Camusso, ha aperto i lavori con un tema eloquente “Belle Ciao. Tutte insieme vogliamo tutto”.

Nel corso di questo incontro è stato illustrato un Piano straordinario d’intervento, orientato su cinque direttrici: occupazione, welfare e molestie, parità di salario e condivisione. Misure che dovrebbero essere parte integrante dei diritti della donna, ma che nella realtà invece sono oggetto di lotta quotidiana, perché nel terzo millennio, anche nelle società evolute dell’Occidente, non vi è di fatto una reale applicazione.

Affermano le organizzatrici:

“Si tratta di punti di azione e di intervento, che faremo vivere nella nostra attività di contrattazione. Miriamo a   a contrastare le molestie nei luoghi di lavoro ad andare oltre le diseguaglianze di genere nella ricerca di occupazione, retribuzione e accesso alle cure mediche”.

“Siamo convinte – aggiungono – che in una fase politico sociale così complessa e pericolosa sia ancora più fondamentale una nuova alleanza tra donne, solo così si potrà contrastare la regressione culturale, sociale ed economica, e rendere migliore questo Paese”.

Una delle tante dichiarazioni di questa importante assemblea nazionale – riportate peraltro anche nel sito della Cgil – dal quale ci si auspica una più efficace incisività soprattutto in termini di tutela contro la violenza. Violenza che purtroppo sembra inarrestabile, autentica emergenza quotidiana, verso la quale, al di là delle proclamazioni e della retorica, ben poco si è fatto, sia in fase di prevenzione che in quella giudiziaria, dove le pene comminate nell’ambito della violenza di genere, sono ancora irrisorie. Certo non volte a scoraggiare chi se ne rende responsabile.

Durante l’incontro si è parlato di precarietà e discriminazione di genere anche nella ricerca di un’occupazione, della disparità di trattamento retributivo tra uomo e donna, di una tutela più vicina alla donna,  per quel che concerne le cure medico-sanitarie, affinché siano rese più agevoli e accessibili.

Non bisogna dimenticare che l’Italia è agli ultimi posti in Europa sul versante dell’occupazione femminile, il lavoro è spesso mal retribuito, dequalificato; ingiustizie che subiscono oltre la metà delle donne che affrontano quotidianamente le problematiche del mondo del lavoro. Le donne sono anche costrette ad accettare contratti basati sul precariato, e part time obbligati.

Ma basterebbe dare uno sguardo al nuovo rapporto Oxfam sulle disparità di genere, per renderci conto che l’Italia è davvero il fanalino di coda in Europa per quel che concerne la disparità di genere e i diritti civili ad essa connessi. Tra questi diritti mancati, emerge l’occupazione: nel 2017 – secondo l’ultimo rapporto – 10 donne lavoratrici su 100, sono state a rischio povertà. Le donne risultano essere retribuite in  modo inferiore rispetto ai maschi, circa il 16% in meno.

Il mondo femminile, rispetto a quello degli uomini, è maggiormente esposto ai lavori precari, è ancora invalsa la convinzione che l’uomo sia più “all’altezza” per quel che attiene le capacità professionali e qualifiche specifiche nello svolgimento di un lavoro che richiede specializzazione. Tutto questo mentre la donna continua ad affrontare lo slalom del doppio ruolo: quello domestico, ossia la cura della casa e l’educazione dei figli, e l’attività lavorativa, mai riconosciuti davvero questi ruoli, ai quali si aggiunge lo svilimento relativo alla retribuzione. Secondo Oxfam, la donna, per raggiungere pari dignità di genere, dovrebbe lavorare due mesi in più l’anno..

Da qui l’esigenza di un Piano straordinario, secondo le donne della Cgil, che preveda investimenti pubblici e una Carta dei diritti che sia finalmente applicata in favore di ogni donna.

La Piattaforma fa riferimento specifico ad alcuni punti sensibili che riguardano le ingiustizie più rilevanti subite dalle donne: i congedi parentali, che dovrebbero essere aumentati in termini di tempo, formazione obbligatoria dopo la maternità, il riconoscimento del lavoro di cura, interventi a sostegno della non autosufficienza, aumento di asili nido a supporto dell’attività lavorativa della donna, infine incentivi nuovi su politiche di condivisione e conciliazione.

E nello specifico gli interventi sulle disuguaglianze negli ambienti di lavoro, e, in generale, attenzione concreta sui servizi inerenti la salute, che deve tenere conto delle esigenze diverse concernenti il genere, compreso una sollecitazione affinché la Legge 194 sia effettivamente e concretamente applicata (La Legge 194, del 22 maggio 1978, riguarda la tutela sociale della maternità, nonché interruzione volontaria della gravidanza. Tale legge ha disciplinato attraverso specifica normativa, l’accesso all’aborto).

La Cgil infine chiede interventi più mirati per le violenze e le molestie sui luoghi di lavoro, la formazione delle Rsu (Rappresentanza Sindacale Unitaria); le proposte al riguardo sono tante, ma si dovrebbe investire molto di più in termini di prevenzione, affinché il fenomeno possa essere arginato tramite la sensibilizzazione, a cominciare dalla formazione scolastica, dove si dovrebbero apprendere i primi fondamentali ‘rudimenti’ di convivenza civile e avversione verso la violenza.

 

VERSO LA VERITA’ SULLE STRAGI DI PALERMO. INTERVISTA AL PENTITO CALCARA

DI VIRGINIA MURRU

 

 

Dire qualcosa sui 25 anni di processi riguardanti le stragi di Palermo, significa introdursi, sia pure da cittadini comuni, in una fitta rete di accadimenti, tra i resoconti sommari (considerato lo spazio che consente un articolo) dei collaboratori di giustizia, e infine, nelle trame oscure dei tentativi di depistaggio, che hanno offeso ancora di più la memoria delle vittime.

Povera Italia, sempre imbavagliata, messa a tacere in un angolo, mentre illustri innominati ne guidano i passi, senza il coraggio di mostrarsi a volto scoperto, di rispondere all’appello della Giustizia quando chiama. 50 anni di storia violenta alle spalle, di stragi e vittime,  fiumi di sangue e  lacrime. Possibile che tutto questo debba dissolversi nel nulla, che tanto male debba essere immolato alla causa del tacere (e del potere)?

Sono questi i veri “non luoghi a procedere” che bloccano la Verità.

Possibile che sia questo il modo migliore per andare incontro alla svolta? Non si può passare in una sponda più degna così, per scrivere parole nuove è necessario che si abbia il coraggio di dire basta. Basta alla corruzione, alla sopraffazione, basta soprattutto alla violenza chiara e occulta. Basta all’insidia del silenzio. Un Uomo ha altre prerogative più degne, un Uomo sbaglia, anche, ma non può contraffare la propria natura fino a questo punto. Eppure, i veri mandanti, ossia la Verità ultima sulle stragi di Palermo (e non solo), è ancora preclusa.

In nome di coloro che sono passati sotto i cingoli spietati del potere violento, è necessario lottare per la verità e la trasparenza nell’attività delle Istituzioni.

Il giudice Antonino Di Matteo, il 17 settembre scorso, in audizione al Csm, ha fatto un bilancio positivo sui 25 anni di processi contro i responsabili delle stragi del ’92/93, e l’accertamento della verità sulla trattativa Stato-mafia. Il magistrato ha chiesto che l’audizione fosse pubblica, Radio Radicale (e non solo) ha infatti registrato tutto il suo intervento.

Sostiene il magistrato : “non è vero che tutti questi anni di indagini e ricerca della verità siano stati inutili, intanto sono state inflitte pene esemplari, l’irrogazione di 26 ergastoli è già una prova”.

E aggiunge: “Su via d’Amelio siamo  ad un passo dalla verità. Mai come ora siamo stati vicini all’accertamento dei fatti riguardanti le stragi di Palermo . E questo grazie al mio contributo  e a quello di altri magistrati. Non è giusto che questi magistrati siano oggi accostati a depistaggi, l’ accusa è strumentale a chi non vuole che si vada avanti”.

Sembra retorico chiedersi perché è necessario andare oltre. La risposta è evidente:  nonostante i progressi, restano tante ombre e interrogativi sulle stragi. Su Via D’Amelio, per esempio, non è stato affrontato  solo il depistaggio legato alle false affermazioni del pentito Scarantino, che ha ritardato il corso della verità. C’è anche quello che riguarda l’agenda rossa del giudice Borsellino. I giudici della Corte d’assise l’hanno definito come il “depistaggio più grave della storia”. Proprio alcuni giorni fa sono stati rinviati a giudizio tre poliziotti, accusati “di avere favorito la mafia, tramite una falsa ricostruzione della fase esecutiva della strage, che ebbe come conseguenza la condanna all’ergastolo di sette mafiosi, estranei all’attentato”.

Nelle vicende di mafia concernenti gli anni ’80 e ’90, c’è anche un testimone di giustizia piuttosto noto, Vincenzo Calcara – il quale, avendo fatto parte, fino  al ’91, dell’organizzazione mafiosa in qualità di uomo d’onore ‘riservato’ (‘riservato’ perché non era conosciuto dagli altri membri dell’organizzazione), al servizio di Francesco Messina Denaro – avrebbe voluto essere ascoltato dai giudici che si sono occupati negli ultimi 25 anni della strage di Via d’Amelio.

Vincenzo Calcara ha scritto un memoriale, pubblicato peraltro  nel blog di Salvatore Borsellino (ma anche in altri), la sua è una storia lunghissima e travagliata, che per ovvie ragioni di spazio non può essere riportata per intero in un articolo. Egli ha tuttavia riferito fatti nelle sedi opportune che sembrano inverosimili, ma si tratta di testimonianze rese a suo tempo  al giudice Paolo Borsellino, il quale ha preso nota per mesi delle sue rivelazioni, sul finire del ’91, e nel ‘92, fino a poco prima della strage  in cui, insieme alla sua scorta, fu assassinato.

Il rapporto tra il testimone di Giustizia e il giudice, fu di rispetto reciproco, nonostante la scioccante rivelazione del Calcara, il quale gli confidò di avere ricevuto, poco tempo prima del suo arresto (avvenuto nel 91), l’incarico da parte del capo famiglia  Francesco Messina Denaro di Castelvetrano,  di ucciderlo con un fucile di precisione, nella statale tra Palermo e Agrigento. Qualora si fosse decisa la strage attraverso l’uso del tritolo, e dunque con un’autobomba, avrebbe dovuto svolgere un ruolo di copertura.

“Di quel Borsalino –  pare avesse detto in modo sprezzante il boss – non devono restare nemmeno le idee..”

Per chi volesse conoscere la testimonianza di Vincenzo Calcara, basta leggere i suoi memoriali. Le video interviste e la partecipazione a tante trasmissioni televisive, inoltre, rendono l’idea dell’attaccamento alla memoria del giudice Borsellino, e al rispetto sempre dichiarato  nei confronti della sua famiglia.

Da anni è uscito fuori dal programma di protezione, vive con la moglie e le quattro figlie, ma gli resta il rammarico di non essere stato ascoltato abbastanza in ambito giudiziario. Solo il giudice Borsellino gli aveva prestato la dovuta attenzione. Vincenzo Calcara vorrebbe offrire il suo contributo per il riscatto della verità, ma non è stato messo a confronto  con i pentiti più seguiti sia nei processi svoltisi a Caltanissetta che a Palermo.

Tanto è stato l’impegno della Magistratura per la ricerca della verità, e tuttavia un’infinità d’interrogativi restano ancora senza risposta, perché mancano i nomi e i volti dei veri direttori d’orchestra, ossia le cosiddette ‘entità’ di un potere occulto che dietro le quinte sembra sia stato il vero regista. E’ il muro più ostinato, invalicabile fino ad ora, col quale i magistrati si sono misurati. Sono quelle ‘menti raffinatissime’ alle quali faceva riferimento  il giudice Falcone.

Questi misteri sono le ‘terre irredente’ della giustizia, rappresentano la porta blindata delle istituzioni deviate che fu interdetta a Borsellino, e ai giudici coraggiosi come lui, che hanno pagato con la vita l’ardire di condurre le indagini negli angoli più oscuri della vita della Nazione. Che hanno vissuto di tradimenti e detrazioni, hanno respirato l’aria piena di veleni e sospetti di chi era già inviso alla verità e alla giustizia. Una terribile lotta in sordina tra bene e male, dove la distanza, tra irreprensibilità e corruzione, è davvero una questione di maschere. Chi ha osato inoltrarsi in questi fondali limacciosi, aveva solo il fine di portare in superficie la verità; unico obiettivo che ha distinto  l’operato delle persone cadute sotto gli strali di queste forze oscure. Ma qui la verità è avvolta davvero da una spessa coltre  di nebbia, non è un percorso illuminato, non si può andare oltre.

Occorrerebbe ora un altro ordine di pentiti, come scrive la rivista on line Antimafia Duemila: proprio quelli che si riparano dietro il paravento di cariche pubbliche, Istituzioni. Persone che conoscono risvolti inediti, in grado di farsi largo nel passaggio più inaccessibile: la Verità ultima sulle stragi. Ossia coloro che hanno sempre considerato il potere violento alla stregua del fine che giustifica i mezzi.

Il collaboratore di giustizia Antonino Giuffré, nei suoi resoconti, è stato molto più onesto di altri, meno strumentale nei confronti di altri pentiti, ha almeno fatto riferimento a questi presunti poteri occulti che agivano in concerto con i criminali mafiosi.  Così come Leonardo Messina, anch’egli nel ’92 riferì al giudice Borsellino particolari e nomi utili alle indagini, grazie al suo contributo furono arrestati 200 uomini d’onore ( fu definita  ‘Operazione Leopardo’).

A Vincenzo Calcara, dopo avere ascoltato con attenzione i fatti che ha raccontato, ho rivolto alcune domande. Devo precisare che la registrazione è troppo lunga, il pentito è un torrente in piena, e per ragioni di spazio ho dovuto riassumere ed estrapolare i dettagli che ritenevo più rilevanti.

 Sig. Calcara, lei ha sempre dichiarato la sua perplessità sul fatto che, pur essendo stato un testimone di giustizia, che ha goduto della fiducia del giudice Borsellino, non è stato coinvolto nel corso dei tanti processi condotti sulle stragi, lei avrebbe voluto che le si chiedesse anche solo una conferma, un confronto, con le confessioni di alcuni pentiti.

Quali sono a suo avviso gli angoli ancora oscuri sui quali è necessario fare luce, al fine di arrivare alla verità  dei fatti criminali legati a cosa nostra, e quale contributo potrebbe dare in questo versante?

Sono tanti ancora gli angoli oscuri sulle stragi, io avrei voluto offrire il mio contributo, mi sarei reso utile, perché avere militato nell’organizzazione mafiosa nel ruolo di ‘uomo riservato’, significa venire a conoscenza di fatti importanti. In questo senso mi sento frustrato, vorrei veramente essere almeno messo a confronto con i collaboratori che non hanno detto tutta la verità.

Sono entrato a fare parte di cosa nostra il 4 ottobre del 1979, nel 1981 io ero sorvegliato speciale, con una condanna a 15 anni di carcere per omicidio, ero un uomo libero perché aspettavo la sentenza della cassazione. In quel periodo fui assunto nell’aeroporto di Linate a Milano, con tanto di cartellino al collo, nella dogana; ma lo scopo non era il lavoro in sé quanto favorire i traffici di droga, e proteggere i colli dalle ispezioni delle forze dell’ordine.

Per questo ‘lavoro’, l’Istituto previdenziale mi ha versato i contributi.. Nessuno ha mai fatto i dovuti controlli al riguardo. Come poteva un pregiudicato come me entrare in un posto così delicato come la dogana di un aeroporto tanto importante, se non grazie a complicità che stavano veramente in alto?

E’ tutto verificabile. Lo affermo limpidamente, proprio per dimostrare che la Giustizia su tanti aspetti che riguardano la criminalità organizzata, è arrivata in ritardo, e su tanti altri forse deve ancora arrivare.

Ho trasportato droga e armi, sul finire degli anni ’80, con persone affiliate alla Ndrangheta, io in seguito alla mia scelta di collaborare con la Giustizia, ho segnalato questi fatti con nomi e cognomi, e grazie  alla mia testimonianza sono stati identificati, processati e condannati.

Sig. Calcara, è semplice dedurre dalle sue testimonianze, che ha un grande rammarico, ossia non avere avuto l’opportunità di parlare di importanti fatti dei quali è venuto a conoscenza, o per esperienza diretta, nelle sedi opportune. Soprattutto – lei dice – di non essere stato messo a confronto con tanti collaboratori di giustizia, che a suo avviso, non solo non hanno detto la verità su questioni importanti riguardanti le stragi, ma si sono resi responsabili di  omissioni, che avrebbero acceso una luce più chiara sulle indagini. Con quali pentiti avrebbe voluto confrontarsi nei processi?

Con diversi pentiti, in particolare con Giovanni Brusca, che era figlio di un capo mandamento (S. Giuseppe Jato) e a sua volta, dopo la scomparsa del padre, è stato lui a tenere le redini. Ci sono diversi vuoti nelle testimonianze del Brusca, in particolare non ha parlato dei poteri occulti, quella linea trasversale alla criminalità organizzata siciliana, e non solo. Avrebbe dovuto parlarne, perché sicuramente, questi personaggi ancora senza un nome, hanno difeso e protetto gli interessi della sua famiglia, quindi sa molto di più di quanto abbia dichiarato. Le mie rivelazioni su questo punto, sono state confermate dalle testimonianze di Antonino Giuffré, anch’egli collaboratore di Giustizia, Leonardo Messina, ed altri pentiti.

Ma dei poteri forti ormai sono in tanti ad  averne parlato,  i giudici dopo anni d’indagine, si sono persuasi che esista una linea di convergenza d’interessi con l’organizzazione mafiosa, del resto tanti sono i testimoni di giustizia che hanno parlato di servizi segreti deviati, e purtroppo di uomini delle istituzione coinvolti a vario titolo in complicità sconcertanti. Ai poteri occulti si è riferito Walter Veltroni, Piero Grasso, e tantissimi giudici che sono pervenuti a questa conclusione, dopo fiumi d’interrogatori ai collaboratori di giustizia, e  conclusioni scaturite dalle indagini. Se ne parla ormai apertamente, non ne parlo solo io, non è un mistero per nessuno che dietro le stragi vi sia una verità sommersa, coperta,  proprio perché riguarda personaggi ‘intoccabili’, purtroppo spesso ‘irreprensibili’ davanti alla gente. Lo so che non è facile,  è un’impresa arrivare al capolinea della Verità che riguarda poi tutte le stragi commesse in Italia. Questo lo so bene.

Io sono convinto che esiste una ‘Commissione nazionale’, della quale fanno parte anche esponenti delle organizzazioni mafiose, siciliane e calabresi, e questa Commissione è potentissima. Ma sono altrettanto convinto che esista anche un riferimento internazionale. Certi fatti gravissimi, come sono state le stragi, non potevano essere organizzate solo dalla criminalità organizzata, dietro ci sono altri referenti, complicità e collusioni ad altissimo livello. Del resto, il giudice Falcone parlava di “menti raffinatissime..” E se ne stava convincendo anche il dottore Borsellino, per questo doveva sparire.

Una parte della politica siciliana, ormai è noto, era collusa con la mafia, e basterebbe citare Salvo Lima, Vito Ciancimino, e tanti altri nomi illustri, per capire quanti scambi di favori ci fossero dietro l’apparente irreprensibilità di certi personaggi. Non si dimentichi che i collegamenti tra esponenti di primo piano della politica nazionale con i boss di cosa nostra sono stati provati, e se gli interessati  non sono stati condannati, è dipeso dallo scadere dei termini di prescrizione del reato di associazione per delinquere/ mafiosa (caso Andreotti).

Signor Calcara, sappiamo che i depistaggi che hanno riguardato la strage di Via d’Amelio, hanno concorso a ritardare l’esito delle indagini, e che alcuni pentiti, con le loro false rivelazioni, ne hanno deviato il corso. Ma comunque si è fatta luce, sia pure dopo diversi anni, soprattutto grazie al contributo di testimoni di giustizia più attendibili e coerenti con il reale svolgimento dei fatti. Ci sono stati 26 ergastoli e tante altre condanne per concorso in strage, ma la verità, tutta la Verità, sembra ancora sulla Via di Damasco. 

Sì, è vero, ma perché? Certamente, ci sono stati ritardi perché purtroppo si è concessa fiducia troppo presto a falsi pentiti come Scarantino, non tutti i cosiddetti collaboratori di giustizia sono affidabili, molti usano la Giustizia e i vantaggi che ottengono con le loro confessioni, ma fanno affermazioni non corrispondenti al vero, e soprattutto non dicono tutto quello che sanno.

Lei cosa mi dice sui tanti depistaggi legati alla sparizione dell’agenda rossa del giudice Borsellino, conosce dettagli importanti al riguardo?

Cosa posso dire.. io prima di tutto quell’agenda l’ho vista più volte nelle mani del dottore Borsellino, lui annotava anche davanti a me dettagli che erano importanti per le indagini. Non conosco i nomi di coloro o di chi l’hanno resa irreperibile. Non ho certezze, ma sono convinto che l’agenda, per il valore del suo contenuto, sia oggetto di ricatti proprio all’interno di questo sistema di poteri occulti e deviati di cui ho già accennato. Il notaio Salvatore Albano era molto probabilmente un tramite tra queste entità, che hanno un potere enorme.

Io ho conosciuto il notaio Albano, avevo portato di persona, una decina di miliardi che dovevano essere ‘ripuliti’. Lo stesso Brusca ha confermato in una deposizione, che il notaio in rappresentanza di un noto esponente politico, aveva fatto avere un regalo alla figlia di uno dei fratelli Salvo che si era sposata.

Altro sull’agenda rossa non so, ma direi che la sua sparizione  è la prova del fatto che esiste una gerarchia di poteri forti, e che il destino del giudice Borsellino è stato forse deciso in “alte sfere”, così come l’agenda è stata sottratta per le stesse ragioni: perché la verità è scomoda. Del resto anche il suo ufficio era stato ‘visitato’ subito dopo la strage, e documenti importanti sono stati portati via.

E non è la prima volta, è stato fatto anche dopo la strage di Capaci, con documenti e prove importanti in mano del dottore Falcone. Ma anche a casa del generale Dalla Chiesa, erano arrivate puntuali le visite nella sua abitazione, dopo la strage.

Stiamo ancora a chiederci le ragioni? Ci chiediamo ancora perché la villa di Totò Riina non è stata perquisita, e non è stata chiusa e sigillata dopo avere portato via documenti sicuramente importantissimi ai fini delle indagini? La sua villa è rimasta senza un’ispezione per settimane, il tempo necessario alla mafia di ripulirla bene, perfino imbiancare le pareti..

Sig. Calcara, lei ha parlato in più occasioni delle “cinque entità”, ossia un insieme di poteri occulti del quale fa parte la criminalità organizzata, istituzioni deviate, servizi segreti ecc. E tuttavia  non può provare l’esistenza di questa Commissione nazionale..

Ma esiste! E come ho già avuto modo di sottolineare, a questi poteri deviati fanno riferimento in tanti, tutte persone rispettabili e non compromesse con la giustizia. Non è un mio delirio. Si dovrebbe indagare ora in questa direzione, perché qui si troveranno le risposte ai tanti interrogativi che hanno interessato la storia d’Italia negli ultimi cinquant’anni, se non anche prima.. Qui è la verità, lo sostengono ormai in tanti, come bisogna dirlo?

L’ultima domanda: come mai sig. Calcara è uscito fuori dal programma di protezione?

Sono uscito fuori volontariamente, in seguito ad un rinvio a giudizio per calunnia, dichiarazioni ritenute false, ma io ho detto la verità riguardo ai dieci miliardi consegnati al notaio, per questo mi sono rivoltato verso questo trattamento. Ne avevo parlato con la moglie del giudice Borsellino, la sig.ra Agnese, la quale mi aveva assicurato, che in mancanza di un aiuto da parte dello Stato, avrebbe pensato la sua famiglia a trovarmi un lavoro, e infatti lo ottenni. Con mansioni di custode lavorai in un convento al nord. Ho ricevuto sostegno morale ed economico dalla stimatissima famiglia Borsellino, e non finirò mai di essere loro grato per tutto il bene che hanno fatto a me e alla mia famiglia.

Grazie, sig. Calcara della sua testimonianza.

Il giudice Roberto Scarpinato, in un’intervista, definisce l’agenda rossa come “una sorta di promemoria dell’indicibile”. E aggiunge: “forse le tracce che portano a questi ‘indicibili’ sono proprio nell’agenda  del giudice scomparso”.

E basterebbero le conclusioni di questo giudice coraggioso a fare riflettere: “L’Italia è un Paese democraticamente immaturo, che non ha mai saputo fare i conti con il proprio passato”.

Lo stesso giudice Paolo Borsellino confidò alla moglie, poche settimane prima della strage: “sarà la mafia a uccidermi, ma altri a deciderlo..”

 

 

IL VOLO DI UN ANGELO

DI VIRGINIA MURRU

 

(A Manuela, piccolo Angelo diversamente abile, che ieri ha spiccato il volo all’età di 18 anni)

Certi dolori ti gelano la parola in bocca, c’è qualcosa che va oltre queste Vite speciali, un cielo pulito al quale i comuni mortali non hanno accesso. Manuela era un fiore di loto, un’esistenza che non puoi raccontare, senza rischiare di finire in retorica. Ma sento forte l’impulso di mettere in fila le parole che imperversano nelle mie riflessioni.

Lei era una Vita rara, una giovane donna diversamente abile, che ha attraversato in punta di piedi le nostre strade, senza fare rumore, e in silenzio, per ragioni che non ci competono, se n’è andata, ha spiccato il volo lasciandoci senza parole.

Eppure non si è mai posta domande sui limiti di un destino che contrastava i suoi passaggi nel mondo, Manuela andava oltre questi impietosi divieti, ogni respiro era un’occasione per vivere, per rispondere all’appello di ogni chiamata, per dire che c’era e basta; il resto lo ignorava, lo lasciava negli sguardi increduli della gente, nelle riserve di chi la osservava.

Perché lei sapeva che ogni esistenza può avere spazi immuni dal dolore, basta cercarli, aveva ‘cingoli’ speciali per passare dove il transito era tempestato di ostacoli, come sentieri pieni di chiodi. Manuela, istintivamente, naturalmente, li evitava, e pensava che la vita è comunque e sempre degna d’essere vissuta.

Riempiva le sue giornate di sogni e sussulti, sognava in maiuscolo, a voce alta, voleva semplicemente un’esistenza normale, con qualcuno accanto che le stringesse forte le mani, ignorando l’impotenza dei suoi passi, quel suo procedere in direzioni alternative. Comunque c’era davanti a chi le stava intorno, c’era il suo disarmante sorriso, e la luce di un Angelo negli occhi innocenti, che credevano solo alle promesse del mondo.

Dio, in qualche modo, l’aveva preservata dai pensieri pesanti che il male sa provocare, lei aveva ricevuto in dono una sorta d’immunità, andava dove la bellezza del sentire la portava, era audace nella speranza, e d’acciaio nella perseveranza di quel suo ambire alla presenza, ad ogni costo. Manuela non voleva essere assenza.

La notizia della tua scomparsa, piccolo fiore di loto, mi ha colta impreparata, il silenzio mi volteggia intorno, penso che ci sia un Angelo in meno su questa Terra, un grande spazio incustodito, che nessuno potrà riempire. Le Vite speciali hanno atmosfere che nessuno può più abitare.

Resterà la memoria del tuo vissuto, quelle pietre miliari che il tempo non potrebbe mai spostare, la tua esistenza era davvero splendente, una sequenza di giorni chiari. Eri come un’Anima lieve, senza peso specifico, perché l’Amore che hai dato a tutti non si può misurare.

QUANTI ALTRI DOVRANNO MORIRE?

DI PIERLUIGI PENNATI

La storia è sempre quella, ormai ci siamo abituati: operai che lavorano in ambiente tossico e restano intossicati, come mai?

L’evidenza dovrebbe essere che nessuno di loro indossava presidi adatti a proteggerli dalle esalazioni tossiche, altrimenti almeno uno si sarebbe salvato, invece sei operai che lavoravano per operazioni di pulizia di un forno all’interno di una ditta di materiali ferrosi in via Rho, a Milano sono stati soccorsi dopo essersi intossicati, quattro di loro sono stati trovati dal 118 in condizioni disperate, tanto che due di loro sono sono morti poco dopo per arresto cardiaco durante il trasporto all’ospedale di Monza e al Sacco di Milano ed altri due sono giunti gravissimi.

Il bilancio finale della giornata sarà poi di tre morti e tre intossicati.

Quando si lavora per vivere non si dovrebbe morire per lavorare, eppure la totale deregulation voluta dai governi degli ultimi venti anni, di destra o sinistra che siano stati, ha ormai portato a dover operare in condizioni disperate: la sicurezza costa e per abbassare il costo del lavoro si deve solo fingere di farla.

Se fossero le prime vittime dovremmo pensare ad un caso sporadico, invece, da qualche tempo gli incidenti sul lavoro sono in aumento, in particolare nel settore dei servizi alle imprese che registra un +6%, guarda caso proprio il settore più soggetto alla deregulation degli appalti e dei subappalti, dove, per risparmiare anche pochi centesimi, si contravviene palesemente a qualsiasi norma di sicurezza: non si comprano scale, cinture di sicurezza, maschere antipolvere e persino antigas, dato che ogni presidio è un costo aggiuntivo che rende la propria offerta meno concorrenziale e quindi si dichiara sulla carta di acquistare e poi non lo si fa veramente o, al massimo, si riusa quello che già si ha anche quando non lo si può fare.

Sfuggire ai controlli e prendere quei pochi maledetti euro che ti offrono per lavorare è la parola d’ordine.

Quando si muore per lavorare, invece che lavorare per vivere ci si dovrebbe fare delle domande serie e quando si governa non si dovrebbe derogare alle più basilari norme degli stati liberi: la vita e la salute dei cittadini devono essere poste davanti a tutto.

“L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro” (art. 1 della Costituzione), non mi stancherò mai di ripeterlo: si deve lavorare per vivere il meglio possibile, non si può vivere solo per lavorare e, per giunta, rischiando la pelle.

Chi non fa nulla per ovviare a tutto ciò è complice allo stesso modo di chi ha istituito questo sbagliato stato di cose per la nazione e, per la proprietà associativa, chi vota anche uno solo di questi è a sua volta complice dei primi.

Siamo in campagna elettorale, sentiamo le solite promesse e viviamo il momento peggiore degli ultimi decenni per le condizioni economiche ed ambientali di lavoro, dimentichiamo l’economia internazionale e pensiamo un po’ di più a noi stessi: quello che capita ad uno può capitare a tutti, quegli operai morti ed intossicati sono nostri parenti stretti, sono quelli che ci stanno dicendo che lavorare oggi non è più dignitoso ed è diventato persino pericoloso al punto da perdere la vita con facilità.

Siamo tanti, possiamo cambiare, dobbiamo cambiare, serve solo uscire dagli stereotipi e dagli egoismi e cambiare cacciando tutti coloro che non hanno mantenuto fede al loro mandato.

QUELLA CONCORRENZA EUROPEA CHE FA SCAPPARE WHIRPOOL

DI PIERLUIGI PENNATI

Il lungo corteo che ieri ha percorso i cinque chilometri che separano lo stabilimento dal centro cittadino di Riva di Chieri, in provincia di Torino, è passato anche davanti all’oratorio dove da qualche mese campeggia uno striscione: «Noi stiamo con i lavoratori della Embraco».

Questa l’ennesima azienda che delocalizza andandosene dall’Italia, questo il paese dove tra pochi giorni ci saranno quasi 500 nuovi poveri senza un lavoro vero, non un lavoretto od un impiego temporaneo, un lavoro vero e che si pensava stabile che di colpo, quasi senza preavviso, viene a mancare.

È Whirlpool Usa, quotata a New York, che lo chiede, l’azienda Embraco, che per lei produce motori per frigoriferi, deve chiudere la produzione in Italia per spostarla, si dice, nello stabilimento di Spisska Nova Ves in Slovacchia, dove i lavoratori sarebbero già in allerta nonostante lo scontento per le condizioni lavorative poco dignitose.

La ragione?

Né la controllante Whirpool, che si limita a dare ordini, né Embraco la specificano, diramando solo una nota nella quale si conferma “l’intenzione di procedere alla cessazione della produzione nello stabilimento di Riva Presso Chieri, mantenendo comunque una presenza in Italia”.

Tutto arriva dopo anni di aiuti elargiti da Finpiemonte, e non solo, alla Embraco per continuare a produrre nello stabilimento di Riva: nel 2004 la giunta guidata da Enzo Ghigo, Forza Italia, sovvenzionò con 7,7 milioni di euro, il governo Berlusconi fornì 5 milioni e la provincia poco più di mezzo milione, mentre al governo della regione sotto Roberto Cota si devono le ultime risorse, non meno di due milioni sulla carta, assegnati solo per un terzo, mentre, nella trattativa che era già in corso dopo l’annuncio nelle ultime settimane di una riduzione della produzione, la giunta regionale in carica aveva offerto il restante milione e mezzo di euro, rifiutato però dalla proprietà che ora chiude e se ne va, anche se non completamente, nella nota diramata, l’azienda sostiene che “l’Italia rimane un Paese importante per Embraco che manterrà qui una presenza con un ufficio commerciale al fine di continuare ad assistere la propria clientela”, ben 40 unità che sopravvivranno ai 537 occupati, con un bilancio di 497 lavoratori licenziati.

Nella stessa nota si legge anche che “prima di giungere a questa decisione sono stati attentamente valutati diversi scenari alternativi ma nessuno di questi ha rappresentato una soluzione appropriata per continuare la produzione nello stabilimento” e l’azienda si dice anche “pienamente consapevole delle sue responsabilità nei confronti dei propri dipendenti”, per i quali “lavorerà in stretta collaborazione con i rappresentanti sindacali, le autorità pubbliche e i funzionari locali per cercare soluzioni perseguibili e su misura per il personale coinvolto”.

Ma la realtà è che, come sempre, le decisioni sembrano essere già state prese e ora si vorrebbero probabilmente usare gli strumenti di legge per evitare problemi e se possibile persino guadagnarci, anche perché se in Italia i dati ufficiali dicono che il costo del lavoro è di 27,5 Euro l’ora, in Slovacchia, dove sembra essere destinata la produzione, è di soli 10,2, con un più che dimezzamento del costo della mano d’opera per l’azienda.

Proprio la mano d’opera, è evidente, è l’unico elemento della produzione che sfugge alle leggi generali dei mercati, infatti se per una materia prima il valore dipende da fattori quasi incomprimibili e la trasformazione rientra negli investimenti, il lavoro umano dipende solo da quanto la persona è in grado di accettare e sopportare in termini economici e di tempo, quindi, almeno teoricamente, può essere portato agli estremi fisici attraverso la competizione tra i soggetti.

Così, senza regole che impediscano almeno ai paesi membri della comunità europea di “rubarsi” le imprese, attirandole con condizioni migliori per loro, e senza limiti generali che tengano conto del valore anche della dignità umana, in Europa si passa da un costo del lavoro di 42 Euro in Danimarca a 4,4 in Bulgaria e, senza cercare in nazioni lontane, nella sola Comunità Europea ci sono ben sedici nazioni dove il lavoro costa meno che in Italia, persino in Inghilterra, e, tra queste, dieci sono sotto la metà del nostro valore nazionale.

Così, in uno scenario nazionale dove si scoprono esistere realtà che già pagano i dipendenti pochi euro l’ora, a quasi nulla serviranno le promesse elettorali di fissare il salario minimo ad almeno dieci euro l’ora, servono invece riforme che tengano conto della dignità delle persone in modo globale o che ci possano sottrarre a questo perverso sistema di concorrenza tra stati, che dovrebbero essere “fratelli” e che invece si accaparrano attività piantandosi “coltelli” alle spalle, vale a dire uscire dall’Europa.

La politica dei favori alle imprese ha fallito, anche questo sembra essere evidente, serve ora un ritorno ad una politica della nazione, curiosamente quella stessa politica attuata a partire dalla fondazione della repubblica che, salvaguardando ed aumentando diritti e dignità dei lavoratori, è stata capace di portare l’Italia fuori dalla crisi del dopoguerra, ma che è durata solo fino agli anni ’80, quando, in nome di un’economia globale sconosciuta al popolo, si sono cominciati a erodere, fino ad annullarli, diritti e tutele, non solo del singolo ma anche della società, arrivando alla cancellazione della divisione tra affari e commercio che prima proteggeva il mercato del lavoro e che oggi sta portandolo alla distruzione.

Embraco non sarà l’ultima azienda che se ne va, le aziende, se i governi non fermano questi processi, si spostano dove conviene a loro e non dove conviene ai dipendenti: Adriano Olivetti, inascoltato, pensava ad una “fabbrica per l’uomo” e non ad un ”uomo per la fabbrica”, dopo tanti anni oggi rischiamo di non avere nemmeno più le fabbriche.

COME IN TUTTA LA VITA DAVANTI: L'INFERNO DEL LAVORO PRECARIO

DI PIERLUIGI PENNATI

Qualche volta si dice di mettere tutto se stessi nel lavoro e di portarselo persino a casa, a Roma, invece, i dirigenti di un call center andavano proprio a casa, o quasi con i dipendenti.

Era forse per ottenere maggior efficienza, o solamente per soddisfazione personale, che Rosa Fiorini e Cesare Porrà, dirigenti di un call center, avrebbero imposto ai dipendenti regole non scritte ed oggi classificate come atti persecutori dalla procura della repubblica di Roma.

L’azienda Euro Contatc srl, operativa insieme alla consorella Fenice srl tra i cui clienti c’è anche l’Eni, è stata chiamata a giudizio da una ex dipendente, per ora sola, che ha raccontato di essere stata cacciata dal posto di lavoro per aver intrecciato nel giugno 2016 una relazione con uno dei team leader, a propria volta licenziato.

Quanto succedeva sul posto di lavoro è ora sotto inchiesta e secondo l’accusa esisterebbe un vero e proprio «metodo della Fenice», dal nome del secondo call center dove avverrebbero i soprusi, tra questi, il divieto di relazioni sentimentali tra colleghi, alla base della prima accusa contro i dirigenti, ma anche la proibizione di aiutare i compagni di lavoro in difficoltà, anzi lasciarli sbagliare e persino “soffiare” le lacune del vicino di scrivania sarebbero richieste previste per permettere di farli umiliare dai superiori, inoltre mai prestare denaro a qualsiasi titolo ad altri dipendenti, il divieto assoluto di tenere nella propria rubrica personale i numeri di telefono del personale licenziato e persino il divieto categorico di frequentare i colleghi in gruppo fuori dal lavoro senza la presenza dei capi.

Negli atti di inquisizione la PM Antonella Nespola scrive addirittura che «le comunicazioni possono avvenire soltanto nel gruppo di Whatsapp aziendale» per poterne probabilmente controllare le opinioni.

Un altro ex dipendente, sentito dalla PM circa le relazioni personali tra dipendenti, ha dichiarato che «Secondo la Fiorini, portano alla creazione di un nucleo troppo compatto», ovvero che il personale si può coalizzare contro di lei e smettere di sottostare ai suoi soprusi, la punizione: il licenziamento in tronco.

Le stringenti regole aziendali, comunicate oralmente ai nuovi assunti, sarebbero state valide 24 ore su 24 ed in qualsiasi luogo i dipendenti si fossero trovati, ma il legale degli inquisiti, Elio Bellino Panza, contesterebbe i fatti e replica: «Non esiste alcun “metodo Fenice”, in azienda tutti possono avere relazioni sentimentali».

La prima udienza del processo sarà celebrata a maggio e per adesso vede solo una ex dipendente a promuovere l’azione legale costituendosi parte civile assistita dal suo avvocato Graziella Zingarelli, anche se tante sarebbero le testimonianze concordi raccolte durante le indagini che confermerebbero l’esistenza delle prescrizioni vessatorie.

Pur assurda, la storia, riportata per prima dal Corriere, non è così incredibile e ricorda da vicino l’ambiente descritto nel film del 2008 «Tutta la vita davanti», diretto da Paolo Virzì e liberamente ispirato al libro “Il mondo deve sapere” di Michela Murgia, che si sviluppa nel call center Multiple Italia: una pellicola di denuncia degli effetti deleteri e perversi sull’ambiente di lavoro del precariato, segno che il problema non emerge solo ora, ma viene da lontano.

Secondo uno dei testimoni che ha lavorato nel centro tra il 2012 ed il 2016, l’ideatrice del «metodo della Fenice», sarebbe Rosa Fiorini, «una che considera l’ufficio come casa sua», invasata come Daniela, la capo telefonista del film di Virzì e che quando ha una delazione «va da chi è in difficoltà dandogli del fallito».

Altre due ex impiegate, che dichiarano di essere scappate per il troppo stress cui erano sottoposte, aggiungono benzina sul fuoco, una aggiungendo che «noi ragazze ci vedevano il venerdì, ma solo se c’era la Fiorini, mentre i maschi uscivano con Porrà, senza di loro non potevamo organizzare nulla» ed un’altra di essere scappata quando la Fiorini l’aveva accusata di avere una relazione con un altro dipendente: «Mi diede della poco di buono, non volli nemmeno il TFR».

Ci raccontano da anni che serve elasticità nelle assunzioni, che i lazzaroni devono poter essere licenziati e che le regole troppo ferree per le assunzioni non favoriscono l’economia, ma la precarizzazione del posto di lavoro ha ormai portato non solo a questi fenomeni, ma addirittura all’impossibilità di pianificare la propria vita presente e futura perché i datori di lavoro pretendono ormai di controllare anche la nostra vita privata e le istituzioni non forniscono più alcuna garanzia di sopravvivenza a chi non ha un lavoro stabile, assurda contraddizione in termini.

Si parla tanto di riforma dell’articolo 18 della legge 300/70, ma nessuno si ricorda che quella legge contiene altri 40 articoli mai riformati e che i primi 13 sono contenuti nel Titolo I, denominato “Della libertà e dignità del lavoratore”, tra queste sono specificate la libertà di opinione (Art. 1), il divieto di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori e tanto meno di quello diretto sulle sue cose personali (Art. 4), la tutela e la prevenzione della salute e dell’integrità fisica dei dipendenti (Art. 9), la tutela delle mansioni del lavoratore (Art. 13), anche se quest’ultimo è stato minato dalle norme introdotte con il Jobs Act.

La legge 300/70 è stata approvata dopo tumulti e proteste, era e rimane una legge di progresso e civiltà di cui l’Italia si è potuta dotare a seguito del sacrificio di migliaia di lavoratori, alla fine sarebbe già sufficiente far rispettare le norme che esistono, anche se molte di quelle modificate dovrebbe essere oggi recuperate.

L’Italia non ha un salario minimo stabilito per legge e non ha una vera legge che sanzioni duramente chi non rispetta le norme esistenti, anzi, alla fine non fa nemmeno rispettare le leggi che esistono tramite una giurisprudenza che mischiando interpretazioni di norme vecchie e nuove, alla luce delle aperture dei mercati in ambito internazionale per favorire il mero computo finanziario degli stati, ha già di fatto annullato quasi completamente il titolo del Titolo I della legge 300/70: “la libertà e dignità del lavoratore”.

Il caos del Call center romano non è certamente isolato e non si svolge solamente in quel tipo di ambiente, tutti i luoghi di lavoro dove si impiega personale precario sono a rischio se non già affetti della malattia del sopruso e dell’annientamento della dignità della persona.

È Tempo di smettere di stupirci di situazioni del genere, non per abitudine lasciando che tutto accada passivamente, ma è tempo di ribellarci civilmente, l’unico strumento democratico ancora nelle mani dei cittadini sono le elezioni.

Paolo Borsellino ha detto: ”La Rivoluzione si fa nelle piazze con il popolo, ma il cambiamento si fa dentro la cabina elettorale con la matita in mano. Quella matita, più forte di qualsiasi arma, più pericolosa di una lupara e più affilata di un coltello”.

Se pensiamo che Paolo Borsellino non sia morto invano seguiamo il suo insegnamento in massa, l’occasione è vicina e sarà l’unica per altri cinque anni.

L'INUTILE POLEMICA DEI SACCHETTI BIO

DI PIERLUIGI PENNATI

L’anno scorso credo di aver usato in un supermercato un massimo totale di 20 sacchetti bio o meno, di solito evito i sacchetti e riciclo quelli che già ho e trovo la tassa sui sacchetti una cosa ridicola, invece di trovare soluzioni imponiamo tasse e ci distraiamo dal vero obiettivo.

Ma se l’obiettivo è usare meno plastica, ci sono molte cose da fare prima di imporre tasse, per esempio in Germania ci sono 25 centesimi di deposito su ogni bottiglia di plastica, grande o piccola che sia, se la riporti al negozio te li ridanno, se non la riporti un clochard la ripesca dal cestino delle immondizie e la riporta lui al posto tuo, così si becca il quarto di euro con il quale, ho visto personalmente, si compra da mangiare, lo stesso per il vetro, da 8 a 12 centesimi a bottiglia.

Risultato: non ci sono in giro bottiglie, né di plastica né di vetro, eppure ne bevono di birra in Germania…

Ma l’ultima frontiera tedesca, non ci crederete, sono i gasatori per l’acqua, con una bombola ricaricabile si producono da 40 a 60 litri di acqua gasata usando quella del rubinetto, da quando ne possiedo uno non compero più plastica e vi assicuro il sapore è persino migliore e la qualità garantita, cosa non sempre vera per le bottiglie acquistate al supermercato… inoltre non ho il problema dello stoccaggio e dello smaliomento a casa.

Insomma, si può fare di meglio senza tante polemiche e/o grandi sforzi, tanto un’altra tassa è pronta all’orizzonte, ma perlomeno posso discutere di come tornare indietro dietro, a quando non c’era il Jobs Act e Renzi era uno sconosciuto, almeno a scuola, anche se lo chiamavano il bomba, non faceva danni all’Italia.

Voteremo?

Spero di si e spero che NON ri-voteremo quelli che hanno promesso giustizia sociale ed hanno giustiziato la società.

FINE LEGISLATURA CON IL BOTTO

DI PIERLUIGI PENNATI

Sta per finire l’anno, con esso anche la legislatura e, forse, per il momento il peggior periodo di crisi della nostra repubblica, persino nel dopoguerra vi era almeno la speranza della ripresa, mentre oggi non sembrano esserci prospettive in vista.

Ormai da anni ci hanno abituato che la politica e gli amministratori pubblici non pianificano più nulla, nulla che vada oltre la propria previsione di permanenza in carica, vale a dire il governo di anno in anno, o di fiducia in fiducia, e gli amministratori locali, come i sindaci, non oltre il proprio mandato, quattro anni al massimo.

Già, perché il problema dell’amministratore pubblico sembra essere più il portare a termine personalmente un progetto che pianificare qualcosa di davvero utile per la società, infatti se una attività dura troppo a lungo sarà inaugurata da qualcun altro, probabilmente dell’opposizione, che prenderà meriti e gloria e nessuno vuole lavorare per regalare qualcosa ad altri realizzando così solo progetti di breve durata, con impatto psicologico e risultati immediati, magari svendendo proprietà pubbliche e i tassando i cittadini: rapido rientro di costi, ma nessuna prospettiva futura.

Dalla parte degli imprenditori, invece, sempre rincorrendo il risultato immediato è stato ormai sdoganato un metodo cruento, ma davvero efficace di operare: usare i dipendenti per i propri scopi capitalistici.

Con questo non voglio parlare di proletariato, rivoluzione comunista o lotta di classe, ma solo di interesse privato a discapito della collettività, ormai persa di vista dai grandi investitori che operano sempre più in ambito internazionale, complice l’allentamento delle barriere di confine tra moltissimi stati, in particolare nell’eurozona, ma non solo.

Mi spiego meglio, perché il problema viene davvero da lontano ed è ormai fissato solo nella storia: nel 1988 Silvio Berlusconi, allora relativamente giovane imprenditore, acquisiva la Standa, l’elemento è importante perché attraverso questa catena di supermercati sdoganava il metodo imprenditoriale moderno per il quale l’imprenditore organizza un’azienda ed i lavoratori, forti del loro impatto sul governo territoriale o nazionale e dell’impatto sull’opinione pubblica, ottengono le necessarie facilitazioni altrimenti negato ed il caso più evidente fu forse la nuova apertura di Mestre.

Questo supermercato venne allestito dalla Standa in un capannone industriale appena fuori città, senza le necessarie licenze ed adeguato allo scopo, dopo averlo riempito di merce ed assunto centinaia di dipendenti, la licenza commerciale fu, ovviamente negata, trattandosi di area precedentemente destinata dal comune ad altri scopi.

I dipendenti, appena assunti, perdevano già il lavoro “per colpa del comune” di Mestre che creava disoccupazione ed impediva lo sviluppo economico del proprio territorio, così gli amministratori, posti sotto accusa dall’opinione pubblica, furono costretti a consentire l’apertura dell’esercizio in tempi record e tutto si concluse con buona pace generale: un nuovo centro commerciale a servizio della città, nuovi posti di lavoro e benessere in arrivo per tutti.

Ma cos’era realmente successo?

Semplice, ignari in cerca di lavoro erano stati usati per ottenere una licenza altrimenti impossibile.

Come è finita la Standa?

Liquidata definitivamente nel 2012 dopo 14 anni di contenzioso giudiziario con i dipendenti.

Chi ci ha guadagnato?

Cercatelo voi in rete, io non voglio farmi querelare…

Da allora la scena si è ripetuta ovunque, con copioni differenti e con sceneggiature di volta in volta adattate, ma sempre lo stesso ritornello con i dipendenti ricattati usati come arma dai sempre più grandi e potenti gruppi industriali, facendoci così oggi chiudere l’anno con i dipendenti di Fiat, Alfa, Alitalia, Ilva, Perugina e Natuzzi che, se andrà bene, sotto il vischio troveranno la cassa integrazione e poi si vedrà.

Per loro, forse, con qualche sacrificio si potrà protrarre l’agonia ancora qualche mese, od addirittura qualche anno: salari sempre più bassi e condizioni sempre peggiori, in un’Italia la cui costituzione farcita di diritti ormai disattesi compie 70 anni proprio il 1° gennaio dell’anno che sta per iniziare.

Il lavoro è citato diciassette volte nel testo costituzionale, il concetto più esteso, più che un diritto, la base e fondamenta della repubblica italiana e forse proprio per questo il più colpito ed utilizzato: ultimo atto la Melegatti.

La vicenda Natale Melegatti 2017 è del tutto simile a quella della Standa 1989, 28 anni dopo i dipendenti sono stati usati dalla dirigenza per salvare l’azienda e con effetto temporaneo e limitato, infatti se è vero che è stato raggiunto l’obiettivo del milione e cinquecentomila panettoni prodotti e venduti, e con questo salvato il natale, pagati i debiti e gli stipendi arretrati, è anche vero che la colomba pasquale non è ancora al sicuro e che l’operazione salvataggio non può replicarsi ad ogni ricorrenza senza una pianificazione seria ed un piano industriale sostenibile.

A pesare sul futuro Melegatti sono quasi gli stessi problemi che affliggono le già citate Fiat, Alfa, Alitalia, Ilva, Perugina, Natuzzi ed altri 160 tavoli di crisi aperti in altrettante aziende italiane, vale a dire una gestione manageriale poco capace e delle pianificazioni industriali inefficienti che nulla hanno spesso a vedere con la crisi generale dei mercati.

Bisogna capire che la “crescita” non è il solo parametro che regge l’economia, esiste anche la stabilità e la decrescita felice, vale a dire un modo di vedere le cose ed il futuro che tenga conto anche del fatto che prima o poi ci si dovrà arrestare nel crescere e forse, ripeto forse, si dovrà persino decrescere in modo sostenibile.

Senza una pianificazione oculata continueremo a lasciar gestire ad industriali miopi, incapaci o, magari, solamente furbi, aziende che sfruttano i dipendenti oltre il consentito dalla dignità umana per poi dover gestire le crisi attraverso strumenti statali che non esistono perché non sorretti dalla stessa economia che si è consentito entrasse in crisi.

Vizi privati e pubbliche virtù ad alto costo sociale.

Tutto ciò non dovrebbe essere consentito dalla legge, pagare un dipendente 33 centesimi all’ora, come è successo in un Call Center siciliano, dovrebbe essere paragonato alla riduzione in schiavitù, deve esistere un limite legale sotto il quale non è possibile impiegare personale n uno stato civile, una paga oraria minima stabilita dalla legge in base alle esigenze di base per poter sopravvivere dignitosamente, non senza polemiche il Canton Ticino ha appena stabilito che per sopravvivere in Svizzera occorrono non meno di tremila franchi al mese, poco più di diciannove franchi all’ora di stipendio sotto il quale nessuno, ripeto nessuno, può essere impiegato in quel paese con pene severe per chi prova a farlo.

Questo perché secondo uno studio commissionato dallo stato ticinese, chi non ha abbastanza denaro in tasca smette di pagare nell’ordine: tasse, abbigliamento, medicinali.

Il risultato è che lo stato perde risorse e si impoverisce, le persone conducono una vita poco dignitosa e la salute generale peggiora proponendo sempre più emergenze sanitarie.

Soluzione semplice, efficace e degna di uno stato moderno ed io che ho sempre considerato gli svizzeri dei sempliciotti di campagna, scopro che invece sono solo semplicemente pratici, come serve essere nelle campagne.

Così alla Melegatti, ormai diventata il simbolo di questo Natale, a causa della nostra miopia generale restano i 15 milioni, pagati in contanti invece di venire finanziati, spesi per acquistare uno stabilimento inutile ed ancora chiuso ed inattivo, i tour estivi e le sponsorizzazioni pagate al cantante Scanu, per il quale si dice la direttrice abbia un debole, invece di corrispondere regolarmente gli stipendi a 70 dipendenti e le scelte pubblicitarie e commerciali sbagliate e dannose che hanno portato l’azienda alla crisi attuale, azienda che, salvata dai dipendenti, non cambierà dirigenza e probabilmente metodi con la prospettiva di chiudere comunque. Staremo a vedere.

Anche Alitalia è ancora lì, i “capitani coraggiosi” tanto celebrati da Berlusconi e poi sponsorizzati da Renzi con il suo “se vola Alitalia vola l’Italia”, hanno fallito catastroficamente e, nonostante i continui “regali” ricevuti dai vari governi, non hanno saputo rilanciare la compagnia, solo comprimerne i costi, oggi in linea con il mercato globale, ma sempre incapaci di riempire gli aeroplani, vera ragione conclamata del fallimento oggi posto di nuovo solo sulle spalle di dipendenti e cittadini.

E gli stipendi dei “capitani”? Nessuno li ha mai toccati, sempre in rialzo, ingiustamente contro la tendenza al ribasso di quelli dei lavoratori.

Questo 2017 sta per finire e con esso anche la legislatura ed il, forse, peggior periodo per la nostra repubblica che mai come prima non vede prospettive valide all’orizzonte: la politica è divisa, la legge elettorale iniqua, i partiti allo sbando, tutti a cercare consenso tra gli estremi sentimenti, razzismo, diritti, emigrazione, speculazione, … tutto ciò che può colpire la sensibilità della popolazione e carpirne il voto, poi si ricomincerà a vivere alla giornata.

L’Italia, ma anche il resto del mondo, ha la necessità di ripartire dalle proprie basi, dalle radici della dignità umana e della giustizia: per moltissimi anni sono esistite leggi che ponevano le persone al riparo dalla crisi dell’uomo prima che del suo denaro, queste regole sono state cancellate per favorire i mercati che sono così cresciuti a discapito delle persone, con il risultato di cancellare la crescita della dignità e dei diritti umani di base, della libertà e del futuro di tutti noi.

Se davvero dobbiamo ripartire si deve ricominciare da quello che già avevamo conquistato con grandi sacrifici: la dignità dell’uomo.

Secondo la Caritas Migrantes dal 2014 in poi vi sono stati più italiani che hanno espatriano per lavorare, migranti economici, che stranieri che sono arrivati in Italia per lo stesso motivo, migranti economici, con un bilancio negativo sulla popolazione complessiva.

Secondo l’Associazione Italiana Residenti Esteri, AIRE, gli italiani che espatriano svolgono all’estero lavori che in patria rifiutano: camerieri, trasportatori, elettricisti, muratori, etc, realizzando di fatto uno scambio di mano d’opera con gli immigrati e la ragione di tutto ciò deve essere trovata nelle condizioni di lavoro, infatti gli italiani che all’estero fanno avori che non accettano in Italia lo fanno dove le condizioni economiche ed i diritti sono ancora considerati a livelli accettabili per una vita dignitosa, cosa ormai quasi impossibile in patria.

Così, in Italia, quei lavori ormai sottopagati e senza più diritti adeguati per i nostri connazionali, sono accettati da coloro che nelle rispettive nazioni di origine spesso non avevano nemmeno un passaporto e nella nostra terra, invece, hanno documenti e, seppur ancora pochi, diritti che non avevano la possibilità nemmeno di immaginare.

Quello che stiamo facendo è così trasformare lentamente la nostra nazione, che partecipa orgogliosamente ai meeting dei “grandi della terra”, in uno stato del terzo mondo, non per la presenza di troppi immigrati, ma per l’assenza di dignità tipica di quegli stati.

Se il nuovo anno deve segnare davvero una svolta, prima di tutto si dovrà tornare indietro, non approvando nuove leggi, ma ripristinando di quelle che già c’erano e tutelavano le persone, cancellando dapprima la legge Amato di riforma degli istituti bancari ed il decreto Biagi, per poi affrontare pensioni, Fornero, Jobs Act e tutte le dannose leggi di riforma degli ultimi governi.

Se non saremo capaci di tornare indietro, difficilmente potremo continuare ad andare avanti.

OFFRONO 12.000 EURO L’ANNO E POI PAGANO 92 EURO AL MESE

DI PIERLUIGI PENNATI

L’annuncio via web, 12.000 euro annui di retribuzione per un lavoro in un Call Center, pochi ma di questi tempi meglio che nulla, si devono essere detti quelli che hanno risposto, sede di lavoro a Taranto.

La realtà era però ben differente, un contratto firmato in copia unica, senza possibilità di leggerlo completamente e di rileggerlo con calma per comprenderne i contenuti, così, dopo quasi sessanta giorni l’amara sorpresa: un bonifico di 92 euro per un intero mese di lavoro, circa 33 centesimi l’ora per 1.200 euro l’anno, un decimo delle previsioni.

Secondo l’azienda è tutto regolare, una assenza dal posto di lavoro anche di soli tre minuti fa perdere il diritto al riconoscimento della paga oraria e dei minimi previsti, così gli stipendi, già contenuti, diventano praticamente nulli.

Dopo la dura scoperta, sette persone si sono rivolte ad Andrea Lumino della SLC CGIL Ionica che ha dichiarato di aver interessato i propri legali «che hanno valutato la possibilità di collegare questa situazione alla legge contro il caporalato».

Ma quando la realtà supera l’immaginazione ci si deve chiedere cosa ha permesso tutto ciò, qualche volta curare non è sufficiente, soprattutto se non c’è prevenzione adeguata.

Il problema non è se si tratta o meno di caporalato, il problema è quanto vale oggi il lavoro, indipendentemente da quale sia e da chi lo svolge, deve esistere un limite inferiore oltre il quale non sia lecito andare ed oltre il quale lo sfruttamento della manodopera può essere considerato schiavismo e non può essere tollerato dalla legge.

Secondo il premio nobel per l’economia Joseph E. Stiglitz “I salari pagati ai lavoratori flessibili devono esser più alti e non più bassi, proprio perché più alta è la loro probabilità di licenziamento. In Italia un precario ha una probabilità di esser licenziato 9 volte maggiore di un lavoratore regolare, una probabilità di trovare un nuovo impiego, dopo la fine del contratto, 5 volte minore e fino al 40% dei lavoratori precari è laureato.” Ed aggiunge, “Ma se li mettete a servire patatine fritte o nei call center, perché spendere tanto per istruirli?”.

Se vi sono sbilanciamenti negativi, serve fissare delle regole di base per far crescere l’economia in modo corretto, la precarizzazione del lavoro, secondo il ragionamento di Stiglitz, doveva essere bilanciata con un amento dei salari, invece è avvenuta la cosa opposta: l’aumento della precarietà ha abbassato i salari fino all’assurdo di far pensare qualcuno di poter pagare il lavoro 92 euro al mese.

L’operazione fatta in Italia sui problemi del lavoro a seguito della sua precarizzazione appare paragonabile a quella di un giardiniere che per migliorare la salute di una pianta che ha le radici malate ne pota le foglie, non solo non otterrà nulla, ma ritarderà solo una fine inevitabile con effetti finali catastrofici.

Se non cambiamo passo non ne usciremo e potremo solo peggiorare, ci indigniamo per i maltrattamenti agli animali, ci stupiamo per abusi e ruberie e poi non facciamo nulla per cambiare, ci saranno presto le elezioni e non potremo certo valutare chi non ha mai governato, ma potremo farlo con chi lo ha fatto male, non ha fatto nulla od ha persino peggiorato le cose, costui, o costoro, non dovrebbero essere più rieletti attraverso il voto, unico strumento democratico ancora nella disponibilità del cittadino.

Attendersi di poter ottenere un lavoro in modo clientelare, scambiando il proprio voto per un’aspettativa personale, sembra furbo, ma nella realtà uccide tutti: non possiamo incolpare gli altri per una cosa che dipende da noi, civiltà, coerenza e giustizia devono diventare motori universali e non qualcosa che viene sempre delegato a qualcun altro sconosciuto.

Il cambiamento inizia da noi, aspettarsi un lavoro ben retribuito senza verificare di cosa si tratta, accettare condizioni inferiori al minimo dignitoso, non denunciare e non fare nulla per cambiare, questi sono i veri mali della società.

Spetta alla politica ed agli amministratori pubblici cambiare ma il cambiamento, come sempre, inizia da noi, cambiamo e gli altri cambieranno con noi.

ALESSANDRO A 24 ANNI NON È NORMALE E SI LICENZIA

DI PIERLUIGI PENNATI

Alessandro a 24 anni non è normale e si licenzia, o meglio: non è normale che Alessandro a 24 anni si licenzi.

Già sono tempi strani, nei quali il lavoro è soggetto non ad un mercato, ma ad un mercimonio continuo dove l’unico valore in gioco è il profitto e la dignità umana non è più considerata, per questo non è normale licenziarsi, di questi tempi “ti” licenziano e la frase normale, “mi” licenzio equivale ad un suicidio civile che nessuno farebbe.

Eppure Alessandro, a 24 anni, prende questa decisione: “Ho pensato a lungo prima di pronunciare ad alta voce questa parola” – dice ad Invece Concita di Repubblica – “nel 2017. Ho lavorato per quasi un anno come barista”, “Ottimo ambiente, coi datori di lavoro e coi colleghi. Il mio problema era lo stipendio che, per quanto mi permettesse di vivacchiare, non mi consentiva di pensare al futuro“.

Ecco: un lavoro certo, ottimo ambiente e bravi colleghi, ma stipendio inadeguato e quando ti dicono così la prima cosa che ti viene in mente è di chiederti quanto sarà mai stato lo stipendio, dato che oggi se hai un lavoro è già una fortuna.

Ma Alessandro non è un caso isolato, Alessandro è solo uno che ne ha parlato, i nostri baristi e camerieri emigrano, dato che in Italia il loro lavoro non è più adeguatamente pagato, vanno in altre nazioni dove il loro lavoro è ancora valorizzato adeguatamente e con questo la loro dignità di persone.

Secondo il Centro Studi e Ricerche IDOS, della Caritas Migrantes, dal 2014 in poi nel nostro paese sono più gli italiani che emigrano all’estero che i migranti in arrivo, con un impressionante bilancio negativo che fa davvero riflettere: forse dobbiamo cominciare a renderci conto che dall’Italia non fuggono i cervelli, dall’Italia fuggono persone che non sono più disposte ad accettare lavori che non rispettano la loro dignità, mentre accettano gli stessi lavori in altri stati dove la persona è ancora considerata un valore e per questo retribuita in modo da poter “pensare al futuro”.

Alessandro, dopo il bar ci prova con “un noto marchio d’abbigliamento italiano”, viene assunto e “Il primo giorno mi vengono illustrate alcune regole basilari, del tipo: è vietato instaurare rapporti d’amicizia con i colleghi; è vietato perdersi in chiacchiere con i clienti; se non per esigenze eccezionali è vietato andare ai servizi durante le ore di lavoro, ci si va nei 10 minuti di pausa, rigorosamente timbrati, concessi solo con un minimo di 6 ore di lavoro giornaliere. È vietato bere un caffè nella pausa concessa, dato che l’azienda non dispone di macchinette“.

Il suo ruolo è cassiere e commesso, per il quale è anche “vietato lasciare il posto di lavoro entro il turno stabilito senza prima aver svuotato gli appositi carrelli carichi di merce usata durante la giornata, il tutto solamente dopo aver timbrato, evitando così di andare in straordinario.

Non solo, ogni “infrazione” viene catalogata e porta ad un “verbale”, vale a dire una nota negativa che peserà sui successivi rinnovi dell’impiego, in un ricatto continuo, della durata di tutto il periodo di vigenza contrattuale, che considera anche i “centesimi in più perché il cliente non li ha voluti di resto”, la “troppa confidenza” con clienti e conoscenti, costringendoti a non instaurare alcun rapporto umano nemmeno con i clienti abituali, ed il terrore “di aver piegato male una maglietta”, in una continua ed ininterrotta ansia da prestazione di lavoro.

Per Alessandro la domanda è “Perché mi lamento così tanto, direte voi? Quando c’è gente che un lavoro non ce l’ha o deve sottostare a regole peggiori delle mie?

La sua risposta è “Perché ho 24 anni. A queste regole io non ci sto” e se ne va ancora una volta, poi dice: “per fortuna al bar mi riprendono. Guadagnerò molto meno, ma racconterò una barzelletta ogni tanto, rispetterò il prossimo se mi rispetterà. Siamo esseri umani, non siamo macchine. Il lavoro è importante, ma anche la nostra vita. Non dobbiamo sempre subire, non dobbiamo per forza adattarci a tutto. Lavoriamo ma non dimentichiamoci di rispettarci”.

Nell’intervista, Alessandro Paola, 24 anni, ha deciso che non si possono sacrificare diritti in cambio di soldi, ma questo è proprio il problema, da troppi anni si discute di dare impulso all’economia rilanciando il lavoro e per farlo, invece di fissare regole di base che impediscano il suo eccessivo sfruttamento, si favorisce la precarietà e la compressione dei diritti in favore di dati statistici di occupazione che sono solo numeri matematici costruiti ad arte e che non rispettano più l’uomo che li produce.

Con il Decreto Scuola Lavoro, poi, questi numeri si gonfiano ancora chiamando persino gli studenti ad aumentare le statistiche con il loro lavoro, mentre nella realtà sono ancora a scuola, per l’INAIL uno studente assicurato anche un solo giorno perché “studia lavorando” è un occupato in più, per la società è solo uno studente sfruttato mentre sta ancora studiando.

Il tutto in nome di un “mercato del lavoro” i cui numeri devono essere in costante crescita, pena il fallimento del governo di turno che li snocciola, apparentemente numeri falsati solo per garantire una carriera politica, nella quale nel dire mercato del lavoro sembra si pensi invece al solo valore numerico che produce, senza nemmeno più considerare l’uomo che vi sta dietro, la sua dignità, libertà e morale.

Quando si mettono le persone nella necessità di dover rinunciare a queste cose, si sta facendo male alla società intera, il lavoro rende nobili proprio perché dà dignità e rende liberi ed autonomi, prerogativa un tempo riservata solo a regnanti, nobili e “dignitari”, appunto, cioè “meritevoli di dignità”.

Il lavoro che nobilita dovrebbe avere regole incomprimibili, sicurezza e diritti certi, invece oggi si agisce sempre più in nome di un mercato del lavoro, che altri non è che una mera competizione al ribasso di diritti e dignità in cambio di poca moneta.

Un mercimonio dell’umanità e dell’individuo, azzerati in nome del profitto.

Ci dicono da molto tempo che la competizione ed il mercato facciano bene al progresso dell’economia, ma un’economia che accumula beni a costo di uccidere la dignità delle persone non può essere considerata progresso.

Sono servite lotte anche cruente per nobilitare l’uomo attraverso il lavoro ed oggi gli chiediamo di lavorare senza alcuna nobiltà.

La prima frase dell’articolo 1 della nostra Costituzione cita: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” e prosegue con “La sovranità appartiene al popolo”.

Oggi, attraverso un sistema sempre più complicato di regole che rendono quasi impossibile la partecipazione democratica alla vita dello stato, la sovranità ci è già negata, cosa ne sarà del lavoro?

La parola lavoro è ripetuta ben 17 volte nei primi 40 articoli della costituzione, la frequenza maggiore tra gli argomenti in essa trattati e non è chiamata esplicitamente diritto solo perché di essi è il più importante, essendo il lavoro ben più che un “semplice diritto”, ma uno strumento, “lo strumento” per eccellenza, di emancipazione e progresso, quindi chi fa del lavoro un mercato privo di dignità per l’uomo rinnega, nei fatti, anche la nostra costituzione e non dovrebbe meritare la cittadinanza italiana.

Voglio uno stato che pensa alle persone e non persone che pensano ad uno stato, voglio vivere con dignità, voglio che il lavoro nobiliti e non solo debiliti.

Quasi cento anni fa Adriano Olivetti, che non era certo un semplice operaio, anche se fece brevemente l’operaio per imparare il mestiere, ma un industriale figlio di un industriale che poteva benissimo pensare solo al suo profitto, scrisse: “La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica” ed a chi gli chiese se tutto questo non fosse utopia, rispose: “spesso il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia a lavorarci. E allora può diventare qualcosa di infinitamente più grande”.

Caro babbo natale, ti prego, quest’anno non portarmi doni, portami dignità, sicurezza, autonomia, portami la certezza che quando trovo lavoro questo sia un lavoro vero, che possa essere chiamato tale e che soddisfi il famoso aforisma “il lavoro nobilita l’uomo“.

Portami nobiltà nel lavoro, per Alessandro e per tutti noi.

TENSIONI TRA ISRAELE E PALESTINA: QUANDO LE PAROLE DIVENTANO ORDIGNI

DI VIRGINIA MURRU

 

Era nell’aria, ci si attendeva una reazione ben precisa, ed eccoli i risultati della politica internazionale scellerata, che scansa il buon senso per ragioni che vanno al di là della ponderazione dei propri atti, in un’epoca in cui gli equilibri geopolitici del pianeta, la stessa pace, sono nelle mani di personaggi che hanno manifestato segnali a dir poco pericolosi.

Le tensioni roventi tra Israele e Palestina hanno ripreso la loro escalation di violenze, da fonti palestinesi si apprende che ci sono stati 114 feriti, tanti dei quali con contusioni derivanti dai proiettili rivestiti di gomma lanciati dall’esercito israeliano. Altri palestinesi sono stati soccorsi in seguito ad intossicazione da gas lacrimogeni.

E la mattanza nella linea di Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme est, continua. Il fuoco delle tensioni ardeva certo sotto la cenere, ma era il caso che Trump
istigasse con l’ennesima sfida, se le parole non di rado sono le armi più destabilizzanti e pericolose? Il presidente degli Usa e il suo entourage non potevano ignorare le conseguenze di certe dichiarazioni, e nella striscia di Gaza le sirene hanno di nuovo suonato, mentre la gente si è riversata nei rifugi.

La decisione di trasferire la sede diplomatica americana da Tel Aviv a Gerusalemme, per imporre uno status ben preciso alla città, che non sarà più lo spartiacque fra tre religioni, non poteva suscitare entusiasmo né in Palestina né altrove nel mondo.
Tutto questo mentre il genero di Donald Trump, Jared Kusner era impegnato su un fronte di pace, e stava lavorando proprio per creare le migliori condizioni per riportare i rapporti tra palestinesi e israeliani su un piano di più sensato equilibrio. Non si sa fino a che punto i palestinesi si fidassero, ma si attendevano maggiori sviluppi. Non ci dovevano essere ingerenze, sia pure indirette, in ogni caso, era una partita da risolvere inter partes, secondo gli accordi di Oslo. Una partita infinita, che dura da oltre 60 anni.

Ma Trump è ‘uomo di parola’ e doveva mantenere la promessa fatta in campagna elettorale. E tuttavia, sul trasferimento della sede diplomatica, c’è anche un rimando politico che proviene dal Congresso, il cosiddetto ‘Jerusalem Embassy Act’ che era stato appunto votato nel 1995, ma al quale nessuno dei presidenti che si sono succeduti alla Casa Bianca aveva dato seguito.

Ognuno, vista la delicatezza e i rischi, ha rinunciato regolarmente, di sei mesi in sei mesi con la propria firma. Trump non vuole tradire gli elettori di credo ebraico, a costo di scatenare dissenso ovunque – perfino Theresa May ha espresso il suo disappunto – ma i riflessi peggiori sono stati i disordini, l’amplificazione delle tensioni a Gerusalemme.

Se Trump si ostinerà a portare avanti le sue strategie scellerate, le conseguenze potrebbero essere ben maggiori. Accendere nuovamente le ire dell’Intifada e le reazioni del suo nemico sionista, sempre pronto ad usare la forza per sopprimere le ragioni di un popolo cacciato dalla propria terra, senza alcuna misericordia, serve solo a riaprire i battenti di un incubo nella coscienza dell’umanità.

Gli Usa si sono sempre comportati da gendarmi nel mondo, decidendo il bello e il cattivo tempo, comminando sanzioni agli Stati non in regola con i principi democratici, come Cuba, costretta all’embargo per 50 anni, non sarebbe ora di sanzionare anche loro, per il lungo repertorio di violenze perpetrate a danno di popoli inermi?

ALLA RICERCA DELLA DIGNITÀ PERDUTA

DI PIERLUIGI PENNATI

“Forse sta venendo meno il valore della dignità umana. Io e tutti i lavoratori non siamo numeri, siamo persone, con una dignità che dovrebbe essere rispettata”.

È Marica Ricutti a parlare, la mamma licenziata da Ikea perché non poteva iniziare alle 7 del mattino il mercoledì a causa di una terapia per il figlio disabile, licenziata per un paio d’ore di impossibilità a recarsi al lavoro, nonostante non avesse mai chiesto alcun altro privilegio.

Sarebbe pleonastico e stucchevole ripetere la sua situazione, anche perché questo, in Italia, non conta più nulla, il valore dei cittadini in genere è quanto possono produrre in termini di valore economico, vale a dire che più vali se più lavori gratis, senza tutele e facendo debiti.

Da quando, a dicembre 2016, alla “giusta causa” di licenziamento la Cassazione ha aggiunto la motivazione di “mero profitto aziendale” il fondo è stato toccato: l’uomo è scomparso dall’orizzonte del lavoro ed è rimasto solo il suo codice fiscale.

Siamo nella “Repubblica democratica fondata sul lavoro” e non sappiamo difendere e valorizzare i lavoratori.

Ikea in Svezia tutela i lavoratori e costruisce asili per le loro famiglie, in Italia licenzia chi per la famiglia non riesce ad iniziare alle 7 del mattino un giorno solo alla settimana.

Qualcosa non quadra, se il problema non è l’azienda, evidentemente deve essere lo stato nella quale si trova, poi, facciamo sempre in tempo a lamentarci degli immigrati africani, unici che ancora accettano le condizioni di lavoro nel nostro stato, per loro che sono abituati a vedersi negata la dignità di umani è sufficiente un lavoro, per noi che siamo cresciuti nella convinzione di possederla, invece, non basta, per questo i nostri figli cercano lavoro all’estero, non fuggono i nostri cervelli, fuggono le nostre anime in cerca della dignità che meritano.

SAPETE COS'È IL BLACK FRIDAY?

DI PIERLUIGI PENNATI

Certamente: quando tutti fanno sconti incredibili e si compra bene…

Sembra assurdo, ma una giornata storica che è anche un monito è diventata una festa del consumismo.

Il black friday è stato il 24 ottobre del 1929 negli USA, fu forse il più grande crack della storia, le banche fecero tutte bancarotta a causa della speculazione e della bolla finanziaria che si era creata, le persone assaltarono gli istituti per tentare di riavere gli spiccioli rimasti in cassa, perché si tempi le banconote avevano una copertura in oro, cosa che oggi non è più.

La crisi generale che ne seguì fece approvare al congresso nel 1933 il Glass Stegal Act, contenente due semplici norme, l’istituzione di un fondo di garanzia per i depositi bancari ed il divieto di speculare col denaro del risparmio, separando nettamente banche d’affari e banche commerciali.

Il sistema ha protetto l’economia mondiale fino al, se ricordo bene, 1993, quando Giuliano Amato, allora ministro delle finanze, introdusse di nuovo in Italia per primo la commistione tra i due tipi di istituti.

A dicembre 1999, Bill Clinton ad un mese dal terminare il suo ultimo mandato, con un atto votato da entrambi i rami del congresso quasi all’unanimità, diede il colpo di grazia cancellando la legge promulgata da Roosevelt nel ’33.

Il resto del mondo seguì, le banche d’affari comprarono le banche commerciali e la borsa diventò l’unico elemento di mercato trasformando il lavoro umano in mero calcolo economico senza dignità.

Per questo oggi siamo numeri, per questo quando le banche falliscono chiedono a noi i soldi, perché controllano il risparmio ed il nostro denaro, anche quando non siamo d’accordo.

Se esistesse ancora la separazione netta tra le banche, l’economia si reggerebbe sul lavoro e non sullla speculazione e la dignità umana avrebbe un valore, invece le banche non producono più nulla, promettono interessi in denaro su investimenti in denaro, vale a dire puro calcolo economico su numeri che producono numeri.

Il venerdì nero è come l’olocausto e noi, da masochisti, invece di temerlo lo celebriamo come fosse una festa.

ORIO CENTER APERTO ANCHE A NATALE MA I LAVORATORI PROTESTANO

DI PIERLUIGI PENNATI

Era già accaduto a Serravalle ad inizio anno, quando alla notizia che avrebbero dovuto lavorare anche a pasqua i lavoratori del centro outlet si erano ribellati ottenendo solo un maggiore interesse della insensibile clientela, attirata in maggior numero proprio dalla protesta.

Adesso si replica, a Bergamo si lavora anche a Natale e Capodanno, giornate nelle quali tradizionalmente si dovrebbe stare con famiglia ed amici ed invece sembra ormai diventato più interessante poter andare al centro commerciale a passeggiare.

Il grido populista che richiama le nostre tradizioni e sacralità festive sembra dimenticato, qui non ci sono mussulmani da cacciare o migranti da rimandare a casa, qui ci sono le luci che accendono la fantasia delle persone: “offerta speciale”, “ribassi”, “vendita straordinaria”, “fuori tutto” e, più importante ancora “OUTLET”!

Tutti contenti, quindi, tutti meno loro: i dipendenti dei 280 esercizi che sono costretti dalla proprietà dei centri commerciali a rinunciare alle ferie per aprire i negozi destinati al piacere dei nostri occhi e delle tasche della direzione.

Già, ogni medaglia ha un suo rovescio e questa, come ormai tutte le “medaglie” nella nostra nazione, ha un rovescio davvero amaro per chi ci lavora, se ancora il lavoro nel commercio si può chiamare così.

Mentre l’attenzione generale è ormai da molti anni puntata solo sulle grandi aziende dove si lotta per tentare di salvare posti di lavoro destinati comunque ad essere persi per effetto dell’ampliarsi delle regole volute dai vari governi che hanno finito solo per favorire la precarietà nell’industria, nel dimenticato settore del commercio i risicati numeri di dipendenti medi pro impresa, rendono la precarietà una realtà non nuova, ma endemica e radicata che, piano piano, con la complicità dei dati sulla disoccupazione, si sta però trasformando in reale schiavitù.

Negli outlet, ovvero quei posti dove le grandi case di moda scaricano gli invenduti delle stagioni precedenti per potersi ancora sostenere e continuare a vendere nei negozi di punta senza perdere l’immagine del loro prodotto, la situazione è ancora più evidente, infatti questi enormi centri sono per definizione un luogo dove gli orari devono essere più elastici perché si trovano tipicamente fuori mano si deve dare modo agli acquirenti di poterli raggiungere quando hanno più tempo a disposizione, la sera, domenica ed i festivi.

Così, a poco a poco, gli orari si sono allargati, giorni di apertura ampliati e le chiusure ridotte, tanto che all’inizio del 2017 erano mediamente solo 4 in tutto l’anno: Pasqua, Sant’Angelo, Natale e Capodanno.

Così proprio per la riduzione da 4 giorni di chiusura a soli 2 si era scatenata la protesta a Serravalle ed i dipendenti, già esasperati dagli orari dei turni a loro volta “elastici” e dai ricatti delle proprietà, non ce la facevano più, risultato: uno sciopero proclamato il giorno di Pasqua un tempo festivo.

Ma al suono di “se non vieni a Pasqua puoi anche non tornare più al lavoro” solo 4 esercizi sul totale rimasero allora chiusi, facendo fallire miseramente lo sciopero in un tripudio di clienti curiosi attirati proprio dall’evento e terminato con un successo straordinario di vendite.

Alla fine il grido di aiuto dei dipendenti commerciali, sfruttati con contratti precari a mille euro al mese ed anche meno era diventato un boomerang e si era riversato si di loro stessi, come in un circo dove si torturano animali per il piacere degli astanti.

L’episodio, però, era solo il preludio al cambiamento permanente, con il passare dei mesi, e nell’indifferenza generale dei sindacati tradizionali, i due soli giorni di chiusura all’anno diventano la normalità dappertutto, tranne ad Orio al Serio, dove la proprietà comunica ai negozi che, pena la rescissione dei contratti, dovranno aprire anche a Natale e Capodanno, portando a zero in un anno i giorni di chiusura del centro.

Ovviamente i primi a reagire sono stati i dipendenti, ma la cosa curiosa è che a non starci, questa volta, non sono solo loro, ma addirittura i titolari degli esercizi, a loro volta ricattati dalla proprietà che non farebbe mancare velate minacce di aumenti di canoni di locazione o rescissioni dei contratti.

In una circolare datata 17 novembre la proprietà del centro scrive:

Egregi Signori, alla luce delle notizie che sono apparse in questi giorni su diversi organi di stampa locale e nazionale riteniamo importante intervenire in ordine alle prossime imminenti aperture.

In Oriocenter, come tutti sappiamo, svolgono la propria attività ben 280 operatori. Abbiamo appreso che alcuni vostri dipendenti e collaboratori avrebbero aderito ad una raccolta firme di protesta promossa dal sindacato USB.

Per quanto il malcontento ci risulti molto più circoscritto rispetto alle oltre mille adesioni dichiarate dalle organizzazioni sindacali, ci sembra doveroso richiamare la vostra attenzione affinché, per quanto vi compete, provvediate ad attivarvi tempestivamente per gestire al meglio le criticità che potrebbero emergere”.

Secondo il sindacato di base USB, unico sindacato che si sta occupando attivamente del problema, questa lettera sarebbe la traduzione in parole cortesi di quanto affermato verbalmente, vale a dire che alla direzione non importerebbe come si dovranno organizzare i commercianti che dovrebbero, a questo punto, allontanare i dipendenti che si rifiutano di lavorare a Natale per assumerne altri più “flessibili” negli orari.

Per sensibilizzare la clientela al problema, USB ha avviato da un mese una campagna di informazione con un presidio stabile in prossimità dell’ingresso del centro spiegando ai clienti che anche i dipendenti commerciali hanno una loro vita, una famiglia e delle relazioni personali e non è giusto che siano costretti sotto ricatto a lavorare anche a Natale e Capodanno, da sempre festività intoccabili.

È proprio durante il presidio che sarebbe nata la raccolta di firme quale risposta dei dipendenti alla situazione, più di mille i consensi raccolti spontaneamente e già consegnati al prefetto ed alle autorità cittadine con la richiesta di non concedere l’apertura straordinaria del centro almeno in quei due giorni.

Che la battaglia sia importante lo certifica il fatto che vi sono già stati tentativi ben riusciti di distrazione, il giornale locale, l’Eco di Bergamo, che pubblica stabilmente la pubblicità del centro, ha più volte dichiarato che tutte le iniziative erano in capo ad altri sindacati, citando Fisascat Cisl, Filcams Cgil e Uiltucs Uil come promotori delle proteste, cosicchè si è da subito creata non poca confusione su quali fossero gli interlocutori che non hanno portato ad alcun incontro costruttivo fino ad ora, dato che quei sindacati, a detta degli attivisti USB, non sono ne presenti ne attivi presso il centro e nonostante i trafiletti di precisazione pubblicati a seguito delle loro proteste, nessuno sarebbe ancora riuscito a trovare una interlocuzione effettiva con la proprietà che dallo stesso giornale pubblicizza e conferma le nuove aperture.

Così, un’altra volta, una vicenda triste che affligge i lavoratori si sta trasformando un nuovo affare per la proprietà dello stabile che sfruttando la pubblicità che il caso sta creando e cercando di porre in conflitto tra loro le sigle sindacali, unite alla confusione informativa, si aspetta un grande successo di pubblico a discapito della vita delle persone che ci lavorano e dei titolari di negozi che dovrebbero decidere se tiranneggiare i dipendenti per poter continuare la loro attività in un centro commerciale che, comunque, riceve milioni di visitatori all’anno.

Proprietà che ricatterebbe i negozianti, che sarebbero a loro volta costretti a ricattare i dipendenti per non rinunciare alla posizione all’interno del centro e dipendenti costretti a rinunciare agli ultimi giorni di libertà festiva per mantenere un posto di lavoro precario e spesso mal pagato in un clima generale di disoccupazione, impoverimento e disinteresse generale ai problemi del lavoro.

Certamente non una bella prospettiva, nonostante le dichiarazioni di crescita citate costantemente dal governo.

Ma l’Orio Center, che ha inoltre appena raddoppiato la sua dimensione con un nuovo edificio, non è che un esempio della situazione generale, se consideriamo che ogni “innovazione” in termini di negazione di diritti viene immediatamente mutuata dappertutto, mentre gli esempi di ampliamento, quando ci sono, restano casi isolati, facendo si che anche le apertura, ora effettuate “solo” dalle 8 del mattino all’una di notte, potrebbero ampliarsi per effetto di un nuovo tunnel sotterraneo che collegandolo direttamente all’aeroporto di Bergamo, che si trova proprio di fronte a soli 100 metri, potrebbe persino aprire sulle 24 ore diventando il centro commerciale dell’aerostazione con zero ore di chiusura all’anno.

La soluzione, già ventilata, costringerebbe tutti gli esercizi ad organizzarsi in turni, piccoli o grandi che siano, e persino le catene di supermercati che altrove, invece, effettuano almeno le chiusure notturne dovrebbero adeguarsi sdoganando una volta per sempre l’orario continuato anche nei centri commerciali.

Purtroppo con la lentezza e la leggerezza dell’indifferenza sociale, queste modalità di lavoro stanno piano piano diventando la norma ovunque spostando i centri tradizionali di aggregazione sociale, coincidenti con i centri cittadini, nelle periferie dove i caroselli della domenica negli Outlet Village e nei centri commerciali sempre aperti, stanno facendo chiudere tutti piccoli esercizi uccidendo artigianato, commercio ed attività una volta stabili.

Anche il conteggio dei posti di lavoro non sembra essere favorevole, dato che a migliaia di posti di lavoro nei grandi centri si contrappongono altrettanto perdite di posti negli esercizi cittadini, spostando così solo le condizioni contrattuali che a favore delle nuove modalità vanno riducendo salari e diritti in una sorta di spirale perversa che non è mai stato chiarito se davvero faccia bene all’economia, ma che è certamente chiaro stia danneggiando le persone che lavorano.

Un’analisi che è volutamente superficiale ed approssimativa, è sufficiente uscire di casa ed anche senza essere un economista capace si realizza immediatamente che le lamentele delle persone sono generali e precarietà e vessazioni sembrano senza soluzione di continuità e senza prospettiva futura.

Cambiare, come sempre, è possibile, ma, come sempre, dipende da tutti noi, pubblicità e slogan ubriacano oggi più di ieri come una droga che, terminato l’effetto, ci fa ricadere nei problemi quotidiani irrisolti e persino peggiorati nel frattempo facendoci diventare obiettivo a nostra volta delle vessazioni cui ci eravamo disinteressati.

Dal canto mio darò, come sempre, solidarietà ai lavoratori della domenica e festivi NON andando a fare la spesa in quei giorni, basta un po’ di organizzazione, a Natale trascorrere la giornata con i parenti a casa non è una novità, si fa da migliaia di anni, quando i centri commerciali non esistevano nemmeno e se cominceranno a restare deserti spero non apriranno più in quei giorni.

In Italia ci sono migliaia di associazioni che difendono i diritti degli animali con passione e tenacia, possibile che con i lavoratori non si riesca a fare la stessa cosa?

Non abbandoniamo i lavoratori del commercio, ma nemmeno gli altri, come si fa con i cani sull’autostrada, adottare a distanza un commesso od una commessa si può, basta fare a Natale, Capodanno, Pasqua e tutte le domeniche quello che si è sempre fatto prima, dedicarle alla famiglia, gli amici, a passeggiare al mare, lago, montagna od ovunque si voglia, è più salutare per noi stessi, per la società e persino per le nostre tasche.

Pensare che quello che fanno oggi ad un altro lo faranno domani a certamente a noi è ormai diventato l’unico modo di poter fare ancora del bene a noi stessi, quando politica e mondo sindacale tradizionale sono distratti in altre faccende siamo costretti ad aiutare ad aiutarci.

Al contrario, continuare a voler credere che queste situazioni siano destinate ad “altri”, senza considerare che piano piano toccheranno anche noi, è miope e sbagliato, nel corso degli ultimi venti anni sono stati tolti o ridotti moltissimi dei diritti che avevamo negli anni ’70, ma un diritto è un diritto e non dovrebbe scadere mai in favore del mercato, per evitare che il mercato arricchisca impoverendo le persone.

OTTO ORE AL GIORNO SONO POCHE, LA GERMANIA VUOLE ABOLIRLE

DI PIERLUIGI PENNATI

Il nuovo mondo digitale incalza dappertutto, email e messaggistica ci seguono sempre e limitare la giornata lavorativa a sole otto ore di lavoro al giorno non è più attuale.

È il presidente del consiglio consultivo del governo federale, Christoph Schmidt, ad affermarlo al “Welt am Sonntag”, letteralmente “il mondo di domenica”, il più diffuso giornale tedesco del fine settimana, secondo il quale le aziende che vogliono continuare ad esistere nel nuovo mondo digitale dovrebbero essere agili e poter contattare il loro personale in fretta: “L’idea che una giornata inizi alla mattina in ufficio e finisca quando si lasciare l’azienda non è attuale” e suggerisce un allentamento allentamento delle ore di lavoro.

“Orari di lavoro più flessibili sono importanti per la competitività delle aziende tedesche”, continua, “Che ne dite se il tempo massimo di lavoro fosse determinato in futuro solo in una settimana invece che di un giorno?”

Le tutele dei lavoratori in Germania hanno dimostrato di essere efficaci, ma non sono più adatte per alcune aree del mondo digitale, “Quindi,”, secondo Schmidt, “le aziende hanno bisogno di avere la sicurezza di non aver agito illegalmente quando alla sera i dipendenti prendono ancora parte alle chiamate in teleconferenza e la mattina leggono la posta a colazione.”, questo non solo aiuta l’azienda, ma anche il personale, che con la tecnologia digitale potrebbe lavorare in modo più flessibile, anche se una maggiore flessibilità non significa necessariamente un prolungamento occulto delle ore di lavoro.

Una riforma delle legge sull’orario di lavoro è anche uno dei temi dei colloqui esplorativi della coalizione “Giamaica” tra CDU, FDP e Verdi a Berlino, i datori di lavoro hanno evidenziato già da tempo che limitare la giornata lavorativa ad otto ore non è più attuale, proponendo di lasciare solo il limite delle ore settimanali massime esistenti, nelle attuali 48, e riducendo il periodo di riposo tra due giorni lavorativi da undici a nove ore.

Questo favorirebbe la produttività a parità di impegno, ma i sindacati non sono d’accordo, ritengono che questo sia un primo passo verso un prolungamento nascosto delle ore di lavoro complessive: come contabilizzare l’attività che non si svolge in ufficio?

La flessibilità finirebbe per rendere disponibili le persone ad ogni ora del giorno e della notte, mentre in Germania ancora resiste il principio del Feierabend e Feiertag, vale a dire della “sera festiva” e “giornata festiva”, quasi in modo sacrale alla sera ed alla domenica non si lavora, tanto meno durante i giorni festivi repubblicani e religiosi.

Questo tempo è dedicato alla famiglia, agli amici, al divertimento, al riposo, al punto che da alcuni anni grandi aziende, come la Daimler, avevano persino introdotto il divieto di leggere le mail aziendali nel fine settimana, ora, nel nome del progresso e della connettività, si vuole cambiare abitudini, finendo per stravolgere la vita delle persone.

Visto da noi sembra assurdo e ridicolo, tanto siamo abituati ad andare al centro commerciale la domenica ed a rispondere alle email la sera ed persino a Natale, in Germania, invece, sanno che le consuetudini sbagliate sono dannose, alla fine le aziende ottengono la disponibilità 24 ore su 24 del proprio personale senza costi aggiuntivi e, in alcuni casi, persino riducendone i costi, come nei casi di produzioni senza interruzione o distribuite su turni di lavoro, che ottengono la disponibilità dei lavoratori senza corresponsione di indennità di reperibilità, per esempio, costringendo le persone a nascondersi dall’azienda per non essere richiamati, dovendo persino inventare scuse se non sono stati disponibili gratuitamente durante il loro tempo libero.

La globalizzazione ha consegnato nelle mani degli analisti i dati sulle abitudini delle persone, questi stessi dati sono mutuati di nazione in nazione, non per rispettare la libertà e la dignità umana, ma per carpirla a favore di un progresso che finirà per distruggere l’uomo a favore dell’economia.

Quando l’attenzione per la persona non è più al centro del processo di lavoro, ma ne diventa solo un elemento da sfruttare il più possibile, l’uomo perde la sua dignità e non ha più alcun valore, riducendo la propria esistenza al nulla.

Seguendo questo principio in Svezia stanno già da tempo praticando le 6 ore di lavoro al giorno in moltissime aziende, perché, secondo i datori di lavoro che applicano questa riduzione, lavorando di meno si produce di più e meglio, si hanno impiegati ed operai più motivati, meno stressati e che commettono meno errori produttivi, dato che le persone sono prima “esseri umani” che semplici “lavoratori”.

Il limite di otto ore al giorno fu una delle grandi conquiste seguite agli anni bui della rivoluzione industriale, quando gli orari di lavoro degli operai erano mediamente da 13 a 15 ore giornaliere, giungendo alla prima convenzione approvata dall’International Labour Organization nel 1919.

La convenzione, sottoscritta nel 1921 e mai emendata, è tuttora vigente e prevede che ad eccezione delle posizioni manageriali e di supervisione, sia nel settore pubblico che in quello privato vi sia un doppio limite massimo alle ore lavorate, tassativo e inderogabile, di 8 ore giornaliere e 48 ore settimanali.

Accordi sindacali, possono però derogare ai limiti con un massimo di un’ora giornaliera “a recupero” e, in ogni caso, la media di ore rilevata nell’arco di 3 settimane consecutive di lavoro deve essere pari a 8 ore/giorno e 48 ore/settimana, con il vincolo di un massimo di 9 ore/giorno.

Distratti dalla tecnologia, l’informazione spazzatura e le continue emergenze in tutti i campi sociali siamo oggi così abituati a deridere quello che ci succede di male da non ricordare il nostro passato, il perché esistono alcuni limiti e diritti e non riusciamo più a vedere il nostro futuro con la mente libera.

Speriamo che almeno in Germania il riposo, sia esso della sera che dei giorni festivi, possa restare sacro, come lo è sempre stato, per molto tempo ancora: non sempre il “progresso”, specie quello tecnologico, fa bene alla salute, alla libertà ed alla dignità dell’uomo.

NELLA POLITICA TEDESCA IL POSSIBILE FUTURO DI QUELLA ITALIANA

DI PIERLUIGI PENNATI

Il fallimento delle trattative in Germania per la formazione del nuovo governo spaventa la nazione, la possibilità di nuove elezioni e dell’ingovernabilità del paese non è mai stata sperimentata e certamente non è una modalità che piace ai tedeschi, sempre previdenti e sobri nelle loro scelte.

I negoziati tra la CDU, CSU, FDP e Verdi avevano come traguardo le 18:00 di ieri 19 novembre 2017, i liberali, però, a seguito delle difficili trattative per mediare tutte le differenti posizioni politiche, hanno deciso di ritirarsi dai colloqui: “È meglio non governare, che governare in modo sbagliato”, ha detto il leader FDP Christian Lindner.

Il blocco delle trattative allontana così per il momento il quarto mandato per Angela Merkel che si trova incastrata nella crisi politica più grave dei suoi ultimi dodici anni e che ha mandato in confusione la situazione politica tedesca dopo solo otto settimane dalle elezioni generali.

Gli analisti tedeschi sostengono che Angela Merkel potrebbe anche formare un governo di minoranza, ad esempio con FDP e Verdi, ma anche la cancelliera ammette che sarebbe difficilmente governabile.

Una situazione che nella nostra nazione non poteva essere generata quando le forze di destra e sinistra si tenevano tradizionalmente a distanza tra loro, in Germania, invece, la separazione non è mai stata così netta consentendo alle Grossekoalition del passato di godere di un clima di relativa collaborazione dove solo i forti estremismi restavano davvero all’opposizione, mentre il resto della politica pensava al progresso della nazione.

Ora, in uno scenario internazionale sempre più confuso nel quale le differenti anime sociali un po’ dappertutto non sono più così nettamente suddivise tra loro e l’incalzare generale di reazioni populiste dell’elettorato, esasperato anche dalle scelte economiche dei governi che fanno sembrare il rischio impoverimento generale sempre più vicino, le differenze di opinione si sono accentuate e non è più sufficiente una politica generalizzata, servono interventi mirati e riforme strutturali precise, per le quali i partiti politici sempre meno disposti alla mediazione, così anche nella ultra-stabile Germania la crisi della politica si fa sentire.

In Italia, dopo l’approvazione del Rosatellum sul quale pendono già due ricorsi alla Corte Costituzionale e che potrebbe fare anch’esso la fine del Porcellum, è già altrettanto chiaro che il dopo elezioni potrebbe essere altrettanto confuso, infatti nel misto maggioritario-proporzionale, ma più proporzionale che maggioritario, previsto dalla legge, sarà possibile per gli eletti muoversi in modo indipendente dai presupposti pre-elettorali, se necessario, tradendo persino le promesse della campagna e permettendo, per assurdo, la formazione di un governo di bugiardi pinocchi.

Alla fine la legge elettorale italiana finisce solo per favorire le coalizioni, cosicché i partiti che si riuniscono in coalizioni sanno già che dopo il voto, se eletti, dovranno comunque ridiscutere gli eventuali programmi ed accordi di governo pre-elettorali perché nessuno di loro otterrà la maggioranza assoluta in parlamento e quindi quando discusso e detto in campagna elettorale dovrà comunque essere rivisto alla luce dei nuovi possibili partner.

Tanto valeva ritornare al proporzionale secco previsto dalla prima versione della nostra Costituzione.

Quindi, il risultato elettorale sarà probabilmente che, come in Germania, per governare si dovranno trovare mediazioni che concedano ad ogni partecipante al governo di perseguire il proprio programma, almeno in parte, in altre parole potrebbe aprirsi una stagione di ricatti e forzature come mai prima.

Mentre da noi sembra che si continui a gestire il solo presente con la memoria del pesciolino rosso che si resetta ad ogni giravolta, il tradizionalmente pragmatico popolo tedesco è spaventato da elezioni anticipate che potrebbero gettare la nazione nel caos ancora maggiore.

Siamo stati abituati al “governare a qualunque prezzo”, facendone pagare i costi alle classi sociali più deboli, ora nella grande Germania c’è un problema serio e non così distante da noi, sarà interessante vedere come sarà risolto, se sarà risolto, perché quello potrebbe essere anche il nostro destino, sempre che i parlamentari italiani sappiano essere altrettanto pragmatici.

GLI SCIOPERI PORTANO PROGRESSO SOCIALE. VIETATO VIETARLI

DI PIERLUIGI PENNATI

Lo sciopero è la più antica forma di lotta dei poveri conosciuta al mondo: chi non ha nulla può solo smettere di lavorare.

Lo sciopero non è divertente, chi sciopera ci rimette dei soldi, quindi fa una rinuncia certa che, unita allo stato di necessità, inquadra precisamente il problema.

Negli ultimi anni, invece, i poteri forti, quelli dei cosiddetti “padroni”, gli industriali e le banche, ci hanno abituato a pensare che chi sciopera si diverte a torturare i cittadini, soprattutto nei trasporti, dove ricchi lavoratori scioperano per ottenere benefici ancora più grandi ed ingiusti.

Beh, non è così: chi sciopera fa un sacrificio per uno scopo sociale preciso.

Il primo sciopero della storia di cui si abbia notizia si verificò intorno al 1150 a.C., alcune fonti dicono 1165, altre 1152, comunque oltre tremila anni fa, quando, nell’antico Egitto durante il regno di Ramses III, gli operai del villaggio di Deir el-Medinet, addetti alla costruzione dei templi di Tebe, incrociarono le braccia, al grido di “Siamo già al 18 del mese e abbiamo fame!”, a causa del ritardo nel pagamento della paga, ai tempi effettuata in derrate alimentari, grano, pesci, legumi e per la mancata consegna di unguenti necessari a proteggersi dal sole e dal clima secco del deserto.

Lo sciopero durò alcuni giorni, terminando solo quando il dovuto fu interamente consegnato ed ottenendo la creazione di organi di controllo per assicurare la paga in futuro.

Un grande successo, dunque, a costo di sacrifici che hanno portato ad un beneficio collettivo.

Oggi le cose non sono cambiate e lo sciopero continua ad essere l’unica arma disponibile in possesso dei disperati, che hanno solo l’alternativa della rivoluzione armata, come avvenne in Russia nel 1917 a seguito  dei primi scioperi a febbraio nelle Officine Putilov che portarono in qualche mese alla rivoluzione di ottobre, esattamente 100 anni fa.

Combattere o limitare lo sciopero, quindi, significa togliere l’unica arma nelle mani dei poveri, lo sanno bene i potenti ed governi, per questo fanno di tutto per evitarlo o renderlo inefficace.

Il primo sciopero generale in Italia è stato nel settembre 1904, ed anche in epoca fascista, dopo la salita al potere nell’ottobre del 1922 di Benito Mussolini, il più giovane caso di governo dopo Matteo Renzi nella storia dell’Italia unita, ci sono stati degli scioperi così importanti che il Duce sentì la necessità, il 3 aprile 1926, di promulgare una legge, la numero 563, per impedire una nuova insorgenza di fenomeni di ribellione sociale al suo regime.

Questa legge, contenente in modo più ampio la “Disciplina Giuridica Dei Rapporti Collettivi Del Lavoro”, proibì lo sciopero e la serrata commerciale e stabilì che soltanto i sindacati “legalmente riconosciuti”, vale a dire quelli fascisti che già detenevano praticamente il monopolio della rappresentanza sindacale dopo la conclusione del Patto di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925 fra la Confindustria e le corporazioni fasciste, potevano stipulare contratti collettivi ed indire controversie collettive, non senza, però aver cercato prima un tentativo di conciliazione, riducendo i conflitti ad un fatto meramente amministrativo e giuridico.

Situazione non tanto distante da quanto si sta tentando di ristabilire progressivamente oggi a suon di leggi restrittive, tanto è vero che il giornalismo disinformato parla spesso di “sindacatini non rappresentativi” e la giurisprudenza, nonostante la Costituzione Italiana citi all’articolo 39 “L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge”,   ha ormai consolidato la condizione che per poter operare il sindacato deve avere iscritti pari ad almeno il 5% dei lavoratori del comparto o dell’azienda cui si riferisce. La legge voluta da Mussolini prevedeva il 10%.

Inoltre, nonostante lo sciopero fosse vietato, Mussolini aveva previsto che anche eventuali azioni sindacali alternative dovessero prima aver visto un tentativo di “risoluzione amichevole della controversia, e che il tentativo non sia riuscito”, vale a dire esattamente la “procedura di raffreddamento dei conflitti” che oggi viene imposta obbligatoriamente ed in ben due distinte fasi che fanno perdere a chi protesta almeno un mese dall’apertura formale della vertenza, rendendo comunque inefficace almeno la sua tempestività.

Quindi: riconoscimento giuridico, conciliazione preventiva e limitazione, o persino divieto, di sciopero, sono da sempre il fondamento della repressione sui lavoratori, specie i meno abbienti che non altro altri strumenti.

Evidentemente deve essere questa la ragione per cui ci si accanisce ancora oggi contro chi sciopera, spiegando tramite i media disinformati, come avvenuto il 10 novembre per lo sciopero generale del sindacato USB, che chi sciopera è sempre “qualcuno dei trasporti” che infastidisce chi “lavora onestamente”, che chi proclama sono sindacati “non rappresentativi” dal nome impronunciabile e con “motivazioni non comprensibili”, futili o marginali creando disagio strumentalmente.

La verità, invece, era che lo sciopero era generale, gli scioperanti non erano disonesti, che la rappresentatività sindacale è un parametro oggettivo che proprio i sindacati considerati “rappresentativi” non vogliono svelare per non sfigurare, che i nomi dei sindacati non devono necessariamente seguire slogan o regole accattivanti di mercato e che le erano il dannoso Jobs Act, la manovra economica che chiede altri sacrifici, gli interventi di ulteriore riduzione sulle pensioni e la continua precarizzazione dei contratti di lavoro.

Propaganda e/o disinformazione che vanno a braccetto e/o si coalizzano in una sorta di moderno Istituto per l’Unione Cinematografica Educativa, detto anche LUCE in epoca fascista, che dice solo quello che piace al regime o al popolo.

Ma in anni in cui le code agli Apple Store per i nuovi modelli sono interminabili mentre ai seggi elettorali si registra il deserto degli elettori non ci si può aspettare di meno: la storia ci dice che proprio miseria, rabbia e frustrazione, unite all’assenteismo al voto, hanno favorito l’ascesa al potere di Adolf Hitler in Germania dopo la Prima Guerra Mondiale, non siamo in quelle condizioni, spero, ma certamente non possiamo trascurare lo stato sociale in favore di un’economia che ci sta schiacciando e se oggi togliamo ai poveri l’unico strumento di lotta che possiedono, stiamo facendo male non solo a noi stessi ma anche ai nostri figli, condannandoli ad una vita futura di schiavitù sociale, come quella prevista con un realismo sorprendente da Orwell nel 1948.

La stampa dovrebbe informare correttamente e se non lo fa possiamo difenderci solo cercando altre notizie e verificarne le fonti, costa fatica, ma è necessario: gli scioperi hanno portato progresso e benessere negli anni della crisi del dopoguerra, istituendo diritti dove non ve n’erano ed introducendo benefici sociali e welfare state, oggi il processo innescato è esattamente l’opposto, si comprime il diritto di sciopero per poter mantenere i tagli ai diritti ed allo stato sociale.

Non cadiamo in questa trappola, non lasciamoci influenzare da poteri economici che non considerano più la dignità e le persone, diamo forza al diritto di sciopero e diamo solidarietà a chi, in tempi di crisi e precarietà, rinuncia ad una parte del già sempre più magro salario e rischia il posto di lavoro per poter sopravvivere ancora e dare un futuro ai propri figli.

“Ribaltiamo il tavolo”, “riprendiamoci tutto”, erano i temi dei due ultimi congressi del criticato sindacato USB passati in totale silenzio stampa, ma sono, purtroppo, parole d’ordine sempre più attuali e necessarie.

SALARIO MINIMO IN SVIZZERA CONTRO GLI IMPRENDITORI SENZA SCRUPOLI

DI PIERLUIGI PENNATI

Imprenditoria senza scrupoli e continua compressione dei salari che rende difficile e poco dignitosa la vita ai lavoratori ed alle loro famiglie, sembra di parlare della nostra nazione, invece siamo in Svizzera dove per combattere la situazione di “dumping salariale” i cittadini hanno deciso di affidarsi alla legge e fissare un salario minimo.

Il problema esiste in tutte le nazioni: si tratta della soglia di reddito al di sotto della quale non si riesce a vivere dignitosamente o, addirittura, si può essere considerati poveri.

Per risolvere il problema, normalmente, non si fa nulla, la soglia di povertà ed il valore del lavoro sono quasi sempre semplici dati statistici, se non guadagni abbastanza sei in una o nell’altra fascia, in Svizzera, invece, per combattere la svalutazione del mercato del lavoro umano si sono posti il problema per tempo ed i Verdi, con un’iniziativa appoggiata dai Socialisti e dalla Lega, nel 2015 hanno ottenuto il 54% dei consensi dell’elettorato ticinese in un referendum popolare da loro promosso ed ora il governo si è mosso di conseguenza.

L’obiettivo dichiarato dai promotori era “salvare il lavoro in Ticino e lottare contro il dumping salariale” e per questo avevano lanciato il referendum propositivo, impossibile in Italia dove le leggi le fa solo il Parlamento e con i referendum si possono solo abrogare norme esistenti, immediatamente capito dalla popolazione e vinto con un margine positivo ritenuto ampiamente soddisfacente.

Il leader dei Verdi, Sergio Savoia, aveva esultato affermando “Per la prima volta inseriamo, nella Costituzione, il diritto al salario dignitoso”, raggiungendo lo scopo sociale di porre un limite minimo al mercato del lavoro ticinese nei settori in cui mancano i contratti collettivi o questi non sono applicati.

Il fenomeno originava dalla disponibilità di mano d’opera, frontalieri italiani per lo più, approfittando della quale imprenditori con meno scrupoli proponevano salari inaccettabili, per il costo della vita dei residenti, tra questi un caso limite portato in campagna referendaria quello di un’azienda di trasporti di Stabio, cittadina sul confine con la nostra nazione, che pagava gli autisti frontalieri be 500 euro in meno di quelli residenti in Svizzera.

Forse, da noi si sarebbe accolto il fenomeno come concorrenza che fa bene al mercato, in Svizzera, invece, si sono chiesti come le persone possano sopravvivere dignitosamente con salari inadeguati e sono corsi ai ripari, così oggi è stato stabilito dal governo ticinese che per una vita dignitosa pagando le tasse, in Svizzera occorre possedere un salario minimo di poco superiore ai 19 franchi all’ora, che su base mensile fanno all’incirca 3.000 euro.

In effetti il problema è molto serio, il continuo accettare salari sempre più bassi, da parte di lavoratori in competizione per la propria sopravvivenza, ha già portato molte famiglie in Italia sotto la cosiddetta “soglia di povertà”, rendendo quasi impossibile mantenersi con una sola entrata e sempre più spesso nemmeno lavorando in due.

Il salario minimo diventa quindi un parametro di civiltà, che rende inaccettabile per uno stato tollerare offerte di lavoro a valori inferiori alla soglia che trasforma il lavoro in sfruttamento.

In Ticino, però, anche il salario minimo per legge scontenta comunque molte categorie, dato che la contrattazione collettiva già si attesta intorno ai valori oggi fissati per legge ed in quella nazione 3000 franchi non sono poi così tanti per vivere, con il risultato di non spostare di molto il problema nell’immediato, in Italia, invece, la discesa dei salari ha già superato in molti settori la soglia minima di dignità, incentivando datori di lavoro con sempre meno scrupoli ad assumere a personale a prezzi sempre più bassi e costringendo i nostri figli ad emigrare in nazioni dove il lavoro garantisce ancora una propria vita dignitosa.

Secondo i rappresentanti del mondo economico svizzero, il salario minimo riguarderà solo 9100 persone, di cui 6500 frontalieri, mentre metterà in difficoltà “aziende, commerci, piccole attività artigianali che hanno margini di guadagno sensibilmente inferiori e che sono sottoposte a forte competitività”, Verdi e Socialisti, promotori dell’iniziativa, ritengono invece che la cifra decisa dell’esecutivo sia ancora troppo bassa sottolineando che il Ticino è “il Cantone con il più alto tasso di povertà della Svizzera”.

Il salario minimo sarebbe quindi un baluardo contro la povertà che forse, se istituito anche da noi, potrebbe evitare il costoso ed improduttivo “reddito di cittadinanza”, chiesto dai cinque stelle, e gli altri fino ad ora infruttuosi provvedimenti per contrastare povertà e disoccupazione, riavviando e riqualificando quello che ormai sembra somigliare sempre più ad un mercato degli schiavi che al quello del lavoro.

IL SINDACALISTA È UN CRIMINALE DA ARRESTARE

DI PIERLUIGI PENNATI

Perlomeno questa sembra la tesi che ha portato l’azienda GLS di Piacenza a denunciare tre sindacalisti del sindacato di base USB per i reati di cui agli artt. 56, 110, 629 del Codice Penale, vale a dire tentativo di estorsione in concorso tra di loro, come si legge nell’invito ad apparire per un interrogatorio della Procura delle Repubblica, “al fine di conseguire un ingiusto profitto patrimoniale, quali rappresentanti della sigla sindacale USB, nonostante fossero in corso trattative con funzionari della società General Logistic System Entrerprise S.r.l. aventi oggetto richieste di assunzione di personale precedentemente dipendente della Cooperativa Falco, mettevano in atto azioni di sciopero incidenti sulla regolare attività lavorativa non riuscendo comunque nel loro intento per la resistenza della società”.

L’azienda ed il luogo sono gli stessi dove un anno fa veniva ucciso, schiacciato da un TIR, durante un picchetto l’attivista sindacale Abd El Salam, la vertenza ancora una volta per la stabilizzazione di lavoratori precari che attraverso il sistema dei subappalti vengono vessati, sfruttati e sottopagati per contenere i costi senza la minima considerazione per la sicurezza e la dignità dei lavoratori, costretti ad accettare condizioni sempre più difficili per poter continuare a lavorare.

Una vertenza come ormai ce ne sono tante in Italia e tutte con le stesse ragioni di fondo: la lotta alla precarietà ed alla negazione dei diritti della persona sul posto di lavoro, situazione ormai diventata insopportabile in molti ambienti, soprattutto quelli della logistica e dei lavori dove la componente umana è la parte principale, come quelli di fatica e manutenzione.

Per contrastare la situazione e sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema della dignità e dei diritti del  lavoro negati, il sindacato USB ha proclamato da tempo uno sciopero generale per venerdì 10 novembre ed una manifestazione nazionale per sabato 11 novembre, ma questo atto di denuncia di un’azienda nei confronti di sindacalisti scesi in campo non per interesse personale, ma per difendere i diritti degli iscritti è davvero sconcertante ed inaudito.

In una nazione moderna e civile, un simile atto dovrebbe essere deriso ed abbandonato tramite archiviazione, al contrario una magistratura sempre zelante in queste occasioni prende molto sul serio una denuncia di estorsione per aver organizzato uno sciopero ed un picchetto che avrebbero inciso “sulla regolare attività lavorativa” dell’azienda, elemento che pare oggi più importante e considerato persino della vita umana.

Contro l’azienda che vessa e sfrutta i lavoratori nulla.

Già, nulla si può fare legalmente contro chi, per il profitto, comprime diritti e libertà delle persone abusando dello stato di necessità ormai generale, mentre, al contrario, chi tenta di difendere i diritti negati della persona e del lavoro è oggi diventato un criminale da perseguire.

I tre sindacalisti, M.R., R.Z. e I.A., saranno quindi sentiti il 15 novembre da un magistrato che spero voglia non solo archiviare il procedimento nei confronti dei funzionari, ma avviare una procedura di verifica per il comportamento di una azienda che, facendo perdere tempo e denaro all’apparato dello stato, denuncia senza ragione e fondamento apparente tre persone la cui grave colpa è solo quella di cercare di ripristinare un equilibrio di civiltà nel nostro paese.

Se lo sciopero non incidesse “sulla regolare attività lavorativa” delle aziende non sarebbe uno sciopero e se oggi scioperare non è più nemmeno un diritto, come indicato nell’articolo 40 della nostra costituzione, perché “le leggi che lo regolamentano” sono diventate così restrittive da impedirne l’esercizio, dovremmo almeno combattere affinché perlomeno non diventi un reato, come sembra essere nelle intenzioni della GLS di Piacenza ed al vaglio delle indagini dei magistrati.

Forza M.R., R.Z. e I.A., una vostra incriminazione sarebbe davvero uno scandalo e spero sarete scagionati in fretta: confido nella giustizia quando sa essere umana, di una giustizia disumana non so che farmene.

FRATELLI D’ITALIA IN AFFITTO A 13 EURO AL MESE

DI PIERLUIGI PENNATI

«La concessione è scaduta dal 1972, non pagavano l’affitto», questo quanto annunciato su Facebook da Virginia Raggi dopo che, qualche ora prima, verso le 5 del mattino di sabato scorso, i vigili urbani avevano cambiato la serratura e messo i sigilli alla storica sede del Movimento sociale di Colle Oppio.

Il locale, secondo il comune occupato oggi abusivamente da Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, sarebbe angusto e poco più di un magazzino senza finestre, più un luogo simbolico per il movimento che una vera sede e per il quale, nonostante il contratto scaduto da 45 anni, veniva comunque autonomamente versato nelle casse comunali un canone mensile di 13 euro al mese.

In una corrispondenza di qualche tempo fa con il comune di Roma, si stimava in 990 euro la cifra idonea per la sottoscrizione di un nuovo contratto, ma Fratelli d’Italia, facendo notare la situazione di degrado dell’immobile, l’aveva contestata proponendo al suo posto un massimo di 250 euro.

I dirigenti di Fratelli d’Italia Federico Mollicone, Marco Marsilio, Andrea De Priamo e Massimo Milani, che si erano riuniti in protesta davanti alla storica sede del Movimento Sociale dopo la scoperta dei sigilli, hanno esibito i bollettini dei canoni versati e lamentato la mancata risposta del Comune, per loro non sarebbe un caso se la Raggi «tra tutte le occupazioni presenti a Roma, proprio qualche giorno prima delle elezioni di Ostia, dove la sua candidata sta perdendo, manda i vigili urbani nella sede di Fratelli d’Italia. Avrebbe potuto farlo tre mesi prima o tre mesi dopo, invece ha scelto il periodo elettorale».

«Denunciamo Virginia Raggi per diffamazione e abuso di ufficio. Se abbiamo resistito alle bombe e alle Brigate rosse, resisteremo anche a questi cialtroni», hanno affermato, ma, su Facebook, Rosalba Castiglione, assessore al Bilancio M5S, difende il provvedimento: «Siamo determinati ad andare avanti per porre fine allo scempio gestionale di cui il patrimonio immobiliare romano è stato vittima. Una situazione incancrenita che, come questo caso testimonia, affonda le sue radici anche in  tempi altro che recenti. La strada è lunga, ma siamo decisi ad andare fino in fondo per ridare dignità e trasparenza all’utilizzo della proprietà pubblica dei cittadini romani».

Anche Giorgia Meloni usa Facebook per rispondere e pensando ad una manovra di propaganda della sindaca di Roma, scrive: «Chi, a differenza di Virginia Raggi, conosce Roma e il parco del Colle Oppio sa bene che quei locali sono dei semplici ruderi, senza alcuna possibilità di utilizzo a uso commerciale o abitativo e che la presenza della sezione è l’unico argine a un desolante degrado fatto di sporcizia, violenza e criminalità che affligge tutta la zona. Problemi seri e reali come quelli che vive gran parte di Roma e che il Movimento 5 Stelle non è in grado di affrontare».

Anche Fabio Rampelli, capogruppo FdI alla Camera, scende in campo, affermando che questa particolare sede avrebbe una valenza storica cittadina e non solo per la destra, dato che proprio qui si svolse una importante iniziativa anti razzista alla quale partecipò anche monsignor Di Liegro e che a questi luoghi sono legati alcuni dei giovani di destra uccisi negli anni di piombo, come Paolo Di Nella e Stefano Recchioni.

Contro la Raggi parole durissime: «ora gli uomini liberi scendano in campo per fermare il sindaco più cialtrone che abbia mai avuto Roma. Colpire la sede simbolo della destra italiana, a quattro giorni dal voto, è un atto di violenza inqualificabile che meriterebbe l’interdizione per incapacità e malafede. Nessuno lo avrebbe mai fatto, segno evidente che sta alla canna del gas».

Quindi per il comune FdI occuperebbe praticamente in modo clandestino la storica sede da ben 45 anni, mentre per Federico Mollicone, presidente del circolo di FdI-AN Istria e Dalmazia di Colle Oppio, «La sindaca Raggi non sa neppure comunicare con i suoi uffici. La morosità per la locazione dei locali di via Terme di Traiano, una sede strappata all’incuria da un manipolo di esuli giuliano dalmati nel 1946 quando era solo un rudere e sempre rimasta una bandiera per tutta la destra italiana, non esiste e siamo anzi nella fase di sottoscrizione di un nuovo contratto, come richiesto ufficialmente con lettera senza risposta mesi fa».

«Si colpisce la storica sede di Colle oppio», continua, «luogo di aggregazione sociale e culturale che ha visto la presenza di tanti avversari rispettosi e personalità di altissimo profilo, su tutti il compianto direttore della Caritas Monsignor Lui Di Liegro, per colpire FDI AN e Giorgia Meloni, facendo un uso vergognoso e delinquenziale del potere. Si tollerano centinaia di occupazioni illegali da parte dei centri sociali, centinaia di moschee abusive e si colpisce Colle Oppio, la prima sede del MSI in Italia».

Una guerra senza esclusione di colpi, tra clandestini o pseudo tali, dove ad ogni provvedimento si trova una ragione per combattere senza per questo trovare soluzioni comuni e condivise e che valgano per tutti, se non volgiamo avere clandestini è nostro dovere uscire a nostra volta dalla clandestinità, è quindi auspicabile che la vicenda possa concludersi con un provvedimento generale e non con una soluzione “Ad hoc” come spesso accade.

IL TRENO (DEL) BOMBA

DI PIERLUIGI PENNATI

C’è un treno che circola da qualche giorno con “Destinazione Italia”, si tratta di un treno a bordo del quale Matteo Renzi, detto da giovanissimo il Bomba, ha pianificato un giro d’Italia per sostenere la sua campagna elettorale.

Dopo pullman, roulotte, motorini ed altri mezzi, cosa ci sarà mai di strano nell’usare un treno?

Nulla, la stranezza risiede nel fatto che si tratti di un treno fantasma, o quasi, infatti nessun organo di stampa ufficiale o sovvenzionato dallo stato ne parla, se non liquidando la cosa con frasi di repertorio, le “grandi” ed affidabili testate si limitano ad informazioni su come è dipinto il treno e la data di partenza da Roma, il 17 ottobre, nessun programma, nessuna data di arrivo e località toccate, nessuna informazione precisa, nulla.

Solo ANSA, in modo davvero ardito, parlando della tappa di Reggio Calabria del 24 ottobre, si spinge ad un “Fuori dalla stazione c’erano ad attenderlo sostenitori, ma anche un gruppetto di contestatori di Fratelli d’Italia e vigili del fuoco precari”.

Sono invece i blog personali e la piccola stampa indipendente che riportano numerosi video e notizie di contestazioni accese, Imola Oggi, sulla stessa notizia di ANSA titola: “Matteo Renzi in fuga dalla stazione di Reggio Calabria. Non ha salutato neanche gli amici del Pd che lo stavano aspettando”; YouReporter, il giornale fatto dagli utenti, mostra video con insulti e risse all’arrivo del convoglio sia a Reggio che in altre stazioni, persone apparentemente normali, non gruppi organizzati, cittadini sparsi che accorrono alla stazione solo per poter insultare Renzi al suo arrivo in treno.

Anche Libero non è tenero e titola “Matteo Renzi, Destinazione Italia: a ogni tappa del suo tour in treno piovono insulti”, nell’articolo si sostiene che sia stata una “Pessima scelta, quella del tour su rotaia. Già, perché come detto, ogni volta che mette piede giù dal convoglio si scatena una gazzarra disumana: l’ex premier, non lo vuole nessuno.”

Ma questa è solo la realtà della cronaca, in verità non si tratta solo della scelta del mezzo, il treno, si tratta di troppe promesse già non mantenute e di troppi provvedimenti assunti dal governo in antitesi con quella “giustizia sociale” proprio dallo stesso Renzi invocata durante le primarie del suo partito e poi dimenticata in fretta una volta preso il potere.

Il Fatto Quotidiano, più accanito, scopre persino che nessuno sa bene dove il treno andrà e si fermerà: “Pd, il treno di Renzi viaggia in incognito: per evitare proteste e insulti a ogni fermata si cancellano programma e date”, “insulti e proteste nelle stazioni lo staff cambia programma e decide di non divulgare più le tappe, sottraendo il segretario alle imboscate di chi non gradisce la sua passerella lungo i binari. Neppure l’organizzazione del Pd sa dove e quando ferma il treno. E passa la palla alle Fs, che a sua volta la ripassano al partito”.

Un flop enorme, dettato dalle politiche del primo governo Renzi e del secondo Gentiloni che, fingendo indipendenza, cerca di limitare i danni fatti fino ad ora e lavare la faccia di un partito che, dopo la colonizzazione di chi è stato “educato alla passione per la politica nel nome di Zaccagnini”, ex Deputato Costituente e segretario DC, e la fuoriuscita degli esponenti storici del partito quando era ancora di sinistra, nella sua sigla ha ancora PD, ma più che Partito Democratico sembra indicare Poltrone e Divani, quelle poltrone e divani che nonostante il sempre più ampio dissenso si vorrebbero ora mantenere superando le prossime elezioni.

Ma che sia con il Rosatellum od un’altra legge elettorale, andremo finalmente al voto, un giorno, ed in quel momento il voto utile degli italiani sarà il voto espresso.

L’astensionismo degli ultimi decenni ha portato all’attuale situazione, quindi se davvero in Italia vogliamo cambiare facciamo una cosa utile, andiamo tutti a votare.

Qualunque esso sia è solo con un voto ampio e partecipato che si potranno stabilire di nuovo delle vere maggioranze in grado di cambiare in meglio il nostro paese: l’astensione è amica dei regimi totalitari, la partecipazione della democrazia e della libertà.

VOGLIO UN’ITALIA SOLA

DI PIERLUIGI PENNATI

Subisco passivamente un fiume di idiozie sui referendum della lega, possibile che esistano così tanti disinformati?

Luoghi comuni, battute, sciocchezze di ogni genere, nessuno che ammetta che per una volta la Lega, che non avrà comunque il mio voto, è riuscita a puntare il dito esattamente e legalmente sul problema.

Persino l’Europa lo ha scritto nel rapporto sull’Italia approvato settimana scorsa: alla nostra nazione servono più autonomie.

Ma già, “lo chiede l’Europa” vale solo quando fa comodo…

Comunque il problema lo conoscono tutti e tutti lo lamentano, dove finiscono i nostri soldi?

Gestioni più oculate permetterebbero maggior controllo, le autonomie, previste dalla nostra costituzione, sono un metodo, se ne esistono altri fatevi avanti, io sono per l’abolizione di tutte le autonomie o per l’istituzione di tutte quelle mancanti, perche la Sicilia si e la Lombardia no?

Siamo tutti italiani, voglio un’Italia sola e non tante italiette, uno stato, una legge.

IN ITALIA NON SI MUORE ABBASTANZA

DI PIERLUIGI PENNATI

Questa la frase attribuita al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e poi da lui smentita: “Gli italiani muoiono troppo tardi e ciò incide negativamente sui conti dell’Inps”.

La battuta sarebbe stata infelice e per molti verosimile, dato che mostra un ministro insensibile e cinico come sembrano essere gli amministratori negli ultimi tempi, ma la realtà è, se possibile, ancora più dura, infatti l’amministratore pubblico che fa quadrare i conti in modo coerente oggi è visto come colui che non tiene più conto di altri fattori, persino la vita umana.

È per questo che non ci stupiamo, la matematica non è un’opinione e non ammette errori, i numeri sono da sempre asettici e fini a se stessi, un ministro che dicesse questo, quindi non commetterebbe nessun errore e nessuna caduta di stile: avrebbe solo evidenziato quale sia il posto reale riservato alla vita ed alla dignità umana dal sistema economico dal mero punto di vista matematico, cioè nessuno.

Reduci dal conflitto mondiale e dal fascismo i padri della nostra patria hanno scritto un documento, la nostra Costituzione, che conteneva i principi fondamentali per la vita e la dignità delle persone nella nostra repubblica, diritti del singolo e doveri reciproci, tutti valori imprescindibili, tra questi i più importanti ed articolati nel testo sono forse il diritto al lavoro (artt. 4, 35, 36, 37, 38, 39 e 40), alla famiglia (artt. 29, 30 e 31), alla salute (art. 32, all’istruzione ed alle arti (art. 9, 33 e 34), all’informazione (art. 21) e, nel senso più generale, alla pari dignità sociale (art. 3).

Tutti diritti che, attraverso leggi che considerano solo i numeri, possono essere definiti oggi come ampiamente negati o difficili da conseguire, basti pensare ai provvedimenti che li riguardano, il “Jobs Act”, la “buona scuola” e le continue riforme sanitarie che privilegiano i manager ed aumentano i costi per i singoli, riducendo per tutti questi argomenti le possibilità di accesso ai servizi dei cittadini.

Tutto è “privato”, vale a dire demandato alla libera imprenditoria personale, con la conseguenza che tutto diventa “privato”, vale a dire assente.

Rispetto al 1970 il cittadino di oggi è privato di molti dei diritti e dei servizi che possedeva, tra questi un libero accesso alle cure, le analisi e le terapie costano ed i tempi per ottenerle sono spesso biblici, con l’effetto che moltissimi rinunciano, il “posto fisso”, sogno di quegli anni è oggi diventato un’utopia, il Jobs Act, con le sue “tutele crescenti” che non crescono mai, ha reso la sopravvivenza dei singoli e delle famiglie precaria, l’istruzione è resa più complicata da una “buona scuola” che non tiene in adeguato conto le necessità di alunni ed insegnati e le pensioni sono oggi minate persino dall’incremento della salute generale che, nonostante tutto, migliora.

Dovrebbe essere ovvio, per ogni servizio erogato vi sono sempre almeno tre elementi in concorrenza tra loro: la richiesta, i costi e la capacità di erogazione, lo squilibrio tra di essi genera vuoti di lavoro o, al contrario, paralisi e per questa ragione i tre valori dovrebbero essere in grado di modificarsi nel tempo per potersi adattare l’uno all’altro.

Negli ultimi venti anni, invece, per ragioni di bilancio ed indipendentemente dagli altri due fattori, vengono continuamente ridotti i budget, ragione per cui dopo grandi riduzioni e tagli ai settori a parità o persino aumento della richiesta, per evitare le paralisi, si deve oggi eliminare quest’ultima.

Proprio questa sembra essere la filosofia che chi ha travisato le parole del ministro dell’Economia vuole far apparire e proprio questa sembra essere la modalità realmente adottata in tutti i settori dello Stato per risolvere i suoi problemi gestionali: eliminare la clientela eliminandone così i relativi costi.

Ecco che se i tribunali sono pieni si fa in modo che qualche reato non lo sia più e che l’accesso alla giustizia sia più difficoltoso, aumentandone i costi preventivi e complicandone le modalità di attivazione.

Se la sanità non ce la fa più si impongono ticket sempre più costosi, fino all’assurdo che alcuni medicinali, gli antibiotici per esempio, ed alcune prestazioni, le piccole radiografie, spesso costano meno a pagamento che di ticket SSN e le visite specialistiche, a parità di costi, si fanno “privatamente”, alleggerendo il Servizio Sanitario Nazionale ed impedendo alla fine a molti di potersi curare.

Infine, se i numeri dell’occupazione non aumentano si creano i posti precari, così ogni anno si avranno migliaia di nuovi posti di lavoro da sbandierare, ma con l’effetto di avere complessivamente meno occupati e con loro minori diritti dei lavoratori, contribuzione sociale e dignità della persona.

La conclusione di un bilancio puramente matematico della vita di uno stato, il nostro, evidenza che qualche volta persino vivere diventa una colpa: l’essere umano, per la società dei numeri bancari, non è un valore, ma un elemento da sfruttare a piacimento per incrementare il profitto in una corsa senza obiettivi, perché l’aumento del profitto non ha un tetto, ma tende sempre al rialzo a discapito degli altri fattori in gioco.

La direzione presa è certamente pericolosa, quando si raggiungerà il limite e si dovrà dire stop all’incremento del profitto per poter rispettare i diritti ed i valori fondamentali dell’uomo?

Personalmente credo che questo limite sia stato già raggiunto e, per quella che è la mia formazione, ampiamente superato, facendomi ritenere che per proseguire si dovrebbe tornare indietro, almeno un po’, rimettendo i valori umani, perlomeno quelli scritti nella nostra costituzione, prima di tutto il resto.

Un giorno, forse, le banche saranno ricchissime, ma non esisteranno più i risparmiatori: progresso e civiltà non sono solo un aumento di indici economici, progresso e civiltà sono soprattutto il rispetto per le persone, la capacità di convivenza, mutuo aiuto e collaborazione, la rincorsa del mero profitto, invece, prima o poi ucciderà l’umanità, intesa come popolazione, dato che quella intesa come sentimento sembra essere già più che agonizzante.

In tristitia hilaris, in hilaritate tristis, grazie Giordano Bruno per avercelo fatto notare, quelle che sembrano battute divertenti o scandalose nascondono spesso una grande tristezza che ci da modo di capire quale potrebbe essere il nostro destino se non cambieremo direzione ricominciando dall’uomo e non più dal denaro.

RITORNANO LE PROVINCE, CE LO CHIEDE L’EUROPA

DI PIERLUIGI PENNATI

È il Congresso dei poteri locali e regionali del Consiglio d’Europa a dirlo e lo fa tramite alcune raccomandazione contenute nel rapporto di monitoraggio che ha messo ai voti nella sessione plenaria dei lavori, secondo gli esperti dell’unione l’Italia deve “rivedere la politica di progressiva riduzione e di abolizione delle province, ristabilendone le competenze, e dotandole delle risorse finanziarie necessarie per l’esercizio delle loro responsabilità”.

Stop all’abolizione delle province, quindi, ma non solo, sempre nella relazione si dice che è necessario “rafforzare autonomia di bilancio delle Regioni” e persino che debba essere ristabilita “l’elezione diretta per gli organi di governo delle province e delle città metropolitane”, oltre che “fissare un sistema di retribuzione ragionevole e adeguata dei loro amministratori”.

Insomma l’Europa ci dice non solo cosa fare, ma anche che tutto quello che abbiamo fatto è sbagliato e si deve tornare indietro.

“Ce lo chiede l’Europa” è stato il motto che ha portato ad approvazione di leggi, ma anche a modifiche costituzionali, introducendo il pareggio di bilancio, per esempio, ed a desso cosa succederà?

Ascolteremo questa volta il consiglio oppure l’Europa è uno strumento utile solo quando fa comodo a qualche governo?

Il Congresso ha effettuato visite ispettive nella nostra nazione, delle quali l’ultima si è tenuta lo scorso marzo, realizzando una sezioni di osservazioni e raccomandazioni che chiedono un pieno ripristino delle province “il cui futuro, dopo la bocciatura del referendum sulla riforma costituzionale lo scorso dicembre, è incerto”.

Nella relazione, ampia ed articolata, si fa riferimento all’intera vita economica ed amministrativa di provincie e regioni italiane entrando nel dettaglio persino dei sistemi di governo, delle procedure interne e nelle relazioni tra gli enti, arrivando a chiedere che venga introdotta “la possibilità di votare una mozione di revoca o di censura all’interno dei consigli provinciali e metropolitani nei confronti dei loro presidenti o sindaci, per rafforzarne la responsabilità politica”.

Per le regioni, invece,  andrebbero riviste “le norme e i principi finanziari di quelle a statuto ordinario, per rafforzare la loro autonomia di bilancio e aumentare l’aliquota delle loro entrate proprie” riformando nel contempo il sistema perequativo al fine di compensare i divari tra le risorse finanziarie a disposizione delle differenti Regioni, che il Congresso ritiene “inefficace”.

Insomma, più che un rapporto un vero e proprio manuale da applicare al nostro sistema amministrativo generosamente fornito dall’Europa per risolvere i nostri conflitti interni ed i nostri problemi, vedremo ora come reagirà chi da sempre professa il “ce lo chiede l’Europa”.

SE NON CAPISCO LE DONNE

DI PIERLUIGI PENNATI

Dedicato a chi dice che non capisco cosa significa essere donna e dover subire delle “violenze”.

Moltissimi anni fa ero molto giovane, avevo 19 anni, ed avevo conosciuto una ragazza davvero molto bella, bionda (tinta) alta e formosa, ero invidiato da tutti gli amici.

Un giorno mi chiede di accompagnarla da un produttore a Lugano, a lei piaceva cantare e questo “signore” aveva una casa discografica.

Arriviamo sul posto e saliamo nell’appartamento dove aveva l’ufficio, entriamo insieme, chiacchieriamo di progetti canori e copertine per una decina di minuti e poi lui chiede alla mia amichetta di seguirlo nella saletta di registrazione adiacente per registrare un breve provino da mandare ai tecnici del suono.

Spariscono dietro una porta e resto solo nell’ufficio.

Nessun suono dall’altra parte della porta, solo un tenue sottofondo musicale che poteva anche provenire da altrove.

Passano dieci minuti e comincio a spazientirmi, così esploro l’appartamento: grandi vetrate sul lago, quadri sparsi, qualche copertina di dischi alle pareti, una grande teca di vetro in un angolo contenete della sabbia rossastra sulla quale era evidente un grande segno a forma di otto: una mostruosa tarantola giaceva in un angolo… insomma stranezze senza un filo logico, in fondo è un produttore, sarà stato eccentrico.

Dopo quasi un’ora la porta si anima e rientrano, lei sembra accaldata ed ha la cintura, che portava sopra i jeans attillati, allacciata al contrario, lo ricordo bene, perché era molto particolare, come si usava ai tempi, e la fibbia era capovolta.

Cosa hanno fatto in quel tempo?

Non so, ma eravamo entrambi maggiorenni ed indipendenti.

Passano alcuni giorni e lei mi parla di amiche che per lanciarsi nello spettacolo fanno orgie, vere e brave artiste, costrette a competere in quel modo per accaparrarsi l’attenzione del personaggio più influente, qualcuna, addirittura, fuma hashish od assume altro durante gli incontri.

Non so di più, sparì un pomeriggio dopo solo 15 giorni che ci si conosceva: andai a prenderla a casa e la sua coinquilina mi disse che era andata a prendere il sole nella villa di un amico che aveva una bella piscina…

Non la cercai più, anche lei non lo fece e l’amica, incontrata ancora una volta per caso, mi disse che stava pensando alla sua carriera e che certamente  avrei capito, dato che noi uomini siamo tutti maiali allo stesso modo.

Ho capito, ma non siamo tutti maiali allo stesso modo, pensai che fosse una reazione ad averle resistito quando ancora mi accompagnavo all’amica, ma forse mi sopravvalutavo ed oggi mi ricredo.

Qualche anno dopo fu la mia volta, conobbi un facoltoso personaggio, ricco e di buona famiglia, persino cavaliere dello SMOM, che poco alla volta si interessò a me sempre più, mi disse di essere gay e che il suo fidanzato non lo capiva, io si che ero comprensivo e, soprattutto, sprecato, con la mia intelligenza potevo ambire a molto meglio, lui mi avrebbe mostrato come.

Non lo vidi più dopo aver gentilmente declinato alcuni inviti nelle sue ville…

Oggi sbarco il lunario come tanti, sottoposto ad un capo affidabile, che dice sempre si, preferibile ad un assertivo come me, che dice spesso no, sia io che la mia amichetta non abbiamo fatto carriera e soldi, non so la mia amichetta, ma io sono contento della mia vita, tante fatiche, tante delusioni e poche soddisfazioni, ma le poche soddisfazioni valgono certamente molto più delle tante delusioni, perchè una cosa non mi è mai mancata: un profondo rispetto e stima per me stesso.

Non so se diventerò mai ricco e famoso, ma certo so che non lo diventerò rinunciando alla mia dignità ed indipendenza di essere umano: potete imprigionare il mio corpo, seviziarmi e torturarmi, potete costringermi a chiedere pietà, ma non avrete mai la mia libertà, non sarò mai disposto a diventare vostro schiavo.

Chi accetta compromessi per bruciare le tappe non si rispetta e stima, come può chiedere rispetto e stima agli altri?

Dai, ora fatemi nero con il maschilismo e l’insensibilità, che però non centrano nulla.

ALITALIA. 7 PLICHI CON RELATIVE PROPOSTE D’ACQUISTO ALL’ESAME DEI COMMISSARI STRAORDINARI

 

DI VIRGINIA MURRU

 

Il clima di fiducia è diverso rispetto al mese di giugno scorso, quando era stata aperta la data room per i soggetti che avevano presentato manifestazione d’interesse verso l’ex compagnia di bandiera italiana.

Alitalia è diventata un obiettivo un pò più allettante per le grandi compagnie aeree, Lufthansa compresa, che ha disdegnato a lungo la prospettiva di un eventuale acquisto, anche di alcuni asset.

Ora arrivano nelle mani dei Commissari straordinari 7 offerte, i plichi, che contengono proposte vincolanti per la compagnia italiana, sono stati portati allo studio notarile Atlante Cerasi di Roma, dopo la scadenza dei termini previsti.

Al vaglio, tra le altre, le proposte della britannica EasyJet e Lufthansa, non interessate alla rilevazione ‘in blocco’ di Alitalia, ma ad alcune ‘attività’. In quei 7 plichi ci potrebbe essere il futuro dei 12 mila dipendenti del vettore tricolore, ma proprio su questo versante saranno inevitabili tagli anche dolorosi in vista di un solido risanamento.

Com’è noto, Ryanair si è ritirata dalla gara circa un mese fa, quando è esplosa la crisi che ha indotto il vettore irlandese a sospendere migliaia di voli fino a marzo prossimo, e forse oltre. Il management ha infatti dichiarato alcune settimane fa, che “saranno eliminati dall’agenda tutti gli impegni che non riguardino l’emergenza in corso, e dunque anche l’interesse verso Alitalia; né saranno presentate ulteriori offerte sull’aviolinea.”

In altri versanti, secondo le dichiarazioni dei vertici di EasyJet, non vi sarebbero certezze circa un accordo o una reale transazione, la sua offerta, pertanto, è sospesa su alcune condizioni che influenzeranno le negoziazioni. Anche EasyJet è interessata all’acquisto di un lotto, o parti di attività, non a quello totale della compagnia

Offerta certamente interessante quella proposta dal colosso Lufhtansa, il cui importo si aggira sui 500 mln di euro, e riguarda l’aviation (il lotto che suscita più interesse), ossia il personale, con piloti e flight attendants, la flotta e gli slot.

La proposta Lufthansa prevede misure già temute circa personale di volo, che secondo i tedeschi dovrebbe essere dimezzato, in particolare quello di terra (l’handling), che presenta esuberi inconciliabili con il possibile futuro assetto della compagnia. Un’altra condizione riguarda la limitazione delle attività di corto e medio raggio. Il vettore tedesco chiede inoltre una più precisa definizione del ruolo dell’ex azionista di minoranza, Etihad. Dopo il ritiro di Ryanair, infatti, si prevede che l’asse Etihad-Lufthansa acquisti maggiore forza nelle trattative.

Le due compagnie hanno in mano progetti in comune (oltre ad Airberlin); arabi e tedeschi hanno lanciato quest’anno una partnership nell’ambito del catering, del valore di 100 mln di dollari, ma ambiscono anche a collaborazioni che interessano la riparazione, manutenzione e revisione degli aeromobili. Alitalia, dunque, non è il solo campo in cui si confrontano.

Condizioni da ‘pesce grande’ che intende dare qualche morso a quello più piccolo, ma sceglie le parti migliori, questo è del resto il pragmatismo e il rigore tedesco, sul quale, tuttavia, il governo sta riflettendo, o meglio, cercando di mettere le mani avanti: la mannaia sul taglio del personale è di un rigore inaccettabile. Per questo si sta tentando di rinviare gli accordi, presumibilmente ad aprile, dopo le elezioni politiche nel Paese.

Lufthansa non ha fretta, ma rende noto il fatto che la compagnia italiana, strutturata così com’è, non può essere accettata, e tanto meno un ‘handling’ (personale di terra) di 6 mila dipendenti, assolutamente da ridimensionare, secondo il diktat del vettore tedesco. Allo stesso tempo non s’intende rinunciare al bersaglio strategico che l’Italia rappresenta: “l’Italia è il secondo mercato più importante per noi, dopo gli Usa” – ha dichiarato di recente il Ceo del gruppo, Carsten Spohr, al Corriere della Sera.

Il gruppo Lufthansa, sempre in competizione con la compagnia low cost Ryanair – che detiene il 13% del mercato europeo, contro il loro, che è del 9% – sta facendo di tutto per surclassare il vettore irlandese, per esempio investendo qualche miliardo su Eurowings, divisione con costi ridotti.

Di recente ha rilevato Air Berlin, con la sua flotta e 3 mila dipendenti. Ma non è mai abbastanza per questo colosso dell’aviazione, e l’interesse nei confronti di Alitalia è certo, la loro presenza in Italia s’intende incrementarla, ma gli accordi sono vincolati a condizioni ben precise.

Intanto i plichi contenenti le proposte di acquisto vincolanti, sono state portate dal notaio Nicola Atlante, presso lo studio legale Gianni Origoni, Grippo, Cappelli & Partners, qui saranno prese in esame le offerte di acquisto. Già si sa che le proposte riguardano l’acquisto di ‘pezzi’ di attività di Alitalia, e questo è l’aspetto meno allettante. Di certo non esultano i dipendenti, e neanche i sindacati che li tutelano.

E tuttavia la prospettiva da scongiurare resta quella dei tagli all’occupazione: il personale rischia d’essere dimezzato.

Intanto, dei 600 milioni del cosiddetto ‘prestito ponte’ concesso dal governo, ne sono stati utilizzati una novantina. Gli ulteriori 300 mln, messi a disposizione sempre dal Governo Gentiloni, andranno in un Fondo garanzia, come ammortizzatore in caso di fallimento.
Insomma saranno mesi durissimi, quelli che aspettano Alitalia, l’incertezza fibrillerà fino ad aprile, quando il suo destino si delineerà con orizzonti più certi.

Per i tre Commissari straordinari, Luigi Gubitosi, Enrico Laghi e Stefano Paleari, si va al prossimo anno, con l’obiettivo di migliorare, nell’interesse della compagnia, l’offerta definitiva; in particolare si punta alla vendita con lotto unico, piuttosto che separare i due lotti ‘aviation’ e ‘handling’.

Verso giugno prossimo, si arriverà al ‘closing’, e si attenderà quindi il parere dell’Antitrust, prima di conoscere il reale destino dell’ex compagnia di bandiera italiana.

ABBANDONATO DALL’INPS L’AZIENDA GLI PAGA LO STIPENDIO

Succede a Cesenatico, lui compirà 22 anni tra un mese ed è malato gravemente, ricoverato in ospedale l’INPS considera finito il periodo di diritto alla malattia e gli taglia il sostentamento, ma per fortuna, questa volta, non solo i colleghi di lavoro, ma anche i titolari dell’azienda per cui lavorava si indignano e continuano a pagargli lo stipendio.

Ha scoperto di essere malato del Sarcoma di Ewing, una forma tumorale che si sviluppa prevalentemente a livello osseo, fin dall’età di 11 anni e nonostante le difficili e lunghe terapie è riuscito a diplomarsi ed ad essere assunto dall’azienda Siropack Italia S.r.l. di Cesenatico con la mansione di terminalista.

La Siropack conta circa 30 dipendenti ed all’epoca dell’assunzione non aveva l’obbligo di assumere persone disabili, i titolari, Rocco De Lucia e Barbara Burioli, però commentano: “Prima che sopraggiungesse l’obbligo di assumere una persona diversamente abile, non abbiamo avuto dubbi a puntare su di lui, nella convinzione che il lavoro potesse dargli un ulteriore stimolo per continuare a combattere la sua battaglia personale è un ragazzo infinitamente disponibile e positivo, per questo la sua presenza ha rappresentato, fin dal suo arrivo, un valore aggiunto per tutta l’azienda”.

In un tempo nel quale non solo le aziende, ma persino gli organi dello stato sociale voltano le spalle alle persone nel nome del profitto e del contenimento dei costi, trovare qualcuno che ancora crede nel valore umano non è solo commovente, ma apre una speranza per il futuro.

“La nostra azienda considera quanto subito dal giovane una profonda ingiustizia – continuano i titolari – Siamo rimasti commossi dalla sensibilità dei nostri circa 30 dipendenti, che si sono resi subito disponibili al pagamento di una colletta, ma abbiamo stabilito che sarà la proprietà a provvedere al suo sostentamento, là dove gli organi preposti alla tutela dei lavoratori hanno deciso di voltare le spalle a chi si trova nel bisogno”.

La vicenda ha avuto inizio nel marzo scorso, quando la malattia ha costretto il ragazzo a sottoporsi ad un intervento di rimozione di un polmone che lo ha costretto anche ad lunga e difficile convalescenza ancora in corso e, nonostante le necessità di degenza, l’Inps è intervenuta azzerando lo stipendio che Siropack versava regolarmente al proprio dipendente a partire dalla busta paga di settembre, considerando terminati i giorni di malattia concessi.

I titolari, dell’azienda, che collabora da ormai da due anni, sostenendo vari progetti di ricerca, con l’Istituto Oncologico Romagnolo che lo ha in cura, hanno subito ritenuto trattarsi di “un atto arbitrario e lesivo nei confronti di un ragazzo che sta combattendo contro un tumore e che, come tutti i suoi coetanei, nella quotidianità deve affrontare spese, anche importanti, e progettare il suo futuro”.

Anche il sindaco di Cesenatico, Matteo Gozzoli, avvertito della notizia, è subito intervenuto contattando i titolari della ditta per complimentarsi del “grande gesto che hanno compiuto insieme ai dipendenti dell’azienda” e promettendo che farà di tutto per sensibilizzare le istituzioni, “Porto il caso in Parlamento e Regione” ha detto, accogliendo l’appello lanciato dai suoi datori di lavoro: “Nei periodi in cui il suo stato di salute gli ha permesso di svolgere la propria mansione all’interno della nostra azienda,  si è dimostrato un lavoratore volenteroso, nonché un ragazzo umile e generoso, per questo non possiamo permettere che questa decisione renda ancor più difficile la sua situazione. Agiremo con tutti i mezzi a nostra disposizione per sostenerlo e dimostrargli la nostra vicinanza, ed allo stesso tempo sensibilizzare le autorità competenti affinché i lavoratori come lui possano essere trattati con maggiore umanità”.

Umanità, forse è questa quella che dovremmo recuperare, prima di leggi elettorali e bilanci dello stato.

SE FUORI C’É LA RIVOLUZIONE IO MI BEVO UN ROSATELLUM

Qualcuno prima o poi se ne dovrà accorgere, una guerra civile è già in atto dietro le quinte, anche se tenuta lontana dal grande pubblico e nell’indifferenza di chi ancora pensa al consumo senza considerare il proprio futuro.

I fatti parlano chiaro, per la seconda volta nella storia repubblicana è in atto una enorme crisi sindacale, segno di un disagio che non è più controllabile con mezzi tradizionali: la concertazione ed i provvedimenti tampone hanno fallito.

I sindacati tradizionali arretrano, i giornali hanno parlato ad inizio anno di 700 mila tessere perse dalla CGIL, che ha oltre la metà degli iscritti che non sono occupati, pensionati ed altro, in particolare la FIOM è in caduta libera nonostante sia  tradizionalmente il “sindacato dei lavoratori” per eccellenza, perdendo consenso ed iscritti con una crisi ed un’emorragia imponente a favore dei sindacati autonomi, USB in testa che da questa situazione trae il principale vantaggio crescendo esponenzialmente.

Resiste la CISL, sostanzialmente stabile nei numeri anche se in lieve calo con i delegati, forte anche della sua base nel pubblico impiego, mentre la UIL, nonostante le ristrutturazioni e gli accorpamenti dovuti ai cali di introiti, è persino in leggera crescita, con incrementi anche del 30% dei delegati nelle grandi industrie metalmeccaniche e sbilanciando i rapporti di forza che producono un panorama sindacale nuovo che dovrebbe far pensare molto attentamente a cosa sta succedendo nel nostro paese.

Gli esuberi, le svendite, i subappalti e le migrazioni industriali sono ormai dilaganti e sotto gli occhi di tutti: non esiste una località italiana dove non vi sia un’azienda che dichiara la crisi o che comunque licenzia e ridimensiona.

I contratti di solidarietà, le procedure di “accompagnamento” alla pensione e gli aiuti sociali non sono più sufficienti, anche perché la solidarietà si dà quando si ha disponibilità in eccesso, e non è più il caso, la pensione sta diventando un miraggio irraggiungibile per tutti e gli ammortizzatori sociali sono ormai stati estinti dalla riforma Fornero.

Cosa resta?

La disperazione: per questo sempre più gli scontenti si rivolgono al sindacalismo di base, fatto non di grandi strutture, uffici e funzionari, ma di persone che fanno parte dei lavoratori in sofferenza e che cercano di organizzare i propri colleghi attraverso il volontariato e sfruttando i pochi permessi a disposizione delle rappresentanze aziendali.

Nessuna grande struttura e pochi mezzi, solo persone che, facendo parte esse stesse dei lavoratori in crisi, comprendono meglio i problemi delle loro realtà e cercano di ottenere giustizia, solidarietà e rispetto per la loro dignità.

Questa situazione ha cambiato anche il modo di protestare e fare sindacato, non più riunioni ufficiali in tavoli cui non sono invitati, ma presidi e guerre tra poveri, come è successo il primo agosto a Linate  e Malpensa quando i lavoratori che perdevano il posto di lavoro hanno impedito spontaneamente le operazioni della cooperativa che aveva preso l’appalto e li stava sostituendo.

Mano d’opera con pochi diritti che veniva sostituita da mano d’opera senza diritti, nell’indifferenza di chi, privilegiato e spesso nelle stanze del potere, pensa che il mondo si possa cambiare comprimendo i diritti degli altri in favore dei propri.

Questo atteggiamento non è solo stato attuato dallo stato fascista e quindi contrario principi costituzionali repubblicani, ma persino autolesionista perché farà presto mancheranno le risorse per tutta la nazione, consegnandola a nuovi padroni totalitari.

Solo un anno fa, davanti ai cancelli della società di spedizioni GLS di Piacenza, un lavoratore moriva  sotto le ruote del camion di un “crumiro” durante un picchetto per impedire le attività aziendali di sfruttamento e vessazione dei lavoratori.

Meno di un mese fa un altro incidente scampato ed oggi, un po’ dappertutto, ci sono picchetti e presidi in difesa della sicurezza, della dignità e dei diritti che molto tempo fa i lavoratori ancora avevano e che sono ora trascurati in nome di un profitto che sta uccidendo la classe lavoratrice, in particolare quella più debole costituita dalla massa che compie lavori a supporto e/o preparazione delle attività più “nobili”.

Questa massa di lavoratori è oggi la più grande e meno considerata di tutte le categorie, è quella che traina il mercato del lavoro, ma anche quella che sta morendo in favore delle grandi multinazionali che negano diritti e libertà ed impiegano persone ricattandole con strumenti di legge, come il Jobs Act, che pur di lavorare finiscono per accettare condizioni di schiavitù e sudditanza di fatto ed uccidendo nel contempo la nostra economia.

Secondo i dati dell’Inps relativi al primo trimestre 2017, vi sono più occupati rispetto allo stesso periodo del 2016, ma calano i contratti a tempo indeterminato ed aumentano i licenziamenti, mentre vi è un vero e proprio boom di contratti che applicano il Jobs Act.

Secondo i dati del sindacato USB, le aziende licenziano per poi riassumere con le nuove formule legali: sgravi fiscali e precariato attirano i datori di lavoro che in questo modo ricattano i lavoratori comprimendone le retribuzioni ed aumentando le prestazioni gratuite “non dovute” di chi vede il proprio posto di lavoro minacciato.

Mentre nelle periferie dilaga non più il solo malcontento, ma addirittura la disperazione, mentre i lavoratori lottano tra loro per accaparrarsi le ultime briciole di sopravvivenza rinunciando ai propri diritti, mentre l’economia reale è ormai ridotta al lumicino in favore della grande ed imperscrutabile finanza virtuale, in parlamento il problema principale in Parlamento sembra essere la legge elettorale.

Serve una ripresa delle coscienze prima che dei lavori parlamentari, serve che chi governa, specie se di sinistra, recuperi i valori repubblicani più veri, quelli che ci hanno fatto scappare dal fascismo che affamava il popolo togliendogli risorse in modo davvero vicino a quello che vediamo oggi: comprimendo diritti e pensando di conoscere i bisogni del popolo meglio del popolo stesso.

Siamo andati così avanti che siamo tornati indietro, per proseguire potrebbe essere necessario arretrare un po’, almeno al tempo in cui i diritti rispettavano ancora la dignità della persona.

Qualsiasi sarà la legge elettorale, questa volta, serve invertire la tendenza, andare a votare in massa pensando al nostro futuro comune, l’alternativa al voto potrebbe essere solo un’altra guerra civile che sarebbe meglio evitare.

IL RIO DELLE AMAZON NELL’EUROPA DISUNITA

 

Si chiama Unione Europea, ma ognuno fa un po’ quello che gli pare, almeno fino ai confini faticosamente imposti dalla comunità di stati, confini quasi sempre economici, aiuti di stato, scambi commerciali e moneta unica, al punto che la fiscalità può essere in concorrenza, ma il debito di un paese non può essere compensato con quello degli altri, sbilanciando offerta e domanda all’interno del gruppo di stati associati.

Ieri ce ne siamo accorti con Ryanair, che pur avendo sede in uno stato membro dell’Unione sfugge ai controlli fiscali ed anche alle regole sull’occupazione di tutti gli altri stati membri, pagando tasse inferiori ed applicando contratti di lavoro che altrove all’interno della comunità sarebbero considerati illegali, oggi alla ribalta, invece, è Amazon che, come ha dichiarato la Commissaria UE alla Concorrenza, Margrethe Vestager, «Grazie ai vantaggi fiscali concessi dal Lussemburgo ad Amazon circa tre quarti degli utili di Amazon non sono tassati. In altri termini, Amazon ha potuto pagare 4 volte meno tasse rispetto alle altre società locali sottoposte alle stesse regole fiscali nazionali. È una pratica illegale rispetto alle regole Ue in materia di aiuti di Stato: gli Stati UE non possono accordare alle multinazionali dei vantaggi fiscali selettivi a cui le altre società non hanno accesso».

Circa 250 milioni di euro che Amazon deve pagare, anzi “restituire”, secondo l’Unione, al Lussemburgo per evitare che lo stato venga multato per concorrenza sleale.

Una situazione assurda in un sistema apparentemente mai stato veramente sotto controllo e che oggi sta cominciando ad evidenziare tutte le sue falle, su tutte l’evidente disomogeneità delle regole all’interno del gruppo di stati dove quattro libertà fondamentali sono garantite: la libera circolazione delle merci, delle persone, dei capitali e della prestazione dei servizi.

Come sia possibile garantire tutto ciò con regole differenti in ogni stato è davvero un mistero e le evidenze sembrano dare torto a chi pensa che l’Europa sia davvero Unita.

La cifra è certamente scandalosa, bisogna però chiedersi cosa nasconda il fatto che uno stato possa “rinunciare” a 250 milioni di euro in favore di un’azienda, dato che, escludendo che si tratti di un favore tra amici, qualche tornaconto questa rinuncia lo deve pur produrre e se questo tornaconto sono il resto delle tasse che in questo modo non sono pagate ad altri… allora abbiamo davvero un problema.

Il sistema di rinunciare a parte delle entrate pur di accaparrarsi il resto evidenzia una lotta fratricida in una comunità che dovrebbe essere di amici ed omogenea, una cosiddetta guerra tra poveri che certo non doveva essere lo spirito con cui fu pensata inizialmente la Comunità degli Stati d’Europa, ma che ha finito per diventare quasi una necessità di sopravvivenza in un ambiente dove lo stato “virtuoso” non aiuto lo stato “bisognoso”, ma lo costringe a rinunce ancor maggiori, come nel caso eclatante ed ormai sopito della Grecia, tuttora affamata dai debiti e lasciata sola ad affrontarli.

Così in questa Europa che ci permette di evitare di cambiare moneta in ben 19 stati differenti non ci consente di avere una vita armoniosa al suo interno, un solo prefisso telefonico, un solo sistema fiscale ed un solo unico governo capace di armonizzare, nella speranza di semplificarle, le norme comuni quotidiane.

Ieri Ryanair, oggi Amazon e domani chissà, forse Google o Facebook, ma il problema dell’unificazione delle norme e delle condizioni resta appeso: per ora lo scandalo è solo che il Lussemburgo, badate bene non l’incolpevole Amazon, è stata apparentemente sleale con i suoi confratelli.

LO SCIOPERO CHE NON C’È

 

Centinaia di voli cancellati, aeroporti in tilt, tangenziali bloccate e nessuno sciopero annunciato, come mai?

La ragione è che si è trattato dello sciopero generale dei trasporti proclamato dal sindacato di base USB e che, come per tutti gli scioperi dei sindacati di base che danno fastidio al governo, non è stato battuto dai quotidiani nazionali, quelli che sopravvivono con le sovvenzioni dello stato.

Alganews, senza sovvenzioni, totalizza quotidianamente un numero di lettori superiore a molti di essi, ma, ovviamente, se lo dice uno di questi le cose cambiano, diventa subito importante anche un pettegolezzo.

ANSA non batte la notizia se non per un trafiletto dovere di cronaca, altrimenti che agenzia stampa è?

Repubblica ed il Mattino comunicano che a Napoli la tangenziale è in tilt, sciopero locale?

La Nazione riporta disagi negli aeroporti di Firenze e Pisa, Milanotoday rischio per bus e tram.

Fine della cronaca di una giornata di normale disinformazione, nessun’altra testata ne è al corrente.

Eppure lo sciopero in Italia sottostà a moltissime regole e vincoli, al punto che scioperare è diventato difficilissimo: per prima cosa si deve dire ufficialmente alla controparte di essere arrabbiati per qualcosa ed esperire un primo obbligatorio tentativo di conciliazione, se questi non va bene, si deve ripetere l’incontro alla presenza della prefettura o del governo, a seconda se si tratta di un conflitto locale o nazionale, infine si può scioperare per sole 4 ore e poi per un massimo di 24 con preavvisi di almeno 13 giorni ed altrettanti tra uno sciopero e la proclamazione del successivo… quindi se si fanno i conti per bene sono almeno due mesi che lo sciopero di oggi era in preparazione, eppure nessuno sa nulla, nemmeno quei giornalisti tanto bene informati da sapere che in Oregon un gattino non riesce più a scendere da una pianta ed è stato salvato da un eroico anziano di passaggio…

Sarebbe facile dare la colpa ai social ipnotici od alla disattenzione generale alle cose serie, ma se oggi fa più sensazione un bebè che ride a crepapelle e non ci si scandalizza più per i soprusi sui lavoratori la colpa è solo nostra, che non sappiamo più reagire a nulla, pigri ed assuefatti al messaggio che ci propinano i governi che nessuno, oltre a loro, ci possa salvare, avviandoci verso un baratro inevitabile se non reagiremo in massa.

La rivoluzione di domani si può fare senza armi, sarà sufficiente tornare indietro di trent’anni, a quando le banche di affari erano separate dalle banche commerciali e quando i diritti dei cittadini e dei lavoratori erano garantiti e non negati attraverso norme aggiuntive e vessatorie.

Cancelliamo il Jobs Act, la legge Biagi e le varie riforme del lavoro, via libera alle tutele integrali e rispetto della persona prima che delle banche, forse produrremo meno PIL, ma saremo certamente più sereni e soprattutto via libera allo sciopero sotto tutte le sue forme: chi sciopera non si diverte, perde tempo e salario, mediamente tra 80 e 100 euro, non si spreca denaro se non si è davvero convinti che sia necessario, non è un giro sulla giostra od una gita fuori porta.

Oggi migliaia di lavoratori hanno scioperato con fatica e sofferenza, per farlo hanno dovuto costruire un percorso difficile che realizza l’assurdo che se lavori ti possono licenziare quasi senza preavviso e se vuoi scioperare devi dirlo in anticipo e poi andare comunque a lavorare e persino quando scioperi perché ti stanno licenziando ti vorrebbero obbligare a lavorare fino a quando non avrei più un lavoro… se non è assurdo tutto questo!

Ma la cosa più interessante è la motivazione con la quale USB ha proclamato uno sciopero generale nazionale ed altri due scioperi di sindacati di base sono già previsti per fine ottobre: si sciopera per rivendicare il diritto di sciopero!

È il caso di riflettere se non siamo davvero arrivati al capolinea, ormai non si rivendica più salario perché manca lavoro e stabilità, non si chiedono maggiori tutele perché mancano i diritti di base e si sciopera per poter continuare scioperare, cioè rivendicare l’unico strumento di lotta efficace dei lavoratori… assurdo.

Sullo sciopero si basano le civiltà industriali moderne, è stata approvata la legge 300/70, quelle forse più famosa in Italia, quella denominata “lo statuto dei lavoratori”; festeggiamo l’8 marzo, il primo maggio ed altre date che ci dovrebbero ricordare come siano stati in passato superati grandi soprusi attraverso questo strumento di lotta, mentre chi ancora oggi difende i diritti della base è costretto a rivendicarne il diritto ormai negato.

Lo sciopero di oggi è perfettamente riuscito nonostante il silenzio stampa, moltissimi dei lettori di Alga lo potranno riconoscere, muoversi oggi non è stato facile un po’ ovunque, e la disinformazione ha regnato sovrana: pochi articoli e su edizioni locali per scelte “imperscrutabili” dei grandi editori.

Quello che però è certo è non faremo alcun passo avanti se continueremo a mettere “mi piace” alla notizia del gattino dell’Oregon e non ci scandalizzeremo più per i nostri diritti negati: per ogni utente che oggi non si è potuto muovere c’è almeno un lavoratore oppresso, precario o licenziato, non “altri” soggetti invisibili, ma tanti noi stessi che attraverso la nostra indifferenza ci trascinano nel baratro con loro.

Oggi dare solidarietà a chi sciopera per il lavoro ed i diritti significa cercare di evitare che questi vengano sempre più negati e sempre più irreparabilmente anche a noi.

Pensiamoci.

ELEZIONI TEDESCHE IL GIORNO DOPO, COSA NE PENSA LA STAMPA ESTERA

 

Secondo Christin Brauer di N24, “Molti dei tedeschi hanno votato per la continuità”, “Circa il 25 per cento degli aventi diritto non hanno espresso il proprio voto. Potendone tener conto nei risultati delle elezioni il partito dei non votanti sarebbe la seconda forza in campo.”

Ma se in patria non mancano critiche e timori la stampa estera è molto attenta a queste elezioni tedesche, il risultato è analizzato soprattutto alla luce dei grandi cambiamenti in atto un po’ dovunque, “El País“, dalla Spagna, scrive che “in un mondo ormai pervaso dai timori indotti da Trump, Erdogan e Kim Jong-un, Angela Merkel si distingue per il suo messaggio di stabilità.”

Secondo il giornale, nonostante il crollo degli elettori “Merkel ha l’assertività necessaria di cui c’è bisogno in questo tempi difficili in ambito internazionale.”

Dalla Francia “La Croix” si concentra sulle amare perdite che CDU / CSU hanno dovuto subire e pensa che Angela Merkel ora deve trovare un partner di coalizione per una non facile “maratona” post elettorale.

Per l’austriaco “Die Presse” il risultato è dovuto alla politica tedesca sui rifugiati, “La Germania si è spostata verso destra. Con due anni di ritardo gli elettori tedeschi hanno presentato la loro dichiarazione per la crisi dei rifugiati. E il solo problema che ha reso così forte Alternativa per la Germania (AfD). Considerando la sua palese mancanza di leadership e le sue ricorrenti gravi lotte sul letamaio della storia, in un contesto politico differente i nazionalisti di destra si sarebbero da tempo sciolti, tuttavia, il malcontento sulla politica di apertura delle frontiere di Angela Merkel e l’immigrazione di massa ha dato nuova vita a questo movimento anti-euro che era già moribondo”.

L’austriaco “Der Standard” sostiene che si tratti del “solito affare”, l’unico possibile in Germania.

“La Germania è già da molto tempo senza un raggruppamento nel Bundestag, ma quando si sente quello che molte di queste persone AfD dicono, come di “pulizia” natirale, esclusione e “Stop il culto della colpa”, è grave. Non si deve dimenticare che tutto ciò accade in quel paese che una volta ha subito il terrore nazista ed ora questi rappresentanti del popolo seduti nel Bundestag, il cuore della democrazia, terranno i loro discorsi. Chi credeva tutto poteva continuare come prima, si deve ora ricredere.”

Secondo “Le Monde“, Francia si tratta di “Un risultato deludente per Angela Merkel”

“Rieletta per il quarto mandato affianca il cancelliere a Konrad Adenauer ed Helmut Kohl, ma”, dice il quotidiano, “l’esito deludente dei conservatori tedeschi potrebbe essere persino peggiore del minimo storico raggiunto dalla signora Merkel nel 2009.”

La Croix“, Francia, rincara: “Un primo posto amaro per Angela Merkel”

“Anche se l’Unione tra CDU e CSU di Angela Merkel ha vinto le elezioni parlamentari”, “perde nove punti percentuali rispetto al 2013. Nella sede del partito a Berlino, l’umore era nero.” “Per il partito cristiano-democratico di Angela Merkel ora una inizia una nuova maratona inizia”, nella quale “È necessario trovare partner per una coalizione.”

Per “Le Figaro“, Francia, “La destra radicale si è affermata”.

“Angela Merkel aveva creduto che la popolarità dell’AfD sarebbe morta verso il basso, una volta che la crisi dei rifugiati fosse finita. Il flusso di rifugiati è diminuito drasticamente, ma si è affermata la destra radicale. Ora e per molto tempo non dovrebbero scomparire dal panorama politico tedesco “.

Il “The Guardian“, dal Regno Unito, titola: “I risultati delle elezioni dovrebbero far riflettere”

“L’aumento della AfD è preoccupante, non c’è dubbio. Ed è un segno di crescente frammentazione politica. Si introduce un elemento di veleno e di polarizzazione per chiunque si aggrappi a una democrazia liberale, si deve pensare ad una politica federale della Germania “.

Il “The Times“, Inghilterra, pensa che “Il quarto mandato potrebbe essere avvelenato”

“Il quarto mandato in Germania non è senza precedenti, ma potrebbe essere avvelenato come il suo ex mentore, Helmut Kohl, aveva già sperimentato alla fine del suo governo. Molti ritengono addirittura che la Merkel non riuscirà a restare in carica per tutta la legislatura. L’avvento dell’AfD nel Bundestag, segna la prima volta dal 1960 che un partito al politicamente all’estrema destra è rappresentato in Parlamento ed anche se non v’è alcun pericolo immediato, perché tutti gli altri partiti si rifiutano di formare con esso un governo, essi chiederanno fastidiosamente e con costanza misure più severe contro i migranti.”

“La linea di fondo vede ancora Angela Merkel vincente con un governo da fare e che si preannuncia instabile fin dall’inizio, tuttavia, deve lottare, applicando una vigorosa politica di cambiamento, piuttosto che ritirarsi.”

Secondo il “New York Times“, Stati Uniti d’America, “I colloqui di coalizione dureranno a lungo”.

“Nonostante la loro vittoria Merkel ed i conservatori non possono governare da soli, il che rende probabile che la vita politica del Cancelliere sarà più complicata. La forma e il contenuto di una nuova coalizione di governo richiederanno settimane difficili negoziati. ”

Il “Washington Post“, Stati Uniti d’America, titola “La Merkel dovrà cambiare la sua politica”.

“Gauland e altri candidati AfD hanno usato slogan che sono stati ampiamente percepiti come scandalosi in tutta la campagna, ma alcuni dei loro elettori di domenica hanno espresso la speranza che la presenza del loro partito costringerà la Merkel a cambiare la sua politica recente”.

La Svizzera “NZZ” pensa che “La Merkel non può continuare come prima”

“La forte performance dei partiti minori FDP e AfD non permette al vincitore delle elezioni Merkel, di continuare semplicemente come prima. I due nuovi partiti in parlamento possono mettere la destra sotto pressione e influenzare le politiche del prossimo governo ed il Cancelliere, come un partner di governo o dall’opposizione. A tal fine, l’AfD ha l’obbligo di chiarire il loro corso e di posizionarsi come parte del tutto borghese nel Bundestag. Il partito tenderà a mantenere l’immagina squallida di destra che ha avuto durante la campagna elettorale, giocando con le idee razziste e protestando con l’opportunità di avere una diretta influenza sulla politica tedesca.

 

TERREMOTO AFD AL 12,8 %,. MA LA MERKEL RESTA IN PIEDI

 

Dal nostro inviato in Germania.

Angela Merkel si appresta ad entrare nella leggenda ma il suo record è offuscato da un vero e proprio terremoto politico: l’onda populista che sta attraversando l’Europa non ha risparmiato la Germania e l’AfD con il 12,8% dei suffragi, nonostante i suoi soli 4 anni di vita, diventa il terzo partito tedesco producendo una grande rivoluzione nello scenario politico del paese.

Prima di lei solo Helmut Kohl aveva governato per quattro mandati e complessivamente 16 anni, ora Angela Merkel, la ragazza dell’Est, si appresta ad eguagliarlo, ma a caro prezzo, quella che si appresta all’orizzonte non è più solo una Grosse Koalition, ma addirittura una possibile Riesen (gigante) Koalition, dopo che l’SPD, il partito dello sfidante principale, Martin Schulz, ha registrato il peggior risultato degli ultimi decenni attestandosi al 20,6%.

Commentando gli esiti del voto Schulz ha detto che per l’SPD ”è tempo di tornare all’opposizione” ed ha dichiarato in un’intervista alla radio ARD di voler rimanere leader del partito anche dopo questa storica sconfitta elettorale, ma non sarà presidente della fazione nel Bundestag: “Io non parteciperò alla presidenza della fazione, ma mi concentrerò completamente sul rinnovo del partito”, ha detto domenica in un’intervista ARD.

Angela Merkel, sorpresa per il risultato elettorale, non si è però persa d’animo e si è appellata alla responsabilità dell’SPD per governare fino a Natale, quando pensa di essere pronta con il nuovo governo che, in assenza di SPD, sembra già destinato ad adottare la formazione detta Jamaica, per i colori dei partiti partecipanti, con FDP e Verdi.

L’AfD, forte del risultato, starebbe già pensando ad un comitato d’indagine contro la cancelliera.

Anche il presidente dell’Istituto di Ricerca Economica di Monaco (IFO), Clemens Fuest, pensa che la coalizione “Giamaica è la risposta appropriata”, “il nuovo governo dovrebbe concentrarsi sull’istruzione e la ricerca, sulla digitalizzazione e sulla globalizzazione dell’economia, sulla politica dell’energia e sul clima e sull’integrazione europea. – ha detto – Il FDP ha espresso chiaramente un trasferimento nella zona euro, i Verdi piuttosto per esso. Queste differenze nella politica economica, tuttavia, possono essere colmate “.

Ma non tutti sono sorpresi, il ministro degli Esteri austriaco, Sebastian Kurz, interfvistato sull’argomento ha detto, all’agenzia di stampa APA, che “il risultato non mi sorprende molto”, la ragione per la scarsa performance dell’Unione e il successo dell’AfD alle elezioni del Bundestag risiederebbe nella politica sui rifugiati del governo federale, “c’è molta insoddisfazione con la posizione del governo nella politica dei rifugiati in Germania”, ha aggiunto, “La crisi dei rifugiati non è stata presa sul serio da molti politici e partiti tradizionali in Europa”.

Mentre ancora si spogliavano i voti centinaia di persone dimostravano già a Colonia contro l’AfD, secondo la polizia, una marcia di protesta promossa dal comitato nazionale “Il nazionalismo non è un’alternativa”, ha attraversato il centro cittadino, un gruppo iniziale di 300 partecipanti ha avviato la marcia che si è conclusa in modo pacifico con oltre 700 persone al seguito.

Anche la superstabile e conservatrice Germania è ora al bivio, l’ingresso massiccio di AfD in parlamento creerà non pochi fastidi alla cancelliera che ha ora davanti solo due alternative: la grande coalizione con la SPD, ch eperò sembra non essere possibile per le resistenze del partito, l’alleanza giamaica con CDU / CSU, FDP e Verdi.

Dopo quattro anni di assenza, i liberali sono tornati al Bundestag con circa il dieci per cento, mentre i partiti di collegamento dei Verdi hanno raggiunto circa il nove per cento.

Nel grafico i risultati complessivi da ARD.

ELEZIONI IN GERMANIA. VERSO UNA NUOVA GROSSE KOALITION

 

La cancelliera tedesca Angela Merkel non si sbilancia sulle alleanze del dopo voto e nemmeno Martin Schulz sembra avere intenzione di lasciar trapelare qualcosa. Una Grosse Koalition sembra essere dunque ancora all’orizzonte.

Il problema principale potrebbe essere la crescita dei consensi che sembra registrare Alternative Für Deutschland (AFD), un partito nazionalista e anti-immigrati nato nel 2013 che dal 7-8% dei consensi nel sondaggi di due mesi fa è passato oggi all’11-12.
Il timore che la sera del 24 settembre i consensi raccolti dal movimento di estrema destra possano essere significativi per il governo ha fatto dichiarare al capo della Cancelleria Peter Altmaier (CDU) che i cittadini scontenti dovrebbero evitare di recarsi alle urne piuttosto che scegliere l’AFD.

L’episodio, riportato dalla stampa tedesca, è stato registrato martedì in una video-intervista con il quotidiano “Bild” quando alla domanda se fosse meglio non votare piuttosto che votare AFD, ha risposto “Ma certo”. “L’AFD sta dividendo il nostro paese, sfrutta le preoccupazioni e le paure della gente e credo che un voto per l’AFD non possa essere giustificato, almeno per me.”, Altmaier non ha detto apertamente di non votare, ma ha sostenuto che “è anche così che gli incerti esprimono un parere”.

Il leader della fazione SPD Thomas Oppermann ha prontamente criticato le dichiarazioni dicendo al quotidiano “Bild”, “Mi sembra sbagliato consigliare ai cittadini di non votare per non fornire elettori all’AFD”, mentre il candidato di AFD Alexander Gauland ha replicato: “Sono fantastici i democratici! Ora un membro del governo federale sta persino chiedendo il boicottaggio delle elezioni”.

Uno dei possibili problemi dei rilevamenti è che in ogni caso gli elettori potrebbero essere restii a dichiarare ai sondaggisti un voto di questo tipo, così la co-leader di AFD, Alice Weidel, sostiene che il partito potrebbe persino superare il 20% diventando la seconda forza in Parlamento, davanti alla SPD.

Sebbene ritenuto generalmente improbabile, un’impennata anche solo al del 12% dei nazionalisti genererebbe un grande terremoto nel panorama politico tedesco, terremoto che Angela Merkel sostiene non ci si possa permettere. La stessa Merrkel ha criticato nuovamente le scelte SPD per aver tenuto una coalizione con il partito di sinistra: “I socialdemocratici possono purtroppo chiedere a chi vogliono e quando vogliono, non è mai possibile escludere il rosso-rosso-verde” e pensa che questo sia profondamente sbagliato. “Non ci possiamo permettere esperimenti in questi tempi difficili”, ha aggiunto, tuttavia, nei sondaggi, l’SPD, la Sinistra ed i Verdi non dovrebbero poter attualmente contare su una maggioranza.

Anche il capo della FDP Christian Lindner ha attaccato l’AFD descrivendolo come una macchina populista di provocazione che non è interessata a lavorare sui concetti e sui testi giuridici ed ha dichiarato martedì al “Neue Osnabrücker Zeitung”: “L’AFD è certamente pericoloso, perché incita la nostra gente all’unità razziale, culturale e religiosa e combatte la diversità”.

Schulz, invece, dice di voler affidare la responsabilità della migrazione e dell’integrazione al Ministero del Lavoro e degli Affari Sociali ed ha dichiarato a Stoccarda, al Congresso dell’Associazione tedesca dei giornalisti (BDZV), che era sbagliato che l’argomento fosse un’appendice del Ministero dell’Interno, proponendo l’istituzione di un “Ministero del lavoro e degli affari sociali, la migrazione e l’integrazione”.

Inoltre, lunedì sera nella trasmissione ARD “Wahlarena”, tra le altre cose ha anche promesso che avvierà un cambiamento di corso della cancelleria già durante i primi 100 giorni di governo, il “Reutlinger General-Anzeiger”, ha detto Schulz, “si può finanziare con i fondi necessari sia dall’assicurazione per l’assistenza che con le tasse, inoltre si deve discutere e guardare a ciò che è pratico …”

A pochi giorni dal voto lo scenario post-elettorale della Germania si prospetta quindi davvero complicato, è quasi scontato che Angela Merkel verrà riconfermata cancelliera, dato che tutti i sondaggi danno in netto vantaggio, attorno al 36-38%, la sua Unione Cdu-Csu, ma per il resto l’incertezza è totale e sarà determinata dal risultato che i socialdemocratici (SPD) di Martin Schulz, previsti tra il 20% ed il 25%, otterranno e dalla sorpresa di AFD, che, come detto potrebbe superare ed anche di molto il 12% sbilanciando tutte le possibili coalizioni ed imponendo una loro presenza in una larghissima coalizione di governo con l’Unione, che potrebbe creare grandi problemi ad angela Merkel che, invece, punta ad una grande stabilità e continuità, al punto da aver dichiarato che se vincerà le elezioni Schaeuble sarà confermato ministro delle finanze.

Anche Schaeuble , che è in carica dal 2009, è candidato alle elezioni di domenica ed è molto apprezzato dai tedeschi per la sua strenua difesa dell’austerità imposta alla Grecia ed ad altri paesi dell’area dell’euro in difficoltà, poiché sarebbe proprio questa sua posizione intransigente in difesa del rigore di bilancio in Europa che avrebbe consentito alla Germania di evitare le sbandate capitate ad altri Paesi. Angela Merkel, nel festeggiare lunedì il settantacinquesimo compleanno del ministro, lo ha elogiato definendolo un uomo «di convinzioni e di azioni» e dallo «spirito mai rassegnato».

Secondo i sondaggi della tedesca Wahl Navi i due gruppi più grandi si uniranno dopo le elezioni del Bundestag, l’87% degli intervistati ne sono convinti: il CDU / CSU vincerà la maggior parte dei seggi, il secondo posto, con il 77% degli intervistati a favire, spetta alll’SPD, ma anche circa un ventesimo degli elettori vede l’AFD come il secondo partito più rafforzato dopo le elezioni, mentre il 5% degli intervistati pensa all’FDP.

La terza determinante forza politica tedesca è la questione vera: l’elettorato e gli esperti si interrogano molto su questo aspetto ed il 30% degli intervistati pensa che proprio l’AFD sia in gara per la vetta, mentre il 24% degli intervistati vedono la FDP vincente lasciando indietro Sinistra e Verdi con rispettivamente il 17% ed il 16%.

VACCINI. IL GOVERNO PENSA AL RICORSO CONTRO IL VENETO

DI IMMACOLATA LEONE

 

“Senza vaccini non si entra a scuola”,
queste le parole della ministra Lorenzin in risposta al decreto della Regione Veneto, sulla moratoria dei vaccini, che concede una deroga di due anni sull’obbligatorietà dei vaccini nelle scuole per i bambini da 0 a 6 anni.
La ministra della salute è seriamente intenzionata ad impugnare la decisione del Veneto, perchè anche se in materia di sanità possono mettere mano sia lo Stato che le Regioni, secondo la ministra lo Stato ha competenza assoluta sulla salvaguardia della salute, che nulla ha a che vedere con la sanità.
“Ci riserviamo tutte le azioni di nostra competenza, il decreto del Veneto non è sostenibile. Se derogano di due anni, si assumono la responsabilità di quello che può accadere in ogni struttura e ai singoli alunni. L’epidemia di morbillo non è finita. Nel 2017 sono stati oltre 4.300 i casi, non c’è altro da aggiungere per spiegare la gravità della situazione“.

Il presidente del Veneto, Luca Zaia, ha immediatamente risposto piccato: “Non facciamo questi provvedimenti per cercare la rissa o creare epidemie, li facciamo perché applichiamo la legge fatta dalla Lorenzin e secondo i miei autorevoli tecnici la nuova legge ci permette di mettere in piedi una moratoria affinché ci sia un atterraggio morbido rispetto a quanto prevede la legge”.
“La nostra risposta sta nei fatti: siamo tra le regioni con il maggior numero di vaccinazioni, e questo grazie alla nostra politica decennale a favore di una vaccinazione informata.
Lorenzin minaccia la migliore Sanità d’Italia. Se ci saranno epidemie non saranno certo in Veneto, ma nelle regioni dove non si vaccina. Coercizione crea abbandono vaccinale”

Anche l’assessore alla Sanità del Veneto è scettico sul’eventualità di epidemie dal momento che, la stessa regione è tra quelle che registrano il maggior numero di vaccinazioni all’anno, grazie a politiche di vaccinazione informata,che puntano a colloqui con i genitori senza l’obbligo delle vaccinazioni.
Forse non tutti sanno , ma nella regione Veneto i bambini non vaccinati frequentano classi con copertura chiamata “di gregge” non inferiore al 95%.

Intanto tra il botta e risposta della ministra e del governatore, le scuole tutte riapriranno i battenti tra martedi e mercoledì 12 e le famiglie hanno intasato le ASL, gli studi medici e le segreterie delle scuole per riuscire a districarsi nel dedalo dei documenti da presentare.

COSA SUCCEDE NELLE ALTRE REGIONI?

– In Lombardia, il governatore Roberto Maroni ha concesso una proroga di 40 giorni per chi non è riuscito a mettersi in regola.
– In Alto Adige si pensa ad una proroga transitoria di un anno, tutti i ragazzi tra 0 e 16 anni riceveranno, o hanno già ricevuto, una lettera della Asl con l’elenco delle vaccinazioni mancanti, e di quelle già eseguite. Nel frattempo i ragazzi potranno frequentare tutti corsi educativi.
– Nelle Marche ed in Basilicata è stata direttamente la regione a mandare le lettere alle famiglie non in regola.
– In Umbria le lettere sono state inviate direttamente dalle Asl, e per chi ha fatto tutti gli adempimenti necessari ha dovuto solo riempire un modulo di autocertificazione
– A Napoli gli ambulatori Asl sono risultati insufficienti, rispetto alle richieste delle vaccinazioni da parte delle famiglie, , la confusione ha generato malumori che hanno portato le Asl ad implementare il personale specializzato.
– A Palermo, momenti di tensione da parte di genitori “agitati” per la presunta mancanza di vaccini, hanno richiesto l’intervento delle forze dell’ordine.
Così in Sicilia è arrivata l’interessante iniziativa del camper itinerante, dove medici ed infermieri, dietro presentazione del tesserino delle vaccinazioni, presteranno le vaccinazioni obbligatorie.

E LA MINISTRA FEDELI?
La ministra dell’istruzione Valeria Fedeli qualche giorno fa in una intervista sulle pagine di Repubblica ha cosi dichiarato : “La Lombardia, che concede una proroga, è semplicemente fuorilegge. Non ci sarà nessun rinvio dopo la scadenza ultima del 10 settembre, su questo io e la mia collega Beatrice Lorenzin siamo fermissime”.

 

Se consumen las dosis adecuadas. Quien sufre mas estrenimiento. Cosa devo fare e cosa devo mangiare. Oui, en moyenne. cialispascherfr24.com C e qualche attinenza.

SCHULZ SORPRENDE. MA MERKEL SEMBRA ANCORA FAVORITA

Per il duello televisivo tra Angela Merkel e Martin Schulz, andato in onda il 3 settembre 2017, le quattro principali reti televisive tedesche volevano accordarsi con i rispettivi rappresentanti sulle modalità di messa in onda con lo scopo di ottenere un “dibattito TV” per il 2017 drammaticamente nuovo, con blocchi da 45 minuti ed un ingresso comune nel programma che favorisse una struttura più chiara e più spazio per la spontaneità e la discussione.

I rappresentanti della Cancelliera hanno però rifiutato di partecipare in queste condizioni, così il modello utilizzato è stato approssimativamente quello del 2013: coppie di moderatori, prima Maybrit Illner (ZDF) e Peter Kloeppel (RTL)  ed a seguire Sandra Maischberger (ARD) e Claus Strunz (ProSieben / SAT.1), che hanno alternato le loro domande in trasmissione senza accordi sostanziali su questioni concrete per favorire comunque spontaneità ed indipendenza giornalistica.

Il risultato è stato un modello divertente, ma un po’ più difficile da gestire del previsto, con il candidato SPD, Martin Schulz, che ha lottato con la cancelliera Angela Merkel cercando spesso di metterla nei guai.

Il motto di Martin Schulz è sembrato essere “chi non ha molto da perdere, può osare di più”, così ha cambiato spesso le carte in tavola sorprendendo per le affermazioni spesso in contrasto con le politiche del suo partito ed arrivando persino a generare un momento di puro stupore quando ha affermato che “quando sarò Cancelliere, annullerò i negoziati di adesione all’UE,” riferendosi chiaramente alla Turchia ed in netto contrasto con la posizione della piattaforma SPD, concludendo che questa è anche la posizione tradizionale dell’Unione che la Merkel da cancelliera non ha (ancora) applicato.

Ma Angela Merkel non si è fatta influenzare troppo dallo sfidante che ha replicato con una tattica ovvia, ma efficace, e ha risposto sempre prontamente a qualunque spostamento di argomento di Schulz, persino quando ha violentemente attaccato i manager delle industrie automobilistiche per la vicenda diesel, sostenendo che vi è stata una “perdita di fiducia senza uguali”, non si è fatta sorprendere replicando con prontezza “sono furiosa!”.

Secondo gli osservatori tedeschi Schulz ha lottato controllando gli attacchi ed influenzato il conflitto che ha avuto, come ci si aspettava, come tema dominante la politica interna sui rifugiati e l’integrazione, argomento sul quale la Merkel a ricevuto le maggiori critiche degli ultimi tempi e che ha finito per occupare la metà dell’intero tempo del dibattito.

Martin Schulz, ha avuto toni critici sull’argomento, definendo come un “compito generazionale” l’integrazione di più di un milione di nuovi arrivati e rivolgendosi chiaramente agli ex elettori fondamentali dell’SPD nella classe operaia dove, nelle recenti elezioni statali, il partito ha avuto le maggiori perdite.

Angela Merkel ha però difeso con energia la politica sui rifugiati che ha tenuto negli ultimi due anni, considerando un propria colpa solamente il non essersi occupata adeguatamente ed in tempo delle strutture dei campi profughi nelle regioni di crisi, ma anche non di aver mai sottovalutato il problema.

Durante il dibattito sono stati toccati temi di politica internazionale, Turchia, Corea del Nord ed Islam, sono invece mancati completamente i temi della formazione e della digitalizzazione, solo accennata alla fine dalla cancelliera, rivelando un approccio tradizionalista e conservatore di entrambi i candidati sugli scottanti temi delle politiche sociali interne, argutamente evitatati, mentre il momento più irritante è stato quando, trattando di religione ed Islam, Martin Schulz ha citato un filoso dicendo che “al di là del giusto e dello sbagliato, c’è un luogo dove tutti ci incontriamo”, alludendo all’aldilà ed entrando in evidente confusione, dalla quale ha cercato di uscire dichiarando che la frase avrebbe dovuto chiudere le sue osservazioni ed era stata detta troppo presto.

A fine dibattito il presentatore RTL Peter Kloeppel ha azzardato l’ipotesi di un secondo incontro per la settimana successiva, immediatamente cassata dalla Merkel.

Nonostante le novità e la tensione si può affermare che il dibattito ha avuto uno stile tradizionale, ognuno ha cercato di usare gli elementi nei quali si sentiva più forte, Merkel sembra aver convinto di più di Schulz, d’altro canto cambiare è sempre un’incognita, e la cancelliera ha dalla sua dati che, sebbene non siano del tutto merito suo perché dipendono in gran parte dalle politiche del suo predecessore Gerhard Schröder (SPD), sono inoppugnabili, come il dato di disoccupazione, oggi al 5,7% per il quale ha affermato “Invece di cinque milioni di disoccupati, di quando ho assunto l’incarico, ora abbiamo 2,5 milioni di disoccupati, dei quali un milione sono disoccupati di lunga durata”.

Dati grezzi, ma di grande impatto che sono stati uniti alla considerazione che nonostante il diktat europeo sia di mandare le persone in pensione a 70 anni, la linea ufficiale della CDU è di non prevedere “di aumentare ulteriormente l’età pensionabile. Siamo ora ad un’età pensionabile di 67 anni”, che, come concordato con l’SPD, sarà introdotta gradualmente.

Dalla parte di Schulz, in genere, sembrano essere state più apprezzate le affermazioni populiste, come sul tasso di criminalità in aumento dove ha detto che “la Sassonia è la zona con la con il più alto tasso di criminalità”, ma anche a Berlino il tema è sensibile avendo realizzato nel 2016 il peggior record di tutti gli stati e delle principali città tedesche, nonostante un lieve calo generale della criminalità nazionale.

L’ultima parola, però, sembra essere stata della cancelliera che nelle sua dichiarazioni finali ha lamentato che il tempo non era stato purtroppo sufficiente per parlare compiutamente dei prossimi quattro anni e ha velocemente accennato alle sfide del futuro digitale ed ai successi del passato: “dall’esperienza degli ultimi anni e la curiosità per il nuovo, vogliamo fare in modo che la Germania sia ancora un paese moderno per i prossimi dieci anni”.

Merkel, ha quindi dichiarato di voler lavorare, ” per voi e con voi “, chiudendo con la frase “sono sicura che possiamo farlo insieme”.

Martin Schulz ha invece concluso il dibattito parlando di “un momento di transizione”, per il quale è necessario il coraggio di un cambiamento che deve modellare il futuro e non somministrare il passato, per Schulz è compito dell’Europa stabilire la giustizia, la sicurezza e la pace nel mondo e rafforzare le democrazie in una “idea di una Germania europea in un’Europa forte, per la quale ho combattuto tutta la mia vita.”

Il bilancio finale, però, ha visto molte convergenze di programma nonostante le apparenti distanze, a partire dalla scelta di abiti di colore blu per entrambi gli sfidanti che ha reso piatte le immagini lasciando più spazio alle parole, Günther Jauch, uno dei più popolari presentatori televisivi tedeschi, ha parlato di spettacolo che rischia ancora una volta una di portare ad una grande coalizione.

Secondo Jauch il dibattito televisivo è stato soprattutto una delusione, per lui Martin Schulz è stato poco aggressivo ed anche se non ha risposto alla domanda diretta su un’eventuale alleanza post elettiva, Jauch ha scritto lunedì mattina sul quotidiano Bild “dal momento che a parlare sono due politici di professione, non mi libero dal sospetto che i potrebbero lavorare insieme e senza problemi in un governo” convinto che “questo duello ha dimostrato ciò che ci minaccia: altri quattro anni in una grande coalizione sotto la Merkel”.

Molti anche i sondaggi e le opinioni divergenti su chi abbia realmente vinto la sfida, le elezioni, ovviamente, scioglieranno ogni dubbio, ma per il momento, anche se gli analisti danno Schulz in testa, secondo il sondaggio lanciato on line per i telespettatori della trasmissione, Merkel “ha convinto di più”.

PAZZA L’IDEA: COMPRIAMOCI ALITALIA

DI PIERLUIGI PENNATI

 

Non capisco, tutti gli analisti parlano di conti in ordine, azienda sana e costi del personale e di gestione persino inferiori a molti concorrenti, ma mal governata, dopo il fallimento dei manager delle clientele politiche quello dei “capitani coraggiosi”, una compagnia da sempre nelle mani, a detta di chi ha analizzato la situazione, di incapaci, almeno nelle politiche e strategie di riempimento dei posti.

Ora, dopo aver già pagato una volta per scongiurare il problema sociale di migliaia di licenziamenti, siamo comunque chiamati da governati espressione di una classe politica agonizzante e mai legittimata da un voto costituzionalmente valido, a pagare comunque, quindi di nuovo, producendo l’effetto di produrre costi doppi per lo stesso problema.

Ma, già, Alitalia è oggi privata e non si può toccare.

Privata, come erano privati i conti correnti dai quali un primo ministro ha deciso una mattina a sorpresa di prelevare una “una tantum” senza che nessuno potesse reagire.

Privata, come private sono le persone che avevano stipulato un contratto con un’assicurazione, l’INPS, che prevedeva dei termini per ottenere una pensione e che un altro primo ministro ha cambiato senza dare la possibilità di recesso e che un altro, dopo di lui, ha allungato di botto mettendo persino sulla strada migliaia di famiglie, quelle dei cosiddetti “esodati”, con la disinvoltura di chi importa poco del prossimo e pensa solo a conti malati e senza anima.

Privata, come sono private ed intoccabili le proprietà dei potenti, mentre quelle delle masse di poveri e “normali” possono essere sacrificate.

Uno dei governi che più ha provocato problemi ai lavoratori degli ultimi decenni, quello di Renzi, ha voluto a tutti i costi vendere aziende di stato che non erano in crisi e producevano utili record, come ENAV, ed ha riorganizzato quelle che lo erano efficentandole, come Finmeccanica che accorpando tutte le aziende controllate ha trasformato un gruppo in perdita in un’azienda che sta sul mercato, ed ira, dopo aver fatto il contrario di quello che il buon senso suggeriva, tramite Gentiloni, si rifiuta l’unica soluzione che potrebbe salva Alitalia ed i suoi 12.000 dipendenti, la statalizzazione.

Serve, sembra, solo riempire gli aerei, quindi una strategia commerciale adatta, possibile che in Italia non ci sia nessuno capace di farla?

Non ci credo. Credo invece che sarebbe molto meglio evitare altri costi sociali riprendendo il controllo di una compagnia oramai sana.

Non vuole farlo lo stato? Lo facciano i suoi cittadini: compriamoci Alitalia!

Non serve molto, possiamo farlo e sarebbe un buon investimento tanto che io sono disposto a fare da apripista mettendoci la prima quota, ma davanti a tutti dovrebbero esserci i dipendenti, con una quota del loro TFR potrebbero formare una base solida su cui i sindacati potrebbero contare per aprire la sottoscrizione pubblica: chi non vorrebbe comprarsi Alitalia?

Serve solo organizzazione, coraggio e cogestione, la formula vincente di partecipazione dei dipendenti, non dei sindacati, alla gestione aziendale che fa volare le quotazioni di BMW, Porche e Mercedes, una forma di co-partecipazione dei dipendenti alla gestione aziendale che dove è applicata nel mondo porta solo frutti e benefici per tutti, gli azionisti ed i dipendenti, che in questo caso sarebbero anche azionisti.
I sindacati deputati dovrebbero essere CUB ed USB, i due sindacati che hanno convinto più di 7.000 dipendenti sul totale a votare no all’accordo che prevedeva solo tagli e licenziamenti, ora gli stessi sindacati che predicano la statalizzazione potrebbero guidarne la “privatizzazione popolare”.

La vogliono tutti, ma a pezzi, solo il governo miope, dopo averne già pagato i costi sociali, non la rivuole? Comperiamola noi, intera!

PENSIONE MINIMA PER LA NUOVA GENERAZIONE PERDUTA

DI IMMACOLATA LEONE

 

C’era una volta una vita, con un lavoro anche umile, ma pulito e pagato, una vita vissuta e sopravvissuta, con speranze, sogni e illusioni, fino ad arrivare alla tanto agognata pensione, quella vera però, quella che ti dava la dignità di vivere anche da anziano dopo una vita di sacrifici.
Oggi i sessantacinquenni sono sempre di più, con una pensione bassa che rasenta il ridicolo, che fanno rinunce disumane e con un numero imprecisato di figli e nipoti che si appoggiano ad essa.

L’imbuto del’INPS fa acqua da tutte le parti, il cambio del sistema retributivo a quello contributivo ha abbassato ancora di più le pensioni, le riforme su riforme non hanno trovato nulla di nuovo se non la genialata di allungare l’età pensionabile.
I lavoratori di oggi, soprattutto i precari, coloro che conoscono solo “per sentito dire” un lavoro stabile, vivono nel limbo dell’attesa rassegnata di qualcosa di concreto dallo Stato, che nulla fa e poco pensa per far fronte a questa metastasi epocale.

In questo quadro si inserisce la “succosa” notizia che il ministro Giuliano Poletti, seduto in contemplativa, sta pensando ad un generoso assegno minimo di 650 euro per i giovani di oggi, futuri pensionati.
Con il sistema odierno i giovani raggiungeranno l’età pensionabile “solo nel caso abbiano maturato una pensione pari a 1,5 volte l’assegno sociale, circa 670 euro, l’idea è quella di abbassare questo tetto a 1,2 volte. Con un sistema di garanzia che assicuri in ogni caso un assegno mai inferiore ai 650 euro, indipendentemente dai contributi versati”.
Il pensiero va anche ai pensionandi di oggi, si deve abbassare la soglia di reddito indispensabile per il pensionamento anticipato, “cioè una volta raggiunti i contributi necessari e prima dell’età pensionabile standard, a 63 anni e 7 mesi. Attualmente è di 2,8 volte l’assegno sociale”.

Ovviamente non c’è fretta, la proposta non è proprio urgentissimma come sottolineato anche dal ministro Poletti: “Il tema è all’ordine del giorno, è in discussione e continueremo a discuterlo ma il problema non si configura domani mattina. Faremo altri incontri a settembre: il 5 sarà sarà un tavolo tematico sul lavoro, il 7 pensioni e donne e il tagliando sui provvedimenti già emessi (Ape sociale), poi la settimana successiva il 13 settembre”.
La Camusso, leader Cgil, facendo capolino dalle sue stanze, ha espresso la sua insoddisfazione su un tema che non tiene conto delle aspettative di vita dei pensionandi.

A parte il chiacchiericcio continuo delle parti, che a voler essere cinici uno stipendio garantito ce l’hanno, il problema è serio.
Il sistema pensionistico si basa su due pilastri fondamentali, cioè il versamento di un contributo mensile obbligatorio lavoratore-azienda calcolato come una percentuale sul reddito imponibile e la erogazione di un assegno solo dopo aver versato per almeno 43 anni e averne 63 di età.
Ovviamente piu è alto lo stipendio, quindi il reddito imponibile, e più è alta la contribuzione nel “montante contributivo”.
Questo sistema è per coloro i quali abbiano la fortuna di avere il famoso posto fisso, scatti di anzianità e gli adeguamenti salariali periodici.

Per i figli della diseguaglianza generazionale, dei voucher, dei contratti a tempo determinato, il discorso cambia, loro avranno lavorato di più, ammazzandosi con tre lavori al giorno, ma si ritroveranno con una manciata di contributi versati ed una pensione miserabile.
Lavorato di più, guadagnato meno dei genitori e con un finale ignobile.
Secondo il Fondo monetario internazionale in Italia si guadagna meno di 20 anni fa. Certo che se la discontinuità comporta che prima dei 70 anni non si raggiunge il minimo numero di anni contributivi e i salari sono bassi, la pensione arriverà quando sarai una cariatide o magari muori prima e il problema si è risolto da sè.

Ma che senso ha pensare alle pensioni tra 30/40 anni quando è la disoccupazione oggi, giovanile e non, il vero problema?
E’ troppo complicato riuscire a garantire un lavoro continuativo con paghe oneste e dignitose ai “giovani”?

E’ così difficile ridurre il carico fiscale e contributivo di imprese e lavoratori?
Creare iniziative che facilitino l’incontro tra il capitale umano in uscita dal sistema dell’istruzione e le effettive necessità del sistema economico?
Si, è difficile quando si ha un’economia sclerotica, il mercato del lavoro inerte, l’incertezza del diritto, l’ inaffidabilità dei governi, una mentalità gerontocratica dove i più anziani, anche se meno competenti, sono ancora considerati come più ‘sapienti’, una mentalità familistica/nepotistica, squilibri territoriali molto marcati, corruzione endemica, e una classe politica ed amministrativa corrotta, anacronistica, tecnicamente incompetente, interessata alla banale e semplice conservazione dei propri interessi privati.

Si, è proprio la politica nostrana che non ha considerazione dei suoi giovani, eppure ogni cambiamento , ogni trasformazione parte proprio da loro.
Li chiamano i millenials, sono nati in piena rivoluzione digitale, ma vivono durante la più grande crisi economica dalla Depressione degli anni ’30.

SCONGIURATI ALTRI SCIOPERI A SORPRESA A LINATE E MALPENSA

In un video i lavoratori dell’aeroporto documentano quello che sta succedendo in attesa che scoppi di nuovo la protesta: le aziende violano le norme per permettere la sostituzione del personale a basso costo.

Quello che succede nel video è significativo: un solo dipendente di AGS  carica i bagagli nella stiva di un aereo della compagnia low cost egiziana Almasria Universal Airlines e solo alla fine del carico si intravede l’arrivo di un secondo addetto che comunque non sembra prendere parte alle operazioni di carico.

I sindacati spiegano che nel filmato appare un Airbus 319 e che in questo caso “Di norma servirebbero tre addetti per caricare la stiva di un aeromobile 319: un addetto deve stare a terra al nastro bagagli, un altro deve stare all’imbocco della stiva per passare i bagagli e un terzo all’estremità della stiva per sistemarli nel modo più opportuno e sicuro” ed invece nel filmato appare un solo operatore che sale e scende dal nastro, prassi normalmente non sarebbe consentita.

AGS non è una compagnia qualunque, ma la società a cui fa riferimento «Alpina», la cooperativa contro la quale le otto sigle sindacali si sono mobilitate da mesi e che il primo di agosto ha fatto scattare la protesta spontanea che ha paralizzato il traffico aereo negli scali milanesi, questa denuncia parla chiaro, l’utilizzo di un solo operatore che preleva i bagagli dal carrello per metterli sul nastro, abbandonando incustodito l’ingresso della stiva e gettando con fretta e nervosismo i bagagli in fondo alla stiva, secondo i sindacati, è un «modo di operare» decisamente «contrario ad ogni regola di sicurezza sul lavoro ed espone l’operaio al rischio di infortuni oltre a sottoporre i bagagli dei passeggeri ad un trattamento a dir poco discutibile. Troppo facile fare concorrenza in questo modo, facendo lavorare un solo operaio quando ne occorrerebbero tre».

Ora il filmato è stato inviato alle autorità aeroportuali nel tentativo di far arrivare alla società un formale ammonimento, ma il rischio che le assemblee programmate potessero far parlare ancora degli scali paralizzando il traffico in mezza Europa, ha suggerito ad ENAC, l’autorità aeroportuale, di sospendere ulteriormente le licenze delle società subentranti fino al 25 settembre, data nella quale i tribunali si esprimeranno presumibilmente, nel merito dei ricorsi presentati sulle liceità dei subappalti.

Una buona notizia in attesa della prossima agitazione o che si possa risolvere felicemente una vertenza nella quale non si vorrebbe far scioperare più nemmeno a chi perde il posto di lavoro e per la quale sarebbe sufficiente almeno non cambiare.

MIGRANTI ECONOMICI DALLA PELLE CHIARA

Leggo dell’ennesima polemica sui migranti e non riesco a trattenermi, la critica è che costoro viaggiano con denaro e telefonini e spesso sono ben vestiti, mentre i nostri migranti dei secoli scorsi non lo erano, inoltre sarebbero le avanguardie di intere famiglie che investono su di loro e quindi ancora più dannosi…

Ora, a parte che nei secoli scorsi la tecnologia era differente e sono sicuro che potendo anche i nostri avi sarebbero partiti con un telefonino per avvertire la famiglia che li avrebbe seguiti, io però mi chiedo spesso cosa pretendiamo, vogliamo denaro e vita comoda per noi e se possibile sprechiamo senza ritegno e pretendiamo che altri non facciano lo stesso?

Se fossimo noi a dover migrare partiremmo senza un telefonino e soldi a sufficienza per il viaggio?

E se fossimo l’avanguardia di una intera famiglia rifiuteremmo l’aiuto dei parenti?

Criticabili o meno i migranti sono tutti uguali e tutti lo specchio dei tempi che vivono, andiamo in vacanza per una settimana con valigie che basterebbero per un intero mese a tutta la famiglia e pretendiamo che gli altri viaggino nudi e senza soldi, eppoi cosa vuol dire migrante economico, che i nostri figli non possono impiegarsi a Wall Street perché non sono americani?

E di Marchionne ne vogliamo parlare? Lo rifiutano solo perché ha del denaro e vuole lavorare in una nazione senza averne la cittadinanza?

I latini dicevano pecunia non olet, infatti profuma e tutti la vogliono, purché sia tanta e solo per loro.

Non scherziamo, io non sono buonista, ma nemmeno forcaiolo, cosa centra se uno scappa da una guerra o cerca lavoro, una priorità bisogna darla, ma credere che tutto si risolva erigendo muri è davvero assurdo, anche perché il muro lo abbiamo già eretto noi ai nostri figli, che con il sistema economico e legislativo che abbiamo permesso si instaurasse in Italia non vogliono più fare lavori sottopagati e sfruttati, per questo non si trova più personale alberghiero e per le pulizie, perché i nostri giovani italiani quei lavori vanno a farli in Austria, Germania, Olanda e qualsiasi altro posto dove salario, diritti e dignità sono ancora rispettati.

Provenire da una foresta dove la gente sparisce per un nonnulla è già scappare da una guerra, così come andare a lavorare all’estero per i nostri figli, che scappano dalla guerra che ogni giorno facciamo ai nostri diritti, permettendone la compressione e la negazione al punto che solo chi proviene da aree più oppresse della nostra ormai accetta la situazione.

I migranti vanno dove possono stare meglio, per questo tutti i figli dei miei amici studiano e lavorano all’estero: migranti economici dalla pelle chiara!

ISCHIA. MA LA COLPA NON E’ SOLO DELL’ABUSIVISMO EDILIZIO

DI PIERLUIGI PENNATI

 

Dopo l’emergenza, la gioia per i salvataggi e poi le polemiche inutili, così adesso la colpa del terremoto è diventata il degrado del sud e dell’abusivismo edilizio di Ischia.

Io stesso ho affermato, ed ancora affermo, che il cambiamento parte da noi, quindi gli abitanti di Ischia, ma anche quelli di Vipiteno e del resto del mondo, sono i primi responsabili del buono o del cattivo andamento delle proprie città, ma affermare che i crolli sono dovuti solo all’abusivismo dilagante è davvero troppo.

Anni fa, a Milano, crollò un palazzo d’epoca senza preavviso, tra le macerie morirono delle persone, abitanti dell’edificio, il gestore del bar che si trovava al piano strada ed alcuni avventori dell’esercizio. La colpa? Infiltrazioni di acqua poco evidenti e quindi trascurate, il terremoto non era stato necessario per abbatterlo, ci aveva pensato da solo.

Così anche la palazzina di Ischia, sotto la quale sono rimasti intrappolati i bambini salvati ieri, era un edificio di inizio secolo e non “abusivo”, semmai trascurato, ma quanti di noi hanno fatto una seria manutenzione antisismica all’edificio in cui abitano negli ultimi venti anni?

Ah, già, da noi non è zona sismica, invece Ischia lo è…

Noi assolti e “gli altri condannati, eppure l’Italia ha la maggior parte del territorio considerato “zona sismica” a vari livelli di pericolo, quindi tutti siamo coinvolti in una seria e necessaria pianificazione, ma i terremoti, come tutti gli altri elementi della natura, seppur possibili non sono sempre esattamente prevedibili e le azioni preventive non sempre attuabili in tempi ragionevoli.

Ne consegue che se il terremoto, non una eruzione od uno smottamento anch’esso possibili sull’isola, hanno portato all’attenzione dell’opinione pubblica il dilagante abusivismo di Ischia, le morti, almeno in questo caso, non sono a questo ascrivibili, anche se la tendopoli, quella si, ne è direttamente conseguente.

Cittadini assolti?

Niente affatto, nessuno è assolto e tutti siamo responsabili, persino chi scrive, la società è fatta per questo, per dare vicendevole sostegno e distribuire responsabilità e non solo per cercare altri colpevoli del momento: se a Ischia è avvenuto un terremoto non è colpa di nessuno, ,a se a Ischia ci sono abusi edilizi è colpa di tutti ed insieme vanno definiti e risolti.

Due situazioni differenti con due diverse soluzioni, prevenzione anti-sismica, anti-idrogeologica, anti-eruttiva la prima, repressione delle condotte sbagliate la seconda.

Così da qualche giorno abbiamo tutti “scoperto” che ad Ischia ci sono abusi edilizi, di questo passo tra non molto diranno persino che “miracolosamente” sono state scoperte acque termali e tutto passerà ancora una volta nel cosiddetto “dimenticatoio”, resteranno gli abusi vecchi, ne sorgeranno di nuovi e quasi tutti saranno felici e contenti: appuntamento tra una cinquantina di anni al prossimo terremoto prevedibile.

Ma in definitiva, cos’è esattamente un “abuso edilizio” e, soprattutto, quali rischi comporta?

Esempi di abusi edilizi ne abbiamo avuti ed ancora ne abbiamo a iosa, un abuso edilizio è una costruzione contro la legge, una legge che a sua volta tiene conto di differenti fattor, facendo si che una casa antisismica può essere abusiva se eretta in una riserva naturale tanto quanto una casa non stabile può esserlo in un luogo che ha ottenuto la licenza, vanno quindi distinti gli abusi e classificati per quello che sono: rischio sismico, rispetto di norme ambientali, architettoniche, igieniche, etc.

Ad Ischia il problema maggiore sembra essere quello ambientale, cui si somma il rischio sismico, ma non solo, risultandone un abuso generale difficilmente classificabile singolarmente, aggiungendo a questi abusi quelli che negli ultimi tempi sono classificati come “abusi di necessità”, vale a dire una contraddizione in termini: come può una cosa “necessaria” essere un abuso?

La soluzione è semplice, si tratta di abusi, vale a dire edifici privi di licenza edilizia o con licenza parziale, senza dei quali una famiglia senza altri mezzi dovrebbe vivere all’aperto od in tenda, quindi in “stato di necessità”.

Come definire e condannare queste situazioni di abuso? Semmai l’abuso è fatto da chi consente la costruzione di “mostri” di cemento di fronte a bellezze naturali e non consente a costoro, in stato di necessità, di edificare una piccola casa, con il risultato che, considerazione su considerazione, si scopre che il fenomeno è complessivo e spesso globale, sommando o sovrapponendo in modo complicato e confuso le necessità dei cittadini, sovrani secondo costituzione, al rispetto per ambiente, le amministrazioni incapaci od interessate ed gli affaristi sempre pronti dietro l’angolo ad approfittare di qualsiasi situazione.

Oggi assolvere o condannare per un terremoto è un esercizio inutile, guardare al domani con spirito costruttivo e pianificatore è molto meglio, perché mentre si discute dell’abusivismo di Ischia odierno, domani 24 agosto 2017 sarà un anno che ad Amatrice qualcuno vive ancora in tenda dopo l’evento di magnitudo 6.0 che ha devastato la sua casa e se in Italia si documentano morti per terremoti da quando l’uomo registra la sua memoria è anche vero che molti piani di prevenzione sono già disponibili, con relative stime di costi, enormi, ma necessari.

Secondo molti di questi studi, per “mettere in sicurezza” tutti gli edifici italiani con una buona approssimazione di efficienza servirebbero almeno 850 miliardi di euro, lasciandoci solo due alternative: cominciare a raccoglierli e spenderli bene od aspettare il prossimo terremoto per poter trovare altri responsabili e piangere i nostri morti.

A questo servono gli investimenti, se sapremo convincerci di essere il nostro futuro, potremo imparare dal nostro passato per usare il presente affinché il domani possa essere un oggi migliore.

TERREMOTO. IL MOSTRO DI ISCHIA E DEI CAMPI FLEGREI

DI PIERLUIGI PENNATI
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A Ischia c’è un mostro, anzi, ci sono tanti mostri e non tutti risiedono sull’isola: sono tutti coloro che continuano a pensare che i problemi siano da rincorrere e non da prevenire e che quello che fanno loro debba sempre essere speciale e giustificato rispetto a quello che fanno tutti gli altri.
Così, un giorno, una scossa di terremoto di 3.6, portata dai sismologi a 4.0 per l’effetto di amplificazione locale, fa crollare palazzine e cornicioni uccidendo persone e ferendone altre, quando, in condizioni “normali”, questo non dovrebbe assolutamente accadere.
Già, condizioni normali, cosa significa?
Significa che Ischia è una miniera d’oro a cielo aperto, ad Ischia l’oro si chiama mare, montagna e sottosuolo termale in un ambiente isolano che rende difficile scappare e quindi a bassa piccola criminalità, che rende tutto il territorio terreno di sfruttamento e possibile bersaglio della criminalità organizzata, quella che non si vede per le strade ed opera dalle case, dagli uffici e sfrutta tutto e tutti senza guardarsi troppo attorno.
La cosa potrebbe sembrare non troppo grave, se non fosse che nello stesso posto si concentrino i tre più grandi rischi della nazione, quello vulcanico, Ischia è un vulcano attivo dell’area flegrea che potrebbe eruttare in qualsiasi momento, quello idrogeologico, con continue frane e smottamenti, e quello sismico, non prettamente legato all’attività vulcanica, ma a quella tettonica, già avvenuto disastrosamente in passato quando le vittime furono oltre 2000.
Davanti a questa evidenza non possiamo pensare che il mostro sia sottoterra, ma sopra di essa, si chiama abusivismo e pressapochismo interessato, due elementi che congiuntamente producono un territorio devastato da cemento fragile, brutto da vedere e che si sbriciola al minimo colpo di vento.
Ma il problema non è solo ad Ischia, è dappertutto, anche se in questa zona è forse più esteso, tutti sanno che il Vesuvio prima o poi esploderà e che l’attesa dell’evento a Napoli potrebbe essere paragonabile a quella della città di San Francisco, che aspetta il Big Ben dalla Faglia di Sant’andrea.
L’esperto vulcanologo della New York University Flavio Dobran, ha scritto solo pochi mesi fa, in un suo studio documentato, “All’improvviso il Vesuvio che sonnecchia dal 1944 esploderà con una potenza mai vista. Una colonna di gas, cenere e lapilli s’innalzerà per duemila metri sopra il cratere. Valanghe di fuoco rotoleranno sui fianchi del vulcano alla velocità di 100 metri al secondo e una temperatura di 1000 gradi centigradi, distruggendo l’intero paesaggio in un raggio di 7 chilometri spazzando via case, bruciando alberi, asfissiando animale, uccidendo forse un milione di esseri umani. Il tutto, in appena 15 minuti”.
Quando?
Statisticamente le eruzioni su larga scala avvengono una volta ogni mille anni, quelle su media scala una volta ogni 4-5 secoli e quelle su piccola scala ogni 30 anni, quindi, sempre secondo l’esperto, se consideriamo che “l’ultima gigantesca eruzione su larga scala è quella descritta da Plinio il Vecchio: quella che il 24 agosto del 79 dopo Cristo distrusse Ercolano e Pompei uccidendo più di duemila persone. La più recente eruzione su media scala è quella del 1631, che rase al suolo Torre del Greco e Torre Annunziata, facendo 4 mila morti in poche ore“, potremmo essere più vicini all’evento di quanto si possa immaginare.
Cosa fare?
La vicenda non è semplice, dato che la ragione vorrebbe una cosa, il cuore un’altra e l’interesse senza ragione e cuore da tanto, troppo tempo spadroneggia quasi indisturbato e con la complicità delle persone che vivono nelle stesse zone a rischio incriminate.
Eppure qualche soluzione potrebbe esserci, forse non definitiva, ma efficace, bisognerebbe cominciare a pensare che il cambiamento e la ricostruzione nascono da noi e prima che qualcosa crolli, bisognerebbe smettere di sperare che “statisticamente” ci possa andare bene e cominciare a sviluppare uno spirito collettivo per il quale i diritti ed i doveri sono condivisi e di tutti e non solo diritti nostri e doveri altrui, lo stato siamo noi, anche se ci vogliono far credere diversamente, per governare bene si deve partecipare con coerenza e senso di giustizia alla vita pubblica affinché tutti ne possiamo godere.
Fare le cose “secondo le regole” non è prerogativa degli stupidi, ma puro egoismo, se tutti costruissimo edifici adatti alla località in cui sorgono, se tutti evitassimo di sfruttare selvaggiamente il territorio, se tutti ci comportassimo onestamente non ci sarebbe bisogno di cercare alcun colpevole per i mali che ci affliggono, ma cercheremmo solo soluzioni ai problemi che si manifestano.
Il mostro non è fuori di noi, non è nel sottosuolo, in un temporale o dentro un vulcano, il mostro risiede dentro di noi, è fatto di egoismo stupido ed ingiustificato, di indifferenza ed insensibilità, di miope visione del futuro e dell’idea che noi si sia sempre dalla parte della ragione e gli altri dal torto, possiamo batterlo, ma solamente cominciando da noi stessi.

FERNANDO ALVAREZ: IL VINCITORE É CHI SA FERMARSI

DI PIERLUIGI PENNATI
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I Mondiali di nuoto Masters di Budapest non sono certo tra le gare più seguite, eppure, se i suoi partecipanti si allenano come e forse più degli atleti più giovani e non sono meno determinati a vincere, ci sono gare che non si possono disputare, sono le gare contro se stessi, contro il rispetto della persona, della vita e della morte.
Così Fernando Alvarez, 71 anni, dopo essersi allenato molto e con grande determinazione a voler vincere le sue gare, non ha comunque potuto fare a meno di provare rispetto per le vittime dell’attentato di Barcellona che ha sconvolto il mondo e non avendo trovato notizia di un fuori programma nelle mail ricevute dal comitato organizzatore gli ha scritto chiedendo un minuto di silenzio prima delle gare.
Non ha ottenuto nessuna risposta, ma non si è perso d’animo, prima della gara ha parlato con la giuria e con la direzione, ma ancora nulla da fare: non c’è tempo da perdere, nemmeno un minuto, un minuto di rispetto.
Così gli attempati atleti si dispongono sui blocchi e gli arbitri danno il via. Alvarez, però, resta immobile sul suo piedistallo prendendosi un minuto di concentrazione e raccoglimento in segno di rispetto per le vittime, per lui il rispetto per l’uomo non può gareggiare con la semplice voglia di vincere una gara atletica.
Terminato il minuto di silenzio parte regolarmente e termina la sua prova.
Tutto normale, la gara è vinta, ma non quella contro altri uomini, quella contro le coscienze indifferenti di tutti.
Alvarez non ha avuto la medaglia d’oro, ma il pubblico ed i media gliela hanno assegnata lo stesso, pochi ricorderanno chi ha vinto la gara dei muscoli, tutti ricorderanno il gesto di Alvarez che resterà per sempre negli annali di uno sport che qualche volta fa propaganda e qualche altra volta si rivela cinico ed indifferente.
Oggi sappiamo che almeno per uno sportivo vincere è meno importante che rispettare il prossimo.
Questo era forse il valore olimpico voluto da Pierre de Coubertin nel fondare i moderni Giochi olimpici, quel “l’importante non è vincere, ma partecipare” del vescovo Ethelbert Talbot, da lui rilanciato, aveva ed ha esattamente questo sapore: il rispetto prima di tutto.
Per Fernando Alvarez “Certe cose non valgono tutto l’oro del mondo”, purtroppo il numero delle persone che la pensano come lui sembra ridursi di anno in anno.
Chapeau, Fernado Alvarez.

EBREI E DOCCE, QUANDO IL DIALOGO POTREBBE FARE LA DIFFERENZA

DI PIERLUIGI PENNATI
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Le parole ebreo e doccia evocano spesso gli orrori delle Shoah, ma questa volta non centra nulla, il fatto è accaduto all’Aparthaus Paradies di Arosa, sulle Alpi svizzere: i proprietari hanno affisso due cartelli nella struttura, uno in piscina, per invitare gli ospiti ebrei a farsi la doccia prima di immergersi, ed uno in cucina, dove venivano istituiti turni per l’accesso al frigorifero da parte degli ebrei.

Una famiglia di religione ebraica ha lamentato incomprensioni fin dall’inizio: “All’arrivo in hotel abbiamo detto alla direttrice che siamo ebrei e lei ci ha detto che in questo periodo arrivano molti ebrei. Non le abbiamo detto niente perché non volevamo cominciare una lite”, ma alla vista dei cartelli non si sono potuti più trattenere ed hanno immediatamente informato la vice ministro degli esteri di Tel Aviv, Tzipi Hotovely che senza altre formalità ha chiesto in fretta alla struttura le scuse ufficiali per “questo atti di antisemitismo della peggiore specie” ed ha informato l’ambasciatore israeliano in Svizzera di richiedere una condanna formale da parte del governo.

Per la Vice Ministro israeliana “l’antisemitismo in Europa è ancora una realtà e dobbiamo garantire che la punizione per incidenti come questi serva da deterrente per chi ha ancora il germe dell’antisemitismo”.

Anche la reazione Svizzera non si è fatta attendere, il ministro degli Esteri Elvetico ha subito replicato che la Svizzera “condanna il razzismo, l’antisemitismo e ogni tipo di discriminazione”.

Ma non è finita qui, il centro Simon Wiesenthal ha chiesto di “chiudere l’hotel dell’odio e punire la sua direzione”, una richiesta è stata rilanciata a Booking.com per ritirare l’Aparthaus Paradies dalle sue proposte e metterlo su di una “lista nera“ e sulla piattaforma change.org è stata poi lanciata una petizione per chiedere la chiusura dell’hotel Aparthaus Paradies  “se non cambierà atteggiamento in relazione ai clienti ebrei, che devono essere trattati come tutti gli altri ospiti”.

Una tempesta immediata ed un incidente diplomatico sfiorato tra le due nazioni, ma secondo la direttrice della struttura, i cartelli sono stati affissi per ragioni precise e che nulla hanno a che fare con l’antisemitismo, anzi, proprio i clienti ebrei sarebbero i benvenuti e sempre numerosi, sostenendo che gli avvisi si erano resi necessari dopo aver “notato che alcuni fanno il bagno in piscina senza prima fare la doccia. Altri clienti mi hanno chiesto di fare qualcosa e ho scritto un po’ ingenuamente questi cartelli, avrei fatto meglio a rivolgermi a tutti i clienti in generale”.

Niente antisemitismo, quindi, ma ragioni igieniche alle quali anche gli ebrei ortodossi, che si fanno il bagno con la maglietta, si devono attenere per rispetto di tutti.

Il secondo cartello, in cucina, con la scritta “I nostri clienti ebrei hanno accesso al frigorifero solo dalle 10 alle 11 e dalle 16,30 alle 17,30. Speriamo comprendiate che il nostro personale non può essere disturbato senza sosta”, sempre secondo la direttrice serviva a regolamentare l’accesso al frigorifero privato della struttura durante gli orari di servizio del personale dipendente, che non è presente al di fuori di quelli indicati, a causa del fatto che ai clienti ebrei, e solo a loro, in aggiunta al frigorifero a disposizione di tutti gli ospiti viene concesso anche l’uso del frigorifero dello staff per agevolare le loro abitudini alimentari dovute alla scelta religiosa.

Anche questa volta nessuna discriminazione, anzi, un ampliamento degli spazi non concesso ad altri, un beneficio che dimostrerebbe che sebbene, la direzione dell’hotel ha certamente commesso una grande leggerezza nell’apporre quei cartelli così espliciti, qualche volte sarebbe meglio iniziare con il parlare con chi hai vicino e cercare di chiarire la situazione prima di scatenare una guerra internazionale tra governi, razze e religioni.

Così resta oscuro il perché la vice ministro degli esteri di Tel Aviv, l’ambasciatore israeliano in Svizzera, il ministro degli Esteri Elvetico, il centro Simon Wiesenthal, Booking.com e la piattaforma change.org abbiano saputo della cosa prima della direzione dell’hotel.

Ovviamente fin qui le scuse le hanno fatte i presunti antisemiti, i presunti intolleranti sono ancora a piede libero.

Il dialogo è alla base di tutto, pratichiamolo.