QUANTI ALTRI DOVRANNO MORIRE?

DI PIERLUIGI PENNATI

La storia è sempre quella, ormai ci siamo abituati: operai che lavorano in ambiente tossico e restano intossicati, come mai?

L’evidenza dovrebbe essere che nessuno di loro indossava presidi adatti a proteggerli dalle esalazioni tossiche, altrimenti almeno uno si sarebbe salvato, invece sei operai che lavoravano per operazioni di pulizia di un forno all’interno di una ditta di materiali ferrosi in via Rho, a Milano sono stati soccorsi dopo essersi intossicati, quattro di loro sono stati trovati dal 118 in condizioni disperate, tanto che due di loro sono sono morti poco dopo per arresto cardiaco durante il trasporto all’ospedale di Monza e al Sacco di Milano ed altri due sono giunti gravissimi.

Il bilancio finale della giornata sarà poi di tre morti e tre intossicati.

Quando si lavora per vivere non si dovrebbe morire per lavorare, eppure la totale deregulation voluta dai governi degli ultimi venti anni, di destra o sinistra che siano stati, ha ormai portato a dover operare in condizioni disperate: la sicurezza costa e per abbassare il costo del lavoro si deve solo fingere di farla.

Se fossero le prime vittime dovremmo pensare ad un caso sporadico, invece, da qualche tempo gli incidenti sul lavoro sono in aumento, in particolare nel settore dei servizi alle imprese che registra un +6%, guarda caso proprio il settore più soggetto alla deregulation degli appalti e dei subappalti, dove, per risparmiare anche pochi centesimi, si contravviene palesemente a qualsiasi norma di sicurezza: non si comprano scale, cinture di sicurezza, maschere antipolvere e persino antigas, dato che ogni presidio è un costo aggiuntivo che rende la propria offerta meno concorrenziale e quindi si dichiara sulla carta di acquistare e poi non lo si fa veramente o, al massimo, si riusa quello che già si ha anche quando non lo si può fare.

Sfuggire ai controlli e prendere quei pochi maledetti euro che ti offrono per lavorare è la parola d’ordine.

Quando si muore per lavorare, invece che lavorare per vivere ci si dovrebbe fare delle domande serie e quando si governa non si dovrebbe derogare alle più basilari norme degli stati liberi: la vita e la salute dei cittadini devono essere poste davanti a tutto.

“L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro” (art. 1 della Costituzione), non mi stancherò mai di ripeterlo: si deve lavorare per vivere il meglio possibile, non si può vivere solo per lavorare e, per giunta, rischiando la pelle.

Chi non fa nulla per ovviare a tutto ciò è complice allo stesso modo di chi ha istituito questo sbagliato stato di cose per la nazione e, per la proprietà associativa, chi vota anche uno solo di questi è a sua volta complice dei primi.

Siamo in campagna elettorale, sentiamo le solite promesse e viviamo il momento peggiore degli ultimi decenni per le condizioni economiche ed ambientali di lavoro, dimentichiamo l’economia internazionale e pensiamo un po’ di più a noi stessi: quello che capita ad uno può capitare a tutti, quegli operai morti ed intossicati sono nostri parenti stretti, sono quelli che ci stanno dicendo che lavorare oggi non è più dignitoso ed è diventato persino pericoloso al punto da perdere la vita con facilità.

Siamo tanti, possiamo cambiare, dobbiamo cambiare, serve solo uscire dagli stereotipi e dagli egoismi e cambiare cacciando tutti coloro che non hanno mantenuto fede al loro mandato.

QUELLA CONCORRENZA EUROPEA CHE FA SCAPPARE WHIRPOOL

DI PIERLUIGI PENNATI

Il lungo corteo che ieri ha percorso i cinque chilometri che separano lo stabilimento dal centro cittadino di Riva di Chieri, in provincia di Torino, è passato anche davanti all’oratorio dove da qualche mese campeggia uno striscione: «Noi stiamo con i lavoratori della Embraco».

Questa l’ennesima azienda che delocalizza andandosene dall’Italia, questo il paese dove tra pochi giorni ci saranno quasi 500 nuovi poveri senza un lavoro vero, non un lavoretto od un impiego temporaneo, un lavoro vero e che si pensava stabile che di colpo, quasi senza preavviso, viene a mancare.

È Whirlpool Usa, quotata a New York, che lo chiede, l’azienda Embraco, che per lei produce motori per frigoriferi, deve chiudere la produzione in Italia per spostarla, si dice, nello stabilimento di Spisska Nova Ves in Slovacchia, dove i lavoratori sarebbero già in allerta nonostante lo scontento per le condizioni lavorative poco dignitose.

La ragione?

Né la controllante Whirpool, che si limita a dare ordini, né Embraco la specificano, diramando solo una nota nella quale si conferma “l’intenzione di procedere alla cessazione della produzione nello stabilimento di Riva Presso Chieri, mantenendo comunque una presenza in Italia”.

Tutto arriva dopo anni di aiuti elargiti da Finpiemonte, e non solo, alla Embraco per continuare a produrre nello stabilimento di Riva: nel 2004 la giunta guidata da Enzo Ghigo, Forza Italia, sovvenzionò con 7,7 milioni di euro, il governo Berlusconi fornì 5 milioni e la provincia poco più di mezzo milione, mentre al governo della regione sotto Roberto Cota si devono le ultime risorse, non meno di due milioni sulla carta, assegnati solo per un terzo, mentre, nella trattativa che era già in corso dopo l’annuncio nelle ultime settimane di una riduzione della produzione, la giunta regionale in carica aveva offerto il restante milione e mezzo di euro, rifiutato però dalla proprietà che ora chiude e se ne va, anche se non completamente, nella nota diramata, l’azienda sostiene che “l’Italia rimane un Paese importante per Embraco che manterrà qui una presenza con un ufficio commerciale al fine di continuare ad assistere la propria clientela”, ben 40 unità che sopravvivranno ai 537 occupati, con un bilancio di 497 lavoratori licenziati.

Nella stessa nota si legge anche che “prima di giungere a questa decisione sono stati attentamente valutati diversi scenari alternativi ma nessuno di questi ha rappresentato una soluzione appropriata per continuare la produzione nello stabilimento” e l’azienda si dice anche “pienamente consapevole delle sue responsabilità nei confronti dei propri dipendenti”, per i quali “lavorerà in stretta collaborazione con i rappresentanti sindacali, le autorità pubbliche e i funzionari locali per cercare soluzioni perseguibili e su misura per il personale coinvolto”.

Ma la realtà è che, come sempre, le decisioni sembrano essere già state prese e ora si vorrebbero probabilmente usare gli strumenti di legge per evitare problemi e se possibile persino guadagnarci, anche perché se in Italia i dati ufficiali dicono che il costo del lavoro è di 27,5 Euro l’ora, in Slovacchia, dove sembra essere destinata la produzione, è di soli 10,2, con un più che dimezzamento del costo della mano d’opera per l’azienda.

Proprio la mano d’opera, è evidente, è l’unico elemento della produzione che sfugge alle leggi generali dei mercati, infatti se per una materia prima il valore dipende da fattori quasi incomprimibili e la trasformazione rientra negli investimenti, il lavoro umano dipende solo da quanto la persona è in grado di accettare e sopportare in termini economici e di tempo, quindi, almeno teoricamente, può essere portato agli estremi fisici attraverso la competizione tra i soggetti.

Così, senza regole che impediscano almeno ai paesi membri della comunità europea di “rubarsi” le imprese, attirandole con condizioni migliori per loro, e senza limiti generali che tengano conto del valore anche della dignità umana, in Europa si passa da un costo del lavoro di 42 Euro in Danimarca a 4,4 in Bulgaria e, senza cercare in nazioni lontane, nella sola Comunità Europea ci sono ben sedici nazioni dove il lavoro costa meno che in Italia, persino in Inghilterra, e, tra queste, dieci sono sotto la metà del nostro valore nazionale.

Così, in uno scenario nazionale dove si scoprono esistere realtà che già pagano i dipendenti pochi euro l’ora, a quasi nulla serviranno le promesse elettorali di fissare il salario minimo ad almeno dieci euro l’ora, servono invece riforme che tengano conto della dignità delle persone in modo globale o che ci possano sottrarre a questo perverso sistema di concorrenza tra stati, che dovrebbero essere “fratelli” e che invece si accaparrano attività piantandosi “coltelli” alle spalle, vale a dire uscire dall’Europa.

La politica dei favori alle imprese ha fallito, anche questo sembra essere evidente, serve ora un ritorno ad una politica della nazione, curiosamente quella stessa politica attuata a partire dalla fondazione della repubblica che, salvaguardando ed aumentando diritti e dignità dei lavoratori, è stata capace di portare l’Italia fuori dalla crisi del dopoguerra, ma che è durata solo fino agli anni ’80, quando, in nome di un’economia globale sconosciuta al popolo, si sono cominciati a erodere, fino ad annullarli, diritti e tutele, non solo del singolo ma anche della società, arrivando alla cancellazione della divisione tra affari e commercio che prima proteggeva il mercato del lavoro e che oggi sta portandolo alla distruzione.

Embraco non sarà l’ultima azienda che se ne va, le aziende, se i governi non fermano questi processi, si spostano dove conviene a loro e non dove conviene ai dipendenti: Adriano Olivetti, inascoltato, pensava ad una “fabbrica per l’uomo” e non ad un ”uomo per la fabbrica”, dopo tanti anni oggi rischiamo di non avere nemmeno più le fabbriche.

COME IN TUTTA LA VITA DAVANTI: L'INFERNO DEL LAVORO PRECARIO

DI PIERLUIGI PENNATI

Qualche volta si dice di mettere tutto se stessi nel lavoro e di portarselo persino a casa, a Roma, invece, i dirigenti di un call center andavano proprio a casa, o quasi con i dipendenti.

Era forse per ottenere maggior efficienza, o solamente per soddisfazione personale, che Rosa Fiorini e Cesare Porrà, dirigenti di un call center, avrebbero imposto ai dipendenti regole non scritte ed oggi classificate come atti persecutori dalla procura della repubblica di Roma.

L’azienda Euro Contatc srl, operativa insieme alla consorella Fenice srl tra i cui clienti c’è anche l’Eni, è stata chiamata a giudizio da una ex dipendente, per ora sola, che ha raccontato di essere stata cacciata dal posto di lavoro per aver intrecciato nel giugno 2016 una relazione con uno dei team leader, a propria volta licenziato.

Quanto succedeva sul posto di lavoro è ora sotto inchiesta e secondo l’accusa esisterebbe un vero e proprio «metodo della Fenice», dal nome del secondo call center dove avverrebbero i soprusi, tra questi, il divieto di relazioni sentimentali tra colleghi, alla base della prima accusa contro i dirigenti, ma anche la proibizione di aiutare i compagni di lavoro in difficoltà, anzi lasciarli sbagliare e persino “soffiare” le lacune del vicino di scrivania sarebbero richieste previste per permettere di farli umiliare dai superiori, inoltre mai prestare denaro a qualsiasi titolo ad altri dipendenti, il divieto assoluto di tenere nella propria rubrica personale i numeri di telefono del personale licenziato e persino il divieto categorico di frequentare i colleghi in gruppo fuori dal lavoro senza la presenza dei capi.

Negli atti di inquisizione la PM Antonella Nespola scrive addirittura che «le comunicazioni possono avvenire soltanto nel gruppo di Whatsapp aziendale» per poterne probabilmente controllare le opinioni.

Un altro ex dipendente, sentito dalla PM circa le relazioni personali tra dipendenti, ha dichiarato che «Secondo la Fiorini, portano alla creazione di un nucleo troppo compatto», ovvero che il personale si può coalizzare contro di lei e smettere di sottostare ai suoi soprusi, la punizione: il licenziamento in tronco.

Le stringenti regole aziendali, comunicate oralmente ai nuovi assunti, sarebbero state valide 24 ore su 24 ed in qualsiasi luogo i dipendenti si fossero trovati, ma il legale degli inquisiti, Elio Bellino Panza, contesterebbe i fatti e replica: «Non esiste alcun “metodo Fenice”, in azienda tutti possono avere relazioni sentimentali».

La prima udienza del processo sarà celebrata a maggio e per adesso vede solo una ex dipendente a promuovere l’azione legale costituendosi parte civile assistita dal suo avvocato Graziella Zingarelli, anche se tante sarebbero le testimonianze concordi raccolte durante le indagini che confermerebbero l’esistenza delle prescrizioni vessatorie.

Pur assurda, la storia, riportata per prima dal Corriere, non è così incredibile e ricorda da vicino l’ambiente descritto nel film del 2008 «Tutta la vita davanti», diretto da Paolo Virzì e liberamente ispirato al libro “Il mondo deve sapere” di Michela Murgia, che si sviluppa nel call center Multiple Italia: una pellicola di denuncia degli effetti deleteri e perversi sull’ambiente di lavoro del precariato, segno che il problema non emerge solo ora, ma viene da lontano.

Secondo uno dei testimoni che ha lavorato nel centro tra il 2012 ed il 2016, l’ideatrice del «metodo della Fenice», sarebbe Rosa Fiorini, «una che considera l’ufficio come casa sua», invasata come Daniela, la capo telefonista del film di Virzì e che quando ha una delazione «va da chi è in difficoltà dandogli del fallito».

Altre due ex impiegate, che dichiarano di essere scappate per il troppo stress cui erano sottoposte, aggiungono benzina sul fuoco, una aggiungendo che «noi ragazze ci vedevano il venerdì, ma solo se c’era la Fiorini, mentre i maschi uscivano con Porrà, senza di loro non potevamo organizzare nulla» ed un’altra di essere scappata quando la Fiorini l’aveva accusata di avere una relazione con un altro dipendente: «Mi diede della poco di buono, non volli nemmeno il TFR».

Ci raccontano da anni che serve elasticità nelle assunzioni, che i lazzaroni devono poter essere licenziati e che le regole troppo ferree per le assunzioni non favoriscono l’economia, ma la precarizzazione del posto di lavoro ha ormai portato non solo a questi fenomeni, ma addirittura all’impossibilità di pianificare la propria vita presente e futura perché i datori di lavoro pretendono ormai di controllare anche la nostra vita privata e le istituzioni non forniscono più alcuna garanzia di sopravvivenza a chi non ha un lavoro stabile, assurda contraddizione in termini.

Si parla tanto di riforma dell’articolo 18 della legge 300/70, ma nessuno si ricorda che quella legge contiene altri 40 articoli mai riformati e che i primi 13 sono contenuti nel Titolo I, denominato “Della libertà e dignità del lavoratore”, tra queste sono specificate la libertà di opinione (Art. 1), il divieto di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori e tanto meno di quello diretto sulle sue cose personali (Art. 4), la tutela e la prevenzione della salute e dell’integrità fisica dei dipendenti (Art. 9), la tutela delle mansioni del lavoratore (Art. 13), anche se quest’ultimo è stato minato dalle norme introdotte con il Jobs Act.

La legge 300/70 è stata approvata dopo tumulti e proteste, era e rimane una legge di progresso e civiltà di cui l’Italia si è potuta dotare a seguito del sacrificio di migliaia di lavoratori, alla fine sarebbe già sufficiente far rispettare le norme che esistono, anche se molte di quelle modificate dovrebbe essere oggi recuperate.

L’Italia non ha un salario minimo stabilito per legge e non ha una vera legge che sanzioni duramente chi non rispetta le norme esistenti, anzi, alla fine non fa nemmeno rispettare le leggi che esistono tramite una giurisprudenza che mischiando interpretazioni di norme vecchie e nuove, alla luce delle aperture dei mercati in ambito internazionale per favorire il mero computo finanziario degli stati, ha già di fatto annullato quasi completamente il titolo del Titolo I della legge 300/70: “la libertà e dignità del lavoratore”.

Il caos del Call center romano non è certamente isolato e non si svolge solamente in quel tipo di ambiente, tutti i luoghi di lavoro dove si impiega personale precario sono a rischio se non già affetti della malattia del sopruso e dell’annientamento della dignità della persona.

È Tempo di smettere di stupirci di situazioni del genere, non per abitudine lasciando che tutto accada passivamente, ma è tempo di ribellarci civilmente, l’unico strumento democratico ancora nelle mani dei cittadini sono le elezioni.

Paolo Borsellino ha detto: ”La Rivoluzione si fa nelle piazze con il popolo, ma il cambiamento si fa dentro la cabina elettorale con la matita in mano. Quella matita, più forte di qualsiasi arma, più pericolosa di una lupara e più affilata di un coltello”.

Se pensiamo che Paolo Borsellino non sia morto invano seguiamo il suo insegnamento in massa, l’occasione è vicina e sarà l’unica per altri cinque anni.

L'INUTILE POLEMICA DEI SACCHETTI BIO

DI PIERLUIGI PENNATI

L’anno scorso credo di aver usato in un supermercato un massimo totale di 20 sacchetti bio o meno, di solito evito i sacchetti e riciclo quelli che già ho e trovo la tassa sui sacchetti una cosa ridicola, invece di trovare soluzioni imponiamo tasse e ci distraiamo dal vero obiettivo.

Ma se l’obiettivo è usare meno plastica, ci sono molte cose da fare prima di imporre tasse, per esempio in Germania ci sono 25 centesimi di deposito su ogni bottiglia di plastica, grande o piccola che sia, se la riporti al negozio te li ridanno, se non la riporti un clochard la ripesca dal cestino delle immondizie e la riporta lui al posto tuo, così si becca il quarto di euro con il quale, ho visto personalmente, si compra da mangiare, lo stesso per il vetro, da 8 a 12 centesimi a bottiglia.

Risultato: non ci sono in giro bottiglie, né di plastica né di vetro, eppure ne bevono di birra in Germania…

Ma l’ultima frontiera tedesca, non ci crederete, sono i gasatori per l’acqua, con una bombola ricaricabile si producono da 40 a 60 litri di acqua gasata usando quella del rubinetto, da quando ne possiedo uno non compero più plastica e vi assicuro il sapore è persino migliore e la qualità garantita, cosa non sempre vera per le bottiglie acquistate al supermercato… inoltre non ho il problema dello stoccaggio e dello smaliomento a casa.

Insomma, si può fare di meglio senza tante polemiche e/o grandi sforzi, tanto un’altra tassa è pronta all’orizzonte, ma perlomeno posso discutere di come tornare indietro dietro, a quando non c’era il Jobs Act e Renzi era uno sconosciuto, almeno a scuola, anche se lo chiamavano il bomba, non faceva danni all’Italia.

Voteremo?

Spero di si e spero che NON ri-voteremo quelli che hanno promesso giustizia sociale ed hanno giustiziato la società.

FINE LEGISLATURA CON IL BOTTO

DI PIERLUIGI PENNATI

Sta per finire l’anno, con esso anche la legislatura e, forse, per il momento il peggior periodo di crisi della nostra repubblica, persino nel dopoguerra vi era almeno la speranza della ripresa, mentre oggi non sembrano esserci prospettive in vista.

Ormai da anni ci hanno abituato che la politica e gli amministratori pubblici non pianificano più nulla, nulla che vada oltre la propria previsione di permanenza in carica, vale a dire il governo di anno in anno, o di fiducia in fiducia, e gli amministratori locali, come i sindaci, non oltre il proprio mandato, quattro anni al massimo.

Già, perché il problema dell’amministratore pubblico sembra essere più il portare a termine personalmente un progetto che pianificare qualcosa di davvero utile per la società, infatti se una attività dura troppo a lungo sarà inaugurata da qualcun altro, probabilmente dell’opposizione, che prenderà meriti e gloria e nessuno vuole lavorare per regalare qualcosa ad altri realizzando così solo progetti di breve durata, con impatto psicologico e risultati immediati, magari svendendo proprietà pubbliche e i tassando i cittadini: rapido rientro di costi, ma nessuna prospettiva futura.

Dalla parte degli imprenditori, invece, sempre rincorrendo il risultato immediato è stato ormai sdoganato un metodo cruento, ma davvero efficace di operare: usare i dipendenti per i propri scopi capitalistici.

Con questo non voglio parlare di proletariato, rivoluzione comunista o lotta di classe, ma solo di interesse privato a discapito della collettività, ormai persa di vista dai grandi investitori che operano sempre più in ambito internazionale, complice l’allentamento delle barriere di confine tra moltissimi stati, in particolare nell’eurozona, ma non solo.

Mi spiego meglio, perché il problema viene davvero da lontano ed è ormai fissato solo nella storia: nel 1988 Silvio Berlusconi, allora relativamente giovane imprenditore, acquisiva la Standa, l’elemento è importante perché attraverso questa catena di supermercati sdoganava il metodo imprenditoriale moderno per il quale l’imprenditore organizza un’azienda ed i lavoratori, forti del loro impatto sul governo territoriale o nazionale e dell’impatto sull’opinione pubblica, ottengono le necessarie facilitazioni altrimenti negato ed il caso più evidente fu forse la nuova apertura di Mestre.

Questo supermercato venne allestito dalla Standa in un capannone industriale appena fuori città, senza le necessarie licenze ed adeguato allo scopo, dopo averlo riempito di merce ed assunto centinaia di dipendenti, la licenza commerciale fu, ovviamente negata, trattandosi di area precedentemente destinata dal comune ad altri scopi.

I dipendenti, appena assunti, perdevano già il lavoro “per colpa del comune” di Mestre che creava disoccupazione ed impediva lo sviluppo economico del proprio territorio, così gli amministratori, posti sotto accusa dall’opinione pubblica, furono costretti a consentire l’apertura dell’esercizio in tempi record e tutto si concluse con buona pace generale: un nuovo centro commerciale a servizio della città, nuovi posti di lavoro e benessere in arrivo per tutti.

Ma cos’era realmente successo?

Semplice, ignari in cerca di lavoro erano stati usati per ottenere una licenza altrimenti impossibile.

Come è finita la Standa?

Liquidata definitivamente nel 2012 dopo 14 anni di contenzioso giudiziario con i dipendenti.

Chi ci ha guadagnato?

Cercatelo voi in rete, io non voglio farmi querelare…

Da allora la scena si è ripetuta ovunque, con copioni differenti e con sceneggiature di volta in volta adattate, ma sempre lo stesso ritornello con i dipendenti ricattati usati come arma dai sempre più grandi e potenti gruppi industriali, facendoci così oggi chiudere l’anno con i dipendenti di Fiat, Alfa, Alitalia, Ilva, Perugina e Natuzzi che, se andrà bene, sotto il vischio troveranno la cassa integrazione e poi si vedrà.

Per loro, forse, con qualche sacrificio si potrà protrarre l’agonia ancora qualche mese, od addirittura qualche anno: salari sempre più bassi e condizioni sempre peggiori, in un’Italia la cui costituzione farcita di diritti ormai disattesi compie 70 anni proprio il 1° gennaio dell’anno che sta per iniziare.

Il lavoro è citato diciassette volte nel testo costituzionale, il concetto più esteso, più che un diritto, la base e fondamenta della repubblica italiana e forse proprio per questo il più colpito ed utilizzato: ultimo atto la Melegatti.

La vicenda Natale Melegatti 2017 è del tutto simile a quella della Standa 1989, 28 anni dopo i dipendenti sono stati usati dalla dirigenza per salvare l’azienda e con effetto temporaneo e limitato, infatti se è vero che è stato raggiunto l’obiettivo del milione e cinquecentomila panettoni prodotti e venduti, e con questo salvato il natale, pagati i debiti e gli stipendi arretrati, è anche vero che la colomba pasquale non è ancora al sicuro e che l’operazione salvataggio non può replicarsi ad ogni ricorrenza senza una pianificazione seria ed un piano industriale sostenibile.

A pesare sul futuro Melegatti sono quasi gli stessi problemi che affliggono le già citate Fiat, Alfa, Alitalia, Ilva, Perugina, Natuzzi ed altri 160 tavoli di crisi aperti in altrettante aziende italiane, vale a dire una gestione manageriale poco capace e delle pianificazioni industriali inefficienti che nulla hanno spesso a vedere con la crisi generale dei mercati.

Bisogna capire che la “crescita” non è il solo parametro che regge l’economia, esiste anche la stabilità e la decrescita felice, vale a dire un modo di vedere le cose ed il futuro che tenga conto anche del fatto che prima o poi ci si dovrà arrestare nel crescere e forse, ripeto forse, si dovrà persino decrescere in modo sostenibile.

Senza una pianificazione oculata continueremo a lasciar gestire ad industriali miopi, incapaci o, magari, solamente furbi, aziende che sfruttano i dipendenti oltre il consentito dalla dignità umana per poi dover gestire le crisi attraverso strumenti statali che non esistono perché non sorretti dalla stessa economia che si è consentito entrasse in crisi.

Vizi privati e pubbliche virtù ad alto costo sociale.

Tutto ciò non dovrebbe essere consentito dalla legge, pagare un dipendente 33 centesimi all’ora, come è successo in un Call Center siciliano, dovrebbe essere paragonato alla riduzione in schiavitù, deve esistere un limite legale sotto il quale non è possibile impiegare personale n uno stato civile, una paga oraria minima stabilita dalla legge in base alle esigenze di base per poter sopravvivere dignitosamente, non senza polemiche il Canton Ticino ha appena stabilito che per sopravvivere in Svizzera occorrono non meno di tremila franchi al mese, poco più di diciannove franchi all’ora di stipendio sotto il quale nessuno, ripeto nessuno, può essere impiegato in quel paese con pene severe per chi prova a farlo.

Questo perché secondo uno studio commissionato dallo stato ticinese, chi non ha abbastanza denaro in tasca smette di pagare nell’ordine: tasse, abbigliamento, medicinali.

Il risultato è che lo stato perde risorse e si impoverisce, le persone conducono una vita poco dignitosa e la salute generale peggiora proponendo sempre più emergenze sanitarie.

Soluzione semplice, efficace e degna di uno stato moderno ed io che ho sempre considerato gli svizzeri dei sempliciotti di campagna, scopro che invece sono solo semplicemente pratici, come serve essere nelle campagne.

Così alla Melegatti, ormai diventata il simbolo di questo Natale, a causa della nostra miopia generale restano i 15 milioni, pagati in contanti invece di venire finanziati, spesi per acquistare uno stabilimento inutile ed ancora chiuso ed inattivo, i tour estivi e le sponsorizzazioni pagate al cantante Scanu, per il quale si dice la direttrice abbia un debole, invece di corrispondere regolarmente gli stipendi a 70 dipendenti e le scelte pubblicitarie e commerciali sbagliate e dannose che hanno portato l’azienda alla crisi attuale, azienda che, salvata dai dipendenti, non cambierà dirigenza e probabilmente metodi con la prospettiva di chiudere comunque. Staremo a vedere.

Anche Alitalia è ancora lì, i “capitani coraggiosi” tanto celebrati da Berlusconi e poi sponsorizzati da Renzi con il suo “se vola Alitalia vola l’Italia”, hanno fallito catastroficamente e, nonostante i continui “regali” ricevuti dai vari governi, non hanno saputo rilanciare la compagnia, solo comprimerne i costi, oggi in linea con il mercato globale, ma sempre incapaci di riempire gli aeroplani, vera ragione conclamata del fallimento oggi posto di nuovo solo sulle spalle di dipendenti e cittadini.

E gli stipendi dei “capitani”? Nessuno li ha mai toccati, sempre in rialzo, ingiustamente contro la tendenza al ribasso di quelli dei lavoratori.

Questo 2017 sta per finire e con esso anche la legislatura ed il, forse, peggior periodo per la nostra repubblica che mai come prima non vede prospettive valide all’orizzonte: la politica è divisa, la legge elettorale iniqua, i partiti allo sbando, tutti a cercare consenso tra gli estremi sentimenti, razzismo, diritti, emigrazione, speculazione, … tutto ciò che può colpire la sensibilità della popolazione e carpirne il voto, poi si ricomincerà a vivere alla giornata.

L’Italia, ma anche il resto del mondo, ha la necessità di ripartire dalle proprie basi, dalle radici della dignità umana e della giustizia: per moltissimi anni sono esistite leggi che ponevano le persone al riparo dalla crisi dell’uomo prima che del suo denaro, queste regole sono state cancellate per favorire i mercati che sono così cresciuti a discapito delle persone, con il risultato di cancellare la crescita della dignità e dei diritti umani di base, della libertà e del futuro di tutti noi.

Se davvero dobbiamo ripartire si deve ricominciare da quello che già avevamo conquistato con grandi sacrifici: la dignità dell’uomo.

Secondo la Caritas Migrantes dal 2014 in poi vi sono stati più italiani che hanno espatriano per lavorare, migranti economici, che stranieri che sono arrivati in Italia per lo stesso motivo, migranti economici, con un bilancio negativo sulla popolazione complessiva.

Secondo l’Associazione Italiana Residenti Esteri, AIRE, gli italiani che espatriano svolgono all’estero lavori che in patria rifiutano: camerieri, trasportatori, elettricisti, muratori, etc, realizzando di fatto uno scambio di mano d’opera con gli immigrati e la ragione di tutto ciò deve essere trovata nelle condizioni di lavoro, infatti gli italiani che all’estero fanno avori che non accettano in Italia lo fanno dove le condizioni economiche ed i diritti sono ancora considerati a livelli accettabili per una vita dignitosa, cosa ormai quasi impossibile in patria.

Così, in Italia, quei lavori ormai sottopagati e senza più diritti adeguati per i nostri connazionali, sono accettati da coloro che nelle rispettive nazioni di origine spesso non avevano nemmeno un passaporto e nella nostra terra, invece, hanno documenti e, seppur ancora pochi, diritti che non avevano la possibilità nemmeno di immaginare.

Quello che stiamo facendo è così trasformare lentamente la nostra nazione, che partecipa orgogliosamente ai meeting dei “grandi della terra”, in uno stato del terzo mondo, non per la presenza di troppi immigrati, ma per l’assenza di dignità tipica di quegli stati.

Se il nuovo anno deve segnare davvero una svolta, prima di tutto si dovrà tornare indietro, non approvando nuove leggi, ma ripristinando di quelle che già c’erano e tutelavano le persone, cancellando dapprima la legge Amato di riforma degli istituti bancari ed il decreto Biagi, per poi affrontare pensioni, Fornero, Jobs Act e tutte le dannose leggi di riforma degli ultimi governi.

Se non saremo capaci di tornare indietro, difficilmente potremo continuare ad andare avanti.

OFFRONO 12.000 EURO L’ANNO E POI PAGANO 92 EURO AL MESE

DI PIERLUIGI PENNATI

L’annuncio via web, 12.000 euro annui di retribuzione per un lavoro in un Call Center, pochi ma di questi tempi meglio che nulla, si devono essere detti quelli che hanno risposto, sede di lavoro a Taranto.

La realtà era però ben differente, un contratto firmato in copia unica, senza possibilità di leggerlo completamente e di rileggerlo con calma per comprenderne i contenuti, così, dopo quasi sessanta giorni l’amara sorpresa: un bonifico di 92 euro per un intero mese di lavoro, circa 33 centesimi l’ora per 1.200 euro l’anno, un decimo delle previsioni.

Secondo l’azienda è tutto regolare, una assenza dal posto di lavoro anche di soli tre minuti fa perdere il diritto al riconoscimento della paga oraria e dei minimi previsti, così gli stipendi, già contenuti, diventano praticamente nulli.

Dopo la dura scoperta, sette persone si sono rivolte ad Andrea Lumino della SLC CGIL Ionica che ha dichiarato di aver interessato i propri legali «che hanno valutato la possibilità di collegare questa situazione alla legge contro il caporalato».

Ma quando la realtà supera l’immaginazione ci si deve chiedere cosa ha permesso tutto ciò, qualche volta curare non è sufficiente, soprattutto se non c’è prevenzione adeguata.

Il problema non è se si tratta o meno di caporalato, il problema è quanto vale oggi il lavoro, indipendentemente da quale sia e da chi lo svolge, deve esistere un limite inferiore oltre il quale non sia lecito andare ed oltre il quale lo sfruttamento della manodopera può essere considerato schiavismo e non può essere tollerato dalla legge.

Secondo il premio nobel per l’economia Joseph E. Stiglitz “I salari pagati ai lavoratori flessibili devono esser più alti e non più bassi, proprio perché più alta è la loro probabilità di licenziamento. In Italia un precario ha una probabilità di esser licenziato 9 volte maggiore di un lavoratore regolare, una probabilità di trovare un nuovo impiego, dopo la fine del contratto, 5 volte minore e fino al 40% dei lavoratori precari è laureato.” Ed aggiunge, “Ma se li mettete a servire patatine fritte o nei call center, perché spendere tanto per istruirli?”.

Se vi sono sbilanciamenti negativi, serve fissare delle regole di base per far crescere l’economia in modo corretto, la precarizzazione del lavoro, secondo il ragionamento di Stiglitz, doveva essere bilanciata con un amento dei salari, invece è avvenuta la cosa opposta: l’aumento della precarietà ha abbassato i salari fino all’assurdo di far pensare qualcuno di poter pagare il lavoro 92 euro al mese.

L’operazione fatta in Italia sui problemi del lavoro a seguito della sua precarizzazione appare paragonabile a quella di un giardiniere che per migliorare la salute di una pianta che ha le radici malate ne pota le foglie, non solo non otterrà nulla, ma ritarderà solo una fine inevitabile con effetti finali catastrofici.

Se non cambiamo passo non ne usciremo e potremo solo peggiorare, ci indigniamo per i maltrattamenti agli animali, ci stupiamo per abusi e ruberie e poi non facciamo nulla per cambiare, ci saranno presto le elezioni e non potremo certo valutare chi non ha mai governato, ma potremo farlo con chi lo ha fatto male, non ha fatto nulla od ha persino peggiorato le cose, costui, o costoro, non dovrebbero essere più rieletti attraverso il voto, unico strumento democratico ancora nella disponibilità del cittadino.

Attendersi di poter ottenere un lavoro in modo clientelare, scambiando il proprio voto per un’aspettativa personale, sembra furbo, ma nella realtà uccide tutti: non possiamo incolpare gli altri per una cosa che dipende da noi, civiltà, coerenza e giustizia devono diventare motori universali e non qualcosa che viene sempre delegato a qualcun altro sconosciuto.

Il cambiamento inizia da noi, aspettarsi un lavoro ben retribuito senza verificare di cosa si tratta, accettare condizioni inferiori al minimo dignitoso, non denunciare e non fare nulla per cambiare, questi sono i veri mali della società.

Spetta alla politica ed agli amministratori pubblici cambiare ma il cambiamento, come sempre, inizia da noi, cambiamo e gli altri cambieranno con noi.

ALESSANDRO A 24 ANNI NON È NORMALE E SI LICENZIA

DI PIERLUIGI PENNATI

Alessandro a 24 anni non è normale e si licenzia, o meglio: non è normale che Alessandro a 24 anni si licenzi.

Già sono tempi strani, nei quali il lavoro è soggetto non ad un mercato, ma ad un mercimonio continuo dove l’unico valore in gioco è il profitto e la dignità umana non è più considerata, per questo non è normale licenziarsi, di questi tempi “ti” licenziano e la frase normale, “mi” licenzio equivale ad un suicidio civile che nessuno farebbe.

Eppure Alessandro, a 24 anni, prende questa decisione: “Ho pensato a lungo prima di pronunciare ad alta voce questa parola” – dice ad Invece Concita di Repubblica – “nel 2017. Ho lavorato per quasi un anno come barista”, “Ottimo ambiente, coi datori di lavoro e coi colleghi. Il mio problema era lo stipendio che, per quanto mi permettesse di vivacchiare, non mi consentiva di pensare al futuro“.

Ecco: un lavoro certo, ottimo ambiente e bravi colleghi, ma stipendio inadeguato e quando ti dicono così la prima cosa che ti viene in mente è di chiederti quanto sarà mai stato lo stipendio, dato che oggi se hai un lavoro è già una fortuna.

Ma Alessandro non è un caso isolato, Alessandro è solo uno che ne ha parlato, i nostri baristi e camerieri emigrano, dato che in Italia il loro lavoro non è più adeguatamente pagato, vanno in altre nazioni dove il loro lavoro è ancora valorizzato adeguatamente e con questo la loro dignità di persone.

Secondo il Centro Studi e Ricerche IDOS, della Caritas Migrantes, dal 2014 in poi nel nostro paese sono più gli italiani che emigrano all’estero che i migranti in arrivo, con un impressionante bilancio negativo che fa davvero riflettere: forse dobbiamo cominciare a renderci conto che dall’Italia non fuggono i cervelli, dall’Italia fuggono persone che non sono più disposte ad accettare lavori che non rispettano la loro dignità, mentre accettano gli stessi lavori in altri stati dove la persona è ancora considerata un valore e per questo retribuita in modo da poter “pensare al futuro”.

Alessandro, dopo il bar ci prova con “un noto marchio d’abbigliamento italiano”, viene assunto e “Il primo giorno mi vengono illustrate alcune regole basilari, del tipo: è vietato instaurare rapporti d’amicizia con i colleghi; è vietato perdersi in chiacchiere con i clienti; se non per esigenze eccezionali è vietato andare ai servizi durante le ore di lavoro, ci si va nei 10 minuti di pausa, rigorosamente timbrati, concessi solo con un minimo di 6 ore di lavoro giornaliere. È vietato bere un caffè nella pausa concessa, dato che l’azienda non dispone di macchinette“.

Il suo ruolo è cassiere e commesso, per il quale è anche “vietato lasciare il posto di lavoro entro il turno stabilito senza prima aver svuotato gli appositi carrelli carichi di merce usata durante la giornata, il tutto solamente dopo aver timbrato, evitando così di andare in straordinario.

Non solo, ogni “infrazione” viene catalogata e porta ad un “verbale”, vale a dire una nota negativa che peserà sui successivi rinnovi dell’impiego, in un ricatto continuo, della durata di tutto il periodo di vigenza contrattuale, che considera anche i “centesimi in più perché il cliente non li ha voluti di resto”, la “troppa confidenza” con clienti e conoscenti, costringendoti a non instaurare alcun rapporto umano nemmeno con i clienti abituali, ed il terrore “di aver piegato male una maglietta”, in una continua ed ininterrotta ansia da prestazione di lavoro.

Per Alessandro la domanda è “Perché mi lamento così tanto, direte voi? Quando c’è gente che un lavoro non ce l’ha o deve sottostare a regole peggiori delle mie?

La sua risposta è “Perché ho 24 anni. A queste regole io non ci sto” e se ne va ancora una volta, poi dice: “per fortuna al bar mi riprendono. Guadagnerò molto meno, ma racconterò una barzelletta ogni tanto, rispetterò il prossimo se mi rispetterà. Siamo esseri umani, non siamo macchine. Il lavoro è importante, ma anche la nostra vita. Non dobbiamo sempre subire, non dobbiamo per forza adattarci a tutto. Lavoriamo ma non dimentichiamoci di rispettarci”.

Nell’intervista, Alessandro Paola, 24 anni, ha deciso che non si possono sacrificare diritti in cambio di soldi, ma questo è proprio il problema, da troppi anni si discute di dare impulso all’economia rilanciando il lavoro e per farlo, invece di fissare regole di base che impediscano il suo eccessivo sfruttamento, si favorisce la precarietà e la compressione dei diritti in favore di dati statistici di occupazione che sono solo numeri matematici costruiti ad arte e che non rispettano più l’uomo che li produce.

Con il Decreto Scuola Lavoro, poi, questi numeri si gonfiano ancora chiamando persino gli studenti ad aumentare le statistiche con il loro lavoro, mentre nella realtà sono ancora a scuola, per l’INAIL uno studente assicurato anche un solo giorno perché “studia lavorando” è un occupato in più, per la società è solo uno studente sfruttato mentre sta ancora studiando.

Il tutto in nome di un “mercato del lavoro” i cui numeri devono essere in costante crescita, pena il fallimento del governo di turno che li snocciola, apparentemente numeri falsati solo per garantire una carriera politica, nella quale nel dire mercato del lavoro sembra si pensi invece al solo valore numerico che produce, senza nemmeno più considerare l’uomo che vi sta dietro, la sua dignità, libertà e morale.

Quando si mettono le persone nella necessità di dover rinunciare a queste cose, si sta facendo male alla società intera, il lavoro rende nobili proprio perché dà dignità e rende liberi ed autonomi, prerogativa un tempo riservata solo a regnanti, nobili e “dignitari”, appunto, cioè “meritevoli di dignità”.

Il lavoro che nobilita dovrebbe avere regole incomprimibili, sicurezza e diritti certi, invece oggi si agisce sempre più in nome di un mercato del lavoro, che altri non è che una mera competizione al ribasso di diritti e dignità in cambio di poca moneta.

Un mercimonio dell’umanità e dell’individuo, azzerati in nome del profitto.

Ci dicono da molto tempo che la competizione ed il mercato facciano bene al progresso dell’economia, ma un’economia che accumula beni a costo di uccidere la dignità delle persone non può essere considerata progresso.

Sono servite lotte anche cruente per nobilitare l’uomo attraverso il lavoro ed oggi gli chiediamo di lavorare senza alcuna nobiltà.

La prima frase dell’articolo 1 della nostra Costituzione cita: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” e prosegue con “La sovranità appartiene al popolo”.

Oggi, attraverso un sistema sempre più complicato di regole che rendono quasi impossibile la partecipazione democratica alla vita dello stato, la sovranità ci è già negata, cosa ne sarà del lavoro?

La parola lavoro è ripetuta ben 17 volte nei primi 40 articoli della costituzione, la frequenza maggiore tra gli argomenti in essa trattati e non è chiamata esplicitamente diritto solo perché di essi è il più importante, essendo il lavoro ben più che un “semplice diritto”, ma uno strumento, “lo strumento” per eccellenza, di emancipazione e progresso, quindi chi fa del lavoro un mercato privo di dignità per l’uomo rinnega, nei fatti, anche la nostra costituzione e non dovrebbe meritare la cittadinanza italiana.

Voglio uno stato che pensa alle persone e non persone che pensano ad uno stato, voglio vivere con dignità, voglio che il lavoro nobiliti e non solo debiliti.

Quasi cento anni fa Adriano Olivetti, che non era certo un semplice operaio, anche se fece brevemente l’operaio per imparare il mestiere, ma un industriale figlio di un industriale che poteva benissimo pensare solo al suo profitto, scrisse: “La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica” ed a chi gli chiese se tutto questo non fosse utopia, rispose: “spesso il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia a lavorarci. E allora può diventare qualcosa di infinitamente più grande”.

Caro babbo natale, ti prego, quest’anno non portarmi doni, portami dignità, sicurezza, autonomia, portami la certezza che quando trovo lavoro questo sia un lavoro vero, che possa essere chiamato tale e che soddisfi il famoso aforisma “il lavoro nobilita l’uomo“.

Portami nobiltà nel lavoro, per Alessandro e per tutti noi.

EZIOPATOGENESI DI UN PIRLA

DI PIERLUIGI PENNATI

Pirla: sostantivo maschile in uso nelle regioni settentrionali italiane il cui significato popolare generale attribuito è di “pene” o per estensione figurativa di “persona stupida, facilmente imbrogliabile”.

Sono di Milano, intendo dire anche di famiglia di origine milanese, e ne ho sentite di tutti i colori circa il significato della parola pirla, il 13 novembre 2002, sul giornale La Repubblica, ne veniva persino pubblicata una dotta spiegazione in occasione della querela ricevuta da Franca Rame per aver dato del “pirla”, ed anche ironicamente del “genio”, all’allora ministro della Giustizia ed esponente della Lega Roberto Castelli.

“Quel pirla del ministro Castelli si spaventa delle manifestazioni davanti alle carceri. Dovrebbe informarsi: le manifestazioni in appoggio allo sciopero della fame dei detenuti avvengono da decenni. Si informi… Le condizioni delle carceri sono tragiche e non sono affatto quelle descritte dal genio di Castelli…”, la frase incriminata.

Ma si può querelare qualcuno per una parola di cui non è chiaro il significato?

Forse, dato che il ministro, bergamasco della Lega Nord, e Franca Rame, milanese, parlano un dialetto affine e quindi dovrebbero comprendersi bene l’un l’altro, ma la giustizia italiana?

100mila euro chiesti alla querelata in sede da avvocati che, secondo quanto riportato dalla giornalista Natalia Aspesi che scrisse l’articolo, “deliziano il tribunale con una colta esegesi della parola pirla, per dimostrare quanto il loro assistito non la meriti. Prima di tutto, è offensivo che verso un ministro sia pure padano e leghista (però di Cisano Bergamasco, non milanese) sia stata usata una parola la cui origine appartiene al dialetto meneghino, “linguaggio storicamente utilizzato dalla popolazione meno colta dell’area milanese, in contrapposizione alla lingua dotta parlata dalla nobiltà e dal clero”. E forse da Castelli. Inoltre, pirla deve essere fatto risalire al latino pilus “che letteralmente significa pestello ma che veniva regolarmente adottato per indicare il membro maschile”. E dare del membro maschile a qualcuno “assume abitualmente il significato di attribuzione di scarsissime qualità intellettuali, accompagnate dall’assenza di presenza di spirito e di avvedutezza”.

Addirittura i capaci avvocati comparano un termine dialettale siciliano “minchione, che sarebbe certamente stato più offensivo, se la Rame l’avesse usato per un padano. Ma sia pirla che minchione “complice anche la maggior facilità di spostamento della popolazione sul territorio, hanno ormai travalicato i confini regionali…“.

Insomma un caso complicato dalla perfetta conoscenza della lingua, che altrimenti l’avrebbe reso semplice, vediamo perché.

Per spiegare cosa significa pirla si deve comprendere il dialetto milanese, pirla è la terza persona singolare del verbo “pirlare”, che a propria volta deriva da una cosa davvero semplice, una antica trottola di legno dalla forma di goccia rovesciata attorno alla quale si avvolgeva una corda per poterla lanciare.

Il gioco consisteva nel farla andare in alcuni posti predefiniti, tra alcuni paletti, contro un punto preciso di un muro o persino farla andare il più lontano possibile alimentando la roteazione con una frusta o la stessa corda utilizzata per il lancio, una cosa da abili giocatori, quindi, ma certamente non piacevole od edificante per la pirla (femminile come trottola) che veniva lanciata in una direzione e per effetto della sua rotazione e delle asperità incontrate, invece, era incontrollabile e … stupida.

Era però la rotazione a farla da padrone, quindi se la pirla si muove e “pirla” a sua volta, pirlare assunse il significato principale di girare: per posizionare una lampadina si deve pirlare nella sua sede, e le estensioni di girare a vuoto od in modo inconcludente.

Ma non è sempre stato un termine negativo, un milanese del passato non vedeva nulla di male nel far pirlare la propria dama danzando in balera, anche se lo stupido che gira senza una meta sicura o dice cose senza capo ne coda è forse il significato che nel tempo è stato più usato.

Sei proprio un pirla!

Significa sia che hai frainteso qualcosa o che sei davvero divertente nelle tue battute.

Ed il pene?

Qui la vicenda si complica e si perde nella fantasia popolare, dato che pirla ha dei sinonimi dialettali, ovvero parole che sono spesso usate con significati simili, tra queste spicca certamente il meno comune “pistola”, colui che le spara grosse, che a Firenze è detto il Bomba (e qui tutti ne conosciamo uno famoso), o anche “pestola” che come per la pistola ha una parte allungata che può essere vista come simbolo fallico.

Parole così usate che diventavano persino soprannomi di persone, in passato quasi una regola per tutti, e che non erano ritenuti così offensivi o vergognosi tanto da apparire persino in alcuni annunci e persino necrologi dove dopo il nome veniva apposto “detto il pestola”.

Anche il sinonimo lombardo, varesino, comasco e persino sconfinante nel piacentino, di “bìgul” o il bergamasco e bresciano “bìgol”, o persino il termine più generale “ciùla”, che nella forma verbale ciulare” assume il significato di avere un rapporto sessuale, sono incriminabili, dato che al pari di pirla assumono significati di stupido o membro maschile.

Il perchè di questa associazione più estesa è generale ed allargato a tutta la nazione, anche in altri luoghi si associa il pene al termine sciocco o stupido, non saprei definire chiaramente il perché, ma forse per la tendenza maschile a seguire le indicazioni provenienti dagli stimoli sessuali senza ragionare troppo, infatti non è infrequente sentire in un qualche dialetto, che qualcuno ragiona “con il pene” o, se particolarmente ottuso, persino “con il deretano”.

Così dal veneto e friulano “móna” (che però è l’organo genitale femminile), il siciliano “minchiuni”, al piemontese “picio”, all’italiano “coglione”, il ligure “belìn”, e chi più ne ha più ne metta, tutti i termini dialettali associati al pene assumo anche il significato di stupido, siano essi usati simpaticamente o meno.

Ma non è tutto, il termine “pirlare” si è trasferito nell’uso corrente italiano quando ci troviamo in cucina, “pirlare un impasto”, cioé arrotondarlo facendolo girare tra le mani o sul piano di lavoro per dargli una forma sferica regolare, è ormai diventato di uso comune e può essere facilmente reperito in rete, anche in questo caso, come nell’originale derivato da trottola, si fa girare, ovvero pirlare, qualcosa, ovvero l’impasto da cucinare.

Inoltre il termine pirla è stato così utilizzato un po’ in tutti i modi ed i significati limitrofi che persino il poeta Eugenio Montale gli ha dedicato una poesia dal titolo “Il pirla”, un cantante italiano chiamato Charlie ottenne un buon successo nel 1988 con la canzone intitolata “Faccia da pirla”, ed il gruppo musicale degli Articolo 31, costituito in periferia di Milano, ha pubblicato nel 2003 la canzone “I consigli di un pirla”.

Tornando per un istante alla vicenda di Franca Rame, che fu poi condannata in primo grado a pagare un risarcimento di 3 mila euro, ed alla legge in generale, va però detto che la giurisprudenza italiana, indipendentemente dalle origini del termine, è oggi concorde nel condannare l’uso della parola pirla, la Corte di Cassazione, con la sentenza 4036 del 2006, lo ha stabilito chiaramente ed inequivocabilmente, quindi attenzione al suo uso, va fatto solo con persone con cui si ha stima e confidenza in modo simpatico, dare del pirla a qualcuno può oggi costare caro.

Concludo con l’osservazione che Pirla è anche una delle 26 frazioni del Comune di Monteggio, nella Canton Ticino della vicina Svizzera, anche se in questo caso le notizie storiche ci dicono con certezza che deriva dal latino pirula, “piccola pietra”.

Insomma, abbiamo capito come un termine semplice, di uso comune ed usato al principio prevalentemente da bambini e ragazzi ha assunto nel tempo un significato molto differente, ai milanesi, però, piace continuare ad usarlo in modo simpatico, dare del pirla in questo contesto non offende nessuno e spesso fa ridere, “sei proprio un pirla se ti offendi per questo” 😉

ALLA RICERCA DELLA DIGNITÀ PERDUTA

DI PIERLUIGI PENNATI

“Forse sta venendo meno il valore della dignità umana. Io e tutti i lavoratori non siamo numeri, siamo persone, con una dignità che dovrebbe essere rispettata”.

È Marica Ricutti a parlare, la mamma licenziata da Ikea perché non poteva iniziare alle 7 del mattino il mercoledì a causa di una terapia per il figlio disabile, licenziata per un paio d’ore di impossibilità a recarsi al lavoro, nonostante non avesse mai chiesto alcun altro privilegio.

Sarebbe pleonastico e stucchevole ripetere la sua situazione, anche perché questo, in Italia, non conta più nulla, il valore dei cittadini in genere è quanto possono produrre in termini di valore economico, vale a dire che più vali se più lavori gratis, senza tutele e facendo debiti.

Da quando, a dicembre 2016, alla “giusta causa” di licenziamento la Cassazione ha aggiunto la motivazione di “mero profitto aziendale” il fondo è stato toccato: l’uomo è scomparso dall’orizzonte del lavoro ed è rimasto solo il suo codice fiscale.

Siamo nella “Repubblica democratica fondata sul lavoro” e non sappiamo difendere e valorizzare i lavoratori.

Ikea in Svezia tutela i lavoratori e costruisce asili per le loro famiglie, in Italia licenzia chi per la famiglia non riesce ad iniziare alle 7 del mattino un giorno solo alla settimana.

Qualcosa non quadra, se il problema non è l’azienda, evidentemente deve essere lo stato nella quale si trova, poi, facciamo sempre in tempo a lamentarci degli immigrati africani, unici che ancora accettano le condizioni di lavoro nel nostro stato, per loro che sono abituati a vedersi negata la dignità di umani è sufficiente un lavoro, per noi che siamo cresciuti nella convinzione di possederla, invece, non basta, per questo i nostri figli cercano lavoro all’estero, non fuggono i nostri cervelli, fuggono le nostre anime in cerca della dignità che meritano.

SAPETE COS'È IL BLACK FRIDAY?

DI PIERLUIGI PENNATI

Certamente: quando tutti fanno sconti incredibili e si compra bene…

Sembra assurdo, ma una giornata storica che è anche un monito è diventata una festa del consumismo.

Il black friday è stato il 24 ottobre del 1929 negli USA, fu forse il più grande crack della storia, le banche fecero tutte bancarotta a causa della speculazione e della bolla finanziaria che si era creata, le persone assaltarono gli istituti per tentare di riavere gli spiccioli rimasti in cassa, perché si tempi le banconote avevano una copertura in oro, cosa che oggi non è più.

La crisi generale che ne seguì fece approvare al congresso nel 1933 il Glass Stegal Act, contenente due semplici norme, l’istituzione di un fondo di garanzia per i depositi bancari ed il divieto di speculare col denaro del risparmio, separando nettamente banche d’affari e banche commerciali.

Il sistema ha protetto l’economia mondiale fino al, se ricordo bene, 1993, quando Giuliano Amato, allora ministro delle finanze, introdusse di nuovo in Italia per primo la commistione tra i due tipi di istituti.

A dicembre 1999, Bill Clinton ad un mese dal terminare il suo ultimo mandato, con un atto votato da entrambi i rami del congresso quasi all’unanimità, diede il colpo di grazia cancellando la legge promulgata da Roosevelt nel ’33.

Il resto del mondo seguì, le banche d’affari comprarono le banche commerciali e la borsa diventò l’unico elemento di mercato trasformando il lavoro umano in mero calcolo economico senza dignità.

Per questo oggi siamo numeri, per questo quando le banche falliscono chiedono a noi i soldi, perché controllano il risparmio ed il nostro denaro, anche quando non siamo d’accordo.

Se esistesse ancora la separazione netta tra le banche, l’economia si reggerebbe sul lavoro e non sullla speculazione e la dignità umana avrebbe un valore, invece le banche non producono più nulla, promettono interessi in denaro su investimenti in denaro, vale a dire puro calcolo economico su numeri che producono numeri.

Il venerdì nero è come l’olocausto e noi, da masochisti, invece di temerlo lo celebriamo come fosse una festa.

ORIO CENTER APERTO ANCHE A NATALE MA I LAVORATORI PROTESTANO

DI PIERLUIGI PENNATI

Era già accaduto a Serravalle ad inizio anno, quando alla notizia che avrebbero dovuto lavorare anche a pasqua i lavoratori del centro outlet si erano ribellati ottenendo solo un maggiore interesse della insensibile clientela, attirata in maggior numero proprio dalla protesta.

Adesso si replica, a Bergamo si lavora anche a Natale e Capodanno, giornate nelle quali tradizionalmente si dovrebbe stare con famiglia ed amici ed invece sembra ormai diventato più interessante poter andare al centro commerciale a passeggiare.

Il grido populista che richiama le nostre tradizioni e sacralità festive sembra dimenticato, qui non ci sono mussulmani da cacciare o migranti da rimandare a casa, qui ci sono le luci che accendono la fantasia delle persone: “offerta speciale”, “ribassi”, “vendita straordinaria”, “fuori tutto” e, più importante ancora “OUTLET”!

Tutti contenti, quindi, tutti meno loro: i dipendenti dei 280 esercizi che sono costretti dalla proprietà dei centri commerciali a rinunciare alle ferie per aprire i negozi destinati al piacere dei nostri occhi e delle tasche della direzione.

Già, ogni medaglia ha un suo rovescio e questa, come ormai tutte le “medaglie” nella nostra nazione, ha un rovescio davvero amaro per chi ci lavora, se ancora il lavoro nel commercio si può chiamare così.

Mentre l’attenzione generale è ormai da molti anni puntata solo sulle grandi aziende dove si lotta per tentare di salvare posti di lavoro destinati comunque ad essere persi per effetto dell’ampliarsi delle regole volute dai vari governi che hanno finito solo per favorire la precarietà nell’industria, nel dimenticato settore del commercio i risicati numeri di dipendenti medi pro impresa, rendono la precarietà una realtà non nuova, ma endemica e radicata che, piano piano, con la complicità dei dati sulla disoccupazione, si sta però trasformando in reale schiavitù.

Negli outlet, ovvero quei posti dove le grandi case di moda scaricano gli invenduti delle stagioni precedenti per potersi ancora sostenere e continuare a vendere nei negozi di punta senza perdere l’immagine del loro prodotto, la situazione è ancora più evidente, infatti questi enormi centri sono per definizione un luogo dove gli orari devono essere più elastici perché si trovano tipicamente fuori mano si deve dare modo agli acquirenti di poterli raggiungere quando hanno più tempo a disposizione, la sera, domenica ed i festivi.

Così, a poco a poco, gli orari si sono allargati, giorni di apertura ampliati e le chiusure ridotte, tanto che all’inizio del 2017 erano mediamente solo 4 in tutto l’anno: Pasqua, Sant’Angelo, Natale e Capodanno.

Così proprio per la riduzione da 4 giorni di chiusura a soli 2 si era scatenata la protesta a Serravalle ed i dipendenti, già esasperati dagli orari dei turni a loro volta “elastici” e dai ricatti delle proprietà, non ce la facevano più, risultato: uno sciopero proclamato il giorno di Pasqua un tempo festivo.

Ma al suono di “se non vieni a Pasqua puoi anche non tornare più al lavoro” solo 4 esercizi sul totale rimasero allora chiusi, facendo fallire miseramente lo sciopero in un tripudio di clienti curiosi attirati proprio dall’evento e terminato con un successo straordinario di vendite.

Alla fine il grido di aiuto dei dipendenti commerciali, sfruttati con contratti precari a mille euro al mese ed anche meno era diventato un boomerang e si era riversato si di loro stessi, come in un circo dove si torturano animali per il piacere degli astanti.

L’episodio, però, era solo il preludio al cambiamento permanente, con il passare dei mesi, e nell’indifferenza generale dei sindacati tradizionali, i due soli giorni di chiusura all’anno diventano la normalità dappertutto, tranne ad Orio al Serio, dove la proprietà comunica ai negozi che, pena la rescissione dei contratti, dovranno aprire anche a Natale e Capodanno, portando a zero in un anno i giorni di chiusura del centro.

Ovviamente i primi a reagire sono stati i dipendenti, ma la cosa curiosa è che a non starci, questa volta, non sono solo loro, ma addirittura i titolari degli esercizi, a loro volta ricattati dalla proprietà che non farebbe mancare velate minacce di aumenti di canoni di locazione o rescissioni dei contratti.

In una circolare datata 17 novembre la proprietà del centro scrive:

Egregi Signori, alla luce delle notizie che sono apparse in questi giorni su diversi organi di stampa locale e nazionale riteniamo importante intervenire in ordine alle prossime imminenti aperture.

In Oriocenter, come tutti sappiamo, svolgono la propria attività ben 280 operatori. Abbiamo appreso che alcuni vostri dipendenti e collaboratori avrebbero aderito ad una raccolta firme di protesta promossa dal sindacato USB.

Per quanto il malcontento ci risulti molto più circoscritto rispetto alle oltre mille adesioni dichiarate dalle organizzazioni sindacali, ci sembra doveroso richiamare la vostra attenzione affinché, per quanto vi compete, provvediate ad attivarvi tempestivamente per gestire al meglio le criticità che potrebbero emergere”.

Secondo il sindacato di base USB, unico sindacato che si sta occupando attivamente del problema, questa lettera sarebbe la traduzione in parole cortesi di quanto affermato verbalmente, vale a dire che alla direzione non importerebbe come si dovranno organizzare i commercianti che dovrebbero, a questo punto, allontanare i dipendenti che si rifiutano di lavorare a Natale per assumerne altri più “flessibili” negli orari.

Per sensibilizzare la clientela al problema, USB ha avviato da un mese una campagna di informazione con un presidio stabile in prossimità dell’ingresso del centro spiegando ai clienti che anche i dipendenti commerciali hanno una loro vita, una famiglia e delle relazioni personali e non è giusto che siano costretti sotto ricatto a lavorare anche a Natale e Capodanno, da sempre festività intoccabili.

È proprio durante il presidio che sarebbe nata la raccolta di firme quale risposta dei dipendenti alla situazione, più di mille i consensi raccolti spontaneamente e già consegnati al prefetto ed alle autorità cittadine con la richiesta di non concedere l’apertura straordinaria del centro almeno in quei due giorni.

Che la battaglia sia importante lo certifica il fatto che vi sono già stati tentativi ben riusciti di distrazione, il giornale locale, l’Eco di Bergamo, che pubblica stabilmente la pubblicità del centro, ha più volte dichiarato che tutte le iniziative erano in capo ad altri sindacati, citando Fisascat Cisl, Filcams Cgil e Uiltucs Uil come promotori delle proteste, cosicchè si è da subito creata non poca confusione su quali fossero gli interlocutori che non hanno portato ad alcun incontro costruttivo fino ad ora, dato che quei sindacati, a detta degli attivisti USB, non sono ne presenti ne attivi presso il centro e nonostante i trafiletti di precisazione pubblicati a seguito delle loro proteste, nessuno sarebbe ancora riuscito a trovare una interlocuzione effettiva con la proprietà che dallo stesso giornale pubblicizza e conferma le nuove aperture.

Così, un’altra volta, una vicenda triste che affligge i lavoratori si sta trasformando un nuovo affare per la proprietà dello stabile che sfruttando la pubblicità che il caso sta creando e cercando di porre in conflitto tra loro le sigle sindacali, unite alla confusione informativa, si aspetta un grande successo di pubblico a discapito della vita delle persone che ci lavorano e dei titolari di negozi che dovrebbero decidere se tiranneggiare i dipendenti per poter continuare la loro attività in un centro commerciale che, comunque, riceve milioni di visitatori all’anno.

Proprietà che ricatterebbe i negozianti, che sarebbero a loro volta costretti a ricattare i dipendenti per non rinunciare alla posizione all’interno del centro e dipendenti costretti a rinunciare agli ultimi giorni di libertà festiva per mantenere un posto di lavoro precario e spesso mal pagato in un clima generale di disoccupazione, impoverimento e disinteresse generale ai problemi del lavoro.

Certamente non una bella prospettiva, nonostante le dichiarazioni di crescita citate costantemente dal governo.

Ma l’Orio Center, che ha inoltre appena raddoppiato la sua dimensione con un nuovo edificio, non è che un esempio della situazione generale, se consideriamo che ogni “innovazione” in termini di negazione di diritti viene immediatamente mutuata dappertutto, mentre gli esempi di ampliamento, quando ci sono, restano casi isolati, facendo si che anche le apertura, ora effettuate “solo” dalle 8 del mattino all’una di notte, potrebbero ampliarsi per effetto di un nuovo tunnel sotterraneo che collegandolo direttamente all’aeroporto di Bergamo, che si trova proprio di fronte a soli 100 metri, potrebbe persino aprire sulle 24 ore diventando il centro commerciale dell’aerostazione con zero ore di chiusura all’anno.

La soluzione, già ventilata, costringerebbe tutti gli esercizi ad organizzarsi in turni, piccoli o grandi che siano, e persino le catene di supermercati che altrove, invece, effettuano almeno le chiusure notturne dovrebbero adeguarsi sdoganando una volta per sempre l’orario continuato anche nei centri commerciali.

Purtroppo con la lentezza e la leggerezza dell’indifferenza sociale, queste modalità di lavoro stanno piano piano diventando la norma ovunque spostando i centri tradizionali di aggregazione sociale, coincidenti con i centri cittadini, nelle periferie dove i caroselli della domenica negli Outlet Village e nei centri commerciali sempre aperti, stanno facendo chiudere tutti piccoli esercizi uccidendo artigianato, commercio ed attività una volta stabili.

Anche il conteggio dei posti di lavoro non sembra essere favorevole, dato che a migliaia di posti di lavoro nei grandi centri si contrappongono altrettanto perdite di posti negli esercizi cittadini, spostando così solo le condizioni contrattuali che a favore delle nuove modalità vanno riducendo salari e diritti in una sorta di spirale perversa che non è mai stato chiarito se davvero faccia bene all’economia, ma che è certamente chiaro stia danneggiando le persone che lavorano.

Un’analisi che è volutamente superficiale ed approssimativa, è sufficiente uscire di casa ed anche senza essere un economista capace si realizza immediatamente che le lamentele delle persone sono generali e precarietà e vessazioni sembrano senza soluzione di continuità e senza prospettiva futura.

Cambiare, come sempre, è possibile, ma, come sempre, dipende da tutti noi, pubblicità e slogan ubriacano oggi più di ieri come una droga che, terminato l’effetto, ci fa ricadere nei problemi quotidiani irrisolti e persino peggiorati nel frattempo facendoci diventare obiettivo a nostra volta delle vessazioni cui ci eravamo disinteressati.

Dal canto mio darò, come sempre, solidarietà ai lavoratori della domenica e festivi NON andando a fare la spesa in quei giorni, basta un po’ di organizzazione, a Natale trascorrere la giornata con i parenti a casa non è una novità, si fa da migliaia di anni, quando i centri commerciali non esistevano nemmeno e se cominceranno a restare deserti spero non apriranno più in quei giorni.

In Italia ci sono migliaia di associazioni che difendono i diritti degli animali con passione e tenacia, possibile che con i lavoratori non si riesca a fare la stessa cosa?

Non abbandoniamo i lavoratori del commercio, ma nemmeno gli altri, come si fa con i cani sull’autostrada, adottare a distanza un commesso od una commessa si può, basta fare a Natale, Capodanno, Pasqua e tutte le domeniche quello che si è sempre fatto prima, dedicarle alla famiglia, gli amici, a passeggiare al mare, lago, montagna od ovunque si voglia, è più salutare per noi stessi, per la società e persino per le nostre tasche.

Pensare che quello che fanno oggi ad un altro lo faranno domani a certamente a noi è ormai diventato l’unico modo di poter fare ancora del bene a noi stessi, quando politica e mondo sindacale tradizionale sono distratti in altre faccende siamo costretti ad aiutare ad aiutarci.

Al contrario, continuare a voler credere che queste situazioni siano destinate ad “altri”, senza considerare che piano piano toccheranno anche noi, è miope e sbagliato, nel corso degli ultimi venti anni sono stati tolti o ridotti moltissimi dei diritti che avevamo negli anni ’70, ma un diritto è un diritto e non dovrebbe scadere mai in favore del mercato, per evitare che il mercato arricchisca impoverendo le persone.

OTTO ORE AL GIORNO SONO POCHE, LA GERMANIA VUOLE ABOLIRLE

DI PIERLUIGI PENNATI

Il nuovo mondo digitale incalza dappertutto, email e messaggistica ci seguono sempre e limitare la giornata lavorativa a sole otto ore di lavoro al giorno non è più attuale.

È il presidente del consiglio consultivo del governo federale, Christoph Schmidt, ad affermarlo al “Welt am Sonntag”, letteralmente “il mondo di domenica”, il più diffuso giornale tedesco del fine settimana, secondo il quale le aziende che vogliono continuare ad esistere nel nuovo mondo digitale dovrebbero essere agili e poter contattare il loro personale in fretta: “L’idea che una giornata inizi alla mattina in ufficio e finisca quando si lasciare l’azienda non è attuale” e suggerisce un allentamento allentamento delle ore di lavoro.

“Orari di lavoro più flessibili sono importanti per la competitività delle aziende tedesche”, continua, “Che ne dite se il tempo massimo di lavoro fosse determinato in futuro solo in una settimana invece che di un giorno?”

Le tutele dei lavoratori in Germania hanno dimostrato di essere efficaci, ma non sono più adatte per alcune aree del mondo digitale, “Quindi,”, secondo Schmidt, “le aziende hanno bisogno di avere la sicurezza di non aver agito illegalmente quando alla sera i dipendenti prendono ancora parte alle chiamate in teleconferenza e la mattina leggono la posta a colazione.”, questo non solo aiuta l’azienda, ma anche il personale, che con la tecnologia digitale potrebbe lavorare in modo più flessibile, anche se una maggiore flessibilità non significa necessariamente un prolungamento occulto delle ore di lavoro.

Una riforma delle legge sull’orario di lavoro è anche uno dei temi dei colloqui esplorativi della coalizione “Giamaica” tra CDU, FDP e Verdi a Berlino, i datori di lavoro hanno evidenziato già da tempo che limitare la giornata lavorativa ad otto ore non è più attuale, proponendo di lasciare solo il limite delle ore settimanali massime esistenti, nelle attuali 48, e riducendo il periodo di riposo tra due giorni lavorativi da undici a nove ore.

Questo favorirebbe la produttività a parità di impegno, ma i sindacati non sono d’accordo, ritengono che questo sia un primo passo verso un prolungamento nascosto delle ore di lavoro complessive: come contabilizzare l’attività che non si svolge in ufficio?

La flessibilità finirebbe per rendere disponibili le persone ad ogni ora del giorno e della notte, mentre in Germania ancora resiste il principio del Feierabend e Feiertag, vale a dire della “sera festiva” e “giornata festiva”, quasi in modo sacrale alla sera ed alla domenica non si lavora, tanto meno durante i giorni festivi repubblicani e religiosi.

Questo tempo è dedicato alla famiglia, agli amici, al divertimento, al riposo, al punto che da alcuni anni grandi aziende, come la Daimler, avevano persino introdotto il divieto di leggere le mail aziendali nel fine settimana, ora, nel nome del progresso e della connettività, si vuole cambiare abitudini, finendo per stravolgere la vita delle persone.

Visto da noi sembra assurdo e ridicolo, tanto siamo abituati ad andare al centro commerciale la domenica ed a rispondere alle email la sera ed persino a Natale, in Germania, invece, sanno che le consuetudini sbagliate sono dannose, alla fine le aziende ottengono la disponibilità 24 ore su 24 del proprio personale senza costi aggiuntivi e, in alcuni casi, persino riducendone i costi, come nei casi di produzioni senza interruzione o distribuite su turni di lavoro, che ottengono la disponibilità dei lavoratori senza corresponsione di indennità di reperibilità, per esempio, costringendo le persone a nascondersi dall’azienda per non essere richiamati, dovendo persino inventare scuse se non sono stati disponibili gratuitamente durante il loro tempo libero.

La globalizzazione ha consegnato nelle mani degli analisti i dati sulle abitudini delle persone, questi stessi dati sono mutuati di nazione in nazione, non per rispettare la libertà e la dignità umana, ma per carpirla a favore di un progresso che finirà per distruggere l’uomo a favore dell’economia.

Quando l’attenzione per la persona non è più al centro del processo di lavoro, ma ne diventa solo un elemento da sfruttare il più possibile, l’uomo perde la sua dignità e non ha più alcun valore, riducendo la propria esistenza al nulla.

Seguendo questo principio in Svezia stanno già da tempo praticando le 6 ore di lavoro al giorno in moltissime aziende, perché, secondo i datori di lavoro che applicano questa riduzione, lavorando di meno si produce di più e meglio, si hanno impiegati ed operai più motivati, meno stressati e che commettono meno errori produttivi, dato che le persone sono prima “esseri umani” che semplici “lavoratori”.

Il limite di otto ore al giorno fu una delle grandi conquiste seguite agli anni bui della rivoluzione industriale, quando gli orari di lavoro degli operai erano mediamente da 13 a 15 ore giornaliere, giungendo alla prima convenzione approvata dall’International Labour Organization nel 1919.

La convenzione, sottoscritta nel 1921 e mai emendata, è tuttora vigente e prevede che ad eccezione delle posizioni manageriali e di supervisione, sia nel settore pubblico che in quello privato vi sia un doppio limite massimo alle ore lavorate, tassativo e inderogabile, di 8 ore giornaliere e 48 ore settimanali.

Accordi sindacali, possono però derogare ai limiti con un massimo di un’ora giornaliera “a recupero” e, in ogni caso, la media di ore rilevata nell’arco di 3 settimane consecutive di lavoro deve essere pari a 8 ore/giorno e 48 ore/settimana, con il vincolo di un massimo di 9 ore/giorno.

Distratti dalla tecnologia, l’informazione spazzatura e le continue emergenze in tutti i campi sociali siamo oggi così abituati a deridere quello che ci succede di male da non ricordare il nostro passato, il perché esistono alcuni limiti e diritti e non riusciamo più a vedere il nostro futuro con la mente libera.

Speriamo che almeno in Germania il riposo, sia esso della sera che dei giorni festivi, possa restare sacro, come lo è sempre stato, per molto tempo ancora: non sempre il “progresso”, specie quello tecnologico, fa bene alla salute, alla libertà ed alla dignità dell’uomo.

NELLA POLITICA TEDESCA IL POSSIBILE FUTURO DI QUELLA ITALIANA

DI PIERLUIGI PENNATI

Il fallimento delle trattative in Germania per la formazione del nuovo governo spaventa la nazione, la possibilità di nuove elezioni e dell’ingovernabilità del paese non è mai stata sperimentata e certamente non è una modalità che piace ai tedeschi, sempre previdenti e sobri nelle loro scelte.

I negoziati tra la CDU, CSU, FDP e Verdi avevano come traguardo le 18:00 di ieri 19 novembre 2017, i liberali, però, a seguito delle difficili trattative per mediare tutte le differenti posizioni politiche, hanno deciso di ritirarsi dai colloqui: “È meglio non governare, che governare in modo sbagliato”, ha detto il leader FDP Christian Lindner.

Il blocco delle trattative allontana così per il momento il quarto mandato per Angela Merkel che si trova incastrata nella crisi politica più grave dei suoi ultimi dodici anni e che ha mandato in confusione la situazione politica tedesca dopo solo otto settimane dalle elezioni generali.

Gli analisti tedeschi sostengono che Angela Merkel potrebbe anche formare un governo di minoranza, ad esempio con FDP e Verdi, ma anche la cancelliera ammette che sarebbe difficilmente governabile.

Una situazione che nella nostra nazione non poteva essere generata quando le forze di destra e sinistra si tenevano tradizionalmente a distanza tra loro, in Germania, invece, la separazione non è mai stata così netta consentendo alle Grossekoalition del passato di godere di un clima di relativa collaborazione dove solo i forti estremismi restavano davvero all’opposizione, mentre il resto della politica pensava al progresso della nazione.

Ora, in uno scenario internazionale sempre più confuso nel quale le differenti anime sociali un po’ dappertutto non sono più così nettamente suddivise tra loro e l’incalzare generale di reazioni populiste dell’elettorato, esasperato anche dalle scelte economiche dei governi che fanno sembrare il rischio impoverimento generale sempre più vicino, le differenze di opinione si sono accentuate e non è più sufficiente una politica generalizzata, servono interventi mirati e riforme strutturali precise, per le quali i partiti politici sempre meno disposti alla mediazione, così anche nella ultra-stabile Germania la crisi della politica si fa sentire.

In Italia, dopo l’approvazione del Rosatellum sul quale pendono già due ricorsi alla Corte Costituzionale e che potrebbe fare anch’esso la fine del Porcellum, è già altrettanto chiaro che il dopo elezioni potrebbe essere altrettanto confuso, infatti nel misto maggioritario-proporzionale, ma più proporzionale che maggioritario, previsto dalla legge, sarà possibile per gli eletti muoversi in modo indipendente dai presupposti pre-elettorali, se necessario, tradendo persino le promesse della campagna e permettendo, per assurdo, la formazione di un governo di bugiardi pinocchi.

Alla fine la legge elettorale italiana finisce solo per favorire le coalizioni, cosicché i partiti che si riuniscono in coalizioni sanno già che dopo il voto, se eletti, dovranno comunque ridiscutere gli eventuali programmi ed accordi di governo pre-elettorali perché nessuno di loro otterrà la maggioranza assoluta in parlamento e quindi quando discusso e detto in campagna elettorale dovrà comunque essere rivisto alla luce dei nuovi possibili partner.

Tanto valeva ritornare al proporzionale secco previsto dalla prima versione della nostra Costituzione.

Quindi, il risultato elettorale sarà probabilmente che, come in Germania, per governare si dovranno trovare mediazioni che concedano ad ogni partecipante al governo di perseguire il proprio programma, almeno in parte, in altre parole potrebbe aprirsi una stagione di ricatti e forzature come mai prima.

Mentre da noi sembra che si continui a gestire il solo presente con la memoria del pesciolino rosso che si resetta ad ogni giravolta, il tradizionalmente pragmatico popolo tedesco è spaventato da elezioni anticipate che potrebbero gettare la nazione nel caos ancora maggiore.

Siamo stati abituati al “governare a qualunque prezzo”, facendone pagare i costi alle classi sociali più deboli, ora nella grande Germania c’è un problema serio e non così distante da noi, sarà interessante vedere come sarà risolto, se sarà risolto, perché quello potrebbe essere anche il nostro destino, sempre che i parlamentari italiani sappiano essere altrettanto pragmatici.

GLI SCIOPERI PORTANO PROGRESSO SOCIALE. VIETATO VIETARLI

DI PIERLUIGI PENNATI

Lo sciopero è la più antica forma di lotta dei poveri conosciuta al mondo: chi non ha nulla può solo smettere di lavorare.

Lo sciopero non è divertente, chi sciopera ci rimette dei soldi, quindi fa una rinuncia certa che, unita allo stato di necessità, inquadra precisamente il problema.

Negli ultimi anni, invece, i poteri forti, quelli dei cosiddetti “padroni”, gli industriali e le banche, ci hanno abituato a pensare che chi sciopera si diverte a torturare i cittadini, soprattutto nei trasporti, dove ricchi lavoratori scioperano per ottenere benefici ancora più grandi ed ingiusti.

Beh, non è così: chi sciopera fa un sacrificio per uno scopo sociale preciso.

Il primo sciopero della storia di cui si abbia notizia si verificò intorno al 1150 a.C., alcune fonti dicono 1165, altre 1152, comunque oltre tremila anni fa, quando, nell’antico Egitto durante il regno di Ramses III, gli operai del villaggio di Deir el-Medinet, addetti alla costruzione dei templi di Tebe, incrociarono le braccia, al grido di “Siamo già al 18 del mese e abbiamo fame!”, a causa del ritardo nel pagamento della paga, ai tempi effettuata in derrate alimentari, grano, pesci, legumi e per la mancata consegna di unguenti necessari a proteggersi dal sole e dal clima secco del deserto.

Lo sciopero durò alcuni giorni, terminando solo quando il dovuto fu interamente consegnato ed ottenendo la creazione di organi di controllo per assicurare la paga in futuro.

Un grande successo, dunque, a costo di sacrifici che hanno portato ad un beneficio collettivo.

Oggi le cose non sono cambiate e lo sciopero continua ad essere l’unica arma disponibile in possesso dei disperati, che hanno solo l’alternativa della rivoluzione armata, come avvenne in Russia nel 1917 a seguito  dei primi scioperi a febbraio nelle Officine Putilov che portarono in qualche mese alla rivoluzione di ottobre, esattamente 100 anni fa.

Combattere o limitare lo sciopero, quindi, significa togliere l’unica arma nelle mani dei poveri, lo sanno bene i potenti ed governi, per questo fanno di tutto per evitarlo o renderlo inefficace.

Il primo sciopero generale in Italia è stato nel settembre 1904, ed anche in epoca fascista, dopo la salita al potere nell’ottobre del 1922 di Benito Mussolini, il più giovane caso di governo dopo Matteo Renzi nella storia dell’Italia unita, ci sono stati degli scioperi così importanti che il Duce sentì la necessità, il 3 aprile 1926, di promulgare una legge, la numero 563, per impedire una nuova insorgenza di fenomeni di ribellione sociale al suo regime.

Questa legge, contenente in modo più ampio la “Disciplina Giuridica Dei Rapporti Collettivi Del Lavoro”, proibì lo sciopero e la serrata commerciale e stabilì che soltanto i sindacati “legalmente riconosciuti”, vale a dire quelli fascisti che già detenevano praticamente il monopolio della rappresentanza sindacale dopo la conclusione del Patto di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925 fra la Confindustria e le corporazioni fasciste, potevano stipulare contratti collettivi ed indire controversie collettive, non senza, però aver cercato prima un tentativo di conciliazione, riducendo i conflitti ad un fatto meramente amministrativo e giuridico.

Situazione non tanto distante da quanto si sta tentando di ristabilire progressivamente oggi a suon di leggi restrittive, tanto è vero che il giornalismo disinformato parla spesso di “sindacatini non rappresentativi” e la giurisprudenza, nonostante la Costituzione Italiana citi all’articolo 39 “L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge”,   ha ormai consolidato la condizione che per poter operare il sindacato deve avere iscritti pari ad almeno il 5% dei lavoratori del comparto o dell’azienda cui si riferisce. La legge voluta da Mussolini prevedeva il 10%.

Inoltre, nonostante lo sciopero fosse vietato, Mussolini aveva previsto che anche eventuali azioni sindacali alternative dovessero prima aver visto un tentativo di “risoluzione amichevole della controversia, e che il tentativo non sia riuscito”, vale a dire esattamente la “procedura di raffreddamento dei conflitti” che oggi viene imposta obbligatoriamente ed in ben due distinte fasi che fanno perdere a chi protesta almeno un mese dall’apertura formale della vertenza, rendendo comunque inefficace almeno la sua tempestività.

Quindi: riconoscimento giuridico, conciliazione preventiva e limitazione, o persino divieto, di sciopero, sono da sempre il fondamento della repressione sui lavoratori, specie i meno abbienti che non altro altri strumenti.

Evidentemente deve essere questa la ragione per cui ci si accanisce ancora oggi contro chi sciopera, spiegando tramite i media disinformati, come avvenuto il 10 novembre per lo sciopero generale del sindacato USB, che chi sciopera è sempre “qualcuno dei trasporti” che infastidisce chi “lavora onestamente”, che chi proclama sono sindacati “non rappresentativi” dal nome impronunciabile e con “motivazioni non comprensibili”, futili o marginali creando disagio strumentalmente.

La verità, invece, era che lo sciopero era generale, gli scioperanti non erano disonesti, che la rappresentatività sindacale è un parametro oggettivo che proprio i sindacati considerati “rappresentativi” non vogliono svelare per non sfigurare, che i nomi dei sindacati non devono necessariamente seguire slogan o regole accattivanti di mercato e che le erano il dannoso Jobs Act, la manovra economica che chiede altri sacrifici, gli interventi di ulteriore riduzione sulle pensioni e la continua precarizzazione dei contratti di lavoro.

Propaganda e/o disinformazione che vanno a braccetto e/o si coalizzano in una sorta di moderno Istituto per l’Unione Cinematografica Educativa, detto anche LUCE in epoca fascista, che dice solo quello che piace al regime o al popolo.

Ma in anni in cui le code agli Apple Store per i nuovi modelli sono interminabili mentre ai seggi elettorali si registra il deserto degli elettori non ci si può aspettare di meno: la storia ci dice che proprio miseria, rabbia e frustrazione, unite all’assenteismo al voto, hanno favorito l’ascesa al potere di Adolf Hitler in Germania dopo la Prima Guerra Mondiale, non siamo in quelle condizioni, spero, ma certamente non possiamo trascurare lo stato sociale in favore di un’economia che ci sta schiacciando e se oggi togliamo ai poveri l’unico strumento di lotta che possiedono, stiamo facendo male non solo a noi stessi ma anche ai nostri figli, condannandoli ad una vita futura di schiavitù sociale, come quella prevista con un realismo sorprendente da Orwell nel 1948.

La stampa dovrebbe informare correttamente e se non lo fa possiamo difenderci solo cercando altre notizie e verificarne le fonti, costa fatica, ma è necessario: gli scioperi hanno portato progresso e benessere negli anni della crisi del dopoguerra, istituendo diritti dove non ve n’erano ed introducendo benefici sociali e welfare state, oggi il processo innescato è esattamente l’opposto, si comprime il diritto di sciopero per poter mantenere i tagli ai diritti ed allo stato sociale.

Non cadiamo in questa trappola, non lasciamoci influenzare da poteri economici che non considerano più la dignità e le persone, diamo forza al diritto di sciopero e diamo solidarietà a chi, in tempi di crisi e precarietà, rinuncia ad una parte del già sempre più magro salario e rischia il posto di lavoro per poter sopravvivere ancora e dare un futuro ai propri figli.

“Ribaltiamo il tavolo”, “riprendiamoci tutto”, erano i temi dei due ultimi congressi del criticato sindacato USB passati in totale silenzio stampa, ma sono, purtroppo, parole d’ordine sempre più attuali e necessarie.

SALARIO MINIMO IN SVIZZERA CONTRO GLI IMPRENDITORI SENZA SCRUPOLI

DI PIERLUIGI PENNATI

Imprenditoria senza scrupoli e continua compressione dei salari che rende difficile e poco dignitosa la vita ai lavoratori ed alle loro famiglie, sembra di parlare della nostra nazione, invece siamo in Svizzera dove per combattere la situazione di “dumping salariale” i cittadini hanno deciso di affidarsi alla legge e fissare un salario minimo.

Il problema esiste in tutte le nazioni: si tratta della soglia di reddito al di sotto della quale non si riesce a vivere dignitosamente o, addirittura, si può essere considerati poveri.

Per risolvere il problema, normalmente, non si fa nulla, la soglia di povertà ed il valore del lavoro sono quasi sempre semplici dati statistici, se non guadagni abbastanza sei in una o nell’altra fascia, in Svizzera, invece, per combattere la svalutazione del mercato del lavoro umano si sono posti il problema per tempo ed i Verdi, con un’iniziativa appoggiata dai Socialisti e dalla Lega, nel 2015 hanno ottenuto il 54% dei consensi dell’elettorato ticinese in un referendum popolare da loro promosso ed ora il governo si è mosso di conseguenza.

L’obiettivo dichiarato dai promotori era “salvare il lavoro in Ticino e lottare contro il dumping salariale” e per questo avevano lanciato il referendum propositivo, impossibile in Italia dove le leggi le fa solo il Parlamento e con i referendum si possono solo abrogare norme esistenti, immediatamente capito dalla popolazione e vinto con un margine positivo ritenuto ampiamente soddisfacente.

Il leader dei Verdi, Sergio Savoia, aveva esultato affermando “Per la prima volta inseriamo, nella Costituzione, il diritto al salario dignitoso”, raggiungendo lo scopo sociale di porre un limite minimo al mercato del lavoro ticinese nei settori in cui mancano i contratti collettivi o questi non sono applicati.

Il fenomeno originava dalla disponibilità di mano d’opera, frontalieri italiani per lo più, approfittando della quale imprenditori con meno scrupoli proponevano salari inaccettabili, per il costo della vita dei residenti, tra questi un caso limite portato in campagna referendaria quello di un’azienda di trasporti di Stabio, cittadina sul confine con la nostra nazione, che pagava gli autisti frontalieri be 500 euro in meno di quelli residenti in Svizzera.

Forse, da noi si sarebbe accolto il fenomeno come concorrenza che fa bene al mercato, in Svizzera, invece, si sono chiesti come le persone possano sopravvivere dignitosamente con salari inadeguati e sono corsi ai ripari, così oggi è stato stabilito dal governo ticinese che per una vita dignitosa pagando le tasse, in Svizzera occorre possedere un salario minimo di poco superiore ai 19 franchi all’ora, che su base mensile fanno all’incirca 3.000 euro.

In effetti il problema è molto serio, il continuo accettare salari sempre più bassi, da parte di lavoratori in competizione per la propria sopravvivenza, ha già portato molte famiglie in Italia sotto la cosiddetta “soglia di povertà”, rendendo quasi impossibile mantenersi con una sola entrata e sempre più spesso nemmeno lavorando in due.

Il salario minimo diventa quindi un parametro di civiltà, che rende inaccettabile per uno stato tollerare offerte di lavoro a valori inferiori alla soglia che trasforma il lavoro in sfruttamento.

In Ticino, però, anche il salario minimo per legge scontenta comunque molte categorie, dato che la contrattazione collettiva già si attesta intorno ai valori oggi fissati per legge ed in quella nazione 3000 franchi non sono poi così tanti per vivere, con il risultato di non spostare di molto il problema nell’immediato, in Italia, invece, la discesa dei salari ha già superato in molti settori la soglia minima di dignità, incentivando datori di lavoro con sempre meno scrupoli ad assumere a personale a prezzi sempre più bassi e costringendo i nostri figli ad emigrare in nazioni dove il lavoro garantisce ancora una propria vita dignitosa.

Secondo i rappresentanti del mondo economico svizzero, il salario minimo riguarderà solo 9100 persone, di cui 6500 frontalieri, mentre metterà in difficoltà “aziende, commerci, piccole attività artigianali che hanno margini di guadagno sensibilmente inferiori e che sono sottoposte a forte competitività”, Verdi e Socialisti, promotori dell’iniziativa, ritengono invece che la cifra decisa dell’esecutivo sia ancora troppo bassa sottolineando che il Ticino è “il Cantone con il più alto tasso di povertà della Svizzera”.

Il salario minimo sarebbe quindi un baluardo contro la povertà che forse, se istituito anche da noi, potrebbe evitare il costoso ed improduttivo “reddito di cittadinanza”, chiesto dai cinque stelle, e gli altri fino ad ora infruttuosi provvedimenti per contrastare povertà e disoccupazione, riavviando e riqualificando quello che ormai sembra somigliare sempre più ad un mercato degli schiavi che al quello del lavoro.

IL SINDACALISTA È UN CRIMINALE DA ARRESTARE

DI PIERLUIGI PENNATI

Perlomeno questa sembra la tesi che ha portato l’azienda GLS di Piacenza a denunciare tre sindacalisti del sindacato di base USB per i reati di cui agli artt. 56, 110, 629 del Codice Penale, vale a dire tentativo di estorsione in concorso tra di loro, come si legge nell’invito ad apparire per un interrogatorio della Procura delle Repubblica, “al fine di conseguire un ingiusto profitto patrimoniale, quali rappresentanti della sigla sindacale USB, nonostante fossero in corso trattative con funzionari della società General Logistic System Entrerprise S.r.l. aventi oggetto richieste di assunzione di personale precedentemente dipendente della Cooperativa Falco, mettevano in atto azioni di sciopero incidenti sulla regolare attività lavorativa non riuscendo comunque nel loro intento per la resistenza della società”.

L’azienda ed il luogo sono gli stessi dove un anno fa veniva ucciso, schiacciato da un TIR, durante un picchetto l’attivista sindacale Abd El Salam, la vertenza ancora una volta per la stabilizzazione di lavoratori precari che attraverso il sistema dei subappalti vengono vessati, sfruttati e sottopagati per contenere i costi senza la minima considerazione per la sicurezza e la dignità dei lavoratori, costretti ad accettare condizioni sempre più difficili per poter continuare a lavorare.

Una vertenza come ormai ce ne sono tante in Italia e tutte con le stesse ragioni di fondo: la lotta alla precarietà ed alla negazione dei diritti della persona sul posto di lavoro, situazione ormai diventata insopportabile in molti ambienti, soprattutto quelli della logistica e dei lavori dove la componente umana è la parte principale, come quelli di fatica e manutenzione.

Per contrastare la situazione e sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema della dignità e dei diritti del  lavoro negati, il sindacato USB ha proclamato da tempo uno sciopero generale per venerdì 10 novembre ed una manifestazione nazionale per sabato 11 novembre, ma questo atto di denuncia di un’azienda nei confronti di sindacalisti scesi in campo non per interesse personale, ma per difendere i diritti degli iscritti è davvero sconcertante ed inaudito.

In una nazione moderna e civile, un simile atto dovrebbe essere deriso ed abbandonato tramite archiviazione, al contrario una magistratura sempre zelante in queste occasioni prende molto sul serio una denuncia di estorsione per aver organizzato uno sciopero ed un picchetto che avrebbero inciso “sulla regolare attività lavorativa” dell’azienda, elemento che pare oggi più importante e considerato persino della vita umana.

Contro l’azienda che vessa e sfrutta i lavoratori nulla.

Già, nulla si può fare legalmente contro chi, per il profitto, comprime diritti e libertà delle persone abusando dello stato di necessità ormai generale, mentre, al contrario, chi tenta di difendere i diritti negati della persona e del lavoro è oggi diventato un criminale da perseguire.

I tre sindacalisti, M.R., R.Z. e I.A., saranno quindi sentiti il 15 novembre da un magistrato che spero voglia non solo archiviare il procedimento nei confronti dei funzionari, ma avviare una procedura di verifica per il comportamento di una azienda che, facendo perdere tempo e denaro all’apparato dello stato, denuncia senza ragione e fondamento apparente tre persone la cui grave colpa è solo quella di cercare di ripristinare un equilibrio di civiltà nel nostro paese.

Se lo sciopero non incidesse “sulla regolare attività lavorativa” delle aziende non sarebbe uno sciopero e se oggi scioperare non è più nemmeno un diritto, come indicato nell’articolo 40 della nostra costituzione, perché “le leggi che lo regolamentano” sono diventate così restrittive da impedirne l’esercizio, dovremmo almeno combattere affinché perlomeno non diventi un reato, come sembra essere nelle intenzioni della GLS di Piacenza ed al vaglio delle indagini dei magistrati.

Forza M.R., R.Z. e I.A., una vostra incriminazione sarebbe davvero uno scandalo e spero sarete scagionati in fretta: confido nella giustizia quando sa essere umana, di una giustizia disumana non so che farmene.

FRATELLI D’ITALIA IN AFFITTO A 13 EURO AL MESE

DI PIERLUIGI PENNATI

«La concessione è scaduta dal 1972, non pagavano l’affitto», questo quanto annunciato su Facebook da Virginia Raggi dopo che, qualche ora prima, verso le 5 del mattino di sabato scorso, i vigili urbani avevano cambiato la serratura e messo i sigilli alla storica sede del Movimento sociale di Colle Oppio.

Il locale, secondo il comune occupato oggi abusivamente da Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, sarebbe angusto e poco più di un magazzino senza finestre, più un luogo simbolico per il movimento che una vera sede e per il quale, nonostante il contratto scaduto da 45 anni, veniva comunque autonomamente versato nelle casse comunali un canone mensile di 13 euro al mese.

In una corrispondenza di qualche tempo fa con il comune di Roma, si stimava in 990 euro la cifra idonea per la sottoscrizione di un nuovo contratto, ma Fratelli d’Italia, facendo notare la situazione di degrado dell’immobile, l’aveva contestata proponendo al suo posto un massimo di 250 euro.

I dirigenti di Fratelli d’Italia Federico Mollicone, Marco Marsilio, Andrea De Priamo e Massimo Milani, che si erano riuniti in protesta davanti alla storica sede del Movimento Sociale dopo la scoperta dei sigilli, hanno esibito i bollettini dei canoni versati e lamentato la mancata risposta del Comune, per loro non sarebbe un caso se la Raggi «tra tutte le occupazioni presenti a Roma, proprio qualche giorno prima delle elezioni di Ostia, dove la sua candidata sta perdendo, manda i vigili urbani nella sede di Fratelli d’Italia. Avrebbe potuto farlo tre mesi prima o tre mesi dopo, invece ha scelto il periodo elettorale».

«Denunciamo Virginia Raggi per diffamazione e abuso di ufficio. Se abbiamo resistito alle bombe e alle Brigate rosse, resisteremo anche a questi cialtroni», hanno affermato, ma, su Facebook, Rosalba Castiglione, assessore al Bilancio M5S, difende il provvedimento: «Siamo determinati ad andare avanti per porre fine allo scempio gestionale di cui il patrimonio immobiliare romano è stato vittima. Una situazione incancrenita che, come questo caso testimonia, affonda le sue radici anche in  tempi altro che recenti. La strada è lunga, ma siamo decisi ad andare fino in fondo per ridare dignità e trasparenza all’utilizzo della proprietà pubblica dei cittadini romani».

Anche Giorgia Meloni usa Facebook per rispondere e pensando ad una manovra di propaganda della sindaca di Roma, scrive: «Chi, a differenza di Virginia Raggi, conosce Roma e il parco del Colle Oppio sa bene che quei locali sono dei semplici ruderi, senza alcuna possibilità di utilizzo a uso commerciale o abitativo e che la presenza della sezione è l’unico argine a un desolante degrado fatto di sporcizia, violenza e criminalità che affligge tutta la zona. Problemi seri e reali come quelli che vive gran parte di Roma e che il Movimento 5 Stelle non è in grado di affrontare».

Anche Fabio Rampelli, capogruppo FdI alla Camera, scende in campo, affermando che questa particolare sede avrebbe una valenza storica cittadina e non solo per la destra, dato che proprio qui si svolse una importante iniziativa anti razzista alla quale partecipò anche monsignor Di Liegro e che a questi luoghi sono legati alcuni dei giovani di destra uccisi negli anni di piombo, come Paolo Di Nella e Stefano Recchioni.

Contro la Raggi parole durissime: «ora gli uomini liberi scendano in campo per fermare il sindaco più cialtrone che abbia mai avuto Roma. Colpire la sede simbolo della destra italiana, a quattro giorni dal voto, è un atto di violenza inqualificabile che meriterebbe l’interdizione per incapacità e malafede. Nessuno lo avrebbe mai fatto, segno evidente che sta alla canna del gas».

Quindi per il comune FdI occuperebbe praticamente in modo clandestino la storica sede da ben 45 anni, mentre per Federico Mollicone, presidente del circolo di FdI-AN Istria e Dalmazia di Colle Oppio, «La sindaca Raggi non sa neppure comunicare con i suoi uffici. La morosità per la locazione dei locali di via Terme di Traiano, una sede strappata all’incuria da un manipolo di esuli giuliano dalmati nel 1946 quando era solo un rudere e sempre rimasta una bandiera per tutta la destra italiana, non esiste e siamo anzi nella fase di sottoscrizione di un nuovo contratto, come richiesto ufficialmente con lettera senza risposta mesi fa».

«Si colpisce la storica sede di Colle oppio», continua, «luogo di aggregazione sociale e culturale che ha visto la presenza di tanti avversari rispettosi e personalità di altissimo profilo, su tutti il compianto direttore della Caritas Monsignor Lui Di Liegro, per colpire FDI AN e Giorgia Meloni, facendo un uso vergognoso e delinquenziale del potere. Si tollerano centinaia di occupazioni illegali da parte dei centri sociali, centinaia di moschee abusive e si colpisce Colle Oppio, la prima sede del MSI in Italia».

Una guerra senza esclusione di colpi, tra clandestini o pseudo tali, dove ad ogni provvedimento si trova una ragione per combattere senza per questo trovare soluzioni comuni e condivise e che valgano per tutti, se non volgiamo avere clandestini è nostro dovere uscire a nostra volta dalla clandestinità, è quindi auspicabile che la vicenda possa concludersi con un provvedimento generale e non con una soluzione “Ad hoc” come spesso accade.

IL TRENO (DEL) BOMBA

DI PIERLUIGI PENNATI

C’è un treno che circola da qualche giorno con “Destinazione Italia”, si tratta di un treno a bordo del quale Matteo Renzi, detto da giovanissimo il Bomba, ha pianificato un giro d’Italia per sostenere la sua campagna elettorale.

Dopo pullman, roulotte, motorini ed altri mezzi, cosa ci sarà mai di strano nell’usare un treno?

Nulla, la stranezza risiede nel fatto che si tratti di un treno fantasma, o quasi, infatti nessun organo di stampa ufficiale o sovvenzionato dallo stato ne parla, se non liquidando la cosa con frasi di repertorio, le “grandi” ed affidabili testate si limitano ad informazioni su come è dipinto il treno e la data di partenza da Roma, il 17 ottobre, nessun programma, nessuna data di arrivo e località toccate, nessuna informazione precisa, nulla.

Solo ANSA, in modo davvero ardito, parlando della tappa di Reggio Calabria del 24 ottobre, si spinge ad un “Fuori dalla stazione c’erano ad attenderlo sostenitori, ma anche un gruppetto di contestatori di Fratelli d’Italia e vigili del fuoco precari”.

Sono invece i blog personali e la piccola stampa indipendente che riportano numerosi video e notizie di contestazioni accese, Imola Oggi, sulla stessa notizia di ANSA titola: “Matteo Renzi in fuga dalla stazione di Reggio Calabria. Non ha salutato neanche gli amici del Pd che lo stavano aspettando”; YouReporter, il giornale fatto dagli utenti, mostra video con insulti e risse all’arrivo del convoglio sia a Reggio che in altre stazioni, persone apparentemente normali, non gruppi organizzati, cittadini sparsi che accorrono alla stazione solo per poter insultare Renzi al suo arrivo in treno.

Anche Libero non è tenero e titola “Matteo Renzi, Destinazione Italia: a ogni tappa del suo tour in treno piovono insulti”, nell’articolo si sostiene che sia stata una “Pessima scelta, quella del tour su rotaia. Già, perché come detto, ogni volta che mette piede giù dal convoglio si scatena una gazzarra disumana: l’ex premier, non lo vuole nessuno.”

Ma questa è solo la realtà della cronaca, in verità non si tratta solo della scelta del mezzo, il treno, si tratta di troppe promesse già non mantenute e di troppi provvedimenti assunti dal governo in antitesi con quella “giustizia sociale” proprio dallo stesso Renzi invocata durante le primarie del suo partito e poi dimenticata in fretta una volta preso il potere.

Il Fatto Quotidiano, più accanito, scopre persino che nessuno sa bene dove il treno andrà e si fermerà: “Pd, il treno di Renzi viaggia in incognito: per evitare proteste e insulti a ogni fermata si cancellano programma e date”, “insulti e proteste nelle stazioni lo staff cambia programma e decide di non divulgare più le tappe, sottraendo il segretario alle imboscate di chi non gradisce la sua passerella lungo i binari. Neppure l’organizzazione del Pd sa dove e quando ferma il treno. E passa la palla alle Fs, che a sua volta la ripassano al partito”.

Un flop enorme, dettato dalle politiche del primo governo Renzi e del secondo Gentiloni che, fingendo indipendenza, cerca di limitare i danni fatti fino ad ora e lavare la faccia di un partito che, dopo la colonizzazione di chi è stato “educato alla passione per la politica nel nome di Zaccagnini”, ex Deputato Costituente e segretario DC, e la fuoriuscita degli esponenti storici del partito quando era ancora di sinistra, nella sua sigla ha ancora PD, ma più che Partito Democratico sembra indicare Poltrone e Divani, quelle poltrone e divani che nonostante il sempre più ampio dissenso si vorrebbero ora mantenere superando le prossime elezioni.

Ma che sia con il Rosatellum od un’altra legge elettorale, andremo finalmente al voto, un giorno, ed in quel momento il voto utile degli italiani sarà il voto espresso.

L’astensionismo degli ultimi decenni ha portato all’attuale situazione, quindi se davvero in Italia vogliamo cambiare facciamo una cosa utile, andiamo tutti a votare.

Qualunque esso sia è solo con un voto ampio e partecipato che si potranno stabilire di nuovo delle vere maggioranze in grado di cambiare in meglio il nostro paese: l’astensione è amica dei regimi totalitari, la partecipazione della democrazia e della libertà.

VOGLIO UN’ITALIA SOLA

DI PIERLUIGI PENNATI

Subisco passivamente un fiume di idiozie sui referendum della lega, possibile che esistano così tanti disinformati?

Luoghi comuni, battute, sciocchezze di ogni genere, nessuno che ammetta che per una volta la Lega, che non avrà comunque il mio voto, è riuscita a puntare il dito esattamente e legalmente sul problema.

Persino l’Europa lo ha scritto nel rapporto sull’Italia approvato settimana scorsa: alla nostra nazione servono più autonomie.

Ma già, “lo chiede l’Europa” vale solo quando fa comodo…

Comunque il problema lo conoscono tutti e tutti lo lamentano, dove finiscono i nostri soldi?

Gestioni più oculate permetterebbero maggior controllo, le autonomie, previste dalla nostra costituzione, sono un metodo, se ne esistono altri fatevi avanti, io sono per l’abolizione di tutte le autonomie o per l’istituzione di tutte quelle mancanti, perche la Sicilia si e la Lombardia no?

Siamo tutti italiani, voglio un’Italia sola e non tante italiette, uno stato, una legge.

IN ITALIA NON SI MUORE ABBASTANZA

DI PIERLUIGI PENNATI

Questa la frase attribuita al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e poi da lui smentita: “Gli italiani muoiono troppo tardi e ciò incide negativamente sui conti dell’Inps”.

La battuta sarebbe stata infelice e per molti verosimile, dato che mostra un ministro insensibile e cinico come sembrano essere gli amministratori negli ultimi tempi, ma la realtà è, se possibile, ancora più dura, infatti l’amministratore pubblico che fa quadrare i conti in modo coerente oggi è visto come colui che non tiene più conto di altri fattori, persino la vita umana.

È per questo che non ci stupiamo, la matematica non è un’opinione e non ammette errori, i numeri sono da sempre asettici e fini a se stessi, un ministro che dicesse questo, quindi non commetterebbe nessun errore e nessuna caduta di stile: avrebbe solo evidenziato quale sia il posto reale riservato alla vita ed alla dignità umana dal sistema economico dal mero punto di vista matematico, cioè nessuno.

Reduci dal conflitto mondiale e dal fascismo i padri della nostra patria hanno scritto un documento, la nostra Costituzione, che conteneva i principi fondamentali per la vita e la dignità delle persone nella nostra repubblica, diritti del singolo e doveri reciproci, tutti valori imprescindibili, tra questi i più importanti ed articolati nel testo sono forse il diritto al lavoro (artt. 4, 35, 36, 37, 38, 39 e 40), alla famiglia (artt. 29, 30 e 31), alla salute (art. 32, all’istruzione ed alle arti (art. 9, 33 e 34), all’informazione (art. 21) e, nel senso più generale, alla pari dignità sociale (art. 3).

Tutti diritti che, attraverso leggi che considerano solo i numeri, possono essere definiti oggi come ampiamente negati o difficili da conseguire, basti pensare ai provvedimenti che li riguardano, il “Jobs Act”, la “buona scuola” e le continue riforme sanitarie che privilegiano i manager ed aumentano i costi per i singoli, riducendo per tutti questi argomenti le possibilità di accesso ai servizi dei cittadini.

Tutto è “privato”, vale a dire demandato alla libera imprenditoria personale, con la conseguenza che tutto diventa “privato”, vale a dire assente.

Rispetto al 1970 il cittadino di oggi è privato di molti dei diritti e dei servizi che possedeva, tra questi un libero accesso alle cure, le analisi e le terapie costano ed i tempi per ottenerle sono spesso biblici, con l’effetto che moltissimi rinunciano, il “posto fisso”, sogno di quegli anni è oggi diventato un’utopia, il Jobs Act, con le sue “tutele crescenti” che non crescono mai, ha reso la sopravvivenza dei singoli e delle famiglie precaria, l’istruzione è resa più complicata da una “buona scuola” che non tiene in adeguato conto le necessità di alunni ed insegnati e le pensioni sono oggi minate persino dall’incremento della salute generale che, nonostante tutto, migliora.

Dovrebbe essere ovvio, per ogni servizio erogato vi sono sempre almeno tre elementi in concorrenza tra loro: la richiesta, i costi e la capacità di erogazione, lo squilibrio tra di essi genera vuoti di lavoro o, al contrario, paralisi e per questa ragione i tre valori dovrebbero essere in grado di modificarsi nel tempo per potersi adattare l’uno all’altro.

Negli ultimi venti anni, invece, per ragioni di bilancio ed indipendentemente dagli altri due fattori, vengono continuamente ridotti i budget, ragione per cui dopo grandi riduzioni e tagli ai settori a parità o persino aumento della richiesta, per evitare le paralisi, si deve oggi eliminare quest’ultima.

Proprio questa sembra essere la filosofia che chi ha travisato le parole del ministro dell’Economia vuole far apparire e proprio questa sembra essere la modalità realmente adottata in tutti i settori dello Stato per risolvere i suoi problemi gestionali: eliminare la clientela eliminandone così i relativi costi.

Ecco che se i tribunali sono pieni si fa in modo che qualche reato non lo sia più e che l’accesso alla giustizia sia più difficoltoso, aumentandone i costi preventivi e complicandone le modalità di attivazione.

Se la sanità non ce la fa più si impongono ticket sempre più costosi, fino all’assurdo che alcuni medicinali, gli antibiotici per esempio, ed alcune prestazioni, le piccole radiografie, spesso costano meno a pagamento che di ticket SSN e le visite specialistiche, a parità di costi, si fanno “privatamente”, alleggerendo il Servizio Sanitario Nazionale ed impedendo alla fine a molti di potersi curare.

Infine, se i numeri dell’occupazione non aumentano si creano i posti precari, così ogni anno si avranno migliaia di nuovi posti di lavoro da sbandierare, ma con l’effetto di avere complessivamente meno occupati e con loro minori diritti dei lavoratori, contribuzione sociale e dignità della persona.

La conclusione di un bilancio puramente matematico della vita di uno stato, il nostro, evidenza che qualche volta persino vivere diventa una colpa: l’essere umano, per la società dei numeri bancari, non è un valore, ma un elemento da sfruttare a piacimento per incrementare il profitto in una corsa senza obiettivi, perché l’aumento del profitto non ha un tetto, ma tende sempre al rialzo a discapito degli altri fattori in gioco.

La direzione presa è certamente pericolosa, quando si raggiungerà il limite e si dovrà dire stop all’incremento del profitto per poter rispettare i diritti ed i valori fondamentali dell’uomo?

Personalmente credo che questo limite sia stato già raggiunto e, per quella che è la mia formazione, ampiamente superato, facendomi ritenere che per proseguire si dovrebbe tornare indietro, almeno un po’, rimettendo i valori umani, perlomeno quelli scritti nella nostra costituzione, prima di tutto il resto.

Un giorno, forse, le banche saranno ricchissime, ma non esisteranno più i risparmiatori: progresso e civiltà non sono solo un aumento di indici economici, progresso e civiltà sono soprattutto il rispetto per le persone, la capacità di convivenza, mutuo aiuto e collaborazione, la rincorsa del mero profitto, invece, prima o poi ucciderà l’umanità, intesa come popolazione, dato che quella intesa come sentimento sembra essere già più che agonizzante.

In tristitia hilaris, in hilaritate tristis, grazie Giordano Bruno per avercelo fatto notare, quelle che sembrano battute divertenti o scandalose nascondono spesso una grande tristezza che ci da modo di capire quale potrebbe essere il nostro destino se non cambieremo direzione ricominciando dall’uomo e non più dal denaro.

RITORNANO LE PROVINCE, CE LO CHIEDE L’EUROPA

DI PIERLUIGI PENNATI

È il Congresso dei poteri locali e regionali del Consiglio d’Europa a dirlo e lo fa tramite alcune raccomandazione contenute nel rapporto di monitoraggio che ha messo ai voti nella sessione plenaria dei lavori, secondo gli esperti dell’unione l’Italia deve “rivedere la politica di progressiva riduzione e di abolizione delle province, ristabilendone le competenze, e dotandole delle risorse finanziarie necessarie per l’esercizio delle loro responsabilità”.

Stop all’abolizione delle province, quindi, ma non solo, sempre nella relazione si dice che è necessario “rafforzare autonomia di bilancio delle Regioni” e persino che debba essere ristabilita “l’elezione diretta per gli organi di governo delle province e delle città metropolitane”, oltre che “fissare un sistema di retribuzione ragionevole e adeguata dei loro amministratori”.

Insomma l’Europa ci dice non solo cosa fare, ma anche che tutto quello che abbiamo fatto è sbagliato e si deve tornare indietro.

“Ce lo chiede l’Europa” è stato il motto che ha portato ad approvazione di leggi, ma anche a modifiche costituzionali, introducendo il pareggio di bilancio, per esempio, ed a desso cosa succederà?

Ascolteremo questa volta il consiglio oppure l’Europa è uno strumento utile solo quando fa comodo a qualche governo?

Il Congresso ha effettuato visite ispettive nella nostra nazione, delle quali l’ultima si è tenuta lo scorso marzo, realizzando una sezioni di osservazioni e raccomandazioni che chiedono un pieno ripristino delle province “il cui futuro, dopo la bocciatura del referendum sulla riforma costituzionale lo scorso dicembre, è incerto”.

Nella relazione, ampia ed articolata, si fa riferimento all’intera vita economica ed amministrativa di provincie e regioni italiane entrando nel dettaglio persino dei sistemi di governo, delle procedure interne e nelle relazioni tra gli enti, arrivando a chiedere che venga introdotta “la possibilità di votare una mozione di revoca o di censura all’interno dei consigli provinciali e metropolitani nei confronti dei loro presidenti o sindaci, per rafforzarne la responsabilità politica”.

Per le regioni, invece,  andrebbero riviste “le norme e i principi finanziari di quelle a statuto ordinario, per rafforzare la loro autonomia di bilancio e aumentare l’aliquota delle loro entrate proprie” riformando nel contempo il sistema perequativo al fine di compensare i divari tra le risorse finanziarie a disposizione delle differenti Regioni, che il Congresso ritiene “inefficace”.

Insomma, più che un rapporto un vero e proprio manuale da applicare al nostro sistema amministrativo generosamente fornito dall’Europa per risolvere i nostri conflitti interni ed i nostri problemi, vedremo ora come reagirà chi da sempre professa il “ce lo chiede l’Europa”.

SE NON CAPISCO LE DONNE

DI PIERLUIGI PENNATI

Dedicato a chi dice che non capisco cosa significa essere donna e dover subire delle “violenze”.

Moltissimi anni fa ero molto giovane, avevo 19 anni, ed avevo conosciuto una ragazza davvero molto bella, bionda (tinta) alta e formosa, ero invidiato da tutti gli amici.

Un giorno mi chiede di accompagnarla da un produttore a Lugano, a lei piaceva cantare e questo “signore” aveva una casa discografica.

Arriviamo sul posto e saliamo nell’appartamento dove aveva l’ufficio, entriamo insieme, chiacchieriamo di progetti canori e copertine per una decina di minuti e poi lui chiede alla mia amichetta di seguirlo nella saletta di registrazione adiacente per registrare un breve provino da mandare ai tecnici del suono.

Spariscono dietro una porta e resto solo nell’ufficio.

Nessun suono dall’altra parte della porta, solo un tenue sottofondo musicale che poteva anche provenire da altrove.

Passano dieci minuti e comincio a spazientirmi, così esploro l’appartamento: grandi vetrate sul lago, quadri sparsi, qualche copertina di dischi alle pareti, una grande teca di vetro in un angolo contenete della sabbia rossastra sulla quale era evidente un grande segno a forma di otto: una mostruosa tarantola giaceva in un angolo… insomma stranezze senza un filo logico, in fondo è un produttore, sarà stato eccentrico.

Dopo quasi un’ora la porta si anima e rientrano, lei sembra accaldata ed ha la cintura, che portava sopra i jeans attillati, allacciata al contrario, lo ricordo bene, perché era molto particolare, come si usava ai tempi, e la fibbia era capovolta.

Cosa hanno fatto in quel tempo?

Non so, ma eravamo entrambi maggiorenni ed indipendenti.

Passano alcuni giorni e lei mi parla di amiche che per lanciarsi nello spettacolo fanno orgie, vere e brave artiste, costrette a competere in quel modo per accaparrarsi l’attenzione del personaggio più influente, qualcuna, addirittura, fuma hashish od assume altro durante gli incontri.

Non so di più, sparì un pomeriggio dopo solo 15 giorni che ci si conosceva: andai a prenderla a casa e la sua coinquilina mi disse che era andata a prendere il sole nella villa di un amico che aveva una bella piscina…

Non la cercai più, anche lei non lo fece e l’amica, incontrata ancora una volta per caso, mi disse che stava pensando alla sua carriera e che certamente  avrei capito, dato che noi uomini siamo tutti maiali allo stesso modo.

Ho capito, ma non siamo tutti maiali allo stesso modo, pensai che fosse una reazione ad averle resistito quando ancora mi accompagnavo all’amica, ma forse mi sopravvalutavo ed oggi mi ricredo.

Qualche anno dopo fu la mia volta, conobbi un facoltoso personaggio, ricco e di buona famiglia, persino cavaliere dello SMOM, che poco alla volta si interessò a me sempre più, mi disse di essere gay e che il suo fidanzato non lo capiva, io si che ero comprensivo e, soprattutto, sprecato, con la mia intelligenza potevo ambire a molto meglio, lui mi avrebbe mostrato come.

Non lo vidi più dopo aver gentilmente declinato alcuni inviti nelle sue ville…

Oggi sbarco il lunario come tanti, sottoposto ad un capo affidabile, che dice sempre si, preferibile ad un assertivo come me, che dice spesso no, sia io che la mia amichetta non abbiamo fatto carriera e soldi, non so la mia amichetta, ma io sono contento della mia vita, tante fatiche, tante delusioni e poche soddisfazioni, ma le poche soddisfazioni valgono certamente molto più delle tante delusioni, perchè una cosa non mi è mai mancata: un profondo rispetto e stima per me stesso.

Non so se diventerò mai ricco e famoso, ma certo so che non lo diventerò rinunciando alla mia dignità ed indipendenza di essere umano: potete imprigionare il mio corpo, seviziarmi e torturarmi, potete costringermi a chiedere pietà, ma non avrete mai la mia libertà, non sarò mai disposto a diventare vostro schiavo.

Chi accetta compromessi per bruciare le tappe non si rispetta e stima, come può chiedere rispetto e stima agli altri?

Dai, ora fatemi nero con il maschilismo e l’insensibilità, che però non centrano nulla.

ABBANDONATO DALL’INPS L’AZIENDA GLI PAGA LO STIPENDIO

Succede a Cesenatico, lui compirà 22 anni tra un mese ed è malato gravemente, ricoverato in ospedale l’INPS considera finito il periodo di diritto alla malattia e gli taglia il sostentamento, ma per fortuna, questa volta, non solo i colleghi di lavoro, ma anche i titolari dell’azienda per cui lavorava si indignano e continuano a pagargli lo stipendio.

Ha scoperto di essere malato del Sarcoma di Ewing, una forma tumorale che si sviluppa prevalentemente a livello osseo, fin dall’età di 11 anni e nonostante le difficili e lunghe terapie è riuscito a diplomarsi ed ad essere assunto dall’azienda Siropack Italia S.r.l. di Cesenatico con la mansione di terminalista.

La Siropack conta circa 30 dipendenti ed all’epoca dell’assunzione non aveva l’obbligo di assumere persone disabili, i titolari, Rocco De Lucia e Barbara Burioli, però commentano: “Prima che sopraggiungesse l’obbligo di assumere una persona diversamente abile, non abbiamo avuto dubbi a puntare su di lui, nella convinzione che il lavoro potesse dargli un ulteriore stimolo per continuare a combattere la sua battaglia personale è un ragazzo infinitamente disponibile e positivo, per questo la sua presenza ha rappresentato, fin dal suo arrivo, un valore aggiunto per tutta l’azienda”.

In un tempo nel quale non solo le aziende, ma persino gli organi dello stato sociale voltano le spalle alle persone nel nome del profitto e del contenimento dei costi, trovare qualcuno che ancora crede nel valore umano non è solo commovente, ma apre una speranza per il futuro.

“La nostra azienda considera quanto subito dal giovane una profonda ingiustizia – continuano i titolari – Siamo rimasti commossi dalla sensibilità dei nostri circa 30 dipendenti, che si sono resi subito disponibili al pagamento di una colletta, ma abbiamo stabilito che sarà la proprietà a provvedere al suo sostentamento, là dove gli organi preposti alla tutela dei lavoratori hanno deciso di voltare le spalle a chi si trova nel bisogno”.

La vicenda ha avuto inizio nel marzo scorso, quando la malattia ha costretto il ragazzo a sottoporsi ad un intervento di rimozione di un polmone che lo ha costretto anche ad lunga e difficile convalescenza ancora in corso e, nonostante le necessità di degenza, l’Inps è intervenuta azzerando lo stipendio che Siropack versava regolarmente al proprio dipendente a partire dalla busta paga di settembre, considerando terminati i giorni di malattia concessi.

I titolari, dell’azienda, che collabora da ormai da due anni, sostenendo vari progetti di ricerca, con l’Istituto Oncologico Romagnolo che lo ha in cura, hanno subito ritenuto trattarsi di “un atto arbitrario e lesivo nei confronti di un ragazzo che sta combattendo contro un tumore e che, come tutti i suoi coetanei, nella quotidianità deve affrontare spese, anche importanti, e progettare il suo futuro”.

Anche il sindaco di Cesenatico, Matteo Gozzoli, avvertito della notizia, è subito intervenuto contattando i titolari della ditta per complimentarsi del “grande gesto che hanno compiuto insieme ai dipendenti dell’azienda” e promettendo che farà di tutto per sensibilizzare le istituzioni, “Porto il caso in Parlamento e Regione” ha detto, accogliendo l’appello lanciato dai suoi datori di lavoro: “Nei periodi in cui il suo stato di salute gli ha permesso di svolgere la propria mansione all’interno della nostra azienda,  si è dimostrato un lavoratore volenteroso, nonché un ragazzo umile e generoso, per questo non possiamo permettere che questa decisione renda ancor più difficile la sua situazione. Agiremo con tutti i mezzi a nostra disposizione per sostenerlo e dimostrargli la nostra vicinanza, ed allo stesso tempo sensibilizzare le autorità competenti affinché i lavoratori come lui possano essere trattati con maggiore umanità”.

Umanità, forse è questa quella che dovremmo recuperare, prima di leggi elettorali e bilanci dello stato.

SE FUORI C’É LA RIVOLUZIONE IO MI BEVO UN ROSATELLUM

Qualcuno prima o poi se ne dovrà accorgere, una guerra civile è già in atto dietro le quinte, anche se tenuta lontana dal grande pubblico e nell’indifferenza di chi ancora pensa al consumo senza considerare il proprio futuro.

I fatti parlano chiaro, per la seconda volta nella storia repubblicana è in atto una enorme crisi sindacale, segno di un disagio che non è più controllabile con mezzi tradizionali: la concertazione ed i provvedimenti tampone hanno fallito.

I sindacati tradizionali arretrano, i giornali hanno parlato ad inizio anno di 700 mila tessere perse dalla CGIL, che ha oltre la metà degli iscritti che non sono occupati, pensionati ed altro, in particolare la FIOM è in caduta libera nonostante sia  tradizionalmente il “sindacato dei lavoratori” per eccellenza, perdendo consenso ed iscritti con una crisi ed un’emorragia imponente a favore dei sindacati autonomi, USB in testa che da questa situazione trae il principale vantaggio crescendo esponenzialmente.

Resiste la CISL, sostanzialmente stabile nei numeri anche se in lieve calo con i delegati, forte anche della sua base nel pubblico impiego, mentre la UIL, nonostante le ristrutturazioni e gli accorpamenti dovuti ai cali di introiti, è persino in leggera crescita, con incrementi anche del 30% dei delegati nelle grandi industrie metalmeccaniche e sbilanciando i rapporti di forza che producono un panorama sindacale nuovo che dovrebbe far pensare molto attentamente a cosa sta succedendo nel nostro paese.

Gli esuberi, le svendite, i subappalti e le migrazioni industriali sono ormai dilaganti e sotto gli occhi di tutti: non esiste una località italiana dove non vi sia un’azienda che dichiara la crisi o che comunque licenzia e ridimensiona.

I contratti di solidarietà, le procedure di “accompagnamento” alla pensione e gli aiuti sociali non sono più sufficienti, anche perché la solidarietà si dà quando si ha disponibilità in eccesso, e non è più il caso, la pensione sta diventando un miraggio irraggiungibile per tutti e gli ammortizzatori sociali sono ormai stati estinti dalla riforma Fornero.

Cosa resta?

La disperazione: per questo sempre più gli scontenti si rivolgono al sindacalismo di base, fatto non di grandi strutture, uffici e funzionari, ma di persone che fanno parte dei lavoratori in sofferenza e che cercano di organizzare i propri colleghi attraverso il volontariato e sfruttando i pochi permessi a disposizione delle rappresentanze aziendali.

Nessuna grande struttura e pochi mezzi, solo persone che, facendo parte esse stesse dei lavoratori in crisi, comprendono meglio i problemi delle loro realtà e cercano di ottenere giustizia, solidarietà e rispetto per la loro dignità.

Questa situazione ha cambiato anche il modo di protestare e fare sindacato, non più riunioni ufficiali in tavoli cui non sono invitati, ma presidi e guerre tra poveri, come è successo il primo agosto a Linate  e Malpensa quando i lavoratori che perdevano il posto di lavoro hanno impedito spontaneamente le operazioni della cooperativa che aveva preso l’appalto e li stava sostituendo.

Mano d’opera con pochi diritti che veniva sostituita da mano d’opera senza diritti, nell’indifferenza di chi, privilegiato e spesso nelle stanze del potere, pensa che il mondo si possa cambiare comprimendo i diritti degli altri in favore dei propri.

Questo atteggiamento non è solo stato attuato dallo stato fascista e quindi contrario principi costituzionali repubblicani, ma persino autolesionista perché farà presto mancheranno le risorse per tutta la nazione, consegnandola a nuovi padroni totalitari.

Solo un anno fa, davanti ai cancelli della società di spedizioni GLS di Piacenza, un lavoratore moriva  sotto le ruote del camion di un “crumiro” durante un picchetto per impedire le attività aziendali di sfruttamento e vessazione dei lavoratori.

Meno di un mese fa un altro incidente scampato ed oggi, un po’ dappertutto, ci sono picchetti e presidi in difesa della sicurezza, della dignità e dei diritti che molto tempo fa i lavoratori ancora avevano e che sono ora trascurati in nome di un profitto che sta uccidendo la classe lavoratrice, in particolare quella più debole costituita dalla massa che compie lavori a supporto e/o preparazione delle attività più “nobili”.

Questa massa di lavoratori è oggi la più grande e meno considerata di tutte le categorie, è quella che traina il mercato del lavoro, ma anche quella che sta morendo in favore delle grandi multinazionali che negano diritti e libertà ed impiegano persone ricattandole con strumenti di legge, come il Jobs Act, che pur di lavorare finiscono per accettare condizioni di schiavitù e sudditanza di fatto ed uccidendo nel contempo la nostra economia.

Secondo i dati dell’Inps relativi al primo trimestre 2017, vi sono più occupati rispetto allo stesso periodo del 2016, ma calano i contratti a tempo indeterminato ed aumentano i licenziamenti, mentre vi è un vero e proprio boom di contratti che applicano il Jobs Act.

Secondo i dati del sindacato USB, le aziende licenziano per poi riassumere con le nuove formule legali: sgravi fiscali e precariato attirano i datori di lavoro che in questo modo ricattano i lavoratori comprimendone le retribuzioni ed aumentando le prestazioni gratuite “non dovute” di chi vede il proprio posto di lavoro minacciato.

Mentre nelle periferie dilaga non più il solo malcontento, ma addirittura la disperazione, mentre i lavoratori lottano tra loro per accaparrarsi le ultime briciole di sopravvivenza rinunciando ai propri diritti, mentre l’economia reale è ormai ridotta al lumicino in favore della grande ed imperscrutabile finanza virtuale, in parlamento il problema principale in Parlamento sembra essere la legge elettorale.

Serve una ripresa delle coscienze prima che dei lavori parlamentari, serve che chi governa, specie se di sinistra, recuperi i valori repubblicani più veri, quelli che ci hanno fatto scappare dal fascismo che affamava il popolo togliendogli risorse in modo davvero vicino a quello che vediamo oggi: comprimendo diritti e pensando di conoscere i bisogni del popolo meglio del popolo stesso.

Siamo andati così avanti che siamo tornati indietro, per proseguire potrebbe essere necessario arretrare un po’, almeno al tempo in cui i diritti rispettavano ancora la dignità della persona.

Qualsiasi sarà la legge elettorale, questa volta, serve invertire la tendenza, andare a votare in massa pensando al nostro futuro comune, l’alternativa al voto potrebbe essere solo un’altra guerra civile che sarebbe meglio evitare.

IL RIO DELLE AMAZON NELL’EUROPA DISUNITA

 

Si chiama Unione Europea, ma ognuno fa un po’ quello che gli pare, almeno fino ai confini faticosamente imposti dalla comunità di stati, confini quasi sempre economici, aiuti di stato, scambi commerciali e moneta unica, al punto che la fiscalità può essere in concorrenza, ma il debito di un paese non può essere compensato con quello degli altri, sbilanciando offerta e domanda all’interno del gruppo di stati associati.

Ieri ce ne siamo accorti con Ryanair, che pur avendo sede in uno stato membro dell’Unione sfugge ai controlli fiscali ed anche alle regole sull’occupazione di tutti gli altri stati membri, pagando tasse inferiori ed applicando contratti di lavoro che altrove all’interno della comunità sarebbero considerati illegali, oggi alla ribalta, invece, è Amazon che, come ha dichiarato la Commissaria UE alla Concorrenza, Margrethe Vestager, «Grazie ai vantaggi fiscali concessi dal Lussemburgo ad Amazon circa tre quarti degli utili di Amazon non sono tassati. In altri termini, Amazon ha potuto pagare 4 volte meno tasse rispetto alle altre società locali sottoposte alle stesse regole fiscali nazionali. È una pratica illegale rispetto alle regole Ue in materia di aiuti di Stato: gli Stati UE non possono accordare alle multinazionali dei vantaggi fiscali selettivi a cui le altre società non hanno accesso».

Circa 250 milioni di euro che Amazon deve pagare, anzi “restituire”, secondo l’Unione, al Lussemburgo per evitare che lo stato venga multato per concorrenza sleale.

Una situazione assurda in un sistema apparentemente mai stato veramente sotto controllo e che oggi sta cominciando ad evidenziare tutte le sue falle, su tutte l’evidente disomogeneità delle regole all’interno del gruppo di stati dove quattro libertà fondamentali sono garantite: la libera circolazione delle merci, delle persone, dei capitali e della prestazione dei servizi.

Come sia possibile garantire tutto ciò con regole differenti in ogni stato è davvero un mistero e le evidenze sembrano dare torto a chi pensa che l’Europa sia davvero Unita.

La cifra è certamente scandalosa, bisogna però chiedersi cosa nasconda il fatto che uno stato possa “rinunciare” a 250 milioni di euro in favore di un’azienda, dato che, escludendo che si tratti di un favore tra amici, qualche tornaconto questa rinuncia lo deve pur produrre e se questo tornaconto sono il resto delle tasse che in questo modo non sono pagate ad altri… allora abbiamo davvero un problema.

Il sistema di rinunciare a parte delle entrate pur di accaparrarsi il resto evidenzia una lotta fratricida in una comunità che dovrebbe essere di amici ed omogenea, una cosiddetta guerra tra poveri che certo non doveva essere lo spirito con cui fu pensata inizialmente la Comunità degli Stati d’Europa, ma che ha finito per diventare quasi una necessità di sopravvivenza in un ambiente dove lo stato “virtuoso” non aiuto lo stato “bisognoso”, ma lo costringe a rinunce ancor maggiori, come nel caso eclatante ed ormai sopito della Grecia, tuttora affamata dai debiti e lasciata sola ad affrontarli.

Così in questa Europa che ci permette di evitare di cambiare moneta in ben 19 stati differenti non ci consente di avere una vita armoniosa al suo interno, un solo prefisso telefonico, un solo sistema fiscale ed un solo unico governo capace di armonizzare, nella speranza di semplificarle, le norme comuni quotidiane.

Ieri Ryanair, oggi Amazon e domani chissà, forse Google o Facebook, ma il problema dell’unificazione delle norme e delle condizioni resta appeso: per ora lo scandalo è solo che il Lussemburgo, badate bene non l’incolpevole Amazon, è stata apparentemente sleale con i suoi confratelli.

LO SCIOPERO CHE NON C’È

 

Centinaia di voli cancellati, aeroporti in tilt, tangenziali bloccate e nessuno sciopero annunciato, come mai?

La ragione è che si è trattato dello sciopero generale dei trasporti proclamato dal sindacato di base USB e che, come per tutti gli scioperi dei sindacati di base che danno fastidio al governo, non è stato battuto dai quotidiani nazionali, quelli che sopravvivono con le sovvenzioni dello stato.

Alganews, senza sovvenzioni, totalizza quotidianamente un numero di lettori superiore a molti di essi, ma, ovviamente, se lo dice uno di questi le cose cambiano, diventa subito importante anche un pettegolezzo.

ANSA non batte la notizia se non per un trafiletto dovere di cronaca, altrimenti che agenzia stampa è?

Repubblica ed il Mattino comunicano che a Napoli la tangenziale è in tilt, sciopero locale?

La Nazione riporta disagi negli aeroporti di Firenze e Pisa, Milanotoday rischio per bus e tram.

Fine della cronaca di una giornata di normale disinformazione, nessun’altra testata ne è al corrente.

Eppure lo sciopero in Italia sottostà a moltissime regole e vincoli, al punto che scioperare è diventato difficilissimo: per prima cosa si deve dire ufficialmente alla controparte di essere arrabbiati per qualcosa ed esperire un primo obbligatorio tentativo di conciliazione, se questi non va bene, si deve ripetere l’incontro alla presenza della prefettura o del governo, a seconda se si tratta di un conflitto locale o nazionale, infine si può scioperare per sole 4 ore e poi per un massimo di 24 con preavvisi di almeno 13 giorni ed altrettanti tra uno sciopero e la proclamazione del successivo… quindi se si fanno i conti per bene sono almeno due mesi che lo sciopero di oggi era in preparazione, eppure nessuno sa nulla, nemmeno quei giornalisti tanto bene informati da sapere che in Oregon un gattino non riesce più a scendere da una pianta ed è stato salvato da un eroico anziano di passaggio…

Sarebbe facile dare la colpa ai social ipnotici od alla disattenzione generale alle cose serie, ma se oggi fa più sensazione un bebè che ride a crepapelle e non ci si scandalizza più per i soprusi sui lavoratori la colpa è solo nostra, che non sappiamo più reagire a nulla, pigri ed assuefatti al messaggio che ci propinano i governi che nessuno, oltre a loro, ci possa salvare, avviandoci verso un baratro inevitabile se non reagiremo in massa.

La rivoluzione di domani si può fare senza armi, sarà sufficiente tornare indietro di trent’anni, a quando le banche di affari erano separate dalle banche commerciali e quando i diritti dei cittadini e dei lavoratori erano garantiti e non negati attraverso norme aggiuntive e vessatorie.

Cancelliamo il Jobs Act, la legge Biagi e le varie riforme del lavoro, via libera alle tutele integrali e rispetto della persona prima che delle banche, forse produrremo meno PIL, ma saremo certamente più sereni e soprattutto via libera allo sciopero sotto tutte le sue forme: chi sciopera non si diverte, perde tempo e salario, mediamente tra 80 e 100 euro, non si spreca denaro se non si è davvero convinti che sia necessario, non è un giro sulla giostra od una gita fuori porta.

Oggi migliaia di lavoratori hanno scioperato con fatica e sofferenza, per farlo hanno dovuto costruire un percorso difficile che realizza l’assurdo che se lavori ti possono licenziare quasi senza preavviso e se vuoi scioperare devi dirlo in anticipo e poi andare comunque a lavorare e persino quando scioperi perché ti stanno licenziando ti vorrebbero obbligare a lavorare fino a quando non avrei più un lavoro… se non è assurdo tutto questo!

Ma la cosa più interessante è la motivazione con la quale USB ha proclamato uno sciopero generale nazionale ed altri due scioperi di sindacati di base sono già previsti per fine ottobre: si sciopera per rivendicare il diritto di sciopero!

È il caso di riflettere se non siamo davvero arrivati al capolinea, ormai non si rivendica più salario perché manca lavoro e stabilità, non si chiedono maggiori tutele perché mancano i diritti di base e si sciopera per poter continuare scioperare, cioè rivendicare l’unico strumento di lotta efficace dei lavoratori… assurdo.

Sullo sciopero si basano le civiltà industriali moderne, è stata approvata la legge 300/70, quelle forse più famosa in Italia, quella denominata “lo statuto dei lavoratori”; festeggiamo l’8 marzo, il primo maggio ed altre date che ci dovrebbero ricordare come siano stati in passato superati grandi soprusi attraverso questo strumento di lotta, mentre chi ancora oggi difende i diritti della base è costretto a rivendicarne il diritto ormai negato.

Lo sciopero di oggi è perfettamente riuscito nonostante il silenzio stampa, moltissimi dei lettori di Alga lo potranno riconoscere, muoversi oggi non è stato facile un po’ ovunque, e la disinformazione ha regnato sovrana: pochi articoli e su edizioni locali per scelte “imperscrutabili” dei grandi editori.

Quello che però è certo è non faremo alcun passo avanti se continueremo a mettere “mi piace” alla notizia del gattino dell’Oregon e non ci scandalizzeremo più per i nostri diritti negati: per ogni utente che oggi non si è potuto muovere c’è almeno un lavoratore oppresso, precario o licenziato, non “altri” soggetti invisibili, ma tanti noi stessi che attraverso la nostra indifferenza ci trascinano nel baratro con loro.

Oggi dare solidarietà a chi sciopera per il lavoro ed i diritti significa cercare di evitare che questi vengano sempre più negati e sempre più irreparabilmente anche a noi.

Pensiamoci.

ELEZIONI TEDESCHE IL GIORNO DOPO, COSA NE PENSA LA STAMPA ESTERA

 

Secondo Christin Brauer di N24, “Molti dei tedeschi hanno votato per la continuità”, “Circa il 25 per cento degli aventi diritto non hanno espresso il proprio voto. Potendone tener conto nei risultati delle elezioni il partito dei non votanti sarebbe la seconda forza in campo.”

Ma se in patria non mancano critiche e timori la stampa estera è molto attenta a queste elezioni tedesche, il risultato è analizzato soprattutto alla luce dei grandi cambiamenti in atto un po’ dovunque, “El País“, dalla Spagna, scrive che “in un mondo ormai pervaso dai timori indotti da Trump, Erdogan e Kim Jong-un, Angela Merkel si distingue per il suo messaggio di stabilità.”

Secondo il giornale, nonostante il crollo degli elettori “Merkel ha l’assertività necessaria di cui c’è bisogno in questo tempi difficili in ambito internazionale.”

Dalla Francia “La Croix” si concentra sulle amare perdite che CDU / CSU hanno dovuto subire e pensa che Angela Merkel ora deve trovare un partner di coalizione per una non facile “maratona” post elettorale.

Per l’austriaco “Die Presse” il risultato è dovuto alla politica tedesca sui rifugiati, “La Germania si è spostata verso destra. Con due anni di ritardo gli elettori tedeschi hanno presentato la loro dichiarazione per la crisi dei rifugiati. E il solo problema che ha reso così forte Alternativa per la Germania (AfD). Considerando la sua palese mancanza di leadership e le sue ricorrenti gravi lotte sul letamaio della storia, in un contesto politico differente i nazionalisti di destra si sarebbero da tempo sciolti, tuttavia, il malcontento sulla politica di apertura delle frontiere di Angela Merkel e l’immigrazione di massa ha dato nuova vita a questo movimento anti-euro che era già moribondo”.

L’austriaco “Der Standard” sostiene che si tratti del “solito affare”, l’unico possibile in Germania.

“La Germania è già da molto tempo senza un raggruppamento nel Bundestag, ma quando si sente quello che molte di queste persone AfD dicono, come di “pulizia” natirale, esclusione e “Stop il culto della colpa”, è grave. Non si deve dimenticare che tutto ciò accade in quel paese che una volta ha subito il terrore nazista ed ora questi rappresentanti del popolo seduti nel Bundestag, il cuore della democrazia, terranno i loro discorsi. Chi credeva tutto poteva continuare come prima, si deve ora ricredere.”

Secondo “Le Monde“, Francia si tratta di “Un risultato deludente per Angela Merkel”

“Rieletta per il quarto mandato affianca il cancelliere a Konrad Adenauer ed Helmut Kohl, ma”, dice il quotidiano, “l’esito deludente dei conservatori tedeschi potrebbe essere persino peggiore del minimo storico raggiunto dalla signora Merkel nel 2009.”

La Croix“, Francia, rincara: “Un primo posto amaro per Angela Merkel”

“Anche se l’Unione tra CDU e CSU di Angela Merkel ha vinto le elezioni parlamentari”, “perde nove punti percentuali rispetto al 2013. Nella sede del partito a Berlino, l’umore era nero.” “Per il partito cristiano-democratico di Angela Merkel ora una inizia una nuova maratona inizia”, nella quale “È necessario trovare partner per una coalizione.”

Per “Le Figaro“, Francia, “La destra radicale si è affermata”.

“Angela Merkel aveva creduto che la popolarità dell’AfD sarebbe morta verso il basso, una volta che la crisi dei rifugiati fosse finita. Il flusso di rifugiati è diminuito drasticamente, ma si è affermata la destra radicale. Ora e per molto tempo non dovrebbero scomparire dal panorama politico tedesco “.

Il “The Guardian“, dal Regno Unito, titola: “I risultati delle elezioni dovrebbero far riflettere”

“L’aumento della AfD è preoccupante, non c’è dubbio. Ed è un segno di crescente frammentazione politica. Si introduce un elemento di veleno e di polarizzazione per chiunque si aggrappi a una democrazia liberale, si deve pensare ad una politica federale della Germania “.

Il “The Times“, Inghilterra, pensa che “Il quarto mandato potrebbe essere avvelenato”

“Il quarto mandato in Germania non è senza precedenti, ma potrebbe essere avvelenato come il suo ex mentore, Helmut Kohl, aveva già sperimentato alla fine del suo governo. Molti ritengono addirittura che la Merkel non riuscirà a restare in carica per tutta la legislatura. L’avvento dell’AfD nel Bundestag, segna la prima volta dal 1960 che un partito al politicamente all’estrema destra è rappresentato in Parlamento ed anche se non v’è alcun pericolo immediato, perché tutti gli altri partiti si rifiutano di formare con esso un governo, essi chiederanno fastidiosamente e con costanza misure più severe contro i migranti.”

“La linea di fondo vede ancora Angela Merkel vincente con un governo da fare e che si preannuncia instabile fin dall’inizio, tuttavia, deve lottare, applicando una vigorosa politica di cambiamento, piuttosto che ritirarsi.”

Secondo il “New York Times“, Stati Uniti d’America, “I colloqui di coalizione dureranno a lungo”.

“Nonostante la loro vittoria Merkel ed i conservatori non possono governare da soli, il che rende probabile che la vita politica del Cancelliere sarà più complicata. La forma e il contenuto di una nuova coalizione di governo richiederanno settimane difficili negoziati. ”

Il “Washington Post“, Stati Uniti d’America, titola “La Merkel dovrà cambiare la sua politica”.

“Gauland e altri candidati AfD hanno usato slogan che sono stati ampiamente percepiti come scandalosi in tutta la campagna, ma alcuni dei loro elettori di domenica hanno espresso la speranza che la presenza del loro partito costringerà la Merkel a cambiare la sua politica recente”.

La Svizzera “NZZ” pensa che “La Merkel non può continuare come prima”

“La forte performance dei partiti minori FDP e AfD non permette al vincitore delle elezioni Merkel, di continuare semplicemente come prima. I due nuovi partiti in parlamento possono mettere la destra sotto pressione e influenzare le politiche del prossimo governo ed il Cancelliere, come un partner di governo o dall’opposizione. A tal fine, l’AfD ha l’obbligo di chiarire il loro corso e di posizionarsi come parte del tutto borghese nel Bundestag. Il partito tenderà a mantenere l’immagina squallida di destra che ha avuto durante la campagna elettorale, giocando con le idee razziste e protestando con l’opportunità di avere una diretta influenza sulla politica tedesca.

 

TERREMOTO AFD AL 12,8 %,. MA LA MERKEL RESTA IN PIEDI

 

Dal nostro inviato in Germania.

Angela Merkel si appresta ad entrare nella leggenda ma il suo record è offuscato da un vero e proprio terremoto politico: l’onda populista che sta attraversando l’Europa non ha risparmiato la Germania e l’AfD con il 12,8% dei suffragi, nonostante i suoi soli 4 anni di vita, diventa il terzo partito tedesco producendo una grande rivoluzione nello scenario politico del paese.

Prima di lei solo Helmut Kohl aveva governato per quattro mandati e complessivamente 16 anni, ora Angela Merkel, la ragazza dell’Est, si appresta ad eguagliarlo, ma a caro prezzo, quella che si appresta all’orizzonte non è più solo una Grosse Koalition, ma addirittura una possibile Riesen (gigante) Koalition, dopo che l’SPD, il partito dello sfidante principale, Martin Schulz, ha registrato il peggior risultato degli ultimi decenni attestandosi al 20,6%.

Commentando gli esiti del voto Schulz ha detto che per l’SPD ”è tempo di tornare all’opposizione” ed ha dichiarato in un’intervista alla radio ARD di voler rimanere leader del partito anche dopo questa storica sconfitta elettorale, ma non sarà presidente della fazione nel Bundestag: “Io non parteciperò alla presidenza della fazione, ma mi concentrerò completamente sul rinnovo del partito”, ha detto domenica in un’intervista ARD.

Angela Merkel, sorpresa per il risultato elettorale, non si è però persa d’animo e si è appellata alla responsabilità dell’SPD per governare fino a Natale, quando pensa di essere pronta con il nuovo governo che, in assenza di SPD, sembra già destinato ad adottare la formazione detta Jamaica, per i colori dei partiti partecipanti, con FDP e Verdi.

L’AfD, forte del risultato, starebbe già pensando ad un comitato d’indagine contro la cancelliera.

Anche il presidente dell’Istituto di Ricerca Economica di Monaco (IFO), Clemens Fuest, pensa che la coalizione “Giamaica è la risposta appropriata”, “il nuovo governo dovrebbe concentrarsi sull’istruzione e la ricerca, sulla digitalizzazione e sulla globalizzazione dell’economia, sulla politica dell’energia e sul clima e sull’integrazione europea. – ha detto – Il FDP ha espresso chiaramente un trasferimento nella zona euro, i Verdi piuttosto per esso. Queste differenze nella politica economica, tuttavia, possono essere colmate “.

Ma non tutti sono sorpresi, il ministro degli Esteri austriaco, Sebastian Kurz, interfvistato sull’argomento ha detto, all’agenzia di stampa APA, che “il risultato non mi sorprende molto”, la ragione per la scarsa performance dell’Unione e il successo dell’AfD alle elezioni del Bundestag risiederebbe nella politica sui rifugiati del governo federale, “c’è molta insoddisfazione con la posizione del governo nella politica dei rifugiati in Germania”, ha aggiunto, “La crisi dei rifugiati non è stata presa sul serio da molti politici e partiti tradizionali in Europa”.

Mentre ancora si spogliavano i voti centinaia di persone dimostravano già a Colonia contro l’AfD, secondo la polizia, una marcia di protesta promossa dal comitato nazionale “Il nazionalismo non è un’alternativa”, ha attraversato il centro cittadino, un gruppo iniziale di 300 partecipanti ha avviato la marcia che si è conclusa in modo pacifico con oltre 700 persone al seguito.

Anche la superstabile e conservatrice Germania è ora al bivio, l’ingresso massiccio di AfD in parlamento creerà non pochi fastidi alla cancelliera che ha ora davanti solo due alternative: la grande coalizione con la SPD, ch eperò sembra non essere possibile per le resistenze del partito, l’alleanza giamaica con CDU / CSU, FDP e Verdi.

Dopo quattro anni di assenza, i liberali sono tornati al Bundestag con circa il dieci per cento, mentre i partiti di collegamento dei Verdi hanno raggiunto circa il nove per cento.

Nel grafico i risultati complessivi da ARD.

ELEZIONI IN GERMANIA. VERSO UNA NUOVA GROSSE KOALITION

 

La cancelliera tedesca Angela Merkel non si sbilancia sulle alleanze del dopo voto e nemmeno Martin Schulz sembra avere intenzione di lasciar trapelare qualcosa. Una Grosse Koalition sembra essere dunque ancora all’orizzonte.

Il problema principale potrebbe essere la crescita dei consensi che sembra registrare Alternative Für Deutschland (AFD), un partito nazionalista e anti-immigrati nato nel 2013 che dal 7-8% dei consensi nel sondaggi di due mesi fa è passato oggi all’11-12.
Il timore che la sera del 24 settembre i consensi raccolti dal movimento di estrema destra possano essere significativi per il governo ha fatto dichiarare al capo della Cancelleria Peter Altmaier (CDU) che i cittadini scontenti dovrebbero evitare di recarsi alle urne piuttosto che scegliere l’AFD.

L’episodio, riportato dalla stampa tedesca, è stato registrato martedì in una video-intervista con il quotidiano “Bild” quando alla domanda se fosse meglio non votare piuttosto che votare AFD, ha risposto “Ma certo”. “L’AFD sta dividendo il nostro paese, sfrutta le preoccupazioni e le paure della gente e credo che un voto per l’AFD non possa essere giustificato, almeno per me.”, Altmaier non ha detto apertamente di non votare, ma ha sostenuto che “è anche così che gli incerti esprimono un parere”.

Il leader della fazione SPD Thomas Oppermann ha prontamente criticato le dichiarazioni dicendo al quotidiano “Bild”, “Mi sembra sbagliato consigliare ai cittadini di non votare per non fornire elettori all’AFD”, mentre il candidato di AFD Alexander Gauland ha replicato: “Sono fantastici i democratici! Ora un membro del governo federale sta persino chiedendo il boicottaggio delle elezioni”.

Uno dei possibili problemi dei rilevamenti è che in ogni caso gli elettori potrebbero essere restii a dichiarare ai sondaggisti un voto di questo tipo, così la co-leader di AFD, Alice Weidel, sostiene che il partito potrebbe persino superare il 20% diventando la seconda forza in Parlamento, davanti alla SPD.

Sebbene ritenuto generalmente improbabile, un’impennata anche solo al del 12% dei nazionalisti genererebbe un grande terremoto nel panorama politico tedesco, terremoto che Angela Merkel sostiene non ci si possa permettere. La stessa Merrkel ha criticato nuovamente le scelte SPD per aver tenuto una coalizione con il partito di sinistra: “I socialdemocratici possono purtroppo chiedere a chi vogliono e quando vogliono, non è mai possibile escludere il rosso-rosso-verde” e pensa che questo sia profondamente sbagliato. “Non ci possiamo permettere esperimenti in questi tempi difficili”, ha aggiunto, tuttavia, nei sondaggi, l’SPD, la Sinistra ed i Verdi non dovrebbero poter attualmente contare su una maggioranza.

Anche il capo della FDP Christian Lindner ha attaccato l’AFD descrivendolo come una macchina populista di provocazione che non è interessata a lavorare sui concetti e sui testi giuridici ed ha dichiarato martedì al “Neue Osnabrücker Zeitung”: “L’AFD è certamente pericoloso, perché incita la nostra gente all’unità razziale, culturale e religiosa e combatte la diversità”.

Schulz, invece, dice di voler affidare la responsabilità della migrazione e dell’integrazione al Ministero del Lavoro e degli Affari Sociali ed ha dichiarato a Stoccarda, al Congresso dell’Associazione tedesca dei giornalisti (BDZV), che era sbagliato che l’argomento fosse un’appendice del Ministero dell’Interno, proponendo l’istituzione di un “Ministero del lavoro e degli affari sociali, la migrazione e l’integrazione”.

Inoltre, lunedì sera nella trasmissione ARD “Wahlarena”, tra le altre cose ha anche promesso che avvierà un cambiamento di corso della cancelleria già durante i primi 100 giorni di governo, il “Reutlinger General-Anzeiger”, ha detto Schulz, “si può finanziare con i fondi necessari sia dall’assicurazione per l’assistenza che con le tasse, inoltre si deve discutere e guardare a ciò che è pratico …”

A pochi giorni dal voto lo scenario post-elettorale della Germania si prospetta quindi davvero complicato, è quasi scontato che Angela Merkel verrà riconfermata cancelliera, dato che tutti i sondaggi danno in netto vantaggio, attorno al 36-38%, la sua Unione Cdu-Csu, ma per il resto l’incertezza è totale e sarà determinata dal risultato che i socialdemocratici (SPD) di Martin Schulz, previsti tra il 20% ed il 25%, otterranno e dalla sorpresa di AFD, che, come detto potrebbe superare ed anche di molto il 12% sbilanciando tutte le possibili coalizioni ed imponendo una loro presenza in una larghissima coalizione di governo con l’Unione, che potrebbe creare grandi problemi ad angela Merkel che, invece, punta ad una grande stabilità e continuità, al punto da aver dichiarato che se vincerà le elezioni Schaeuble sarà confermato ministro delle finanze.

Anche Schaeuble , che è in carica dal 2009, è candidato alle elezioni di domenica ed è molto apprezzato dai tedeschi per la sua strenua difesa dell’austerità imposta alla Grecia ed ad altri paesi dell’area dell’euro in difficoltà, poiché sarebbe proprio questa sua posizione intransigente in difesa del rigore di bilancio in Europa che avrebbe consentito alla Germania di evitare le sbandate capitate ad altri Paesi. Angela Merkel, nel festeggiare lunedì il settantacinquesimo compleanno del ministro, lo ha elogiato definendolo un uomo «di convinzioni e di azioni» e dallo «spirito mai rassegnato».

Secondo i sondaggi della tedesca Wahl Navi i due gruppi più grandi si uniranno dopo le elezioni del Bundestag, l’87% degli intervistati ne sono convinti: il CDU / CSU vincerà la maggior parte dei seggi, il secondo posto, con il 77% degli intervistati a favire, spetta alll’SPD, ma anche circa un ventesimo degli elettori vede l’AFD come il secondo partito più rafforzato dopo le elezioni, mentre il 5% degli intervistati pensa all’FDP.

La terza determinante forza politica tedesca è la questione vera: l’elettorato e gli esperti si interrogano molto su questo aspetto ed il 30% degli intervistati pensa che proprio l’AFD sia in gara per la vetta, mentre il 24% degli intervistati vedono la FDP vincente lasciando indietro Sinistra e Verdi con rispettivamente il 17% ed il 16%.

SCHULZ SORPRENDE. MA MERKEL SEMBRA ANCORA FAVORITA

Per il duello televisivo tra Angela Merkel e Martin Schulz, andato in onda il 3 settembre 2017, le quattro principali reti televisive tedesche volevano accordarsi con i rispettivi rappresentanti sulle modalità di messa in onda con lo scopo di ottenere un “dibattito TV” per il 2017 drammaticamente nuovo, con blocchi da 45 minuti ed un ingresso comune nel programma che favorisse una struttura più chiara e più spazio per la spontaneità e la discussione.

I rappresentanti della Cancelliera hanno però rifiutato di partecipare in queste condizioni, così il modello utilizzato è stato approssimativamente quello del 2013: coppie di moderatori, prima Maybrit Illner (ZDF) e Peter Kloeppel (RTL)  ed a seguire Sandra Maischberger (ARD) e Claus Strunz (ProSieben / SAT.1), che hanno alternato le loro domande in trasmissione senza accordi sostanziali su questioni concrete per favorire comunque spontaneità ed indipendenza giornalistica.

Il risultato è stato un modello divertente, ma un po’ più difficile da gestire del previsto, con il candidato SPD, Martin Schulz, che ha lottato con la cancelliera Angela Merkel cercando spesso di metterla nei guai.

Il motto di Martin Schulz è sembrato essere “chi non ha molto da perdere, può osare di più”, così ha cambiato spesso le carte in tavola sorprendendo per le affermazioni spesso in contrasto con le politiche del suo partito ed arrivando persino a generare un momento di puro stupore quando ha affermato che “quando sarò Cancelliere, annullerò i negoziati di adesione all’UE,” riferendosi chiaramente alla Turchia ed in netto contrasto con la posizione della piattaforma SPD, concludendo che questa è anche la posizione tradizionale dell’Unione che la Merkel da cancelliera non ha (ancora) applicato.

Ma Angela Merkel non si è fatta influenzare troppo dallo sfidante che ha replicato con una tattica ovvia, ma efficace, e ha risposto sempre prontamente a qualunque spostamento di argomento di Schulz, persino quando ha violentemente attaccato i manager delle industrie automobilistiche per la vicenda diesel, sostenendo che vi è stata una “perdita di fiducia senza uguali”, non si è fatta sorprendere replicando con prontezza “sono furiosa!”.

Secondo gli osservatori tedeschi Schulz ha lottato controllando gli attacchi ed influenzato il conflitto che ha avuto, come ci si aspettava, come tema dominante la politica interna sui rifugiati e l’integrazione, argomento sul quale la Merkel a ricevuto le maggiori critiche degli ultimi tempi e che ha finito per occupare la metà dell’intero tempo del dibattito.

Martin Schulz, ha avuto toni critici sull’argomento, definendo come un “compito generazionale” l’integrazione di più di un milione di nuovi arrivati e rivolgendosi chiaramente agli ex elettori fondamentali dell’SPD nella classe operaia dove, nelle recenti elezioni statali, il partito ha avuto le maggiori perdite.

Angela Merkel ha però difeso con energia la politica sui rifugiati che ha tenuto negli ultimi due anni, considerando un propria colpa solamente il non essersi occupata adeguatamente ed in tempo delle strutture dei campi profughi nelle regioni di crisi, ma anche non di aver mai sottovalutato il problema.

Durante il dibattito sono stati toccati temi di politica internazionale, Turchia, Corea del Nord ed Islam, sono invece mancati completamente i temi della formazione e della digitalizzazione, solo accennata alla fine dalla cancelliera, rivelando un approccio tradizionalista e conservatore di entrambi i candidati sugli scottanti temi delle politiche sociali interne, argutamente evitatati, mentre il momento più irritante è stato quando, trattando di religione ed Islam, Martin Schulz ha citato un filoso dicendo che “al di là del giusto e dello sbagliato, c’è un luogo dove tutti ci incontriamo”, alludendo all’aldilà ed entrando in evidente confusione, dalla quale ha cercato di uscire dichiarando che la frase avrebbe dovuto chiudere le sue osservazioni ed era stata detta troppo presto.

A fine dibattito il presentatore RTL Peter Kloeppel ha azzardato l’ipotesi di un secondo incontro per la settimana successiva, immediatamente cassata dalla Merkel.

Nonostante le novità e la tensione si può affermare che il dibattito ha avuto uno stile tradizionale, ognuno ha cercato di usare gli elementi nei quali si sentiva più forte, Merkel sembra aver convinto di più di Schulz, d’altro canto cambiare è sempre un’incognita, e la cancelliera ha dalla sua dati che, sebbene non siano del tutto merito suo perché dipendono in gran parte dalle politiche del suo predecessore Gerhard Schröder (SPD), sono inoppugnabili, come il dato di disoccupazione, oggi al 5,7% per il quale ha affermato “Invece di cinque milioni di disoccupati, di quando ho assunto l’incarico, ora abbiamo 2,5 milioni di disoccupati, dei quali un milione sono disoccupati di lunga durata”.

Dati grezzi, ma di grande impatto che sono stati uniti alla considerazione che nonostante il diktat europeo sia di mandare le persone in pensione a 70 anni, la linea ufficiale della CDU è di non prevedere “di aumentare ulteriormente l’età pensionabile. Siamo ora ad un’età pensionabile di 67 anni”, che, come concordato con l’SPD, sarà introdotta gradualmente.

Dalla parte di Schulz, in genere, sembrano essere state più apprezzate le affermazioni populiste, come sul tasso di criminalità in aumento dove ha detto che “la Sassonia è la zona con la con il più alto tasso di criminalità”, ma anche a Berlino il tema è sensibile avendo realizzato nel 2016 il peggior record di tutti gli stati e delle principali città tedesche, nonostante un lieve calo generale della criminalità nazionale.

L’ultima parola, però, sembra essere stata della cancelliera che nelle sua dichiarazioni finali ha lamentato che il tempo non era stato purtroppo sufficiente per parlare compiutamente dei prossimi quattro anni e ha velocemente accennato alle sfide del futuro digitale ed ai successi del passato: “dall’esperienza degli ultimi anni e la curiosità per il nuovo, vogliamo fare in modo che la Germania sia ancora un paese moderno per i prossimi dieci anni”.

Merkel, ha quindi dichiarato di voler lavorare, ” per voi e con voi “, chiudendo con la frase “sono sicura che possiamo farlo insieme”.

Martin Schulz ha invece concluso il dibattito parlando di “un momento di transizione”, per il quale è necessario il coraggio di un cambiamento che deve modellare il futuro e non somministrare il passato, per Schulz è compito dell’Europa stabilire la giustizia, la sicurezza e la pace nel mondo e rafforzare le democrazie in una “idea di una Germania europea in un’Europa forte, per la quale ho combattuto tutta la mia vita.”

Il bilancio finale, però, ha visto molte convergenze di programma nonostante le apparenti distanze, a partire dalla scelta di abiti di colore blu per entrambi gli sfidanti che ha reso piatte le immagini lasciando più spazio alle parole, Günther Jauch, uno dei più popolari presentatori televisivi tedeschi, ha parlato di spettacolo che rischia ancora una volta una di portare ad una grande coalizione.

Secondo Jauch il dibattito televisivo è stato soprattutto una delusione, per lui Martin Schulz è stato poco aggressivo ed anche se non ha risposto alla domanda diretta su un’eventuale alleanza post elettiva, Jauch ha scritto lunedì mattina sul quotidiano Bild “dal momento che a parlare sono due politici di professione, non mi libero dal sospetto che i potrebbero lavorare insieme e senza problemi in un governo” convinto che “questo duello ha dimostrato ciò che ci minaccia: altri quattro anni in una grande coalizione sotto la Merkel”.

Molti anche i sondaggi e le opinioni divergenti su chi abbia realmente vinto la sfida, le elezioni, ovviamente, scioglieranno ogni dubbio, ma per il momento, anche se gli analisti danno Schulz in testa, secondo il sondaggio lanciato on line per i telespettatori della trasmissione, Merkel “ha convinto di più”.

PAZZA L’IDEA: COMPRIAMOCI ALITALIA

DI PIERLUIGI PENNATI

 

Non capisco, tutti gli analisti parlano di conti in ordine, azienda sana e costi del personale e di gestione persino inferiori a molti concorrenti, ma mal governata, dopo il fallimento dei manager delle clientele politiche quello dei “capitani coraggiosi”, una compagnia da sempre nelle mani, a detta di chi ha analizzato la situazione, di incapaci, almeno nelle politiche e strategie di riempimento dei posti.

Ora, dopo aver già pagato una volta per scongiurare il problema sociale di migliaia di licenziamenti, siamo comunque chiamati da governati espressione di una classe politica agonizzante e mai legittimata da un voto costituzionalmente valido, a pagare comunque, quindi di nuovo, producendo l’effetto di produrre costi doppi per lo stesso problema.

Ma, già, Alitalia è oggi privata e non si può toccare.

Privata, come erano privati i conti correnti dai quali un primo ministro ha deciso una mattina a sorpresa di prelevare una “una tantum” senza che nessuno potesse reagire.

Privata, come private sono le persone che avevano stipulato un contratto con un’assicurazione, l’INPS, che prevedeva dei termini per ottenere una pensione e che un altro primo ministro ha cambiato senza dare la possibilità di recesso e che un altro, dopo di lui, ha allungato di botto mettendo persino sulla strada migliaia di famiglie, quelle dei cosiddetti “esodati”, con la disinvoltura di chi importa poco del prossimo e pensa solo a conti malati e senza anima.

Privata, come sono private ed intoccabili le proprietà dei potenti, mentre quelle delle masse di poveri e “normali” possono essere sacrificate.

Uno dei governi che più ha provocato problemi ai lavoratori degli ultimi decenni, quello di Renzi, ha voluto a tutti i costi vendere aziende di stato che non erano in crisi e producevano utili record, come ENAV, ed ha riorganizzato quelle che lo erano efficentandole, come Finmeccanica che accorpando tutte le aziende controllate ha trasformato un gruppo in perdita in un’azienda che sta sul mercato, ed ira, dopo aver fatto il contrario di quello che il buon senso suggeriva, tramite Gentiloni, si rifiuta l’unica soluzione che potrebbe salva Alitalia ed i suoi 12.000 dipendenti, la statalizzazione.

Serve, sembra, solo riempire gli aerei, quindi una strategia commerciale adatta, possibile che in Italia non ci sia nessuno capace di farla?

Non ci credo. Credo invece che sarebbe molto meglio evitare altri costi sociali riprendendo il controllo di una compagnia oramai sana.

Non vuole farlo lo stato? Lo facciano i suoi cittadini: compriamoci Alitalia!

Non serve molto, possiamo farlo e sarebbe un buon investimento tanto che io sono disposto a fare da apripista mettendoci la prima quota, ma davanti a tutti dovrebbero esserci i dipendenti, con una quota del loro TFR potrebbero formare una base solida su cui i sindacati potrebbero contare per aprire la sottoscrizione pubblica: chi non vorrebbe comprarsi Alitalia?

Serve solo organizzazione, coraggio e cogestione, la formula vincente di partecipazione dei dipendenti, non dei sindacati, alla gestione aziendale che fa volare le quotazioni di BMW, Porche e Mercedes, una forma di co-partecipazione dei dipendenti alla gestione aziendale che dove è applicata nel mondo porta solo frutti e benefici per tutti, gli azionisti ed i dipendenti, che in questo caso sarebbero anche azionisti.
I sindacati deputati dovrebbero essere CUB ed USB, i due sindacati che hanno convinto più di 7.000 dipendenti sul totale a votare no all’accordo che prevedeva solo tagli e licenziamenti, ora gli stessi sindacati che predicano la statalizzazione potrebbero guidarne la “privatizzazione popolare”.

La vogliono tutti, ma a pezzi, solo il governo miope, dopo averne già pagato i costi sociali, non la rivuole? Comperiamola noi, intera!

SCONGIURATI ALTRI SCIOPERI A SORPRESA A LINATE E MALPENSA

In un video i lavoratori dell’aeroporto documentano quello che sta succedendo in attesa che scoppi di nuovo la protesta: le aziende violano le norme per permettere la sostituzione del personale a basso costo.

Quello che succede nel video è significativo: un solo dipendente di AGS  carica i bagagli nella stiva di un aereo della compagnia low cost egiziana Almasria Universal Airlines e solo alla fine del carico si intravede l’arrivo di un secondo addetto che comunque non sembra prendere parte alle operazioni di carico.

I sindacati spiegano che nel filmato appare un Airbus 319 e che in questo caso “Di norma servirebbero tre addetti per caricare la stiva di un aeromobile 319: un addetto deve stare a terra al nastro bagagli, un altro deve stare all’imbocco della stiva per passare i bagagli e un terzo all’estremità della stiva per sistemarli nel modo più opportuno e sicuro” ed invece nel filmato appare un solo operatore che sale e scende dal nastro, prassi normalmente non sarebbe consentita.

AGS non è una compagnia qualunque, ma la società a cui fa riferimento «Alpina», la cooperativa contro la quale le otto sigle sindacali si sono mobilitate da mesi e che il primo di agosto ha fatto scattare la protesta spontanea che ha paralizzato il traffico aereo negli scali milanesi, questa denuncia parla chiaro, l’utilizzo di un solo operatore che preleva i bagagli dal carrello per metterli sul nastro, abbandonando incustodito l’ingresso della stiva e gettando con fretta e nervosismo i bagagli in fondo alla stiva, secondo i sindacati, è un «modo di operare» decisamente «contrario ad ogni regola di sicurezza sul lavoro ed espone l’operaio al rischio di infortuni oltre a sottoporre i bagagli dei passeggeri ad un trattamento a dir poco discutibile. Troppo facile fare concorrenza in questo modo, facendo lavorare un solo operaio quando ne occorrerebbero tre».

Ora il filmato è stato inviato alle autorità aeroportuali nel tentativo di far arrivare alla società un formale ammonimento, ma il rischio che le assemblee programmate potessero far parlare ancora degli scali paralizzando il traffico in mezza Europa, ha suggerito ad ENAC, l’autorità aeroportuale, di sospendere ulteriormente le licenze delle società subentranti fino al 25 settembre, data nella quale i tribunali si esprimeranno presumibilmente, nel merito dei ricorsi presentati sulle liceità dei subappalti.

Una buona notizia in attesa della prossima agitazione o che si possa risolvere felicemente una vertenza nella quale non si vorrebbe far scioperare più nemmeno a chi perde il posto di lavoro e per la quale sarebbe sufficiente almeno non cambiare.

MIGRANTI ECONOMICI DALLA PELLE CHIARA

Leggo dell’ennesima polemica sui migranti e non riesco a trattenermi, la critica è che costoro viaggiano con denaro e telefonini e spesso sono ben vestiti, mentre i nostri migranti dei secoli scorsi non lo erano, inoltre sarebbero le avanguardie di intere famiglie che investono su di loro e quindi ancora più dannosi…

Ora, a parte che nei secoli scorsi la tecnologia era differente e sono sicuro che potendo anche i nostri avi sarebbero partiti con un telefonino per avvertire la famiglia che li avrebbe seguiti, io però mi chiedo spesso cosa pretendiamo, vogliamo denaro e vita comoda per noi e se possibile sprechiamo senza ritegno e pretendiamo che altri non facciano lo stesso?

Se fossimo noi a dover migrare partiremmo senza un telefonino e soldi a sufficienza per il viaggio?

E se fossimo l’avanguardia di una intera famiglia rifiuteremmo l’aiuto dei parenti?

Criticabili o meno i migranti sono tutti uguali e tutti lo specchio dei tempi che vivono, andiamo in vacanza per una settimana con valigie che basterebbero per un intero mese a tutta la famiglia e pretendiamo che gli altri viaggino nudi e senza soldi, eppoi cosa vuol dire migrante economico, che i nostri figli non possono impiegarsi a Wall Street perché non sono americani?

E di Marchionne ne vogliamo parlare? Lo rifiutano solo perché ha del denaro e vuole lavorare in una nazione senza averne la cittadinanza?

I latini dicevano pecunia non olet, infatti profuma e tutti la vogliono, purché sia tanta e solo per loro.

Non scherziamo, io non sono buonista, ma nemmeno forcaiolo, cosa centra se uno scappa da una guerra o cerca lavoro, una priorità bisogna darla, ma credere che tutto si risolva erigendo muri è davvero assurdo, anche perché il muro lo abbiamo già eretto noi ai nostri figli, che con il sistema economico e legislativo che abbiamo permesso si instaurasse in Italia non vogliono più fare lavori sottopagati e sfruttati, per questo non si trova più personale alberghiero e per le pulizie, perché i nostri giovani italiani quei lavori vanno a farli in Austria, Germania, Olanda e qualsiasi altro posto dove salario, diritti e dignità sono ancora rispettati.

Provenire da una foresta dove la gente sparisce per un nonnulla è già scappare da una guerra, così come andare a lavorare all’estero per i nostri figli, che scappano dalla guerra che ogni giorno facciamo ai nostri diritti, permettendone la compressione e la negazione al punto che solo chi proviene da aree più oppresse della nostra ormai accetta la situazione.

I migranti vanno dove possono stare meglio, per questo tutti i figli dei miei amici studiano e lavorano all’estero: migranti economici dalla pelle chiara!

ISCHIA. MA LA COLPA NON E’ SOLO DELL’ABUSIVISMO EDILIZIO

DI PIERLUIGI PENNATI

 

Dopo l’emergenza, la gioia per i salvataggi e poi le polemiche inutili, così adesso la colpa del terremoto è diventata il degrado del sud e dell’abusivismo edilizio di Ischia.

Io stesso ho affermato, ed ancora affermo, che il cambiamento parte da noi, quindi gli abitanti di Ischia, ma anche quelli di Vipiteno e del resto del mondo, sono i primi responsabili del buono o del cattivo andamento delle proprie città, ma affermare che i crolli sono dovuti solo all’abusivismo dilagante è davvero troppo.

Anni fa, a Milano, crollò un palazzo d’epoca senza preavviso, tra le macerie morirono delle persone, abitanti dell’edificio, il gestore del bar che si trovava al piano strada ed alcuni avventori dell’esercizio. La colpa? Infiltrazioni di acqua poco evidenti e quindi trascurate, il terremoto non era stato necessario per abbatterlo, ci aveva pensato da solo.

Così anche la palazzina di Ischia, sotto la quale sono rimasti intrappolati i bambini salvati ieri, era un edificio di inizio secolo e non “abusivo”, semmai trascurato, ma quanti di noi hanno fatto una seria manutenzione antisismica all’edificio in cui abitano negli ultimi venti anni?

Ah, già, da noi non è zona sismica, invece Ischia lo è…

Noi assolti e “gli altri condannati, eppure l’Italia ha la maggior parte del territorio considerato “zona sismica” a vari livelli di pericolo, quindi tutti siamo coinvolti in una seria e necessaria pianificazione, ma i terremoti, come tutti gli altri elementi della natura, seppur possibili non sono sempre esattamente prevedibili e le azioni preventive non sempre attuabili in tempi ragionevoli.

Ne consegue che se il terremoto, non una eruzione od uno smottamento anch’esso possibili sull’isola, hanno portato all’attenzione dell’opinione pubblica il dilagante abusivismo di Ischia, le morti, almeno in questo caso, non sono a questo ascrivibili, anche se la tendopoli, quella si, ne è direttamente conseguente.

Cittadini assolti?

Niente affatto, nessuno è assolto e tutti siamo responsabili, persino chi scrive, la società è fatta per questo, per dare vicendevole sostegno e distribuire responsabilità e non solo per cercare altri colpevoli del momento: se a Ischia è avvenuto un terremoto non è colpa di nessuno, ,a se a Ischia ci sono abusi edilizi è colpa di tutti ed insieme vanno definiti e risolti.

Due situazioni differenti con due diverse soluzioni, prevenzione anti-sismica, anti-idrogeologica, anti-eruttiva la prima, repressione delle condotte sbagliate la seconda.

Così da qualche giorno abbiamo tutti “scoperto” che ad Ischia ci sono abusi edilizi, di questo passo tra non molto diranno persino che “miracolosamente” sono state scoperte acque termali e tutto passerà ancora una volta nel cosiddetto “dimenticatoio”, resteranno gli abusi vecchi, ne sorgeranno di nuovi e quasi tutti saranno felici e contenti: appuntamento tra una cinquantina di anni al prossimo terremoto prevedibile.

Ma in definitiva, cos’è esattamente un “abuso edilizio” e, soprattutto, quali rischi comporta?

Esempi di abusi edilizi ne abbiamo avuti ed ancora ne abbiamo a iosa, un abuso edilizio è una costruzione contro la legge, una legge che a sua volta tiene conto di differenti fattor, facendo si che una casa antisismica può essere abusiva se eretta in una riserva naturale tanto quanto una casa non stabile può esserlo in un luogo che ha ottenuto la licenza, vanno quindi distinti gli abusi e classificati per quello che sono: rischio sismico, rispetto di norme ambientali, architettoniche, igieniche, etc.

Ad Ischia il problema maggiore sembra essere quello ambientale, cui si somma il rischio sismico, ma non solo, risultandone un abuso generale difficilmente classificabile singolarmente, aggiungendo a questi abusi quelli che negli ultimi tempi sono classificati come “abusi di necessità”, vale a dire una contraddizione in termini: come può una cosa “necessaria” essere un abuso?

La soluzione è semplice, si tratta di abusi, vale a dire edifici privi di licenza edilizia o con licenza parziale, senza dei quali una famiglia senza altri mezzi dovrebbe vivere all’aperto od in tenda, quindi in “stato di necessità”.

Come definire e condannare queste situazioni di abuso? Semmai l’abuso è fatto da chi consente la costruzione di “mostri” di cemento di fronte a bellezze naturali e non consente a costoro, in stato di necessità, di edificare una piccola casa, con il risultato che, considerazione su considerazione, si scopre che il fenomeno è complessivo e spesso globale, sommando o sovrapponendo in modo complicato e confuso le necessità dei cittadini, sovrani secondo costituzione, al rispetto per ambiente, le amministrazioni incapaci od interessate ed gli affaristi sempre pronti dietro l’angolo ad approfittare di qualsiasi situazione.

Oggi assolvere o condannare per un terremoto è un esercizio inutile, guardare al domani con spirito costruttivo e pianificatore è molto meglio, perché mentre si discute dell’abusivismo di Ischia odierno, domani 24 agosto 2017 sarà un anno che ad Amatrice qualcuno vive ancora in tenda dopo l’evento di magnitudo 6.0 che ha devastato la sua casa e se in Italia si documentano morti per terremoti da quando l’uomo registra la sua memoria è anche vero che molti piani di prevenzione sono già disponibili, con relative stime di costi, enormi, ma necessari.

Secondo molti di questi studi, per “mettere in sicurezza” tutti gli edifici italiani con una buona approssimazione di efficienza servirebbero almeno 850 miliardi di euro, lasciandoci solo due alternative: cominciare a raccoglierli e spenderli bene od aspettare il prossimo terremoto per poter trovare altri responsabili e piangere i nostri morti.

A questo servono gli investimenti, se sapremo convincerci di essere il nostro futuro, potremo imparare dal nostro passato per usare il presente affinché il domani possa essere un oggi migliore.

TERREMOTO. IL MOSTRO DI ISCHIA E DEI CAMPI FLEGREI

DI PIERLUIGI PENNATI
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A Ischia c’è un mostro, anzi, ci sono tanti mostri e non tutti risiedono sull’isola: sono tutti coloro che continuano a pensare che i problemi siano da rincorrere e non da prevenire e che quello che fanno loro debba sempre essere speciale e giustificato rispetto a quello che fanno tutti gli altri.
Così, un giorno, una scossa di terremoto di 3.6, portata dai sismologi a 4.0 per l’effetto di amplificazione locale, fa crollare palazzine e cornicioni uccidendo persone e ferendone altre, quando, in condizioni “normali”, questo non dovrebbe assolutamente accadere.
Già, condizioni normali, cosa significa?
Significa che Ischia è una miniera d’oro a cielo aperto, ad Ischia l’oro si chiama mare, montagna e sottosuolo termale in un ambiente isolano che rende difficile scappare e quindi a bassa piccola criminalità, che rende tutto il territorio terreno di sfruttamento e possibile bersaglio della criminalità organizzata, quella che non si vede per le strade ed opera dalle case, dagli uffici e sfrutta tutto e tutti senza guardarsi troppo attorno.
La cosa potrebbe sembrare non troppo grave, se non fosse che nello stesso posto si concentrino i tre più grandi rischi della nazione, quello vulcanico, Ischia è un vulcano attivo dell’area flegrea che potrebbe eruttare in qualsiasi momento, quello idrogeologico, con continue frane e smottamenti, e quello sismico, non prettamente legato all’attività vulcanica, ma a quella tettonica, già avvenuto disastrosamente in passato quando le vittime furono oltre 2000.
Davanti a questa evidenza non possiamo pensare che il mostro sia sottoterra, ma sopra di essa, si chiama abusivismo e pressapochismo interessato, due elementi che congiuntamente producono un territorio devastato da cemento fragile, brutto da vedere e che si sbriciola al minimo colpo di vento.
Ma il problema non è solo ad Ischia, è dappertutto, anche se in questa zona è forse più esteso, tutti sanno che il Vesuvio prima o poi esploderà e che l’attesa dell’evento a Napoli potrebbe essere paragonabile a quella della città di San Francisco, che aspetta il Big Ben dalla Faglia di Sant’andrea.
L’esperto vulcanologo della New York University Flavio Dobran, ha scritto solo pochi mesi fa, in un suo studio documentato, “All’improvviso il Vesuvio che sonnecchia dal 1944 esploderà con una potenza mai vista. Una colonna di gas, cenere e lapilli s’innalzerà per duemila metri sopra il cratere. Valanghe di fuoco rotoleranno sui fianchi del vulcano alla velocità di 100 metri al secondo e una temperatura di 1000 gradi centigradi, distruggendo l’intero paesaggio in un raggio di 7 chilometri spazzando via case, bruciando alberi, asfissiando animale, uccidendo forse un milione di esseri umani. Il tutto, in appena 15 minuti”.
Quando?
Statisticamente le eruzioni su larga scala avvengono una volta ogni mille anni, quelle su media scala una volta ogni 4-5 secoli e quelle su piccola scala ogni 30 anni, quindi, sempre secondo l’esperto, se consideriamo che “l’ultima gigantesca eruzione su larga scala è quella descritta da Plinio il Vecchio: quella che il 24 agosto del 79 dopo Cristo distrusse Ercolano e Pompei uccidendo più di duemila persone. La più recente eruzione su media scala è quella del 1631, che rase al suolo Torre del Greco e Torre Annunziata, facendo 4 mila morti in poche ore“, potremmo essere più vicini all’evento di quanto si possa immaginare.
Cosa fare?
La vicenda non è semplice, dato che la ragione vorrebbe una cosa, il cuore un’altra e l’interesse senza ragione e cuore da tanto, troppo tempo spadroneggia quasi indisturbato e con la complicità delle persone che vivono nelle stesse zone a rischio incriminate.
Eppure qualche soluzione potrebbe esserci, forse non definitiva, ma efficace, bisognerebbe cominciare a pensare che il cambiamento e la ricostruzione nascono da noi e prima che qualcosa crolli, bisognerebbe smettere di sperare che “statisticamente” ci possa andare bene e cominciare a sviluppare uno spirito collettivo per il quale i diritti ed i doveri sono condivisi e di tutti e non solo diritti nostri e doveri altrui, lo stato siamo noi, anche se ci vogliono far credere diversamente, per governare bene si deve partecipare con coerenza e senso di giustizia alla vita pubblica affinché tutti ne possiamo godere.
Fare le cose “secondo le regole” non è prerogativa degli stupidi, ma puro egoismo, se tutti costruissimo edifici adatti alla località in cui sorgono, se tutti evitassimo di sfruttare selvaggiamente il territorio, se tutti ci comportassimo onestamente non ci sarebbe bisogno di cercare alcun colpevole per i mali che ci affliggono, ma cercheremmo solo soluzioni ai problemi che si manifestano.
Il mostro non è fuori di noi, non è nel sottosuolo, in un temporale o dentro un vulcano, il mostro risiede dentro di noi, è fatto di egoismo stupido ed ingiustificato, di indifferenza ed insensibilità, di miope visione del futuro e dell’idea che noi si sia sempre dalla parte della ragione e gli altri dal torto, possiamo batterlo, ma solamente cominciando da noi stessi.

FERNANDO ALVAREZ: IL VINCITORE É CHI SA FERMARSI

DI PIERLUIGI PENNATI
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I Mondiali di nuoto Masters di Budapest non sono certo tra le gare più seguite, eppure, se i suoi partecipanti si allenano come e forse più degli atleti più giovani e non sono meno determinati a vincere, ci sono gare che non si possono disputare, sono le gare contro se stessi, contro il rispetto della persona, della vita e della morte.
Così Fernando Alvarez, 71 anni, dopo essersi allenato molto e con grande determinazione a voler vincere le sue gare, non ha comunque potuto fare a meno di provare rispetto per le vittime dell’attentato di Barcellona che ha sconvolto il mondo e non avendo trovato notizia di un fuori programma nelle mail ricevute dal comitato organizzatore gli ha scritto chiedendo un minuto di silenzio prima delle gare.
Non ha ottenuto nessuna risposta, ma non si è perso d’animo, prima della gara ha parlato con la giuria e con la direzione, ma ancora nulla da fare: non c’è tempo da perdere, nemmeno un minuto, un minuto di rispetto.
Così gli attempati atleti si dispongono sui blocchi e gli arbitri danno il via. Alvarez, però, resta immobile sul suo piedistallo prendendosi un minuto di concentrazione e raccoglimento in segno di rispetto per le vittime, per lui il rispetto per l’uomo non può gareggiare con la semplice voglia di vincere una gara atletica.
Terminato il minuto di silenzio parte regolarmente e termina la sua prova.
Tutto normale, la gara è vinta, ma non quella contro altri uomini, quella contro le coscienze indifferenti di tutti.
Alvarez non ha avuto la medaglia d’oro, ma il pubblico ed i media gliela hanno assegnata lo stesso, pochi ricorderanno chi ha vinto la gara dei muscoli, tutti ricorderanno il gesto di Alvarez che resterà per sempre negli annali di uno sport che qualche volta fa propaganda e qualche altra volta si rivela cinico ed indifferente.
Oggi sappiamo che almeno per uno sportivo vincere è meno importante che rispettare il prossimo.
Questo era forse il valore olimpico voluto da Pierre de Coubertin nel fondare i moderni Giochi olimpici, quel “l’importante non è vincere, ma partecipare” del vescovo Ethelbert Talbot, da lui rilanciato, aveva ed ha esattamente questo sapore: il rispetto prima di tutto.
Per Fernando Alvarez “Certe cose non valgono tutto l’oro del mondo”, purtroppo il numero delle persone che la pensano come lui sembra ridursi di anno in anno.
Chapeau, Fernado Alvarez.

EBREI E DOCCE, QUANDO IL DIALOGO POTREBBE FARE LA DIFFERENZA

DI PIERLUIGI PENNATI
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Le parole ebreo e doccia evocano spesso gli orrori delle Shoah, ma questa volta non centra nulla, il fatto è accaduto all’Aparthaus Paradies di Arosa, sulle Alpi svizzere: i proprietari hanno affisso due cartelli nella struttura, uno in piscina, per invitare gli ospiti ebrei a farsi la doccia prima di immergersi, ed uno in cucina, dove venivano istituiti turni per l’accesso al frigorifero da parte degli ebrei.

Una famiglia di religione ebraica ha lamentato incomprensioni fin dall’inizio: “All’arrivo in hotel abbiamo detto alla direttrice che siamo ebrei e lei ci ha detto che in questo periodo arrivano molti ebrei. Non le abbiamo detto niente perché non volevamo cominciare una lite”, ma alla vista dei cartelli non si sono potuti più trattenere ed hanno immediatamente informato la vice ministro degli esteri di Tel Aviv, Tzipi Hotovely che senza altre formalità ha chiesto in fretta alla struttura le scuse ufficiali per “questo atti di antisemitismo della peggiore specie” ed ha informato l’ambasciatore israeliano in Svizzera di richiedere una condanna formale da parte del governo.

Per la Vice Ministro israeliana “l’antisemitismo in Europa è ancora una realtà e dobbiamo garantire che la punizione per incidenti come questi serva da deterrente per chi ha ancora il germe dell’antisemitismo”.

Anche la reazione Svizzera non si è fatta attendere, il ministro degli Esteri Elvetico ha subito replicato che la Svizzera “condanna il razzismo, l’antisemitismo e ogni tipo di discriminazione”.

Ma non è finita qui, il centro Simon Wiesenthal ha chiesto di “chiudere l’hotel dell’odio e punire la sua direzione”, una richiesta è stata rilanciata a Booking.com per ritirare l’Aparthaus Paradies dalle sue proposte e metterlo su di una “lista nera“ e sulla piattaforma change.org è stata poi lanciata una petizione per chiedere la chiusura dell’hotel Aparthaus Paradies  “se non cambierà atteggiamento in relazione ai clienti ebrei, che devono essere trattati come tutti gli altri ospiti”.

Una tempesta immediata ed un incidente diplomatico sfiorato tra le due nazioni, ma secondo la direttrice della struttura, i cartelli sono stati affissi per ragioni precise e che nulla hanno a che fare con l’antisemitismo, anzi, proprio i clienti ebrei sarebbero i benvenuti e sempre numerosi, sostenendo che gli avvisi si erano resi necessari dopo aver “notato che alcuni fanno il bagno in piscina senza prima fare la doccia. Altri clienti mi hanno chiesto di fare qualcosa e ho scritto un po’ ingenuamente questi cartelli, avrei fatto meglio a rivolgermi a tutti i clienti in generale”.

Niente antisemitismo, quindi, ma ragioni igieniche alle quali anche gli ebrei ortodossi, che si fanno il bagno con la maglietta, si devono attenere per rispetto di tutti.

Il secondo cartello, in cucina, con la scritta “I nostri clienti ebrei hanno accesso al frigorifero solo dalle 10 alle 11 e dalle 16,30 alle 17,30. Speriamo comprendiate che il nostro personale non può essere disturbato senza sosta”, sempre secondo la direttrice serviva a regolamentare l’accesso al frigorifero privato della struttura durante gli orari di servizio del personale dipendente, che non è presente al di fuori di quelli indicati, a causa del fatto che ai clienti ebrei, e solo a loro, in aggiunta al frigorifero a disposizione di tutti gli ospiti viene concesso anche l’uso del frigorifero dello staff per agevolare le loro abitudini alimentari dovute alla scelta religiosa.

Anche questa volta nessuna discriminazione, anzi, un ampliamento degli spazi non concesso ad altri, un beneficio che dimostrerebbe che sebbene, la direzione dell’hotel ha certamente commesso una grande leggerezza nell’apporre quei cartelli così espliciti, qualche volte sarebbe meglio iniziare con il parlare con chi hai vicino e cercare di chiarire la situazione prima di scatenare una guerra internazionale tra governi, razze e religioni.

Così resta oscuro il perché la vice ministro degli esteri di Tel Aviv, l’ambasciatore israeliano in Svizzera, il ministro degli Esteri Elvetico, il centro Simon Wiesenthal, Booking.com e la piattaforma change.org abbiano saputo della cosa prima della direzione dell’hotel.

Ovviamente fin qui le scuse le hanno fatte i presunti antisemiti, i presunti intolleranti sono ancora a piede libero.

Il dialogo è alla base di tutto, pratichiamolo.

BUON FERRAGOSTO, MA NON PER TUTTI

DI PIERLUIGI PENNATI
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Mentre ci accingiamo a trascorrere una delle più antiche festività italiane, istituita nientemeno che 2032 anni fa, nel 18 a.C. dall’imperatore Augusto da cui trae il nome e che significa “Feriae Augusti” (il riposo di Augusto), ci sono migliaia di poveri lavoratori costretti a lavorare per noi.
Non parlo di coloro che servono a garantire servizi pubblici davvero essenziali e senza dei quali ci sarebbero disastri e problemi, ma di quei “poveri” lavoratori, spesso vessati e sottopagati, che sono realmente costretti dai loro datori di lavoro ad essere a nostra disposizione per il nostro piacere, che spesso piacere nemmeno è, ed in particolare quei lavoratori che tengono aperti in questi giorni festivi i centri commerciali, i supermercati e gli outlet, che ormai non chiudono più nemmeno a natale e capodanno.
Due, massimo tre giorni di chiusura all’anno, 48 ore settimanali, spesso anche di più e non sempre pagate, e competizione aperta tra chi riesce ad impiegarsi comunque, a qualunque costo, si deve pur sbarcare il lunario con un costo del lavoro abbassato drasticamente da disoccupazione ed immigrazione.
Nemmeno nell’antica Roma avevano osato tanto: Augusto, oltre all’evidente scopo propagandistico sulla sua persona, aveva aggiunto il Ferragosto ad altre festività già presenti nello stesso mese, in particolare i Consualia, cui fu legato fin dall’inizio, che era un periodo di meritato riposo e festeggiamenti per celebrare la fine dei lavori agricoli, dedicati a Conso che, nella religione romana, era il dio della terra e della fertilità.
L’antico Ferragosto, quindi, era un premio per chi già lavorava duramente tutto l’anno ed originariamente cadeva il 1º agosto congiungendo tra loro le feste del mese e generando gli Augustali, un adeguato periodo di riposo per recuperare le forze dopo le grandi fatiche nei campi.
Fu la Chiesa Cattolica a spostarlo al 15 di agosto, per far coincidere l’importante ed irrinunciabile ricorrenza laica con la festa religiosa dell’Assunzione di Maria, cui anche il Duomo di Milano è dedicato, e da oltre due millenni è una festa intoccabile, nessuno può lavorare a Ferragosto, cattolico o laico che sia.
La tradizione, originata fin dalla sua istituzione, vuole che questo giorno siano di festa e gioia conviviale, persino il “Palio dell’Assunta”, che si svolge a Siena il 16 agosto, è una reminiscenza delle antiche corse di cavalli romani che si tenevano in quella giornata, ma alla fine, dopo quasi due secoli, ce l’abbiamo quasi fatta: in nome di un consumismo che ci sta consumando anche la festa italiana più antica sta per essere cancellata, almeno per i molti che, pur non essendo essenziali per la sopravvivenza del genere umano, sono oggi costretti a lavorare sottomessi e dare la possibilità a chi è ancora libero di fare shopping invece che trascorrere la giornata all’aperto, approfittando del bel tempo.
Di questo passo, prima o poi la festa sarà abolita anche per tutti gli altri, ormai il ferragosto non ha più senso per nessuno, i gremitissimi centri commerciali non vendono comunque a sufficienza per ripagarsi gli straordinari ed i costi festivi ed il sapore finto di questi luoghi sta piano piano sbiadendo anche l’illusorio piacere di una passeggiata e di un gelato nei loro viali.
Il retroscena è spesso terribile, nascosto dalle vetrine luccicanti, i lavoratori degli esercizi sono spesso “stagionali” o precari, sottopagati e senza diritti, sotto il ricatto dell’allontanamento immediato senza tutele del lavoro, tra l’indifferenza di tutti coloro che non vogliono sapere cosa succede agli “altri”, almeno fino a quando gli altri non saranno essi stessi.
Grande o piccolo che sia l’imprenditore oggi vuole sempre di più al minor costo, anzi gratis, spesso infrangendo i diritti dei propri dipendenti che sono sempre più disposti a privarsene per necessità ed affamando sempre più la popolazione di lavoratori in una società dove chi paga le tasse è stupido e debole e chi ricatta i propri dipendenti si sente intelligente e potente.
Oggi è ferragosto, nei paesi più industrializzati d’Europa non si lavora nemmeno nei festivi, tanto meno in giornate come queste, in quelli decadenti invece sì, si lavora spesso anche a Natale e capodanno riducendo le feste a meri eventi commerciali.
Possiamo davvero considerarci fortunati a vivere in un paese di questo tipo?
Personalmente credo che il lavoro vada sempre rispettato, qualunque esso sia, perché è sempre dignitoso quando è svolto dall’uomo, il lavoro di un automa non è né nobile né dignitoso, è solo lavoro, ma quando è un essere umano a svolgerlo acquista un valore differente e non solo economico: oggi siamo così abituati a non rispettare più il lavoro degli altri che a poco a poco anche il nostro lavoro sta perdendo di dignità e nobiltà senza che ce ne rendiamo pienamente conto.
Se il progresso è avere i negozi aperti la domenica, Natale e Ferragosto, allora viva il regresso, se questo serve a recuperare quei valori umani che persino i romani imperiali, quelli con potere di vita e di morte sul popolo, non negavano ai propri sudditi ai quali, invece, riconoscevano la dignità di lavoratori istituiendo per loro nuove feste e non altri turni forzati.
A Natale, quest’anno, chiediamo dignità per chi lavora ed oggi, Ferragosto, andiamo al mare od ai monti, non nei centri commerciali: il recupero della nostra umanità passa anche da questi piccoli gesti.

UOVA CONTANTAMINATE, MA CI SALVA IL MADE IN ITALY

DI PIERLUIGI PENNATI
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Una volta tanto il Made in Italy è una garanzia anche in patria e non soltanto per la qualità dei manufatti o per il loro gusto, ma anche per l’autosufficienza delle risorse, infatti,  il se 2 agosto l’Olanda ha scoperto un lotto contenente Fipronil, vietato dalle leggi europee, nell’azienda olandese Chickfriend ed arrestato due dirigenti, l’Italia è tra i paesi fortunati che praticamente non importano uova potendole produrre quasi interamente sul suolo nazionale.
Secondola Commissione Europea “Anche l’Italia ha ricevuto uova” dalle aziende in esame, ma il ministero della Salute ha assicurato che non risultano distribuzioni contaminate sebbene siano stati comunque confiscati articoli mai messi in commercio per prevenirne la vendita.
Il Fipronil, il cui nome chimico è fluocianobenpirazolo, è un insetticida ad ampio spettro che disturba l’attività del sistema nervoso centrale dell’insetto impedendo il passaggio degli ioni cloruro attraverso il recettore del GABA ed il recettore del Glut-Cl, ciò causa la ipereccitazione dei nervi e dei muscoli degli insetti contaminati.
La sostanza viene usata prevalentemente per la prevenzione contro le pulci ed antiparassitario per gli animali da compagnia, il suo veleno, la cui concentrazione è volutamente blanda nei prodotti in commercio, ha una lenta attività d’azione per evitare che l’insetto avvelenato muoia immediatamente e faccia prima rientro nella sua colonia liberando l’organismo che infestava e diventando un “untori” per tutta la sua colonia.
Pur essendo categoricamente vietato nei trattamenti anti-pulci di animali destinato al consumo umano, perchè secondo l’Oms è pericoloso per fegato, reni e tiroide, per causare problemi all’uomo occorrono alte dosi di prodotto e non dovrebbe essere il caso dell’attuale scandalo alimentare.
Le persone esposte al Fipronil a forti dosi si possono osservare ipereccitabilità, irritabilità, tremori e, ad uno stadio più grave, letargia e convulsioni.
I sintomi sono reversibili, una volta terminata l’esposizione la sostanza si assorbe lentamente attraverso l’intestino e siccome non è noto un antidoto specifico i medici consigliano una lavanda gastrica per ridurre l’assorbimento  ed un purgante salino o carbone attivo.
Secondo la UE i Paesi dell’Unione coinvolti, compreso l’Italia, sono il Belgio, i Paesi Bassi, la Germania, la Francia, la Svezia, il Regno Unito, l’Austria, l’Irlanda, il Lussemburgo, la Polonia, la Romania, la Slovacchia, la Slovenia e la Danimarca, a cui si devono aggiungere Svizzera e Hong Kong.
Una volta tanto, però, l’Italia è libera da questo rischio sia per la possibile limitata concentrazione di prodotto nei nostri alimenti, compreso quelli di pasticceria, sia per la produzione quasi interamente nazionale di uova: quando il Made in Italy ti salva la vita.

STIAMO DIVENTANDO TUTTI MIGRANTI ECONOMICI

DI PIERLUIGI PENNATI
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“Laurea magistrale a pieni voti in ingegneria civile, ottima conoscenza della lingua tedesca e buona della lingua inglese, gradita esperienza Erasmus, disponibilità a trasferte in Italia ed estero, contratto di 6 mesi, 600 euro netti al mese, ticket restaurant per ogni giorno lavorato, zona Grugliasco”.
L’annuncio è di maggio, ma ancora la foto impazza sulla rete come fonte di ilarità tra chi del dramma vede solo l’assurdità ridendone invece di scandalizzarsi o lo strumentalizza contro gli immigrati “mantenuti dallo stato”.
L’indignazione immediatamente seguita all’annuncio ne ha provocato il ritiro e la rettifica ed a seguito degli insulti e delle richieste di chiarimenti piovute nei loro uffici, la società si è affrettata a dichiarare che «L’annuncio non è nostro perché noi non facciamo annunci su cartaceo e stiamo cercando di capire come ci sia finito. Cerchiamo un ingegnere con quelle caratteristiche ma solo per uno stage post-laurea».
Si tratta della società Gruppo Dimensione, multinazionale con sede italiana a Torino, che – è scritto nel loro sito – «svolge attività di consulenza e servizi altamente specializzati nel campo dell’ingegneria civile e degli impianti tecnologici.»
La vice presidente, Marie Chantal Manenc, ha subito precisato che la richiesta riguardava  «solo un tirocinio, serve per qualificare il candidato, insegnandogli quello che all’università non si impara, e per valutare l’opportunità di assumerlo», poi, se il periodo di stage si conclude favorevolmente, l’azienda assume il candidato «Con un contratto di apprendista» e «per quelli che sono all’estero siamo sui 2400-2.500 euro. Netti, eh!»
Nulla di strano, quindi, la legge viene pienamente rispettata e così grazie alle nuove norme sul Jobs Act, le tutele crescenti e gli apprendistati, un laureato super qualificato deve lavorare per quasi quattro anni a condizioni da terzo mondo per riuscire ad avere un contratto che si avvicina al “normale”, dato che vivere in trasferta all’estero per 2.550 euro netti al mese non sembra certo una retribuzione stellare e per le destinazioni italiane, solo probabilmente dato che non viene dichiarato, ancora meno.
Qualcosa deve essere andato storto quando è stata approvata la legge attuale, i giovani, se non cambiano ancora le condizioni e dopo tutto questo peregrinare ed avere difficoltà, dovranno lavorare fino a 70 anni e forse più per poter avere una pensione, la cui “normalità” viene messa costantemente discussione, posizionando le condizioni ed il mercato del lavoro italiano tra quelli “da terzo mondo”.
Pur essendo comparso solo sul sito del Comune di Torino nella sezione InformaLavoro, senza menzionare che i 600 euro fossero da ritenersi compenso per uno stage, e solo una volta in formato cartaceo, l’eco mediatica sembra aver fatto comunque il suo dovere e se l’azienda ha sostenuto ufficialmente che «questa faccenda è un disastro per l’immagine del gruppo», dopo le telefonate di insulti della prima ora sono state da essa ricevute «all’incirca una cinquantina» di candidature con i requisiti richiesti, che ora «andranno valutati in modo più approfondito».
Il bilancio finale è che al di là dell’indignazione istantanea e le risa dei qualunquisti l’annuncio ha attirato l’attenzione e quasi 50 laureati altamente qualificati si sono dichiarati disposti, al di là di tutto, ad entrare in competizione per lavorare quasi gratis solo per riuscire poi a guadagnare quanto un operaio specializzato.
Per completezza di informazione riporto che in un’indagine comparsa il 18/11/2014 sul Sole 24 Ore, la differenza delle retribuzioni tra Italia e Germania portava già differenze dal 40 al 70% in più rispetto all’Italia e, solo per fare un esempio la retribuzione media di un operaio generico italiano stimata in 29.523 Euro l’anno diventava 49.507 Euro sul suolo tedesco e con un welfare state certamente più elevato.
Sembra di capire che qualcosa da noi non sta andando come ci hanno prospettato e se i nostri ragazzi guardano all’estero è perché là, la mano d’opera, è meglio retribuita, considerata e produce più dignità e stabilità del lavoro, trasformando di fatto tutti noi in “migranti economici”.
Non volevamo che le nostre aziende emigrassero all’estero, così costringiamo ad andarci le nostre migliori risorse, mentre da noi ormai solo chi proviene da paesi dove le condizioni sono ancor meno favorevoli accettano le condizioni di vita al limite della dignità che le aziende nostrane oggi offrono “a norma di legge”.
Dite a Renzi e Salvini che senza rispetto nessuno starà mai a casa propria, tutti, prima o poi, cercheranno un posto dove vi sia maggiore “giustizia sociale” rispetto “a casa loro”, per andare avanti, qualche volta bisogna tornare indietro, almeno ai tempi in cui in Italia i diritti e la dignità dei lavoratori erano ancora valori da salvaguardare.

ALITALIA É SANA MA SI (S)VENDE LO STESSO

DI PIERLUIGI PENNATI
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I nodi sono venuti al pettine da tempo e forse i lavoratori che hanno respinto in massa il piano di ristrutturazione con 2.000 licenziamenti, su 12.000 impiegati, sapevano già che i loro ulteriori sacrifici erano inutili: Alitalia è sana ed il problema è solo gestionale, ma viene ceduta ugualmente all’asta.
Che qualcosa non andasse lo si era capito da subito, solo un paio di settimane dopo il voto di fine aprile che cassava l’accordo raggiunto da CGIL CISL e UIL, il docente di gestione delle compagnie aeree alla Luiss, Antonio Bordoni, a seguido di uno studio commissionato da un editore affermava che “Gli stipendi sono più bassi, con più passeggeri per dipendente. Il problema? Contratti di servizio onerosi e poco sviluppo nel lungo raggio”.
L’obiettivo dello studio non era attribuire delle colpe, ma cercare di capire se dopo la bocciatura del piano industriale questo potesse essere riproposto da qualunque possibile nuovo assetto azionario e, quindi, cercare di evitarlo.
Il rifiuto dei tagli aveva immediatamente portato i benpensanti a bollare i dipendenti come “furbetti del cartellino”: privilegiati che non volevano rinunciare a nulla, nullafacenti che avevano portato al collasso la compagnia e volevano continuare a farlo, ma non era così, il costo del lavoro non centrava nulla, dato che Alitalia era “Meglio di Air France, Lufthansa e British” secondo Bordoni.
I lavoratori spesso lo sanno prima degli analisti e del pubblico, chi percepisce uno stipendio sa quanto guadagnano i colleghi di altre compagnie e quante ore di lavoro realizzano, come e con quale sforzo, e nessuno di loro aveva mai detto che, dopo la prima grande ristrutturazione, la situazione Alitalia fosse da lager, ma nemmeno da paese del bengodi, consapevoli di non essere in una situazione di grande privilegio rispetto ad altre compagnie, se non per il maggior rispetto della loro dignità, che in qualche concorrente sembrerebbe a rischio, e della stabilità di impiego, il posto fisso e dignitoso era già un valore sufficiente.
Dopo il piano di ristrutturazione che prevedeva essenzialmente solo tagli al personale, il sindacato USB aveva sostenuto da solo la campagna contro di esso e, contraddicendo ogni pronostico, aveva avuto ragione riuscendo a convincere oltre 5.000 lavoratori il cui posto di lavoro non era toccato dal piano di ristrutturazione ad esprimersi contro di esso per dare prospettive a tutti.
La ragione più profonda del rifiuto, probabilmente, è stata vista nel fatto che a furia di ridurre le risorse si uccide il lavoro, così come il contadino che riduceva il pasto del proprio asino fino a quando trovandolo morto disse “accidenti, proprio adesso che aveva imparato a non magiare e non mi costava più nulla”.
Chi ha votato sapeva bene, e senza essere un economista, che i tagli non sono mai temporanei, si taglia oggi per tagliare ancora domani, senza fine e fino alla perdita del posto di lavoro, un posto che, a quanto pare, era stabile e non minato da problemi di costi, ma solo da politiche sbagliate sulla gestione dei contratti di servizio.
Bordoni, nel suo studio, afferma anche che uno dei grandi problemi riguarda le commissioni da pagare sui biglietti, che per Alitalia sono una volta e mezzo quello che pagano i concorrenti, e che questo potrebbe essere dovuto ad una mancata capacità di negoziazione dei costi delle commissioni a causa di possibili incapacità manageriali, incapacità criticate in maggio senza perifrasi anche dal commissario Luigi Gubitosi e dal ministro Calenda.
Inoltre, sempre secondo Bordoni, nonostante il prezzo medio dei biglietti di Alitalia sia molto concorrenziale sulle rotte fra 800 e 1200 chilometri, il tasso di riempimento degli aerei è deludente, facendo pensare che forse abbassare le tariffe su quelle distanze, dove c’è la concorrenza delle compagnie aeree «low cost» e dei treni superveloci, sia uno sforzo inutile e persino dannoso, aggiungendo alla poca capacità negoziale con i fornitori, errori di strategia globale.
Tra questi, rileva servirebbero più aerei sulle rotte intercontinentali, di cui Alitalia non si è dotata nemmeno quando è entrato il socio forte Etihad «Perché l’Unione europea ha imposto a Etihad di fermarsi al 49% dell’azionariato. Se Etihad avesse acquisito una quota più alta, avrebbe investito molto di più, anche nell’acquisto di aerei a lungo raggio».
Quindi spese eccessive per i servizi, politiche tariffarie discutibili ed investimenti mancati, tutte voci ascrivibili al management e non alle maestranze che però rischiano ancora di essere gli unici a farne le spese.
Ma qui si tratta anche di cultura e di obiettivi, in una società in cui la dignità dei lavoratori non è più un valore da salvaguardare e si pensa solo a se stessi è impensabile anche solo immaginare che un dirigente possa provare vergogna per il suo operato e dimettersi: se sbaglia è sufficiente licenziare un po’ di personale e tutto torna a posto, con i risparmi immediati si paga la sua ricca buonuscita e lo si manda a far danni da un’altra parte.
Questo sembra essere anche quello che sta succedendo ad Alitalia, dopo il caso della “bad company”, a carico dello stato, e della “new company”, semi regalata ai “capitani coraggiosi” o “patrioti”, come furono definiti dall’allora premier Berlusconi per la cordata realizzata per salvare l’italianità della compagnia di bandiera, si pensa oggi non ai dipendenti ed alle loro famiglie, ma solo a fare cassa, vanificando ogni sforzo passato e senza individuare colpevoli, ma solo vittime: i lavoratori.
I ogni caso se il costo del lavoro e il numero di passeggeri per dipendente in Alitalia sono migliori, anzi molto migliori, di quelli delle concorrenti Air France, Lufthansa e British Airways ed il costo medio di ogni dipendente di Alitalia è di neanche 49 mila euro, rispetto a quello compreso fra i 70 mila e gli 81 mila euro delle grandi compagnie concorrenti e dovuto ad anni di tagli ed al ricorso al lavoro precario, il problema resta: cosa fare nel futuro?
Per volontà squisitamente politica la vendita pare oggi inevitabile, rischiando di disperdere altra forza lavoro a vantaggio di investitori stranieri senza troppi scrupoli, anche se la notizia degli ultimi giorni è che la cessione Alitalia, almeno, non dovrebbe vedere spacchettamenti, o quasi: i tre commissari straordinari Laghi, Gubitosi e Paleari hanno pubblicato il primo agosto il bando per la vendita prevedendo solo due opzioni per i possibili acquirenti, la vendita in blocco della compagnia aerea o la cessione separata della parte handling, dividendo la parte volo dalla parte terra.
In Francia il leader considerato più liberista d’Europa tutela il lavoro e statalizza i cantieri navali STX per proteggerli dal rischi speculazione e pensando al loro futuro, in Italia si cercano compratori ad ogni costo senza nemmeno considerare gli eventuali piani strategici, soldi freschi e nessuna previsione per il personale.
Ma qualcuno una soluzione ce l’ha e la grida da tempo con tutta la voce che possiede: Francesco Staccioli, dell’ Esecutivo Nazionale Lavoro Privato dell’Unione Sindacale di Base USB Trasporto Aereo, a proposito della vendita dichiara che pur non mettendo in dubbio le prerogative che la legge assegna ai commissari, “spetta al Governo prendere le decisioni strategiche che riguardano il patrimonio industriale e sociale del nostro Paese in un settore che registra una crescita a due cifre per il 2017 in Italia.”, preludendo ad una statalizzazione della compagnia.
Per USB, unico sindacato che insieme a CUB si era schierato fin dall’inizio contro i tagli del piano industriale ed escluso da tutti i tavoli di trattativa, la soluzione sarebbe quindi statalizzare nuovamente Alitalia promuovendo una gestione più competente e qualcuno nel sindacato arriva persino ad invocarne la “cogestione”, realtà applicata da moltissimi anni in aziende economicamente solide come le tedesche BMW e Mercedes e dove la partnership attiva con i lavoratori nei processi decisionali aziendali e la loro partecipazione ai risultati economici e alla redistribuzione degli utili ne migliora in continuazione competitività ed l’efficienza senza penalizzare troppo i lavoratori.
“Il Governo batta un colpo, senza più nascondersi dietro falsi alibi, tra l’altro smascherati impietosamente in Francia”, continua Staccioli riferendosi all’impossibilità di statalizzare dovuta ad un presunto stop dell’Unione Europea, “Settembre si profila un mese sempre più decisivo.”
Il destino di Alitalia, purtroppo, è nelle mani di un governo che fino ad ora ha salvato le banche con miliardi di euro pubblici per “salvaguardare i risparmiatori”, ma quando si è trattato di salvaguardare il lavoro è sembrato chiudere gli occhi e dimostrare incapacità di guardare lontano, creando precarietà e compressione di diritti in un’ottica miope per le future generazioni, in fondo se i conti dovessero andare bene oggi sarebbe merito di chi governa oggi, ma se il lavoro si svilupperà domani sarà merito di chi sarà al potere domani e nessuno lavora per dare meriti ad altri.
La questione resta la stessa, è meglio realizzare subito od investire per il futuro?
Auguri Alitalia, abbiamo bisogno di pensare a domani.

NON SOLO CERVELLI IN FUGA

DI PIERLUIGI PENNATI
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A quanto pare molti cervelli sono fuggiti da molto tempo, in particolare quelli di chi, pensando di essere il più furbo, supporta la devastazione del nostro paese favorendo lo sfruttamento e le vessazioni nel mondo del lavoro.
Ormai non sono più solo i cosiddetti “cervelli” a scappare dall’Italia, ma anche la mano d’opera, più o meno specializzata, che serve alla nazione per supportare l’economia dello stato ed in particolare una delle nostre industrie più importanti e redditizie: il turismo.
Favorito da un rapporto uno ad uno con gli impiegati e dai contratti a termine per le stagioni, il mercato della mano d’opera hoteliera non è immune allo sfruttamento dilagante, con offerte di lavoro che si trasformano in veri e propri ricatti per sottopagare il personale, approfittando del suo stato di necessità.
Schiavi, più che impiegati, alle dipendenze di molti albergatori e ristoratori senza troppi scrupoli.
È questa la storia di due lavoratrici tra i tanti, Maurizia e Antonella i loro nomi, che dopo un solo mese di superlavoro non pagato hanno avuto il coraggio di lamentarsi con chi le sfruttava e sono state cacciate seduta stante dall’hotel dove lavoravano senza possibilità di scampo, dovendo persino riparare per la notte nei locali di una associazione di volontariato ed ora la loro lamentela è diventata una forte denuncia.
A seguito di situazioni simili, non sempre denunciate e non sempre facili da segnalare, anche nell’industria del turismo gli operatori specializzati preferiscono ormai rivolgersi all’estero, dove un minimo di legalità e dignità dell’uomo sono ancora rispettate e la storia delle due coraggiose è così solo la punta dell’iceberg che sta cominciando ad emergere.
Se in altri settori lo sfruttamento sommerso è di più facile emersione per la complicità di una maggior concentrazione di persone in un’unica impresa che favorisce la solidarietà, nell’industria alberghiera e della manutenzione di stabili ed appartamenti i piccolissimi gruppi di lavoro di singoli operatori lo rendono incontrollabile ed elevatissimo ed è spesso frenato solo dall’etica dei datori di lavoro, che non essendo un requisito obbligatorio è maggiormente presente dove, spesso per ragioni culturali, la pratica dello sfruttamento del lavoro non è solo un divieto legale ma è mal vista nella società civile e pertanto meno praticata.
Così se gli italiani di oggi rifiutano alcuni tipi di lavoro, specie nella mautenzione e pulizia degli immobili, forse non è solo perché, per parafrasare una nota ministra, sono choosy (schizzinosi), ma anche  soprattutto perché i lavori cosiddetti “umili” o meno qualificati sono anche i più sfruttati e sottopagati.
Le lamentele denunciate da Maurizia e Antonella sono ben conosciute agli uffici vertenze sindacali, si tratta generalmente della mancata fruizione giorno libero, delle ore di straordinario non retribuite e che spesso arrivano a pareggiare le ore di lavoro minando la salute e dimezzando di fatto la paga rispetto al pattuito, della mancata assegnazione di un alloggio temporaneo, che aumenta i costi di soggiorno che dovrebbero, invece, essere inclusi nel contratto di servizio, del demansionamento di fatto, con l’assegnazione di compiti “accessori” di pulizia, facchinaggio e quant’altro non dovuti e non inclusi nel contratto, e della frequente nocività dei luoghi di lavoro della quale non si può discutere pena l’immediato licenziamento.
Ma se il lavoro non fosse così sfruttato ed i contratti di lavoro fossero dignitosi, quanti italiani sarebbero oggi contenti anche solo di poter pulire le latrine?
Purtroppo la dignità del lavoro, qualsiasi esso sia, non è più considerata nemmeno un optional e non solo in certe umili professioni, è emblematico il caso del lavoratore costretto ad urinarsi addosso alla FIAT di Chieti e se Maurizia e Antonella, impiegate per la stagione estiva sulla riviera romagnola, hanno avuto il coraggio di denunciare lo sfruttamento affrontando il licenziamento, centinaia di migliaia, e forse ancor più, di lavoratori, non lo fanno per non perdere anche quelle poche risorse che hanno faticosamente raggiunto.
Non c’è nessun Welfare, nessun diritto di cittadinanza che porti un colore della pelle od una nazionalità, quello che oggi subisce uno qualsiasi di noi lo subiremo domani tutti noi: negli anni ’70 andava di moda pensare che fosse normale pagare un lavoratore od una lavoratrice filippina di meno, ancorché, in quegli anni, in regola con le tasse, oggi ci lamentiamo dei cervelli in fuga, questi non sono altro che il risultato del generale disinteresse a quello che “succede agli altri”.
Non sono religioso, ma credo nell’etica della reciprocità come valore morale fondamentale e se il celebre rabbino Hillel, vissuto molto prima di Cristo lo aveva già capito e scriveva «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te: questa è tutta la Torah. Il resto è commento. Va’ e studia.», forse dovremmo interrogarci su quanto più socialismo ci sia nella religione rispetto a quanto oggi è riposto nella democrazia costituzionale degli stati, il nostro compreso.
Platone, ancor prima, sosteneva che «Una delle punizioni che ti spettano per non aver partecipato alla politica è di essere governato da esseri inferiori», se la pensiamo ancora come lui dovremmo riflettere molto attentamente sul continuare a scandalizzarci per quanto succede ad “altri” senza che “noi” si muova un dito.
Se davvero vogliamo che i cervelli, e tutto il resto dei loro corpi, restino a casa nostra dovremmo cominciare a pensare di più in modo sociale, collettivo e lungimirante.
Il nostro futuro è già nel nostro oggi.

ALITALIA È PRONTA PER IL BANCHETTO

DI PIERLUIGI PENNATI
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Lo avevano già annunciato nella riunione con i sindacati del  27 luglio scorso e tre giorni dopo lo hanno reso ufficiale: i tre commissari straordinari incaricati dal governo hanno emesso il bando definitivo per la vendita di Alitalia SAI e Cityliner, confermando il termine per la presentazione delle offerte vincolanti per il prossimo 2 ottobre.
Nel bando, articolato e circostanziato, si evidenzia la previsione di priorità per le offerte che garantiscano l’unicità aziendale, senza, però disdegnare la vendita della compagnia a pezzi che possano essere acquisiti da soggetti diversi e, secondo alcuni sindacati, la sorpresa nello spezzettamento sarebbe la previsione di scorporo del settore dell’handling, unico settore che anche nel corso delle gestioni da essi criticate produceva ricavi interessanti e che in conseguenza di ciò potrebbe ora essere venduto a parte, confermando le preoccupazioni di come la vendita possa diventare la spartizione delle spoglie di Alitalia a tutto vantaggio di competitori che potrebbero strappare alla nazione parti importanti di un mercato ricco come quello del trasporto aereo italiano.
Pur non mettendo in dubbio le prerogative che la legge assegna ai commissari, viene contestato che “spetta al Governo prendere le decisioni strategiche che riguardano il patrimonio industriale e sociale del nostro Paese in un settore che registra una crescita a due cifre per il 2017 in Italia.”.
Francesco Staccioli, Segretario Nazionale del Sindacato di base USB Trasporto Aereo, a proposito dello spacchettamento aziendale dichiara: “Per USB è inaccettabile persino l’ipotesi dello scorporo dell’Handling. Continuiamo a chiedere il blocco della svendita di Alitalia e pretendere che il Governo batta un colpo, senza più nascondersi dietro falsi alibi, tra l’altro smascherati impietosamente in Francia. Settembre si profila un mese sempre più decisivo.”
Al di là di altre possibili considerazioni, è ormai di dominio pubblico che la vicenda Alitalia nascondeva grandi limiti nella gestione della compagnia e che il problema non era il suo costo di gestione, in linea e talvolta inferiore a quello del mercato e dei concorrenti, ma, semmai risiedeva nell’ottimizzazione dell’organizzazione ed nella necessità di una strategia di miglioramento dei ricavi fino ad ora assente, quindi la scelta di vendere, o svendere, a pezzi la compagnia, tradizionalmente di bandiera e fiore all’occhiello dell’immagine italiana nel mondo, si fa davvero incomprensibile se non si pensi a realizzare a tutti i costi il realizzabile, senza tener conto del mercato del lavoro e del possibile impatto futuro sull’economia nazionale.
La pratica degli ultimi decenni ha evidenziato come ad ogni ristrutturazione, cessione, vendita, siano seguiti problemi occupazionali: il nuovo acquirente sistematicamente taglia i costi del personale ed ottimizza le spese anche comprimendone i diritti, producendo un amento della disoccupazione e vessando i lavoratori.
È questo il destino previsto per Alitalia?
Hanno sbagliato i dipendenti che a maggioranza assoluta hanno rifiutato ieri 2000 esuberi su 12000 dipendenti per doverne affrontare forse un numero maggiore in altre compagnie per effetto della vendita all’asta?
Inoltre, che tipo di reale danno sociale può provocare questa operazione?
L’emersione del reale stato di salute economica di Alitalia ha evidenziato come la compagnia fosse sana, come il personale non avesse alcuna colpa del suo dissesto economico e come le sue potenzialità fossero da sempre elevate, sarebbe ora sufficiente continuare a considerarla un “patrimonio nazionale” da difendere per poterla in breve tempo far ripartire.
In altri stati si operano scelte diverse a tutela del mercato interno del lavoro, in Francia, il leader considerato più liberista dell’Unione, pensa a statalizzare dei cantieri navali perché patrimonio indiscusso dello stato e scalzando persino il governo italiano che vuole investire in essi; in Germania è legge l’obbligatorietà della “cogestione” persino nelle aziende private, che realizza una partnership attiva con i lavoratori nei processi decisionali aziendali e la loro partecipazione ai risultati economici e alla redistribuzione degli utili migliorandone la competitività e l’efficienza; in Italia, invece, abbiamo ceduto, e continuiamo a farlo, grandi parti di aziende strategiche nazionali che, in qualche caso producevano, ed ancora producono, risultati importanti, come ENAV che realizza ogni anno oltre 70 milioni di euro netti di utile consolidato, vicini al 10% del suo fatturato e che sono persi per sempre.
Forse dovremmo cominciare a ripensare al mercato interno del lavoro come un bene da tutelare e non come un valore da svendere, forse dovremmo cominciare ad attuare la nostra Costituzione repubblicana, prima di pensare a smantellarla, forse dovremmo riflettere sul valore delle ultime tre parole della prima frase della nostra Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.

STAVOLTA HAI TOPPATO ALLA GRANDE

DI PIERLUIGI PENNATI
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Enrico Mentana carissimo, di solito mi piaci molto, però stavolta hai toppato alla grande.
Da giornalista ti sarebbe bastato leggere la prima ANSA del mattino per capire che dei lavoratori in procinto di essere licenziati, con la complicità di una legge che impedisce loro di scioperare persino quando perdono il posto, erano così disperati, arrabbiati e stressati da mesi di appelli caduti nel vuoto e nel silenzio stampa, che non hanno trovato di meglio che fare la “guerra tra poveri”, vale a dire impedire in modo estemporaneo a chi era stato assunto con meno diritti e meno stipendio di loro, all’unico scopo di “rubare” il loro posto di lavoro, di sostituirli.
Era il primo agosto?
Che ci vuoi fare, l’azienda ha scelto bene la data per metterli sul lastrico: quando quelli come te devono andare in vacanza e se ne fregano dei portabagagli, troppo umili e lontano dai ricchi vacanzieri…
Qualcuno è partito in ritardo per le vacanze e qualcuno, per quello che ha fatto, verrà sanzionato duramente, perderà il posto di lavoro e si troverà una multa salata per aver cercato di difenderlo.
Caro Enrico Mentana, se sei davvero sensibile ai problemi della gente, se davvero tieni alla repubblica fondata sul lavoro, rettifica, chiedi scusa e licenzia chi ti ha consigliato male, fossi anche tu stesso.
Chi è conosciuto e famoso come te provoca grandi benefici, ma può fare anche gravi danni, a te non costa nulla, anzi, ammettere i propri errori ti rende più grande e forti di tutti quegli stupidi che non sanno farlo.
Io sto con chi difende il proprio posto di lavoro, io sto con chi, per farlo, infrange le “regole” volute da chi non vuole essere disturbato mentre schiaccia i diritti degli altri e rovina le loro vite.
Fallo anche tu, stai con noi.
http://www.rds.it/podcast/100-secondi-con-mentana-01-08-2017-1057-01-08-20171057/

 

SCANDALOSO. LICENZIANO PER RIASSUMERE CON SALARI PIÙ BASSI. SCIOPERO A MALPENSA

DI PIERLUIGI PENNATI
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Dal nostro inviato a Malpensa

É in corso dalle 5 di questa mattina uno sciopero spontaneo dei lavoratori del trasporto bagagli di Linate e Malpensa dopo le ultime inutili proteste dei lavoratori contro il sistema di subappalti che si vorrebbe diffondere negli scali italiani, licenziando personale dalla aziende concessionarie per poi riassumerlo decimato e con salari insufficienti dai vincitori degli appalti, secondo i sindacati solo un modo per vessare e sfruttare i lavoratori senza una reale necessità di risparmio.

Nei giorni scorsi le proteste dei sindacati avevano avuto voce quasi unanime, FILT FIF UILT FLAI USB CUB ADL avevano diramato un comunicato contro questo sistema dannoso per il lavoro e per la dignità dei lavoratori senza essere stati ascoltati e, complice la franchigia imposta dalle autorità dello stato in materia di scioperi, le aziende stavano procedendo alla sostituzione del personale con le nuove imprese appaltanti contando sulla “pace sociale” da questa ingenerata a loro favore.

I lavoratori, invece, hanno deciso di infrangere questa assurda regola che permette alle aziende di vessare il personale ed ai lavoratori di protestare riunendosi in assemblea proprio nei luoghi di lavoro e bloccando così le operazioni di carico e scarico dei bagagli nel primo giorno di lavoro delle nuove cooperative.

I viaggiatori hanno da subito riportato sul web «Migliaia di passeggeri bloccati, coincidenze saltate».

Secondo i sindacati l’agitazione sarebbe la mancata risposta da parte delle istituzioni dopo l’incontro svoltosi ieri in prefettura a Varese per l’ingresso della cooperativa Alpina che dovrebbe iniziare a operare in subappalto per contri di Ags.

I viaggiatori sono scatenati sui social, fin dalle prime ore del mattino scrivono su Twitter «1 agosto, sciopero a Linate e Malpensa. Ma che bel vivere», «Linate, agitazione spontanea del personale aeroportuale. Bravi, proprio bravi», «A Linate ore di attesa, migliaia di passeggeri bloccati, coincidenze saltate per “sciopero spontaneo” addetti ai bagagli».

Luca Pistoia, Rappresentante Sindacale USB che si trova sul posto dichiara che si è trattato di un “Grande risultato dei lavoratori degli handlers di Malpensa e Linate contro l’entrata delle cooperative, a fronte della mobilitazione di tutti i lavoratori che hanno di fatto bloccato gli aeroporti è stato emanato un provvedimento da ENAC che sospende in modo temporale il loro accesso”

Ora, ottenuto il primo provvedimento, il braccio di ferro continuerà nelle sedi istituzionali per difendere il lavoro di tutti, non si tratta di una “guerra tra poveri”, lavoratori contro e passeggeri in ostaggio, si tratta di una lotta per la dignità del lavoro oggi troppo spesso osteggiata da regole contro lo sciopero e contro i diritti che stanno minando i fondamento della nostra repubblica “fondata sul lavoro”.

Intorno alle 8,30 Milan Airports ha scritto che «Causa agitazione sindacale spontanea del personale di terra si stanno verificando disservizi e ritardi su Malpensa. Seguiranno aggiornamenti», i sindacati, per ora dichiarano che la protesta, che va avanti dal mese di Maggio, proseguirà unitaria fino a che l’azienda non recederà dalle sue intenzioni, per la salvaguardia della dignità e delle tutele dei lavoratori di Linate e Malpensa, a tal proposito Luca Pistoia di USB dichiara: “L’ingresso delle cooperative nell’unico servizio in cui sono ancora assenti, quello di Handling, significherà, come ben sanno i lavoratori, l’abbassamento delle condizioni di lavoro e la frantumazione dei diritti, per questo la protesta unitaria di tutti i sindacati del comparto proseguirà fino a che non verranno accolte per intero le richieste dei lavoratori: fuori le cooperative dal Comparto Handling”.

IN ARRIVO ALTRI TAGLI ALLE PENSIONI

I PIERLUIGI PENNATI
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pierluigi-pennati
Nell’assoluto ed ormai sistematico silenzio mediatico è iniziata da qualche settimana, nella Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati, l’iter di due proposte di legge per modificare il quarto comma dell’articolo 38 della Costituzione, una a firma del suo presidente, Andrea Mazziotti, e l’altra del piddino Ernesto Preziosi, membro della Commissione Bilancio, Tesoro e Programmazione.
L’articolo in oggetto, dopo aver sancito i diritti dei cittadini con le frasi “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale” prevede: “Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. L’assistenza privata è libera.”
Le due proposte in discussione sono molto simili tra loro, la proposta Mazziotti, sottoscritta da oggi 35 parlamentari tra Civici Innovatori, PD, FI e AP e dai quali si sono sfilati quelli di FdI dopo una prima adesione, chiede la sostituzione integrale del comma con le parole « Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi e istituti predisposti o integrati dallo Stato secondo principi di equità, ragionevolezza e non discriminazione tra le generazioni », di fatto aggiungendo però solo la parte “secondo principi di equità, ragionevolezza e non discriminazione tra le generazioni”.
Nella proposta Preziosi, invece, dopo il secondo comma dovrebbe esserne inserito uno disponente che “il sistema previdenziale debba essere improntato ad assicurare l’adeguatezza dei trattamenti, la solidarietà e l’equità tra le generazioni, nonché la sostenibilità finanziaria”.
Sebbene non citata direttamente da Mazziotti, Le ragioni di questo cambiamento risiederebbero proprio nella sua “sostenibilità finanziaria” infatti nel suo sito web afferma che “Il rapporto Pensions at Glance 2015, diffuso dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) il 1° dicembre 2015, mette in luce in maniera molto netta alcune difficoltà del sistema previdenziale italiano.”
In particolare “Nel quinquennio 2010-2015 la spesa per le pensioni pubbliche ha in media assorbito il 15,7 per cento del prodotto interno lordo (PIL). Si tratta del secondo valore più alto tra i Paesi dell’OCSE dopo la Grecia, una percentuale che sicuramente diminuirà all’aumentare del PIL italiano, ma che va comunque abbassata con una rimodulazione della spesa pensionistica nella direzione di una maggiore sostenibilità.”
e poiché “L’ISTAT ha poi reso noto che il 70 per cento della spesa pensionistica totale è assorbito da pensioni di vecchiaia.” e che “Nonostante un incremento graduale dell’età dovuto alle recenti modifiche normative, una percentuale rilevante di pensionamenti avviene prima dei 60 anni.”, il pericolo sarebbe che “il nostro sistema pensionistico non è in grado di reggere il peso di tre fattori concomitanti: la bassa età effettiva di uscita dal mercato del lavoro (la quarta più bassa dell’OCSE), il bassissimo tasso di occupazione per i lavoratori tra i 60 e i 64 anni (il 26%, contro una media OCSE del 45%) e il fatto che ancora oggi molti pensionati ricevano pensioni generose, nonostante un basso livello di contributi versati.”
Sono proprio queste ragioni, secondo i proponenti, che sarebbero alla base dell’avvertimento dell’OCSE che “i lavoratori più esposti al rischio di una carriera instabile, a una bassa remunerazione in lavori precari non riescano a maturare i requisiti minimi per la pensione contributiva anche dopo anni di contributi elevati.”
Insomma se vogliamo la pensione da vivi dovremmo abbassare immediatamente i costi della previdenza di oggi per permettere ai pensionati di domani di poter continuare a riceve, od almeno ricevere, una pensione.
“Se si va avanti così, – continua Mazziotti – le generazioni future avranno pensioni enormemente più basse di quelle di chi in pensione ci è già andato, se le avranno.” E poiché “qualsiasi intervento normativo non può ignorare le discriminazioni e le situazioni di privilegio, che già oggi sottraggono risorse alle pensioni più basse e che, soprattutto, si scaricheranno sulle spalle delle generazioni future. La presente proposta di legge costituzionale intende dunque introdurre nella Costituzione nuovi principi cardine ai quali devono conformarsi gli istituti previdenziali e assistenziali previsti dalla Carta.”
Quindi, il risultato sembra essere che per abbassare ancora le pensioni di oggi ci si appella nientemeno che alla costituzione stessa, affermando, “non si può considerare equo un Paese nel quale il sistema pensionistico discrimina fra pensionati di generazioni diverse. Viene meno un caposaldo della Costituzione, il principio di uguaglianza. Per questo, nella proposta si prevede che gli istituti, previsti dall’art. 38 e predisposti o integrati dallo Stato, devono essere informati ai principi di equità, ragionevolezza e non discriminazione tra le generazioni.”
La conseguenza è che dopo aver aumentato l’età pensionabile più volte, modificati i criteri di erogazione, tagliata sanità e welfare in nome del pareggio di bilancio, invece di rilanciare e difendere l’industria ed il lavoro, si cerca di raggranellare ancora qualche soldo facendo sempre leva sulle categorie più deboli, i pensionati, addirittura in nome di una ipotetica equità futura.
Ma se è già stupefacente che per difendere le banche si trovino miliardi e per il lavoro si spremono anche quelli che lo hanno più, quello che maggiormente incuriosisce è che ad una proposta del centro destra in tale direzione fa eco una proposta del PD che, se possibile, è ancora più dura e sprezzante nei suoi termini, infatti se a destra si parla solo di equità generazionale, nascondendosi dietro gli allarmi dell’OCSE, a sinistra, se il PD lo è ancora, per lo stesso scopo si vorrebbe introdurre addirittura nella Costituzione la “sostenibilità finanziaria“ dello stato, cioè che se per qualsiasi altra ragione, scelte sbagliate e sprechi compresi, la sostenibilità fosse dubbia, i già poveri pensionati sarebbero comunque in prima linea a farne le spese.
Vogliamo la pensione da vivi, ma anche che sia adeguata e dignitosa per chi la riceve e non solo sostenibile per il bilancio dello stato a favore di banche e finanzieri, il lavoro, la pensione, la salute, la libertà, il welfare state, sono valori irrinunciabili: si può vivere senza una cassaforte piena, non lo si può fare senza una società solidale.

LIBERISMO: SI, MA SENZA AUTOLESIONISMO

DI PIERLUIGI PENNATI
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La nazionalizzazione dei cantieri STX non passa inosservata, non solo per la mossa decisamente controcorrente rispetto ai tempi, nei quali “il mercato” sembra essere la soluzione migliore per i più “autorevoli” economisti ed influenti politici, ma soprattutto perche nel farla si scopre che un liberista dichiarato come Macron pensa che esistano ancora beni nazionali da difendere e non solo da vendere.
Nel farlo dà uno schiaffo all’industria italiana, scalzando Fincantieri, ed alla politica nazionale, facendo risvegliare il politico più presente nei media dei giorni nostri, Matteo Renzi, da un sonno liberista nel quale Macron doveva essere un conpagno di merende ed invece si fa i fatti suoi.
Il sindacato USB, impegnato nella campagna per la nazionalizzazione di Alitalia ed Ilva, non perde tempo e titola “Nella Ue nazionalizzare si può. La Francia lo fa per STX, l’Italia deve farlo per Alitalia e Ilva”.
Stefano Fassina non è da meno e scrive sulla sua bacheca Facebook “Il Governo Macron ha deciso di nazionalizzare i cantieri Stx di Saint-Nazaire cancellando brutalmente la soluzione già contrattata per il passaggio del 67% della proprietà del cantiere navale a Fincantieri. Il Governo italiano rimane a guardare.”
Se la critica al governo è chiara, è altrettanto chiaro che la mossa scoperchia un problema assai più grande: vale sempre la pena di privatizzare?
Vendere o svendere beni dello stato è una tendenza diffusa sempre più, non solo in Italia, ma in Italia ha raggiunto negli ultimi decenni livelli davvero da record, sono state privatizzate sia aziende sane che aziende in crisi per colpa non del mercato e della richiesta, ma dei manager incapaci, premiati per andarsene e regalando ad altri incapaci che poi hanno continuato la rovina.
È il caso di moltissime aziende, “Intanto, Vivendi ha conquistato TIM. Ma è soltanto l’ultima acquisizione di preziosi e strategici asset italiani da parte di altri paesi dell’Ue, in un quadro di conclamata assenza di reciprocità.”, continua Fassina, “L’intervento dello Stato in imprese di primaria rilevanza per lo sviluppo del Paese rimane un tabù? È grave e irresponsabile la passività del Governo.”
Abbiamo assistito inermi a privatizzazioni inutili e dannose, persino aziende ultrasane, produttive e strategiche per la sicurezza nazionale, come ENAV, l’Ente Nazionale di Assistenza al Volo, che produce da sempre utili record, dagli oltre 50 milioni nel momento della sua privatizzazione ai ben 76 dell.anno scorso, ceduta al 49% per circa 400 milioni, valore recuperabile in meno di 8 anni e perduto per sempre.
In Francia Macron sostiene di voler proteggere l’industria nazionale, in Italia Padoan replica che serve proteggere le banche, il capitale innanzitutto, nel frattempo da noi si disperdono centinaia di migliaia di posti di lavoro a costi sociali superiori ai costi per la loro protezione nazionalizzando, quindi una riflessione seria dovrebbe forse essere fatta prima che sia troppo tardi e si sia troppo poveri e senza lavoro per poter reagire senza una rivoluzione armata, perché si sa, il popolo affamato non ha mai risposto a nessuna legge, democratica o meno.
Troppe aziende sono state privatizzate per proteggere il capitale, sarebbe ora di cominciare pensare di proteggere il lavoro, in fondo, e fino a quando qualche scellerato non riuscirà a cambiarla, è scritto anche nell’articolo 1 della nostra costituzione “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.”

UNA PETIZIONE PER IL DIRITTO DI SCIOPERO

DI PIERLUIGI PENNATI
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La parola diritto deriva dal tardo latino dirictum e seppur in alcuni casi usata secondo la destinazione originale, procedere diritto, o anche il significato opposto di rovescio o verso, come un colpo diritto del tennis od il diritto della medaglia, il suo significato più intenso è quello assunto a partire dal medio evo, intendendo ciò che è giusto, equo secondo la legge e che è possibile pretendere.
Il diritto di qualcuno è anche il dovere di altri di concederlo, quindi diritti e doveri spesso si uniscono, ma qualche volta si contrappongono e l’esercizio da parte di qualcuno di un diritto può entrare in conflitto con l’esercizio di un altro diritto da parte di altri, rendendo necessaria una mediazione.
È questo il caso del diritto di sciopero, sancito come “costituzionale” dai padri fondatori è stato esercitato senza regole fino al 1990, quando, complice qualche concentrazione di scioperi nei trasporti che avevano creato disagi considerati “sproporzionati” nella cittadinanza, il legislatore ha pensato di regolamentare il settore così come, per altro, precisato nel testo costituzionale all’articolo 39: “Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolamentano” e che fino ad allora non erano state emesse.
In particolare la relazione che si era voluta assumere era il conflitto tra il diritto di sciopero e gli altri diritti costituzionalmente tutelati, così una prima stesura della legge aveva cominciato a porre difficoltà agli scioperanti affinchè i cittadini fossero avvertiti in tempo della eventualità e potessero comunque fruire di un minimo di servizi.
Da allora la legge di strada ne ha fatta tanta, dato che una seconda stesura, nel 2000, inaspriva le sanzioni per i lavoratori e dava maggiori poteri ad una commissione ad och creata a “garanzia” dell’osservanza della legge che delibera interpretativa su delibera interpretativa ha piano piano svuotato di potere il diritto di sciopero a favore delle aziende fino ad arrivare ai giorni nostri nei quali le difficoltà e le regole per poter esercitare il diritto sono così tante e tali da renderlo totalmente inefficace, con gioia dei datori di lavoro.
Per scioperare nei trasporti, per esempio, un sindacato deve dichiarare alla controparte aziendale il proprio dissenso. Fatto ciò l’azienda entro 5 giorni deve incontrare il sindacato per il “raffreddamento” del conflitto. L’incontro è obbligatorio, ma può essere disertato o presenziato senza accordo, cosa che capita regolarmente. Fatto ciò e non ottenuto nulla, il sindacato deve chiedere al prefetto od al ministero del lavoro la convocazione di un secondo incontro per lo stesso motivo, “raffreddare” il conflitto in essere. L’autorità interpellata chiama le parti entro altri dieci giorni e sia che la riunione vada ancora deserta o che non vi sia accordo solo successivamente può essere proclamato uno sciopero con almeno 12 giorni di preavviso.
Dalla tempistica sono sempre esclusi i giorni di invio documentale e degli incontri, così, se tutto va bene, dall’inizio ufficiale del conflitto, che di solito segue già di almeno qualche giorno l’inizio della protesta,  prima di poter “legittimamente” proclamare uno sciopero passano almeno 20 giorni ed almeno un mese prima di poterlo effettuare.
A questo punto sarebbe bello se fosse finita qui, invece è proprio ora che cominciano i disagi, gli scioperi devono rispettare una miriade di regolette introdotte dalla Commissione di Garanzia istituita dalla legge sullo sciopero che, a tutela degli altri diritti, limita modalità durate e concentrazioni di scioperi, al punto che spesso i sindacati avviano le agitazioni senza grossi motivi al solo scopo di “prenotare” le date utili a poter scioperare.
Basta dare un’occhiata in qualsiasi momento al calendario degli scioperi pubblicato nel sito della Commissione per capire già dalla prima occhiata che si tratta di una situazione insostenibile: http://www.cgsse.it/web/guest/elenco-scioperi
A questo vanno aggiunte le franchigie, date e periodi nei quali non si può scioperare, estati, ponti festivi, etc, cui si sommano le fasce protette giornaliere e, dulcis in fundo, le “comandate aziendali”, vale a dire i contingentamenti di personale che in ogni caso non può scioperare.
Questo è un altro punto decisamente dolente, dato che se in una località è prevista una sola persona in servizio nel tempo dello sciopero e la legge recita “le esigenze fondamentali di cui all’articolo 1; salvo casi particolari, devono essere contenute in misura non eccedente mediamente il 50 per cento delle prestazioni normalmente erogate e riguardare quote strettamente necessarie di personale non superiori mediamente ad un terzo del personale normalmente utilizzato per la piena erogazione del servizio nel tempo interessato dallo sciopero” è decisamente difficile dividere in un terzo la persona e frazionare una prestazione se questa non è articolata.
Ma se tutto finisse qui sarebbe ancora un paradiso, il vero problema, dopo tutte queste regole, diventa anche la mediazione, chiamata dalla legge “contemperazione” dei diritti, dato che i diritti sono tanti e spesso non chiaramente correlati.
Nella legge, la 146/90 modificata dalla 83/00, in particolare, si specificano sia i destinatari delle limitazioni, citando “Ai fini della presente legge sono considerati servizi pubblici essenziali, indipendentemente dalla natura giuridica del rapporti di lavoro, anche se svolti in regime di concessione o mediante convenzione, quelli volti a garantire il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione ed alla libertà di comunicazione.”, che i beneficiari: “tutela della vita, della salute, della libertà e della sicurezza della persona, dell’ambiente e del patrimonio storico-artistico: la sanità; l’igiene pubblica; la protezione civile; la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti urbani e di quelli speciali, tossici e nocivi; le dogane, limitatamente al controllo su animali e su merci deperibili; l’approvvigionamento di energie, prodotti energetici, risorse naturali e beni di prima necessità, nonché la gestione e la manutenzione dei relativi impianti, limitatamente a quanto attiene alla sicurezza degli stessi; l’amministrazione della giustizia, con particolare riferimento a provvedimenti restrittivi della libertà personale ed a quelli cautelari ed urgenti, nonché ai processi penali con imputati in stato di detenzione; i servizi di protezione ambientale e di vigilanza sui beni culturali; b) per quanto concerne la tutela della libertà di circolazione: i trasporti pubblici urbani ed extraurbani autoferrotranviari, ferroviari, aerei, aeroportuali e quelli marittimi limitatamente al collegamento con le isole; c) per quanto concerne l’assistenza e la previdenza sociale, nonché gli emolumenti retributivi o comunque quanto economicamente necessario al soddisfacimento delle necessità della vita attinenti a diritti della persona costituzionalmente garantiti: i servizi di erogazione dei relativi importi anche effettuati a mezzo del servizio bancario; d) per quanto riguarda l’istruzione: l’istruzione pubblica, con particolare riferimento all’esigenza di assicurare la continuità dei servizi degli asili nido, delle scuole materne e delle scuole elementari, nonché lo svolgimento degli scrutini finali e degli esami, e l’istruzione universitaria, con particolare riferimento agli esami conclusivi dei cicli di istruzione; e) per quanto riguarda la libertà di comunicazione: le poste, le telecomunicazioni e l’informazione radiotelevisiva pubblica.
Ora, ci sono ancora moltissime cose da dire, ma di fronte ad una tale mole di difficoltà, di diritti da contemperare e “scuse” adottate dalle controparti sembra evidente che il diritto di sciopero non è più esigibile veramente e come tale non è nemmeno più un diritto.
Mediamente un lavoratore spende 80 euro al giorno per scioperare, non si diverte e non va in vacanza, e le proteste, specie ultimamente, sono unicamente per licenziamenti, vessazioni, soprusi e cattiverie di ogni genere, che, in questa situazione, non possono più essere difese, svuotando completamente il senso non solo del diritto, ma della partecipazione sociale e riducendo tutti in schiavitù.
La punta dell’iceberg è stata forse raggiunta il 23 giugno scorso, quando il ministro dei trasporti Delrio è intervenuto in extremis con un decreto a bloccare gli scioperi previsti per due giorni dopo perché era previsto facesse “troppo caldo per autorizzare uno sciopero nel settore del trasporto pubblico locale”.
Troppo caldo per scioperare, ma non troppo per lavorare e certamente troppa autorità per assumere provvedimenti con tali motivazioni.
La reazione è stata quasi subito importante e condivisa da costituzionalisti, giuristi, docenti, avvocati e personaggi del mondo politico e della vita sociale del paese, inducendo il sindacato USB ad indire una petizione popolare per chiedere il ripristino del diritto di sciopero oggi negato.
A pochi giorni dal suo inizio, nel silenzio della “grande” comunicazione e nonostante le ferie estive, più di 3.000 persone hanno già firmato la petizione sulla piattaforma change.org.
Secondo il sindacato “La difesa della Costituzione e del diritto di sciopero dovrebbe rappresentare una via obbligata per tutti coloro che si definiscono democratici”, lamentando che “Purtroppo invece oggi gran parte delle forze politiche e dei mezzi di informazione sembra fare a gara per chi si dimostra più contrario all’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito”.
I diritti dei lavoratori, la legge 300 o “statuto dei lavoratori”, e tutte le conquiste nel mondo del lavoro sono state possibili attraverso questo strumento che oggi sembra essere in pericolo di estinzione, l’invito dell’organizzazione sindacale USB è quindi di “firmare e a far firmare l’Appello in difesa del lavoro, della Costituzione e del diritto di sciopero”.
https://www.change.org/p/presidente-camera-deputati-e-presidente-del-senato-appello-in-difesa-del-diritto-di-sciopero

ATTENTI AL ROAMING, LE TRAPPOLE DELLA (DIS)UNIONE EUROPEA

DI PIERLUIGI PENNATI
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Ad un mese dall’introduzione del roaming Europeo vale la pena di fare un primo bilancio ed una piccola guida di istruzioni per l’uso per non incappare in grandi problemi quando si è all’estero.
C’è ormai una generazione di quindicenni che non ha mai visto la lira e che non ha la minima idea di come poteva essere l’Europa prima degli accordi di Schengen, passaporti per espatriare e cambi di valuta ad ogni frontiera, oltre, ovviamente, ai problemi legati alle comunicazioni che sono rimasti fino al 15 giugno di quest’anno quando, per effetto di una legge comunitaria, è stato abolito il costo del roaming telefonico per gli apparati mobili in tutti i paesi dell’Unione Europea.
Per molti di noi questo è stato un grande traguardo, perché chi va frequentemente all’estero in effetti ne aveva grande disagio, dato che, curiosamente, per chiamare lo Sri Lanka dall’Italia i costi possono variare da 1 a 3 centesimi al minuto, mentre per Germania e Francia si va dai 50 centesimi in su, a meno di non sopportare un comunque costoso contratto a forfait.
Ecco che l’abolizione del roaming risolve finalmente il problema introducendo un curioso paradosso, chiamare in tutta Europa dall’estero diventa persino più conveniente che dal proprio paese, infatti quando si viaggia la tariffa resta identica verso tutti gli stati e, per esempio, se avete 200 minuti per chiamare in Italia trovandovi in Francia potrete usarli verso tutti i paesi dell’unione senza ulteriori addebiti, Francia su Francia, Francia su Italia, etc.
La ratio della cosa è semplice e scritta nella legge: favorire gli spostamenti per scopi turistici e lasciare inalterato tutto il resto, quindi varrà la prevalenza su un periodo di quattro mesi, nei quali la maggior parte del tempo e del traffico dovrà essere trascorso e generato nel proprio paese di provenienza, nel nostro caso l’Italia.
Tutto risolto?
Certo che no, l’Europa è un’associazione strana, ci sono 28 paesi aderenti dei quali solo 18 adottano l’euro ed altri paesi non aderenti che pur adottando l’euro non sono assoggettati alle leggi comunitarie, parliamo di Andorra, Monaco, San Marino, Città del Vaticano, Montenegro, repubblica del Kosovo e le basi sovrane a Cipro di Akrotiri e Dhekelia e per ultimo c’è uno stato, la Svizzera, che pur essendo in posizione centrale rispetto all’unione adotta gli accordi di Schengen solo per le persone e non le merci, senza aderire all’unione e senza adottare l’euro.
Uno strano agglomerato le cui insidie sono dietro l’angolo, infatti se avete deciso di attraversare l’unione Europea per le vostre vacanze dovrete stare molto attenti a come impostate il vostro telefonino, dato che questo non conosce le leggi europee e per lui il roaming è roaming, vale a diche che agganciandosi ad un altro operatore estero non farà differenza se questo risiede in uno stato aderente all’UE o meno.
Quindi, uscendo dall’Italia, per navigare in rete, si dovrà abilitare il roaming internazionale e disabilitare, per non avere interruzioni, i limiti dei dati in roaming durante la permanenza all’estero, dati limitati per legge ad una sessantina di euro di costi, proprio per prevenire possibili abusi prima dell’abolizione dei costi.
Ora si sarà completamente in balia del roaming automatico e si dovrà prestare attenzione a dove ci si trova, se in Svizzera od in prossimità di uno degli stati sopra citati, vale a dire Andorra, Monaco, San Marino, Città del Vaticano, Montenegro, repubblica del Kosovo e le basi sovrane a Cipro di Akrotiri e Dhekelia, perché in questi posti il roaming può costare ancora davvero caro.
Ecco che se trovate ad Andorra un paio di megabyte di traffico Internet, corrispondenti ad una o due fotografie visualizzate in FaceBook, vi costeranno già una trentina di euro e se non avete una prepagata… beh, meglio aprire un mutuo.
Uno dei problemi è che, eccezion fatta per la Svizzera dove la dogana è ancora presente e visibile, gli altri stati spesso non ne sono più dotati od al massimo si passa attraverso una frontiera presidiata ma non attenta e non sempre la propria compagnia telefonica avverte correttamente o in tempo dell’uscita dai confini UE, così la prima connessione regalerà denaro, e non poco, alla locale compagnia telefonica rovinandovi un po’ le vacanze.
Una soluzione alternativa, almeno temporanea, per prevenire costi troppo alti potrebbe essere la sottoscrizione di un contratto limitato per il roaming internazionale odi pacchetti dati e minuti da usare all’estero, questo non vi salverà dallo spendere alcuni euro extra, ma almeno non vi prosciugherà il credito, dato che a seconda della compagnia questi pacchetti costano al massimo da 4 a 20 euro.
In ogni caso, l’attenzione deve sempre essere alta, l’Unione Europea non è un vero stato, non ha un solo prefisso telefonico e non ha regole comuni se non codificate nei limiti delle attribuzioni del parlamento comunitario, quindi prima di spostarsi, in Europa e non, si deve sempre vigilare e controllare le regole locali.
Per il resto, buone vacanze a chi ci va.

DISAGI ALTERNI PER LO SCIOPERO NAZIONALE TRASPORTI

DI PIERLUIGI PENNATI
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Lo sciopero si sarebbe dovuto tenere il 26 giugno, ma il ministro Del Rio lo aveva differito con un’ordinanza nella quale compariva anche la motivazione che faceva “troppo caldo” per creare disagi, ma evidentemente non per lavorare, quindi USB Lavoro Privato e FAISA Confail, i sindacati che lo avevano indetto, lo hanno spostato, non senza protestare, a ieri , giovedì 6 luglio, quando le temperature pare fossero adatte a consentire l’astensione del lavoro.
Quattro o 24 ore di astensione a seconda delle città, come al solito controverse e come al solito segnate da episodi di differente intolleranza, sia dei cittadini, che delle imprese, come a Trento, dove Trentino Trasporti, affermando di non aver ricevuto in tempo la documentazione, ha intimorito i lavoratori con minacce dirette di sanzioni disciplinari, facendo fallire l’iniziativa.
Secondo USB, tramite Daniel Agostini segretario generale USB Trentino Alto Adige, si tratta di un inaccettabile «comportamento anti-sindacale, porteremo Trentino Trasporti Esercizio in Tribunale». In tutte le altre imprese trentine lo sciopero si è tenuto regolarmente.
A Roma i sindacati parlano di una adesione al 90%, e forti disagi si sono registrati a Napoli, Bologna, Genova, Milano, Napoli, Torino, Firenze, dove scioperava anche il sindacato locale SUL, Venezia e molte altre città, con metro, autobus, tram, vaporetti e parte del trasporto ferroviario fermi per quattro o ventiquattro ore con modalità diverse da città a città a seconda dei sindacati.
I lavoratori protestavano contro la privatizzazione del trasporto pubblico locale e, nel caso delle 24 ore, erano comunque garantite le due fasce fino alle 8.30 e dalle 17 alle 20, che però non hanno evitato la folla alle fermate dei bus che rientravano ai depositi, mentre a Venezia lo sciopero ha creato solo disagi limitati per mezza giornata.
Secondo USB Lavoro Privato e FAISA Confail la privatizzazione delle aziende di trasporto pubblico locale e la riorganizzazione del settore tramite fusioni e liquidazioni comporteranno licenziamenti ingiustificati, USB chiede perciò di «difendere il diritto dell’esercizio di sciopero nei servizi pubblici essenziali, contro la politica delle privatizzazioni, le norme per la riorganizzazione dei servizi pubblici locali e delle aziende partecipate che prevedono fusioni, chiusure e liquidazioni e un esubero di personale di oltre 300.000 lavoratori».