DPCM. CONFINDUSTRIA: TENERE APERTE LE ATTIVITA’ FUNZIONALI A QUELLE ESSENZIALI

DI VIRGINIA MURRU

 

Confindustria è in allarme ed è comprensibile. L’emergenza sanitaria è diventata ben presto anche economica, se si tiene conto poi che il Paese cercava una svolta all’inizio del nuovo anno, reduce da oltre un anno di contrazione nella crescita, le preoccupazioni del mondo produttivo hanno una logica.

Ma qui è in gioco la tutela di un valore ben più grande del profitto: la vita umana, ed è questo il senso della lotta in questa emergenza.

Intanto ieri sera è approdato il nuovo decreto governativo (Dpcm), con il quale il premier Giuseppe Conte conferma l’ulteriore fase di ‘austerity’ annunciata nei giorni scorsi, ossia la chiusura di tutte quelle attività produttive e servizi non essenziali fino al 3 aprile.

Questo decreto però è come un sasso scagliato su una distesa di acque già agitate dalla congiuntura in atto, mette contro le parti sociali perché per ovvie ragioni hanno priorità diverse. Sulla chiusura delle attività produttive non essenziali è in atto un dibattito serrato tra sindacati e Associazione degli industriali, mentre al Governo resta l’onere della mediazione, non semplice in un momento in cui tutto il sistema sembra sospeso ad un filo, tenace ma vulnerabile. Il fatto è che questa condizione d’instabilità ed emergenza sanitaria ha creato troppe contingenze.

L’economia è il bersaglio più diretto, non vi sono settori o aree che possano essere circondati dal ‘filo spinato’, ogni processo produttivo è legato all’altro, e non si potrebbe isolarne una parte senza creare disagi o blocchi in filiere trasversali. Lo ha spiegato il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia in un’intervista concessa al Corriere:

“Attenzione alle chiusure perché le filiere sono trasversali. A titolo di esempio prendiamo le aziende dell’automotive che stanno producendo valvole per i respiratori: nemmeno queste sono comprese nei Codici Ateco, quelle che possono continuare la produzione. Bisogna quindi prestare attenzione alla rigidità, e usare il buon senso.”

Sulla prospettiva di un’agitazione sindacale, come risposta alla decisione di tenere operative aziende la cui produzione non è in questo momento propriamente indispensabile, Boccia risponde perplesso ‘che non ne comprende le ragioni’. Secondo il presidente di Confindustria sarebbe un pessimo messaggio al Paese, che ha necessità di stimoli e compattezza, impegno e sforzi che convergano verso una sinergia d’intenti volta a riportare l’Italia quanto prima su una buona base di ripartenza.

E non manca di rimarcare che si stanno lasciando sul campo circa 100 miliardi di perdite al mese, conseguenti al blocco delle attività non essenziali, in seguito alle direttive contenute nel nuovo decreto. “Dall’emergenza economica entriamo nell’economia di guerra, chiuderà il 70% del tessuto produttivo italiano” – puntualizza Boccia.

Osservazione sulla quale riflettere, ma il premier Conte replica che in ogni caso prima di ogni altra considerazione c’è quella della tutela della vita umana.

Il leader degli industriali ha inviato una lettera a Conte per sottolineare la posizione di Confindustria sulle nuove direttive dell’esecutivo. Tra le varie considerazioni egli invita il Governo a tutelare le imprese sui mercati finanziari. Sottolinea al riguardo: “E’ importante valutare i provvedimenti necessari sull’operatività della Borsa e del Mercato finanziario, al fine di evitare impatti negativi sulle società quotate.”

Ma le Confederazioni sindacali, di fronte ai rischi legati all’emergenza sanitaria, non sono disposte a sorvolare. Nei loro comunicati congiunti si legge:

“A differenza di quanto indicato ieri dal Governo alle parti sociali ed al Paese, in queste ore sembrerebbe avanzare l’ipotesi che, nel decreto in discussione, l’Esecutivo intenda aggiungere all’elenco dei settori e delle attività da considerare essenziali nelle prossime due settimane per contenere e combattere il virus Covid-19, attività produttive di ogni genere”..

Se tali notizie fossero confermate, a difesa della salute dei lavoratori e di tutti i cittadini, Cgil, Cisl e Uil, sono pronte a proclamare in tutte le categorie d’impresa che non svolgono attività essenziali lo stato di mobilitazione e la conseguente richiesta del ricorso alla cassa integrazione, fino ad arrivare allo sciopero generale”.

Confindustria, affidando le sue istanze alla lettera trasmessa da Vincenzo Boccia a Palazzo Chigi,  insiste sul fatto che già gli industriali stanno affrontando con senso di responsabilità la decisione del Governo di sospendere le attività produttive non essenziali, offrendo tutto il supporto possibile in termini di collaborazione. E tuttavia la stretta decisa nelle ultime ore deve essere ‘contemperata’ con esigenze prioritarie del mondo produttivo.

Boccia ribadisce la volontà dell’industria italiana di continuare a collaborare affinché siano assicurate le forniture quotidiane di alimentari, prodotti farmaceutici e servizi essenziali, tramite le più efficaci soluzioni operative.

Nella missiva trasmessa al premier Conte, si sottolinea tuttavia che è altresì necessario ‘proseguire le attività non espressamente in lista, ma funzionali a quelle essenziali’. E’ nondimeno necessaria, puntualizza ancora Boccia, che vi siano disposizioni atte a permettere la continuazione delle attività che non possono essere interrotte per ragioni tecniche, che sono funzionali a quelle essenziali, e tale continuità possa essere garantita con procedure amministrative semplificate. Tra le varie attività vi sono anche quelle relative alla manutenzione, ossia quelle volte alla tenuta in efficienza di macchinari e impianti produttivi.

Uno degli aspetti che rendono questo periodo di emergenza precario per le aziende, è la carenza di liquidità, e Boccia non ha mancato di farlo osservare a Conte, precisando che l’operatività di molte imprese facenti parte di  filiere internazionali è legata alla disponibilità di liquidità,

Gli ultimi giorni sono stati caratterizzati da  intenso lavoro e confronto al Ministero dello Sviluppo economico, dove si sono definite le linee prioritarie sulle attività essenziali che continueranno ad essere operative, anche quando il decreto Conte (Dpcm) entrerà in vigore. Di fatto dovrebbe avvenire giovedì 26 marzo, ed è stato firmato ieri in prima serata, intorno alle 19.

Il decreto ha messo a punto, in 80 voci, la lista delle attività che resteranno aperte, perché considerate essenziali alla vita del Paese in questo drammatico momento. In funzione resterà tutta la filiera alimentare, bevande e alimenti, quelle legate alla produzione di dispositivi medico sanitari, nonché dei prodotti farmaceutici. Per quel che concerne i servizi si preservano i call center, ma è stato precisato che la lista è suscettibile di aggiornamenti tramite decreto del Mise, dopo la consultazione col Mef.

Le attività funzionali che garantiscono la continuità delle filiere autorizzate resteranno aperte, ma dietro espressa comunicazione al Prefetto della provincia competente. E’ discrezione di quest’ultimo sospendere le attività che non ritiene abbiano le prerogative per l’operatività.

Il decreto consente l’attività degli impianti a ciclo continuo relative alla Difesa e aerospazio, sempre previa comunicazione al Prefetto, ove sia dimostrabile che dall’interruzione derivi serio danno all’impianto o pericolo d’incendio. Il Prefetto ha la facoltà di sospendere le attività che non presentino le condizioni di operatività necessarie per le esigenze di questo periodo di emergenza.

La sospensione dell’attività operativa è stata fissata per il 25 marzo, anche se di fatto inizierà il 26, c’è dunque  il tempo utile alle aziende per compiere le operazioni necessarie alla sospensione degli impianti, e la spedizione di eventuali merci in giacenza. L’attività può continuare qualora vi sia un’organizzazione di lavoro a distanza, o lavoro agile.

Le regole del Dpcm restano valide fino al 3 aprile, uniformandole pertanto alle ordinanze e Dpcm già emanati per questo lasso di tempo.

Il decreto Conte sancisce inoltre il divieto di trasferimento dal Comune in cui ci si trova, la disposizione è in vigore già da domenica 22 marzo, in forza di un’ordinanza congiunta del Ministero della Salute e Interno, e si riferisce sia a mezzi di trasporto privato che pubblico. Insomma l’intercalare fissa di questa emergenza è quella di stare a casa, e muoversi solo per ragioni di urgenza o se strettamente indispensabile.

Dopo tante polemiche il decreto ha espressamente vietato gli spostamenti tra Nord e Sud del Paese, in considerazione del fatto che al momento il Nord presenta una situazione di contagi drammatica, e gli spostamenti favorirebbero l’espansione dell’epidemia anche in regioni nelle quali finora si è riuscita a contenere la diffusione del virus.

 

 

I HAVE A DREAM (IO HO UN SOGNO)

Il 28 agosto 1963 Martin Luther King aveva tenuto questo discorso di fronte a un’imponente manifestazione antirazzista di bianchi e neri.

Sì, è vero, io stesso sono vittima di sogni svaniti, di speranze rovinate, ma nonostante tutto voglio concludere dicendo che ho ancora dei sogni, perché so che nella vita non bisogna mai cedere. Se perdete la speranza, perdete anche quella vitalità che rende degna la vita, quel coraggio di essere voi stessi, quella forza che vi fa continuare nonostante tutto.

Ecco perché io ho ancora un sogno. Ho il sogno che un giorno gli uomini si rizzeranno in piedi e si renderanno conto che sono stati creati per vivere insieme come fratelli. Questa mattina ho ancora il sogno che un giorno ogni nero della nostra patria, ogni uomo di colore di tutto il mondo, sarà giudicato sulla base del suo carattere piuttosto che su quella del colore della sua pelle, e ogni uomo rispetterà la dignità e il valore della personalità umana. Ho ancora il sogno che un giorno la giustizia scorrerà come acqua e la rettitudine come una corrente poderosa. Ho ancora il sogno che un giorno la guerra cesserà, che gli uomini muteranno le loro spade in aratri e che le nazioni non insorgeranno più contro le nazioni, e la guerra non sarà neppure oggetto di studio. Ho ancora il sogno ogni valle sarà innalzata e ogni montagna sarà spianata. Con questa fede noi saremo capaci di affrettare il giorno in cui vi sarà la pace sulla terra.

“.

Martin Luther King


 

Martin Luther King, “I Have a Dream,” 28 August 1963

Occasion: The keynote speech at the 1963 March on Washington for Jobs and Freedom, King gave the address from the steps of the Lincoln Memorial to about 250,000 people assembled before him. The speech was also broadcast on TV and published in newspapers. Since 1963, King’s “I Have a Dream” speech has become the most famous public address of 20th century America. The immediate effect of the speech also shaped American history. Julian Bond, a fellow participant in the civil rights movement and student of King, would write, “King’s dramatic 1963 ‘I Have a Dream’ speech before the Lincoln Memorial cemented his place as first among equals in civil rights leadership; from this first televised mass meeting, an American audience saw and heard the unedited oratory of America’s finest preacher, and for the first time, a mass white audience heard the undeniable justice of black demands” (Seattle Times, 4 April 1993).

 


 

Il discorso integrale 

 

“I Have a Dream”

I am happy to join with you today in what will go down in history as the greatest demonstration for freedom in the history of our nation.

1 Sono felice di unirmi a voi oggi in questa che passerà alla storia come la più grande dimostrazione per la libertà nella storia del nostro paese.

2 Five score years ago, a great American, in whose symbolic shadow we stand today, signed the Emancipation Proclamation. This momentous decree came as a great beacon light of hope to millions of Negro slaves who had been seared in the flames of withering injustice. It came as a joyous daybreak to end the long night of their captivity.

2 Cento anni fa, un grande americano, nella cui simbolica ombra ci troviamo oggi, firmò il Proclama di Emancipazione. Questo importante decreto arrivò come una grande faro di speranza per milioni di schiavi Negri che erano stati bruciati dalle fiamme dell’avida ingiustizia. Esso venne come un’alba gioiosa per terminare la lunga notte della loro prigionia.

3 But 100 years later, the Negro still is not free. One hundred years later, the life of the Negro is still sadly crippled by the manacles of segregation and the chains of discrimination. One hundred years later, the Negro lives on a lonely island of poverty in the midst of a vast ocean of material prosperity. One hundred years later, the Negro is still languished in the corners of American society and finds himself an exile in his own land. And so we’ve come here today to dramatize a shameful condition.

Ma 100 anni dopo, il Negro non è ancora libero. Cento anni dopo, la vita del negro è ancora tristemente paralizzata dalle manette della segregazione e dalle catene della discriminazione. Cento anni dopo, il Negro vive in un’isola solitaria di povertà nel mezzo di un vasto oceano di prosperità materiale. Cento anni dopo, il negro Langue ancora negli angoli della società Americana e si trova in esilio nella sua stessa terra. Per questo siamo venuti qui oggi a manifestare la nostra vergognosa condizione.

4 In a sense we’ve come to our nation’s capital to cash a check. When the architects of our republic wrote the magnificent words of the Constitution and the Declaration of Independence, they were signing a promissory note to which every American was to fall heir. This note was a promise that all men – yes, black men as well as white men – would be guaranteed the unalienable rights of life, liberty, and the pursuit of happiness.

4 In un certo senso siamo venuti alla capitale del nostro paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della nostra repubblica scrissero le magnifiche parole della Costituzione e della Dichiarazione di Indipendenza, firmarono una cambiale che ogni americano avrebbe ereditato. Questa cambiale prometteva che a tutti gli uomini, si, tanto ai neri quanto ai bianchi, sarebbero stati garantiti i diritti inalienabili di vita, libertà e perseguimento della felicità.

5 It is obvious today that America has defaulted on this promissory note insofar as her citizens of color are concerned. Instead of honoring this sacred obligation, America has given the Negro people a bad check, a check that has come back marked “insufficient funds.”

5 E’ oggi ovvio che l’America è venuta meno a questa cambiale per ciò che riguarda i suoi cittadini di colore. Invece di onorare questo suo sacro obbligo, l’America ha consegnato ai negri un assegno fasullo, un assegno che è tornato indietro con la scritta “fondi insufficienti”.

6 But we refuse to believe that the bank of justice is bankrupt. We refuse to believe that there are insufficient funds in the great vaults of opportunity of this nation. And so we’ve come to cash this check, a check that will give us upon demand the riches of freedom and security of justice. We have also come to his hallowed spot to remind America of the fierce urgency of now. This is no time to engage in the luxury of cooling off or to take the tranquilizing drug of gradualism. Now is the time to make real the promises of democracy. Now is the time to rise from the dark and desolate valley of segregation to the sunlit path of racial justice. Now is the time to lift our nation from the quicksands of racial injustice to the solid rock of brotherhood. Now is the time to make justice a reality for all of God’s children.

6 Ma noi ci rifiutiamo di credere che la banca della giustizia sia fallita. Noi rifiutiamo di credere che non ci siano fondi sufficienti nei grandi caveau delle opportunità di questa nazione. E così siamo venuti per incassare questo assegno, un assegno che ci darà dietro presentazione le ricchezze della libertà e della garanzia di giustizia. Siamo venuti in questo santuario anche per ricordare all’America la feroce attuale urgenza. Non è questo il momento di permetterci il lusso che le cose si raffreddino o di ingerire un tranquillizzante gradualismo. Adesso è il momento di realizzare le promesse di democrazia. Adesso è il momento di sollevarsi dall’oscura e desolata valle della segregazione verso il sentiero radioso della giustizia razziale. Adesso è il momento di sollevare la nostra nazione dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale verso la solida roccia della fratellanza. Adesso è il momento di rendere la giustizia una realtà per tutti i figli di Dio.

7 It would be fatal for the nation to overlook the urgency of the moment. This sweltering summer of the Negro’s legitimate discontent will not pass until there is an invigorating autumn of freedom and equality. Nineteen sixty-three is not an end but a beginning. Those who hoped that the Negro needed to blow off steam and will now be content will have a rude awakening if the nation returns to business as usual. There will be neither rest nor tranquillity in America until the Negro is granted his citizenship rights. The whirlwinds of revolt will continue to shake the foundations of our nation until the bright day of justice emerges.

7 Sarebbe fatale per la nazione sottovalutare l’urgenza del momento. Questa soffocante estate del legittimo malcontento del Negro non passerà fino a quando non vi sarà un rinvigorente autunno di libertà e uguaglianza. Il 1963 non è una fine ma un inizio. Quelli che speravano che il Negro avesse bisogno di sfogare un po’ le proprie tensioni per poi restarne appagato avranno un brusco risveglio se la nazione tornasse al lavoro come al solito. In America non ci sarà né riposo né tranquillità fino a quando al Negro non saranno concessi i suoi diritti di cittadinanza. I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione fino a quando non sarà sorto il giorno luminoso della giustizia.

8 But there is something that I must say to my people who stand on the warm threshold which leads into the palace of justice. In the process of gaining our rightful place we must not be guilty of wrongful deeds. Let us not seek to satisfy our thirst for freedom by drinking from the cup of bitterness and hatred. We must forever conduct our struggle on the high plane of dignity and discipline. We must not allow our creative protest to degenerate into physical violence. Again and again we must rise to the majestic heights of meeting physical force with soul force. The marvelous new militancy which has engulfed the Negro community must not lead us to a distrust of all white people, for many of our white brothers, as evidenced by their presence here today, have come to realize that their destiny is tied up with our destiny. And they have come to realize that their freedom is inextricably bound to our freedom. We cannot walk alone.

8 Ma c’è qualcosa che devo dire al mio popolo che si trova sulla calda soglia che conduce al palazzo della giustizia. Nel procedere verso il raggiungimento del nostro legittimo posto non dobbiamo macchiarci di azioni illecite. Non cerchiamo di soddisfare la nostra sete di libertà bevendo dal calice dell’odio e del risentimento. Dobbiamo condurre per sempre la nostra lotta sull’alto piano della dignità e della disciplina. Non dobbiamo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica. Ancora e ancora dobbiamo elevarci alle vette maestose di chi risponde alla forza fisica con la forza dell’anima. La meravigliosa nuova militanza che ha inghiottito la comunità negra non deve condurci a una sfiducia nei confronti di tutti i bianchi, molti dei nostri fratelli bianchi, come è evidenziato dalla loro presenza qui oggi, hanno capito che il loro destino è legato al nostro destino. E hanno capito che la loro libertà è indissolubilmente legata alla nostra libertà. Non possiamo camminare da soli.

9 And as we walk, we must make the pledge that we shall always march ahead. We cannot turn back. There are those who are asking the devotees of civil rights, “When will you be satisfied?” We can never be satisfied as long as the Negro is the victim of the unspeakable horrors of police brutality. We can never be satisfied as long as our bodies, heavy with the fatigue of travel, cannot gain lodging in the motels of the highways and the hotels of the cities. We cannot be satisfied as long as the Negro’s basic mobility is from a smaller ghetto to a larger one. We can never be satisfied as long as our children are stripped of their selfhood and robbed of their dignity by signs stating “for whites only.” We cannot be satisfied as long as a Negro in Mississippi cannot vote and a Negro in New York believes he has nothing for which to vote. No, no we are not satisfied and we will not be satisfied until justice rolls down like waters and righteousness like a mighty stream.

9 E mentre camminiamo, dobbiamo impegnarci a marciare sempre in avanti. Non possiamo tornare indietro. C’è chi chiede ai sostenitori dei diritti civili: “Quando vi riterrete soddisfatti?” Non potremo mai essere soddisfatti finché il Negro sarà vittima degli indicibili orrori della brutalità della polizia. Non potremo mai essere soddisfatti finché il nostro corpo, affaticato per la fatica del viaggio, non può alloggiare nei motel delle autostrade e negli hotel delle città. Non potremo essere soddisfatti finché la mobilità sociel del Negro andrà da un ghetto più piccolo ad uno più grande. Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri figli saranno privati della loro identità e derubati della loro dignità da cartelli che affermano “solo per i bianchi”. Non potremo essere soddisfatti fino a quando un Negro in Mississippi non potrà votare ed un Negro a New York crederà di non avere nulla per cui votare. No, no noi non siamo soddisfatti e non saremo soddisfatti fino a quando la giustizia non scorrerà giù come acqua e la giustizia come un potente fiume.

10  I am not unmindful that some of you have come here out of great trials and tribulations. Some of you have come fresh from narrow jail cells. Some of you have come from areas where your quest for freedom left you battered by storms of persecution and staggered by the winds of police brutality. You have been the veterans of creative suffering. Continue to work with the faith that unearned suffering is redemptive.

10 Non ho dimenticato che alcuni di voi sono arrivati qui dopo grandi prove e tribolazioni. Alcuni di voi sono appena usciti da anguste celle di un carcere. Alcuni di voi provengono da aree in cui la domanda di libertà vi ha lasciato percossi da tempeste di persecuzioni ed intontiti dai venti della brutalità della polizia. Voi siete stati i veterani della sofferenza creativa. Continuate a lavorare con la consapevolezza che la sofferenza immeritata è redentrice.

11 Go back to Mississippi, go back to Alabama, go back to South Carolina, go back to Georgia, go back to Louisiana, go back to the slums and ghettos of our northern cities, knowing that somehow this situation can and will be changed.

11 Tornate nel Mississippi; tornate in Alabama; tornate nel South Carolina; tornate in Georgia; tornate in Louisiana; tornate ai vostri quartieri e ai ghetti delle nostre città del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione può cambiare e cambierà.

12 Let us not wallow in the valley of despair. I say to you today my friends – so even though we face the difficulties of today and tomorrow, I still have a dream. It is a dream deeply rooted in the American dream.

12 Non lasciamoci sprofondare nella valle della disperazione. Io vi dico oggi amici miei – che se anche se dovremo affrontare le difficoltà di oggi e di domani, io ho ancora un sogno. È un sogno profondamente radicato nel sogno americano.

13 I have a dream – that one day this nation will rise up and live out the true meaning of its creed: “We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal.”

13 Io ho un sogno – che un giorno questa nazione si alzerà in piedi e vivrà il vero significato del suo credo: “Noi riteniamo queste verità ovvie, che tutti gli uomini sono creati uguali”.

14 I have a dream – that one day on the red hills of Georgia the sons of former slaves and the sons of former slave owners will be able to sit down together at the table of brotherhood.

14 Io ho un sogno – che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.

15 I have a dream – that one day even the state of Mississippi, a state sweltering with the heat of injustice, sweltering with the heat of oppression, will be transformed into an oasis of freedom and justice.

15 Io ho un sogno – che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato che soffoca nel livore del’ingiustizia, che soffoca nel livore del’oppressione, sarà trasformato in un’oasi di libertà e giustizia.

16 I have a dream – that my four little children will one day live in a nation where they will not be judged by the color of their skin but by the content of their character.

16 Io ho un sogno – che i miei quattro piccoli figli potranno un giorno vivere in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle ma per le qualità della loro personalità.

17 I have a dream today.

17 Io ho un sogno oggi.

18 I have a dream – that one day down in Alabama, with its vicious racists, with its governor having his lips dripping with the words of interposition and nullification – one day right there in Alabama little black boys and black girls will be able to join hands with little white boys and white girls as sisters and brothers.

18 Io ho un sogno – che un giorno in Alabama,  con i suoi razzisti viziosi, con suo governatore che ha la bocca piena di parole di interposizione ed annientamento – un bel giorno proprio in Alabama i giovani ragazzi e ragazze nere possano unire le loro mani con quelle dei giovani ragazzi e ragazze bianchi come fratelli e sorelle.

19 I have a dream today.

19  Io ho un sogno oggi.

20 I have a dream – that one day every valley shall be exalted, and every hill and mountain shall be made low, the rough places will be made plain, and the crooked places will be made straight, and the glory of the Lord shall be revealed and all flesh shall see it together.

20 Io ho un sogno – che un giorno ogni valle sarà elevata, ogni collina ed ogni montagna ridotta, i luoghi scuri illuminati ed i luoghi tortuosi raddrizzati, e la gloria del Signore sarà rivelata e tutti gli essere viventi la vedranno insieme.

21 This is our hope. This is the faith that I go back to the South with. With this faith we will be able to hew out of the mountain of despair a stone of hope. With this faith we will be able to transform the jangling discords of our nation into a beautiful symphony of brotherhood. With this faith we will be able to work together, to pray together, to struggle together, to go to jail together, to stand up for freedom together, knowing that we will be free one day.

21 Questa è la nostra speranza. Questa è la fede con la quale io torno al Sud. Con questa fede saremo in grado di strappare dalla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza. Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi.

22 This will be the day, this will be the day when all of God’s children will be able to sing with new meaning “My country ‘tis of thee, sweet land of liberty, of thee I sing. Land where my father’s died, land of the Pilgrim’s pride, from every mountainside, let freedom ring!”

22 Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio sapranno cantare con un significato nuovo: “Di te Paese mio, dolce terra di libertà, di te io canto; terra dove morirono i miei padri, terra orgoglio del pellegrino, da ogni lato della montagna, risuoni la libertà!”

23 And if America is to be a great nation, this must become true. And so let freedom ring from the prodigious hilltops of New Hampshire. Let freedom ring from the mighty mountains of New York. Let freedom ring from the heightening Alleghenies of Pennsylvania.

23 E se l’America vuole essere una grande nazione, questo deve accadere. Risuoni quindi la libertà dalle prodigiose montagne dello stato del New Hampshire. Risuoni la libertà dalle possenti montagne di New York. Risuoni la libertà dagli alti Allegani della Pennsylvania.

24 Let freedom ring from the snow-capped Rockies of Colorado. Let freedom ring from the curvaceous slopes of California.

24 Risuoni la libertà dalle Montagne Rocciose del Colorado imbiancate di neve. Risuoni la libertà dai dolci pendii della California.

25 But not only that; let freedom ring from Stone Mountain of Georgia.

25 Ma non soltanto; risuoni la libertà dalla Stone Mountain della Georgia.

26 Let freedom ring from Lookout Mountain of Tennessee.

26 Risuoni la libertà dalla Lookout Mountain del Tennessee.

27 Let freedom ring from every hill and molehill of Mississippi – from every mountainside.

27 Risuoni la libertà da ogni collina e rilievo del Mississippi. Da ogni pendice risuoni la libertà.

28 Let freedom ring. And when this happens, and when we allow freedom ring – when we let it ring from every village and every hamlet, from every state and every city, we will be able to speed up that day when all of God’s children – black men and white men, Jews and Gentiles, Protestants and Catholics – will be able to join hands and sing in the words of the old Negro spiritual: “Free at last! Free at last! Thank God Almighty, we are free at last!”

28  Risuoni la libertà. E quando questo avviene, e quando permettiamo alla libertà di risuonare – quando la lasciamo risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, potremo accelerare quel giorno in cui tutti i figli di Dio – neri e bianchi, Ebrei e Cristiani, Protestanti e Cattolici – saranno in grado di unire le mani e cantare le parole del vecchio spiritual Negro: “Liberi finalmente! Liberi finalmente! Grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente!”.

Martin Luther King fu assassinato il 4 aprile del 1968. James Earl Ray è il presunto omicida che viene arrestato a Londra due mesi dopo. James Earl Ray Aveva dei precedenti per rapina, alcolismo e spaccio di denaro falso. Inizialmente confessa, poi si dichiara innocente. Viene condannato a novantanove anni di carcere ma riesce ad evadere. Arrestato di nuovo, continua a sostenere la propria innocenza. Nel 1998 è morto di cirrosi epatica in carcere, all’età di 73 anni. La famiglia King si è convinta che non sia stato lui a sparare quel 4 aprile 1968. Nel 1997 la vedova Corette e il figlio Dexter hanno querelato Loyd Jowers, un proprietario di un caffè di Memphis che si era vantato di aver organizzato lui, per centomila dollari, l’omicidio di Martin Luther King. Una successiva inchiesta si è comunque conclusa ribadendo la colpevolezza di Ray.

The main disadvantage of this pill is that it is not suitable for all women; especially those with ovarian cysts. Indeed, Cerazette is unfortunately not a cure for this problem, unlike some other combined hormonal pills. Pills Therefore, it does not aid vaginal flora, does not rebalance the vaginal environment and it does not treat ovarian cysts.

IL MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA

MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA

 

Uno spettro s’aggira per l’Europa: – è lo spettro del comunismo1.

Tutte le potenze della vecchia Europa si alleano per dare santamente una spietata caccia a cotesto spettro: – e ossia il papa e lo czar, Metternich e Guizot, i radicali francesi e i poliziotti tedeschi.

Qual è il partito di opposizione, che i suoi avversarii al potere non abbiano colpito con la nota ingiuriosa di comunistico? e qual è il partito di opposizione, che alla sua volta non abbia ricambiata L’accusa, respingendo la infamante designazione del comunismo, O sugli elementi più avanzati della opposizione stessa, o su gli avversarii apertamente reazionarii?

Da questo fatto si viene a due conclusioni.

Il comunismo è oramai riconosciuto dalle potenze d’Europa quale un’altra potenza.

E tempo oramai che i comunisti espongano senz’altro innanzi a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro intenti, le loro tendenze e che allo spettro del comunismo contrappongano il manifesto del partito.

A tal fine dei comunisti di diversa nazionalità si son riuniti a Londra, e han redatto il manifesto, che qui segue, e che verrà alla luce in inglese, in francese, in tedesco, in italiano2, in fiammingo ed in danese.

1 «Non sono l’idea di repubblica e di democrazia che spaventino; è lo spettro del comunismo che tiene tanti animi dubbiosi e sospesi.» Da un articolo di Cavour apparso su Il Risorgimento del 6 marzo 1848; cfr. Camillo Cavour, Scrittìdi economia (1835-1850), Feltrinelli, Milano, l962, p. 320.

2 A questa traduzione italiana accenna Marx nello Herr Vogt (1860); tuttavia non se ne ha altra notizia.

 

  1. Borghesi e proletarii

La storia di tutta la società, svoltasi fin qui , è storia delle lotte delle classi.

Liberi e schiavi, patrizii e plebei, baroni e servi della gleba, maestri capi delle arti ed artigiani addetti alla compagnia, in una parola, oppressi ed oppressori, stettero continuamente in contrasto tra loro, e sostennero una lotta non mai interrotta, a volte palese a volte dissimulata; una lotta che è sempre finita, o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società, o con la totale rovina delle classi in contesa.

Nei periodi della storia anteriori al nostro, noi incontriamo quasi da per tutto una completa spartizione della società in ordini e ceti, e una minuta e varia gradazione delle posizioni sociali. Nell’antica Roma abbiamo i patrizii, i cavalieri, i plebei, gli schiavi; nel Medio-Evo i signori feudali, i vassalli, i maestri dei corpi, gli artigiani addetti alla compagnia, i servi della gleba, e per di più in ogni classe altre speciali gerarchie.

Questa moderna società borghese, sorta dalla rovina della società feudale, non ha già distrutte le opposizioni di classe. Essa ha soltanto introdotto nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta, sostituendole alle antiche.

Nondimeno quest’epoca nostra, quest’epoca della borghesia, presenta una notevole differenza rispetto alle altre, ed è che in essa le opposizioni di classe si son semplificate. L’intera società si va, e sempre di più in più, come scindendo in due campi nemici, in due classi direttamente opposte: la borghesia e il proletariato.

Dai servi del Medio-Evo procedettero i borghigiani ospitati nelle prime città, e da quelli si svolsero i primi elementi della borghesia vera e propria.

La scoverta dell’America, e la circumnavigazione dell’Africa, offersero alla borghesia, che veniva su, un nuovo terreno. Il mercato indiano e cinese, la colonizzazione dell’America, lo scambio con le colonie, l’aumento dei mezzi di scambio e delle merci, dettero impulso nuovo ed inaspettato al commercio, alla navigazione, all’industria, e insiememente favorirono il rapido sviluppo rivoluzionario in seno alla società feudale, che di già veniva sfasciandosi.

Da quel momento in poi il modo della produzione industriale propria del feudo, o della corporazione, non bastava più ai bisogni, che venian crescendo col crescere dei nuovi mercati. Subentrò la manifattura. Ai maestri delle corporazioni si venne sostituendo il medio ceto industriale: e la division del lavoro tra le diverse corporazioni cedette il posto alla division del lavoro per entro alle singole officine.

Ma i mercati crescevan di continuo; il bisogno si facea sempre maggiore. La manifattura non era sufficiente. Ed ecco che il vapore e le macchine rivoluzionano la produzione industriale. Alla manifattura subentrò la grande industria moderna, il posto del ceto medio industriale fu occupato dai milionarii dell’industria, dai capi di interi eserciti industriali, ossia dai moderni borghesi.

La grande industria ha messo effettivamente in essere quel mercato mondiale, che la scoverta dell’America avea predisposto. Il mercato mondiale ha procurato uno sviluppo oltre ogni misura al commercio, alla navigazione e alle comunicazioni per terra. Cotesto sviluppo reagì alla sua volta su la estensione della industria, e in quella medesima misura nella quale l’industria, il commercio, la navigazione e le ferrovie sono andate estendendosi, la borghesia s’è venuta sviluppando, ha aumentato i suoi capitali, e ha respinto indietro, allontanandole sempre più dai davanti della scena, quelle classi che eran residuo del Medio-Evo.

Noi vediamo, dunque, come la borghesia sia essa stessa il prodotto di un lungo processo di sviluppo, di una lunga serie di rivoluzioni nei modi della produzione e del traffico.

A ciascuna delle fasi di cotesto sviluppo corrispose un relativo progresso nell’ordine politico. Ceto oppresso sotto la signoria dei feudatarii, associazione armata e che si governa da sé nel comune, qui repubblica municipale, là terzo-stato che paga le imposte alla monarchia, e poi ai tempi della manifattura essa borghesia fa da contrappeso alla nobiltà nelle monarchie assolute, o in quelle limitate dalle diete, da per tutto pietra angolare delle grandi monarchie, da ultimo, col fermarsi e costituirsi della grande industria e del mercato mondiale, s’è impadronita in modo esclusivo del potere politico nel moderno stato rappresentativo. L’attuale potere politico dello stato moderno non è se non una giunta amministrativa degli affari comuni di tutta la classe borghese.

La borghesia ha avuto nella storia una parte essenzialmente rivoluzionaria.

Dovunque è giunta al dominio essa ha distrutto tutte quelle condizioni di vita, che eran feudali, patriarcali, idilliache. Essa ha distrutti senza pietà tutti quei legami multicolori, che nel regime feudale avvincevan gli uomini ai loro naturali superiori, e non ha lasciato fra uomo e uomo altri vincoli da quelli in fuori del nudo interesse, e dello spietato pagamento in contanti. Essa ha spento i santi timori dell’estasi religiosa, l’entusiasmo cavalleresco, e la sentimentalità del piccolo borghese dalle limitate abitudini, immergendo il tutto nell’acqua gelida del calcolo egoistico. Ha risolta la dignità personale in un semplice valore di scambio; ed alle molte e varie libertà bene acquisite e consacrate in documenti, essa ha sostituito la sola ed unica libertà del commercio, di dura e spietata coscienza. Al posto, in una parola, dello sfruttamento velato di illusioni religiose e politiche, essa ha messo lo sfruttamento aperto, senza pudori, diretto e brutale.

La borghesia ha spogliato della loro aureola le professioni, che per l’innanzi eran tenute per onorande e degne di rispetto. Essa ha fatto del medico, del giurista, del prete, del poeta, dello scienziato i suoi salariati.

La borghesia ha stracciato nel rapporto familiare il velo di commovente sentimentalismo riducendolo a un mero rapporto di denaro›.

La borghesia ha messo in chiaro come la brutale manifestazione della forza, che i nostri reazionarii ammirano nel Medio-Evo, avesse il suo appropriato complemento nella più dozzinale poltroneria. Essa per la prima ha dimostrato cosa possa l’attività umana. Essa ha creato ben altre maraviglie, che non le piramidi egiziane, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche; essa ha condotto ben altre imprese che non le migrazioni dei barbari o le crociate.

La borghesia non può esistere se non a patto di rivoluzionare di continuo gl’istrumenti della produzione, il che vuol dire i modi e rapporti della produzione, e ossia, in ultima analisi, tutto l’insieme dei rapporti sociali. La immutata conservazione dell’antica maniera del produrre era la prima condizione di esistenza delle antecedenti classi industriali. Cotesto continuato sovvertimento della produzione, cotesto ininterrotto scuotimento delle condizioni sociali, cotesto moto perpetuo, con la insicurezza che assidua l’accompagna, contraddistingue l’epoca borghese da tutte le altre che la precedettero. Tutti gli antichi e irrugginiti rapporti della vita, con tutto il loro seguito di opinioni e credenze ricevute e venerate per tradizione, si dissolvono; e i nuovi rapporti che subentrano passano fra le anticaglie, prima che abbiano avuto tempo di fissarsi e di consolidarsi. Tutto ciò che avea carattere di stabile e di rispondente a gerarchia di ceto, si svapora, tutto ciò che era sacro si profanizza, e gli uomini si trovano da ultimo a dover considerare le loro condizioni di esistenza con occhi liberi da ogni illusione.

Spinta dal bisogno di sempre nuovi sbocchi per le proprie merci, la borghesia corre, per invaderlo, tutto l’orbe terracqueo. Da per tutto le conviene di annidarsi e di stabilirsi, da per tutto le occorre di estendere le linee del commercio.

Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolitica la produzione e la consumazione di tutti i paesi. A gran cordoglio di tutti i reazionarii, essa ha tolto all’industria la base nazionale. Le antiche ed antichissime industrie nazionali furono, o sono, di giorno in giorno distrutte. Vengon soppiantate da industrie nuove, la cui adozione diviene question di vita o di morte per tutte le nazioni civili; da industrie, che non impiegan più le materie prime indigene, ma anzi adoperano quelle venute dalle più remote zone, e i cui prodotti si consumano non solo nel paese stesso, ma in tutte le parti del mondo. Ai bisogni, a soddisfare i quali bastavano un tempo i prodotti nazionali, ne succedono ora dei nuovi, che esigono i prodotti dei più remoti climi e paesi. All’isolamento locale e nazionale, per cui ciascun paese s’accontentava di sé stesso, succede un traffico multiforme e multilaterale, per cui le nazioni entrano in una condizione di interdipendenza. E come è dei prodotti materiali, cosi accade anche dei prodotti intellettuali. l prodotti intellettuali di ogni singola nazione divengono la proprietà comune di tutte. L’esclusivismo nazionale diviene sempre più impossibile, e dalle molte letterature nazionali e locali vien fuori una letteratura mondiale.

Per via del rapido perfezionamento di tutti gli istrumenti della produzione, e per le comunicazioni divenute infinitamente più facili, essa trascina per forza nella corrente della civiltà anche le nazioni più barbare. I bassi prezzi delle sue merci son la pesante artiglieria, con la quale atterra tutte le muraglie cinesi, e con la quale ha fatto capitolare i barbari più induriti nell’odio dello straniero. Costringe tutte le nazioni ad adottare le forme della produzione borghese, se pure non voglian perire, e le forza a ricevere ciò che dicesi civilizzazione, e ossia a farsi borghesi. A dirla in una sola espressione, crea un mondo a immagine e similitudine sua.

La borghesia ha fatto della città la signora assoluta della campagna. Ha creato delle città enormi; a confronto della popolazione rurale ha grandemente accresciuta la popolazione urbana, e così ha sottratta buona parte della popolazione stessa all’idiotismo della vita contadinesca. Come ha assoggettata la campagna alla città, cosi ha reso dipendenti dai popoli civili quelli barbarici o semibarbarici, e i popoli prevalentemente contadineschi ha sottoposto a quelli a predominio borghese, e l’Oriente all’Occidente.

La borghesia via via sempre più sopprime il frazionamento e lo sparpagliamento dei mezzi di produzione, del possesso e della popolazione. Essa ha agglomerata la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione, ha raccolta in poche mani la proprietà. Ne resultò come necessaria conseguenza la centralizzazione politica. Delle provincie indipendenti, ricollegate appena fra loro da vincoli federali, delle provincie con interessi difformi e con leggi, governi e dogane proprie, furono raccolte e ridotte in nazione unica, con governo unico, con legge unitaria, con un solo e collettivo interesse di classe, e con una sola linea doganale.

Nel suo dominio di classe, che dura appena da un secolo, la borghesia ha messo in essere delle forze produttive, il cui numero e la cui portata colossale supera quanto avesser mai fatto le passate generazioni tutte insieme. Aggiogamento delle forze naturali, le macchine, l’applicazione della chimica alla industria e all’agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, il telegrafo elettrico, la messa a cultura d’interi continenti, i fiumi resi navigabili, delle popolazioni intere

sorte quasi miracolosamente dal suolo: – ma quale dei secoli antecedenti avrebbe mai presentito che tali forze produttive giacessero latenti in seno al lavoro sociale?

Ecco quel che abbiam visto: i mezzi di produzione e di scambio valsi di fondamento allo sviluppo della borghesia, furon prodotti per entro alla società feudale. A un certo punto dello sviluppo dei mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava, ossia l’organizzazione feudale dell’agricoltura e della manifattura, o, in una parola, i rapporti feudali della proprietà, non corrispondevano più alle forze produttive venute a pieno sviluppo. Quelle condizioni, in luogo di favorire, impedivano la produzione. Divennero come delle catene. Bisognava spezzarle, e furono spezzate.

Subentrò la libera concorrenza, con la congrua costituzione sociale e politica, e con la signoria economica e politica della borghesia.

Sotto i nostri occhi si va compiendo un processo analogo. Le condizioni borghesi della produzione e dello scambio, i rapporti della proprietà borghese, o, in una sola espressione, la moderna società borghese, che ha evocato come per incanto cosi colossali mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che si trovi impotente a dominare le potenze sotterranee che lui stesso abbia evocate (questo appare come un chiaro riferimento alla ballata L’apprendista stregone di Wolfgang Goethe).

Già da qualche decennio la storia della industria e del commercio è ridotta ad essere la storia della ribellione delle forze moderne della produzione contro i rapporti moderni della produzione, e ossia contro i rapporti moderni di proprietà, che son le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basta di ricordare le crisi commerciali, le quali, col fatto del ripetersi periodicamente, sempre più minacciosamente mettono in forse l’esistenza di tutta la società borghese.

Ogni crisi distrugge regolarmente, non solo una gran fatta di prodotti, ma molte di quelle forze produttive, che erano state di già create.

Una epidemia, che in ogni altra epoca storica sarebbe parsa un controsenso, una epidemia nuova si rivela nelle crisi, ed è quella della soprapproduzione. La società ricade inaspettatamente in uno stato transitorio di vera barbarie. Si direbbe che la carestia, o una guerra generale di sterminio, l’abbia privata dei mezzi d’esistenza: il commercio e l’industria paiono annientati, e perché? Perché la società ha troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive di cui essa dispone, non giovan più a favorire lo sviluppo dei rapporti della proprietà borghese; anzi son troppo potenti per tali rapporti, che divengono per ciò degl’impedimenti; e tutte le volte che esse forze superano l’impedimento mettono in disordine l’intera società, e minacciano l’esistenza della proprietà borghese. Le condizioni del mondo borghese son diventate oramai troppo anguste per contenere la ricchezza, che esse stesse producono.

Per quali vie riesce la borghesia a vincere le crisi? Per un verso col farsi imporre dalle circostanze la distruzione di una grande quantità di forze produttive; e per un altro verso con la conquista di nuovi mercati, e col più intenso sfruttamento dei già esistenti. Per che via, dunque? Per quella di preparare nuove, più estese e più formidabili crisi, e di diminuire i mezzi per ovviare alle crisi future.

Quelle stesse armi, per mezzo delle quali la borghesia riuscì ad abbattere il feudalismo, si rivolgono ora contro di essa.

Ma la borghesia non ha soltanto ammannito le armi, che devono recarle la morte; perché essa ha anche prodotto gli uomini, che quelle armi han da portare, e sono gli operai moderni, i proletaríi.

Commisuratamente allo svolgersi della borghesia, ossia del capitale, di pari passo si svolge il proletariato, ossia la classe degli operai moderni, i quali intanto vivono in quanto trovan lavoro, e intanto trovan lavoro in quanto il lavoro loro accresce il capitale. Questi operai, che son costretti a vendersi giorno per giorno, non sono se non una merce come tutte le altre, e perciò una merce soggetta a tutte le vicende della concorrenza, e a tutte le fluttuazioni del mercato.

Con l’estendersi dell’uso delle macchine, e per effetto della division del lavoro, l’attività dell’operaio ha perduto ogni carattere d’indipendenza, e per ciò stesso ogni attrattiva. L’operaio diventa un semplice accessorio della macchina, né gli si chiede altro, dalla più semplice e dalla più monotona operazione in fuori, la quale del resto si apprende in assai breve tempo. Il costo dell’operaio si limita in conseguenza ai semplici mezzi di sussistenza, che gli occorrono per vivere, e per propagare la sua razza. Ora si sa che il prezzo d’ogni merce, compreso il lavoro, è eguale al costo di produzione; e per ciò a misura che il lavoro si fa più repugnante, il salario discende. E non basta; ché, anzi, a misura che l’uso delle macchine e la division del lavoro vanno crescendo, cresce la quantità del lavoro, sia per il prolungarsi delle ore di lavoro, sia per l’aumento del lavoro richiesto in una data unità di tempo, o sia per l’acceleramento delle macchine.

L’industria moderna ha trasformato la piccola officina del patriarcale maestro d’arte nella grande fabbrica del capitalista industriale. Delle masse di operai addensate nelle fabbriche ricevono una organizzazione militare. Come soldati semplici della industria vengono sottoposti ad una completa gerarchia di ufficiali e di sottufficiali. Non sono soltanto gli schiavi della classe borghese e dello stato borghese, perché son tutti i giorni e tutte l’ore gli schiavi della macchina, e del vigilatore, e soprattutto del singolo padrone della fabbrica. Cotesto dispotismo è tanto più misero, odioso, esasperante, in quanto che professa di non avere per obiettivo se non il semplice profitto.

Per quanto meno di abilità e di forza vien richiesto al lavoro, e ossia per quanto l’industria moderna sempre più si svolge, tanto più riesce cosa facile di sostituire al lavoro maschile quello delle donne.

Le differenze di sesso e di età non hanno oramai importanza sociale per la classe operaia. Non c’è che istrumenti di lavoro, varii di prezzo secondo il sesso e l’età.

Non appena l’operaio abbia finito di subire lo sfruttamento del fabbricante, ed abbia toccato il salario in contanti, eccolo a diventar subito preda degli altri membri della borghesia, il padron di casa, il bottegaio, il prestatore a pegno.

Quelle che furono fino ad orale piccole classi medie dei piccoli industriali, negozianti e rentiers (benestanti, coloro che vivono di una piccola rendita), degli artigiani e dei contadini proprietarii, finiscono per discendere al livello del proletariato; parte perché il piccolo capitale di cui dispongono non è sufficiente all’esercizio della grande industria, e quindi nella concorrenza coi grandi capitalisti soccombe; e parte perché le loro attitudini e abitudini tecniche perdon di valore al confronto coi nuovi metodi di produzione.

Ed ecco come il proletario si va reclutando da tutte le classi della popolazione.

Il proletariato percorre diverse fasi di evoluzione. La sua lotta contro la borghesia comincia dalla sua nascita.

Dapprima lottano un per uno i singoli operai, poscia gli operai di una sola fabbrica, e in seguito tutti gli operai di una data arte, in un dato luogo, e contro quel singolo borghese che direttamente li sfrutta. Non si limitano a rivolgere i loro attacchi contro il modo della produzione borghese, mali dirigono contro gli stessi istrumenti della produzione: distruggono le merci straniere, che fan loro concorrenza, infrangono le macchine, incendiano le fabbriche (tali fenomeni fecero la loro prima violenta apparizione nel 1811 a Nottingham, estendendosi ben presto ai distretti vicini; promossi da un certo Ned Lud, agitatore operaio, da cui ricavarono la denominazione di Movimento dei Luddisti, essi proseguirono fino al 1816, quando vennero definitivamente repressi. Rientrano in quel clima di tensione e di miseria che gravò sull’Inghilterra per la guerra e il blocco napoleonico prima e per i dazi in seguito), e si sforzano di riacquistare la perduta posizione dell’artigiano medioevale.

In cotesto primo grado dello sviluppo gli operai formano come una massa incoerente dispersa per tutto il paese, e che le ragioni della concorrenza tengono sparpagliata. Se qualche volta gli operai si raccolgono in massa compatta, ciò non è dovuto alla lor propria e spontanea azione, ma all’azione della borghesia raccolta in fascio, la quale per raggiungere i suoi proprii fini politici deve mettere in moto l’intero proletariato, e si trova ancora in grado di riuscirvi. In cotesta prima fase i proletarii non combattono i loro nemici, mai nemici dei loro nemici, e cioè gli avanzi della monarchia assoluta, i proprietarii fondiarii, i borghesi non industriali, i piccoli borghesi. Tutta l’azione storica è nelle mani della borghesia, ed ogni vittoria è vittoria sua.

Ma sviluppandosi l’industria, il proletariato non solo cresce di numero, ma si addensa in grandi masse, ond’è che la forza gli va crescendo, e con la forza la coscienza di essa. Gli interessi e i modi di vivere dei proletarii si vanno di giorno in giorno riavvicinando ad un tipo comune, perché la macchina cancella sempre di più le differenze del lavoro, e fa discendere quasi da per tutto il salario allo stesso livello. Per la concorrenza che cresce fra i borghesi, e per le crisi del commercio che da ciò resultano, il salario degli operai diventa, sempre più incerto; l’incessante miglioramento delle macchine, che diviene sempre più rapido, rende sempre più precaria tutta la condizione di vita dell’operaio; i conflitti fra operai e borghesi singoli vanno sempre più assumendo i caratteri di collisioni fra due classi. Ed è cosi che gli operai cominciano a fare delle coalizioni contro i borghesi, riunendosi per difendere i loro salarii. Fondando perfino delle associazioni permanenti (la prima di esse fu naturalmente clandestina, suo animatore fu Thomas Hardy [1752-1832]), per trovarsi provveduti dei mezzi di esistenza durante le lotte eventuali. Qualche volta la lotta diventa sommossa.

Di tanto in tanto gli operai vincono: ma è vittoria passeggiera. Il vero e proprio resultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma è la sempre crescente solidarietà dei lavoratori. Cotesta solidarietà è agevolata dai mezzi di comunicazione, che la grande industria ha bisogno di far crescere, e che pur riavvicinano gli operai di località diverse. Basta cotesta congiunzione, perché le molte e varie lotte locali di carattere omogeneo si raccolgano e concentrino in una sola lotta nazionale e di classe. Ma ogni lotta di classe è ima lotta politica: – e la unione per la quale occorrevano al borghese del Medio-Evo, con le sue strade vicinali, dei secoli di lavoro, viene ora in pochi anni a maturità, dato l’uso delle vie ferrate.

La organizzazione del proletariato in classe, e quindi in partito politico, è di continuo spezzata dalla concorrenza degli operai in fra loro stessi. Ma insorge sempre e di nuovo, più poderosa e più compatta. Essa forza al riconoscimento di certi interessi degli operai per via della legge (riferito ad una legge che venne votata dal parlamento nel 1847), perché s’avvantaggia delle discordie intestine delle diverse frazioni della borghesia. Cosi è stato ‘per la legge delle dieci ore di lavoro in Inghilterra°.

I conflitti in seno alla vecchia società favoriscono in genere in molti modi lo sviluppo progressivo del proletariato. La borghesia è di continuo in lotta, innanzi tutto e da principio con L’aristocrazia, poi più tardi con quelle parti della borghesia stessa, gl’interessi delle quali si trovano in conflitto col progresso dell’industria; e poi sempre e di continuo con la borghesia dei paesi stranieri. In tutte coteste lotte si trova nella necessità di appellarsi al proletariato, e di giovarsi del suo concorso, trascinandolo entro al moto politico. È essa stessa, dunque, che offre al proletariato gli elementi della sua propria cultura, il che vuol dire poi che gli offre le armi contro di sé stessa.

Accade inoltre, come abbiamo già detto, che, per effetto dei progressi dell’industria, intere frazioni della classe dominante, o precipitano nella condizione del proletariato, o sono per lo meno minacciate nella loro esistenza. Queste frazioni stesse recano al proletariato dei molteplici elementi di coltura.

Infine, quando la lotta di classe sta per venire al momento decisivo, il disgregamento della classe dominante per entro alla vecchia società assume un carattere così violento ed aspro, che una piccola parte della classe dominante stessa, abbandonando i suoi si allea alla classe rivoluzionaria, ossia a quella classe che ha nelle mani l’avvenire. E come già un tempo una parte della nobiltà passò dal lato della borghesia, cosi ora una parte della borghesia si unisce al proletariato, e segnatamente una parte degli ideologi borghesi, che son giunti ad intendere teoreticamente il tutto del movimento storico.

Di tutte le classi che presentemente stan di contro alla borghesia, il proletariato solo costituisce una classe rivoluzionaria. Le altre classi si corrompono e periscono sotto Fazione della grande industria, mentre il proletariato è e rimane il più genuino prodotto di essa.

I ceti medii, e ossia il piccolo industriale, il piccolo negoziante, l’artigianato, il contadino piccolo possidente, tutti costoro combattono la borghesia sì, ma per salvare dalla rovina l’esistenza loro di ceti medii appunto. E sono per di più reazionarii, e si provano a far girare indietro la ruota della storia. E se sono rivoluzionarii diventan tali in vista della loro prossima caduta nella massa del proletariato; e cioè non difendono i loro interessi presenti, ma difendono i loro interessi futuri, e cioè dire che abbandonano il loro attuale punto di vista per mettersi in quello del proletariato.

Quanto all’insieme degli straccioni e della canaglia (questa parola in tedesco è Lumpenproleturiat, oggi comunemente tradotta con «sottoproletariato»), che è ciò che rappresenta la putrefazione passiva degli strati infimi della società esistente, può darsi che qua e là, e cioè in parte, possa essere trascinato, dentro al movimento di una rivoluzione proletaria, ma il suo abituale genere di vita lo rende più disposto a farsi comprare, e a farsi mettere in servizio delle mene reazionarie.

Le condizioni di esistenza della vecchia società son come distrutte nelle condizioni di esistenza del proletariato. Il proletariato è senza proprietà; i suoi rapporti con la moglie e coi figliuoli non hanno più nulla di comune coi rapporti borghesi della famiglia; il moderno lavoro industriale, la moderna soggezione al capitale, che è la stessa in Francia come in Inghilterra, in Austria come in Germania, lo ha spogliato d’ogni carattere nazionale. Le leggi, la morale, la religione diventan per esso tanti pregiudizi borghesi, dietro ai quali si nascondono altrettanti interessi borghesi.

Tutte le classi, che fino ad ora s’impossessarono del potere, cercaron sempre di consolidare la posizione raggiunta, con l’assoggettare la società tutta intera alle condizioni del loro particolare modo di acquisizione. I proletarii, invece, solo per una via possono impossessarsi delle forze produttive sociali, ed è quella di abolire il modo col quale essi conseguiscono un provento, il che importa che si abolisca tutto l’attuale sistema di appropriazione. I proletarii non han nulla di proprio da assicurare, essi han solo da abolire ogni sicurtà privata, ed ogni privata guarentigia.

Tutti i movimenti avvenuti fin qui furon di minoranze, o nell’interesse delle minoranze. Il movimento proletario è il movimento spontaneo della gran maggioranza, nell’interesse della gran maggioranza.

Il proletariato, infimo strato della società attuale, non può sollevarsi, non può levarsi ritto, senza che tutti i sovrapposti strati della società ufficiale vadano in frantumi.

Non quanto all’intimo fondo, ma di certo quanto alla forma, la lotta del proletariato con la borghesia riveste alle prime un carattere nazionale. Gli è naturale che in prima il proletariato di ciascun paese la faccia finita con la sua propria borghesia.

Toccando a grandi tratti delle fasi generali dello sviluppo del proletariato, noi abbiam seguita la storia della più o meno occulta guerra civile che travaglia la società attuale, fino al momento che la lotta stessa si trasmuti in aperta rivoluzione, e che il proletariato stabilisca il suo dominio con la violenta rovina della borghesia.

La società, come abbiamo già visto, ha poggiato fino ad ora su la opposizione delle classi degli oppressi e degli oppressori. Ma, per potere opprimere una classe, bisogna pure assicurarle delle condizioni entro alle quali le sia dato di vivere almeno la misera vita degli schiavi. Il servo della gleba giungeva, in piena feudalità, a farsi faticosamente membro del comune, come il piccolo borghese protetto raggiungeva il grado di pieno borghese sotto il dominio dell’assolutismo feudale. L’operaio moderno, invece, anzi che salir di grado coi progressi dell’industria, discende sempre più in basso, e perfino al di sotto delle condizioni della sua propria classe. L’operaio diventa il povero, e il pauperismo si sviluppa più rapidamente che non la popolazione o la ricchezza. Gli è dunque da tutto ciò manifesto, che la borghesia è incapace di rimanere più a lungo nella posizione di classe dominante nella società, e d’imporre alla società come suprema legge le sue condizioni di esistenza, in quanto essa è classe. Essa è incapace di regnare, perché essa non è atta ad assicurare ai suoi schiavi la elementare esistenza nemmeno nei limiti della stessa schiavitù, e perché essa è costretta a farli discendere a tal condizione, da doverli poi nutrire, anzi che esserne nutrita. La società non può più vivere sotto al suo dominio; il che viene a dire, che la sua esistenza è incompatibile con quella della società.

È condizione essenziale alla esistenza e al dominio della classe borghese questa, che la ricchezza, cioè, si accumuli nelle mani dei privati, e che il capitale si formi e si aumenti: – ora è condizione del capitale il lavoro a salario. Questo riposa esclusivamente su la concorrenza in fra gli operai. Il progresso dell’industria, del quale la borghesia è come l’agente passivo, va intanto sostituendo all’isolamento degli operai, risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria per via dell’associazione. Lo sviluppo della grande industria va togliendo di sotto ai piedi della borghesia il terreno, sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa innanzi tutto produce i suoi proprii becchini. La rovina della borghesia e la vittoria del proletariato son del pari inevitabili.

  1. Proletarii e comunisti

Cosa sono i comunisti per rispetto ai proletarii in generale?

I comunisti non costituiscono un partito a sé, di fronte agli altri partiti operai.

Essi non hanno interessi proprii, che sian distinti da quelli del proletariato, nel suo insieme.

Non statuiscono dei principii a parte, sui quali vogliano poi modellare il movimento proletario.

I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletarii solo in questo, e cioè: che essi, in prima, date le differenti lotte nazionali dei proletarii, mettono in rilievo e fanno valere quei comuni interessi del proletariato tutto intero, che sono appunto indipendenti dalla nazionalità; e che essi, d’altra parte, nelle diverse fasi di sviluppo che la lotta fra il proletariato e la borghesia va percorrendo, rappresentano costantemente l’interesse del movimento complessivo.

I comunisti son dunque, in pratica, quella frazione di tutti i partiti operai di tutti i paesi, che è la più decisa, e che più spinge ad avanzare: ed essi poi s’avvantaggiano teoreticamente su la rimanente massa del proletariato per via dell’intendimento netto che hanno, così delle condizioni e dell’andamento, come dei resultati generali del movimento proletario.

L’intento prossimo dei comunisti è quel medesimo, che è proprio a tutti gli altri partiti proletarii: formazione del proletariato in classe, rovina della signoria borghese, conquista del potere politico da parte del proletariato.

Gli enunciati teoretici dei comunisti non poggiano punto sopra idee o principii, che questo, o quello frai rinnovatori del mondo abbia escogitati o scoverti.

Quegli enunciati son soltanto la espressione generalizzata delle condizioni di fatto di una lotta di classi che realmente esiste, e ossia di un movimento storico, che si svolge sotto ai nostri occhi. L’abolizione dei rapporti di proprietà fino ad ora esistiti non è la nota veramente caratteristica del comunismo.

Tutti i rapporti di proprietà andaron sempre soggetti a storiche vicende, e ad una continua trasformazione.

La rivoluzione francese, ad esempio, abolì la proprietà feudale in favore della proprietà borghese.

Ciò che caratterizza il comunismo non è l’abolizione della proprietà in genere, ma è l’abolizione della proprietà borghese.

Ma la moderna proprietà privata borghese è l’ultima e la più perfetta espressione di quella forma di produzione e di appropriazione, che poggia su gli antagonismi di classe, e su lo sfruttamento degli uni per opera degli altri.

E in questo senso i comunisti possono compendiare la loro dottrina in questa unica espressione: abolizione della proprietà privata.

È stato mosso rimprovero a noi comunisti, di voler noi abolire la proprietà personalmente acquisita per via di penoso lavoro: quella proprietà che dicesi costituisca il fondamento di ogni libertà, di ogni attività, e della indipendenza dell’individuo.

Proprietà acquistata col penoso lavoro, e individualmente meritata! Parlate voi forse della proprietà del piccolo borghese, o del piccolo possidente contadino, che fu anteriore alla proprietà borghese?

Noi quella non abbiamo bisogno di abolirla; ché lo sviluppo dell’industria l’ha già tolta di mezzo, o è su la via di distruggerla.

O parlate voi, invece, della moderna proprietà privata borghese?

O che il lavoro a salario, il lavoro del proletario, crea esso forse della proprietà per il proletario stesso? In nessun modo. Quel lavoro a salario non genera che capitale, ossia genera la proprietà che sfrutta il lavoro a salario, e che può accrescersi se non a patto di generare nuovo lavoro a salario, da sfruttare di bel nuovo. La proprietà, quanto alla sua forma presente, si muove entro la opposizione fra capitale e lavoro a salario. Esaminiamo i due termini di tale antinomia.

Esser capitalista non vuol dire soltanto che si occupi una semplice posizione privata, ma che anzi si tiene una posizione sociale nel sistema della produzione. Il capitale è un prodotto collettivo, e non può esser messo in movimento se non per l’attività concorrente di molti membri della società, e poi, in ultima istanza, solo per mezzo dell’attività combinata di tutti i membri della società stessa.

Il capitale non è una potenza personale: esso è una potenza sociale.

Se il capitale, dunque, vien trasformato in proprietà comune, che appartenga a tutti i membri della società, non avviene già perciò che una proprietà personale venga a trasformarsi in una proprietà sociale. Gli è solo il carattere sociale della proprietà che si cambia. Essa perde il carattere di proprietà di classe.

Veniamo al lavoro a salario.

Il prezzo medio del lavoro salariato è il minimo del salario, ossia la somma dei mezzi di esistenza occorrenti per mantenere in vita l’operaio in quanto è operaio. Ciò, dunque, che l’operaio salariato, mediante l’attività sua, fa suo, basta solo a mantenere e a riprodurre la sua magra esistenza. Cotesta appropriazione personale dei prodotti del lavoro, che è indispensabile alla conservazione e riproduzione della vita, noi non vogliamo punto abolirla; essa non reca alcun profitto netto, che dia potere sul lavoro altrui. Noi vogliamo soltanto abolire il tristo e misero modo di cotesta appropriazione, per cui l’operaio vive solo per aumentare il capitale, e quel tanto vive che è richiesto dall’interesse della classe dominante.

Nella società borghese il lavoro vivo è soltanto un mezzo per aumentare il lavoro accumulato. Nella società comunista il lavoro accumulato è soltanto un mezzo per rendere più largo, più ricco, più progredito il modo di esistenza dei lavoratori.

Nella società borghese il passato domina in sul presente, nella società comunistica il presente sarà signore del passato. Nella società borghese il capitale è personale ed indipendente mentre l’individuo operante è privo d’indipendenza e di personalità.

Ora l’abolizione di tale stato di cose vien detta dalla borghesia abolizione della personalità e della libertà. Ed a ragione. Prima si tratta per fermo di abolire la personalità, la indipendenza e la libertà del borghese.

Sotto il nome di libertà ora, per entro agli attuali rapporti borghesi della produzione, s’intende il libero commercio, e il libero comprare e vendere.

Caduto il mercantare, cade anche la libertà del mercantare. Le frasi risonanti del libero trafficare e mercanteggiare, come tutte le altre vanterie liberalesche della nostra borghesia, hanno in genere un qualche senso solo per rispetto e in contrapposto all’intralciato traffico ed alla vincolata cittadinanza del Medio-Evo, ma non ne hanno alcuno rispetto all’abolizione comunistica del commercio, delle forme borghesi della produzione, e della borghesia stessa.

Voi raccapricciate all’idea che noi vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nella società vostra attuale la proprietà fu già abolita per nove decimi dei membri suoi: e la proprietà esiste solo in quanto non esiste per quei nove su dieci. Voi dunque ci rimproverate che noi vogliamo abolire una forma di proprietà, la quale suppone come sua indispensabile condizione il tener privi di ogni proprietà il gran numero dei membri della società.

Voi ci rimproverate, insomma, di volere abolire la proprietà vostra. Senza dubbio, e per fermo, ciò noi vogliamo.

Dal momento che il lavoro non si presti più a lasciarsi trasformare in capitale, in danaro, in rendita della terra, ossia, a farla breve, non si presti più a farsi trasformare in una forza sociale monopolizzabile: il che vuol dire dal momento che la proprietà personale non può esser più trasformata in proprietà borghese, da quel momento voi dichiarate che la persona rimane soppressa.

Voi, dunque, confessate, che sotto al nome di persona non sia da intendere se non il borghese, ossia il proprietario borghese. E questa persona deve essere, non c’è dubbio, soppressa.

ll comunismo non toglie ad alcuno la facoltà di appropriarsi i prodotti sociali, ma toglie solo la facoltà di giovarsi di tale appropriazione per recare in soggezione il lavoro altrui.

Fu mossa questa obiezione, che, abolita che fosse la proprietà privata, cesserebbe ogni impulso di attività, e una generale inerzia invaderebbe il mondo.

Se tal ragionamento reggesse, da un pezzo già la società borghese avrebbe dovuto andare in rovina per effetto della indolenza; poiché quelli che in essa lavorano non raccolgono profitto, e quelli che in essa profittano non lavorano. Tutta la grave obiezione si riduce a questa tautologia: non c’è più lavoro a salario là dove non sia più il capitale.

Tutte coteste obiezioni, come furon mosse alla forma comunistica del produrre e dell’appropriarsi i prodotti materiali, così furono anche rivolte contro la produzione ed appropriazione dei prodotti intellettuali. Quello stesso borghese il quale ritiene, che, cessando la proprietà di classe, cessi la produzione, afferma del pari che cessando la coltura di classe la coltura tutta perirebbe.

La coltura, la cui perdita si rimpiange, non è per la maggior parte degli uomini se non l’avviamento a diventare delle macchine belle e buone.

Ma astenetevi dal discutere con noi, giacché voi applicate all’abolizione della proprietà borghese i vostri criterii borghesi della libertà, della coltura, del diritto e cosi via. Le vostre idee sono anch’esse un prodotto dei rapporti borghesi della proprietà e della produzione, come il vostro diritto non è se non il volere della vostra classe elevato a legge, un volere il cui contenuto è già dato dalle condizioni materiali d’esistenza della vostra stessa classe.

Cotesta interessata concezione, che vi fa elevare al grado di leggi eterne della natura e della ragione quei vostri rapporti della proprietà e della produzione, che son nati in verità storicamente nel corso della produzione stessa, voi l’avete di comune con tutte le classi dominanti che già perirono. Ciò che voi intendete ed ammettete per la proprietà antica, ciò che voi riconoscete per la proprietà feudale, voi non siete più in grado d’intenderlo e di riconoscerlo quando si tratti della proprietà borghese!

Ma volere abolire la famiglia! Perfino i più avanzati fra i radicali s’indignano per tale obbrobrioso proposito dei comunisti, Su che cosa riposa l’attuale famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno personale. Non esiste nel suo pieno sviluppo se non per la sola borghesia; ma essa trova il suo complemento nella forzata mancanza della vita di famiglia presso i proletarii, e nella prostituzione pubblica.

La famiglia del borghese cadrà naturalmente col venir meno di tale complemento: e famiglia borghese e suo complemento spariranno con lo sparire del capitale.

Voi ci rimproverate di voler noi abolire lo sfruttamento dei fanciulli da parte dei genitori? Noi questo delitto lo confessiamo volentieri.

Ma voi dite che noi infrangiamo i più sacri legami, perché alla educazione domestica noi sostituiamo quella sociale.

Ma la vostra educazione non è anch’essa determinata dalla società; e cioè dalle condizioni sociali, in mezzo alle quali voi educate, e dall’intervento più o meno diretto od indiretto della società stessa, per mezzo della scuola? Non sono i comunisti che inventino l’azione della società su l’educazione: – essi ne mutano soltanto il carattere, e sottraggono l’educazione all’influsso della classe dominante.

Le educazioni borghesi su la famiglia, su la educazione, e sui dolci legami che uniscono i figliuoli ai genitori, divengono sempre più nauseanti quanto più, per effetto della grande industria, i legami di famiglia si van perdendo del tutto trai proletarii, e i fanciulli si trasformano in articoli di commercio e in istrumenti di lavoro.

Ma voi comunisti, così grida in coro la borghesia tutta intera, voi volete introdurre la comunanza delle donne.

Il borghese non vede nella moglie se non un semplice istrumento di produzione. Ora nel sentire che gli istrumenti di produzione saranno sfruttati in comune, esso non può fare a meno di pensare, che la stessa sorte dell’uso in comune debba toccare anche alle donne. E non capisce punto, che si tratta precisamente di togliere alla donna il carattere di un istrumento di produzione.

Del resto non si dà nulla di tanto grottesco, quanto l’orrore da moralisti raffinati, col quale i nostri borghesi riguardano la pretesa comunanza delle donne, che avrebbe presso i comunisti carattere ufficiale. I comunisti non han per davvero bisogno d’introdurre la comunione delle donne, perché questa c’è stata quasi sempre.

I nostri borghesi, non paghi di avere a loro disposizione le mogli e le figlie dei loro proletarii, usano – per passar sopra qui alla prostituzione ufficiale – di tenere per loro principalissimo spasso quello della mutua seduzione delle consorti loro.

Il matrimonio borghese è in verità la comunanza delle donne. Tutto al più si potrebbe muovere questo rimprovero ai comunisti, che, essi, cioè, vogliono sostituire ad una comunione delle donne dissimulata con ipocrisia, un’altra che sarebbe ufficiale e sincera. Ma si capisce poi del resto, che aboliti che fossero i presenti rapporti della produzione, sparirebbe del pari la presente comunanza delle donne, che da quei rapporti deriva, e ossia la prostituzione ufficiale e la non ufficiale.

I comunisti vengono inoltre accusati di voler distruggere la patria, – la nazionalità.

Gli operai non hanno patria. Non si può toglier loro ciò che non hanno. Ma come il proletariato d’ogni paese deve innanzi tutto conquistare il potere politico, deve elevarsi a classe nazionale e deve costituirsi in nazione, così esso è e rimane ancora nazionale, sebbene sia tale in un senso affatto diverso da quello della borghesia.

Le delimitazioni e gli antagonismi dei popoli vanno via via sparendo, per lo stesso sviluppo della borghesia, per la libertà del commercio, per l’azione del mercato mondiale, per la uniformità della produzione industriale e per le condizioni di esistenza che da essa derivano.

Quelle differenze e quegli antagonismi spariranno ancor di più per effetto della supremazia del proletariato. L’azione combinata, per lo meno dei proletarii dei paesi civilizzati, è una delle condizioni prime della liberazione del proletariato.

A misura che verrà abolito lo sfruttamento dell’individuo, verrà anche meno lo sfruttamento di una nazione per mezzo di un’altra.

Caduto che sia il contrasto delle classi nell’interno delle nazioni, finirà anche l’antagonismo fra le nazioni stesse.

Le accuse contro il comunismo, che muovono da considerazioni religiose, filosofiche, o altrimenti ideologiche, non meritano si faccia intorno ad esse un accurato esame.

Occorre forse una grande profondità di mente per intendere, che mutandosi le condizioni di vita degli uomini, ei loro rapporti sociali e il modo d’essere della società, si mutano anche le vedute, le nozioni e le concezioni, il che vuol dire che si muta la coscienza degli uomini?

Che cos’altro mai dimostra la storia delle idee, se non che la produzione intellettuale s’è andata cambiando col rivoluzionarsi della produzione materiale? Le idee dominanti da un dato tempo non sono se non le idee della classe dominante.

Si sente a parlare d’idee che mettono in rivoluzione una intera società. Ebbene con ciò si viene semplicemente a dire, che in seno alla società preesistente si son già sviluppati gli elementi di una società nuova, e che la dissoluzione degli antichi rapporti di vita va di pari passo con la dissoluzione delle antiche idee.

Quando il mondo antico stava per declinare, le antiche religioni furon tutte vinte dalla religione cristiana. Nel secolo XVIII le idee cristiane soggiacquero alla corrente dei lumi, nel momento appunto che la società feudale sosteneva l’estrema lotta con la borghesia, allora rivoluzionaria. Le idee di libertà di coscienza e di libertà religiosa non valsero se non a proclamare il principio della libera concorrenza nel campo del sapere.

«Ma – si dirà – non c’è dubbio che le idee religiose, morali, filosofiche, politiche e giuridiche si vanno modificando nel corso degli svolgimenti storici. Se non che, però, la religione, la morale, la filosofia, la politica, il diritto si mantennero sempre in vita in tutti questi mutamenti.

Vi ha inoltre delle verità eterne, come la libertà, la giustizia, ecc. che son comuni a tutte le forme sociali. Il comunismo abolisce invece le verità eterne: esso abolisce la religione e la morale, in luogo di rinnovellarle, e con ciò contraddice a tutto lo svolgimento storico verificatosi fin qui.

A che si riduce cotesta accusa? Tutta la storia della società s’è mossa fin qui attraverso ai contrasti delle classi, i quali nelle diverse epoche assunsero forme diverse.

Ma quale che fosse pure la forma assunta da tali contrasti, lo sfruttamento di una parte della società per mezzo di un’altra fu il fatto costante in tutti i secoli passati. Non è per ciò da meravigliare, se in tutti codesti secoli, malgrado le diversità e le variazioni che pur essa mostra, la coscienza sociale si movesse sempre in certe forme comuni, in certe forme che andranno in dissoluzione solo col completo sparire dell’antagonismo delle classi.

La rivoluzione comunistica è la più radicale rottura con tutti i tradizionali rapporti della proprietà: e non è quindi da meravigliare se nel corso del suo sviluppo essa la rompe nel modo più radicale con le idee tradizionali.

Ma lasciamo ora da parte le obiezioni della borghesia contro il comunismo.

Noi abbiamo visto più su, che la prima tappa della rivoluzione operaia consiste nel fatto, che il proletariato si elevi a classe dominante, e ossia consiste nel raggiungere vittoriosamente la democrazia.

Il proletariato profitterà del suo dominio politico, per togliere via via alla borghesia tutto il capitale, per concentrare nelle mani dello stato, e ossia del proletariato organizzato qual classe dominante, tutti gl’istrumenti della produzione, e per aumentare con la massima celerità possibile le forze produttive.

Tutto ciò non può naturalmente accadere se non per via di dispotiche infrazioni al diritto di proprietà, e di violazioni ai rapporti borghesi della produzione, e ossia per mezzo di misure che appariranno quali economicamente insufficienti e insostenibili, ma che nel corso del movimento sorpasseranno sé stesse spingendo a nuove misure, e che per intanto son mezzi indispensabili per raggiungere la sovversione della intera forma di produzione.

Codeste misure saranno, s’intende, da paese a paese diverse.

Ma nei paesi più progrediti, quelle che qui appresso s’indicano potranno essere a un di presso generalmente applicate:

  1. Espropriazione della proprietà fondiaria, e impiego della rendita della terra per le spese dello stato;
  2. Tassa fortemente progressiva;
  3. Abolizione del diritto d’eredità;
  4. Confisca dei beni degli emigranti e dei ribelli;
  5. Centralizzazione del credito in mano allo stato, mediante una banca nazionale con capitale di stato e con monopolio esclusivo;
  6. Centralizzazione dei mezzi di trasporto in mano allo stato;
  7. Aumento delle fabbriche nazionali e degl’istrumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano generale;
  8. Eguale obbligo di lavoro per tutti, organizzazione di eserciti industriali specialmente in vista dell’agricoltura;
  9. Combinazione dell’esercizio del1’agricoltura e dell’industria, e misure atte a preparare la lenta sparizione della differenza fra città e campagna;
  10. Educazione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Abolizione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche, nella sua forma attuale. Combinazione dell’educazione con la produzione materiale.

Quando nel corso degli eventi le differenze di classe saranno sparite, e tutti i mezzi di produzione saran venuti nelle mani degli individui associati, il potere pubblico avrà naturalmente perduto ogni carattere politico. Il potere politico, nel senso vero e proprio della parola, non è se non il potere organizzato di una classe per la oppressione di un’altra. Ora se il proletariato nella lotta contro la borghesia è forzato a raccogliersi in classe, e se fattosi poscia per mezzo della rivoluzione classe dominante distrugge violentemente gli antichi rapporti della produzione, esso per tal modo abolendo cotali rapporti abolisce le condizioni di esistenza dell’antagonismo di classe, e cioè abolisce le classi in generale e il suo proprio dominio di classe.

Alla società borghese, con le sue classi e coi suoi antagonismi di classe, subentrerà una associazione, nella quale il libero sviluppo di ciascuno sarà la condizione del libero sviluppo di tutti.

 

 

  1. La letteratura del comunismo e del socialismo

 

  1. Il Socialismo reazìonarìo
  2. Il Socialismo feudale

Per effetto della lor propria situazione storica, l’aristocrazia inglese e quella francese eran come chiamate a lanciare dei libelli contro la moderna società borghese. Cosi nella rivoluzione francese del Luglio 1830, come nel movimento della riforma elettorale inglese, l’aristocrazia era di nuovo soggiaciuta all’aborrita classe dei nuovi venuti (con la insurrezione parigina del luglio 1830 veniva destituito dal trono Carlo x di Borbone, il cui potere aveva trovato l’appoggio dei grandi proprietari terrieri, e insediato al suo posto Luigi Filippo d’0rléans che difendeva gli interessi dell’alta borghesia finanziaria).

Non era più il caso di pensare ad una seria lotta politica, e rimaneva aperto il solo campo della lotta letteraria. Ma anche nell’ambito letterario la vecchia fraseologia del periodo della restaurazione (si tratta, precisa Engels in una nota all’ed.izione inglese del 1888, della restaurazione francese del 1814-1830, non di quella inglese del 1660-1689) era diventata cosa insostenibile. Per crearsi delle simpatie l’aristocrazia doveva ben darsi l’apparenza di perder di vista i suoi proprii interessi, formulando i suoi atti d’accusa contro la borghesia solo in difesa della sfruttata classe degli operai. Si procurava cosi il piacere d’intuonare dei canti ingiuriosi contro i suoi nuovi padroni, sussurrando loro negli orecchi delle profezie di più che sinistro augurio.

Per cotal via nacque il socialismo feudale, che è per metà geremiade e per metà pasquinata, parte è eco del passato e parte è paurosa minaccia del futuro, e poi al tempo stesso ferisce proprio al cuore la borghesia per via d’una critica mordace ed ingegnosa, ma riman sempre di effetto comico per la sua assoluta incapacità a comprendere l’andamento della storia moderna. ‘

Per raccogliere e trarsi dietro il popolo cotesti signori inalberarono a guisa di bandiera la bisaccia del proletariato mendicante. Ma quelli che si provavano a seguirli li videro per di dietro adorni dei vecchi blasoni feudali, e si dispersero dando in uno scoppio di rumorose e irriverenti risate (l’immagine è tratta dalla satira Germania, di Heinrich Heine – 1797-1856).

Una parte dei legittimisti francesi e la giovane Inghilterra dettero questo allegro spettacolo (l legittimisti erano per lo più aristocratici latifondisti fautori della dinastia dei Borbone. La Giovane Inghilterra venne creata nel 1842 da alcuni membri del partito conservatore (tory), tra cui fanno spicco Disraeli, Thomas Carlyle (1795-1881) e Lord Ashley. Il primo (futuro braccio destro della regina Vittoria), tipico rappresentante della politica imperialistica inglese, aveva pubblicato nel 1845 un romanzo, Sybil o Due Nazioni, in cui rimpiangeva l’antica unione tra popolo e signore feudale di contro all’attuale antagonismo tra le due «nazioni» di ricchi e di poveri. Del Carlyle si ricorda, a questo proposito significativi, Cartismo, del 1841, e Passato e Presente del 1842. Lord Ashley, conosciuto anche come conte di Shaftesbury, era stato il promotore del famoso bill delle dieci ore).

Quando cotesti campioni della feudalità dimostrano che il modo di sfruttare dei feudatarii era diverso da quello dei borghesi, essi dimenticano che quel modo di sfruttare si esercitava in condizioni e circostanze affatto diverse, ed ora del tutto superate. Quando notano, che sotto al loro regime non esisteva il proletariato moderno, dimenticano di osservare che la borghesia è un necessario derivato appunto di quello che fu il loro ordinamento sociale.

Del resto usano così poco di nascondere il carattere reazionario della loro critica, che il loro principale capo d’accusa contro la borghesia è appunto questo, che sotto il suo dominio si va sviluppando una classe, che manderà in aria tutto 1’ordine sociale esistente.

Muovon rimprovero alla borghesia, non d’aver prodotto un proletariato in genere, ma d’aver prodotto un proletariato rivoluzionario.

In pratica piglian parte attiva politica a tutte le misure violente contro la classe operaia, e nella vita di tutti i giorni, ad onta della lor gonfia fraseologia, s’accomodano a raccogliere gli aurei pomi, e a barattare mercantilmente tutta la cavalleria della fede, del1°amore e dell’onore con la lana di pecora, con la barbabietola e con l’acquavite.

Come preti e signori feudali s’accompagnaron sempre in passato, così accade ora del socialismo clericale e di quello feudale.

Non c’è cosa più facile del dare un po’ d’intonaco socialistico all’ascetismo cristiano. Non s’è forse espresso il cristianesimo contro la proprietà privata, contro il matrimonio e contro lo stato? E non ha esso predicato i sostitutivi della carità, del mendicare, del celibato, della mortificazione della carne, della vita monastica e della chiesa?

Il socialismo cristiano non è se non 1’acqua benedetta con la quale il prete consacra il rancore degli aristocratici.

 

  1. Il Socialismo piccolo-borghese

L’aristocrazia feudale non è la sola classe andata in rovina per opera della borghesia; e non è quella le cui condizioni di vita sole vengano a deperire, e spariscano, in seno alla moderna società borghese.

Nei piccoli borghesi del Medio-Evo e nei contadini piccoli possidenti erano come i precursori della borghesia moderna. Nei paesi, nei quali il commercio e l’industria son poco sviluppati, cotesta classe continua a vegetare, a canto alla borghesia che sviluppasi in grandezza.

Nei paesi, nei quali la civiltà moderna è fiorente, si è formata una nuova piccola borghesia, che di continuo oscilla fra il proletariato e la borghesia, e come parte complementare della società borghese si va sempre di nuovo rifacendo. Gl’individui che la compongono vengon di continuo ricacciati dalla concorrenza giù tra le fila del proletariato, e veggono appressarsi il momento nel quale per effetto dello sviluppo della grande industria dovranno del tutto sparire come parte indipendente della società moderna, e saran surrogati, così nel commercio e nella manifattura, come nell’agricoltura, dai fattori, agenti e garzoni (si intende con ciò, in senso lato, la piccola borghesia impiegatizia).

Nei paesi nei quali, come in Francia, la classe dei contadini costituisce più della metà della popolazione, era naturale che quegli scrittori i quali scendevano in campo in favore del proletariato e contro la borghesia, usassero nella loro critica del regime borghese la stregua del piccolo borghese e del piccolo possidente contadino, e che pigliassero partito per gli operai da un punto di vista piccolo-borghese. Cosi si venne formando il socialismo piccolo-borghese. Sismondi è il capo di cotesta letteratura, così per l’Inghilterra, come per la Francia.

Cotesto socialismo analizzò con grande acume le contraddizioni che sono inerenti ai rapporti moderni della produzione. Mise a nudo la ipocrisia, che è in fondo alle ottimistiche esposizioni degli Economisti. Dimostrò in modo irrefutabile gli effetti deleterii delle macchine e della divisione del lavoro, e poi la concentrazione dei capitali e della proprietà fondiaria, la soprapproduzione, le crisi, la inevitabile sparizione dei piccoli borghesi e dei piccoli possidenti, la miseria del proletariato, la anarchia nella produzione, le stridenti sproporzioni nella distribuzione della ricchezza, la guerra industriale fra le nazioni portata fino all’esterminio, la dissoluzione degli antichi costumi, degli antichi rapporti familiari, delle nazionalità antiche.

Ma quanto al contenuto positivo di ciò che vuole cotesto socialismo, o mira a ristabilire gli antichi mezzi di produzione e di scambio, e con essi gli antichi rapporti di proprietà e la società antica, o pensa di far rientrare per forza i mezzi moderni della produzione e dello scambio nel ristretto quadro degli antichi rapporti di proprietà, che quei mezzi appunto spezzarono, e doveano spezzare! In tutti due i casi esso è al tempo stesso reazionario ed utopistico.

Per la manifattura la corporazione, per l’agricoltura le condizioni patriarcali: ecco la sua ultima parola.

Da ultimo, e ossia alla fine del suo svolgimento, cotesta tendenza mette capo nella prostrazione mentale di chi abbia un triste incubo.

 

  1. Il socialismo tedesco, ossia il Socialismo «vero»

La letteratura socialistica e comunistica della Francia, che nacque sotto la pressione di una borghesia dominante, e quale espressione letteraria appunto di una effettiva lotta contro di quella signoria, principiò ad aver diffusione in Germania proprio nel momento nel quale la borghesia incominciava a lottare con l’assolutismo feudale.

Dei filosofi tedeschi, dei semifilosofi e dei bellimbusti dell’amena coltura s’impadronirono avidamente di cotesta letteratura, dimenticando solo questo, che mentre immigravano di Francia in Germania cotesti scritti, non perciò immigravano dall’un paese all’altro le condizioni di vita propriamente francesi. Per rispetto alle condizioni tedesche quegli scritti francesi vennero a perdere ogni immediato carattere pratico, e assunsero Paria di una pura e semplice manifestazione polemico-letteraria. Quegli scritti furono intesi come una oziosa speculazione su la realizzazione della vera natura umana. Cosi era un’altra volta accaduto, quando nel secolo diciottesimo i filosofi tedeschi ridussero i postulati della rivoluzione francese a semplici esigenze della ragion pratica (Riferimento alla Critica della ragion pratica di Immanuel Kant (1724-1804). «La situazione della Germania alla fine del secolo passato si rispecchia completamente nella Critica della ragion pratica di Kant. Mentre la borghesia francese si innalzava al dominio, con la più grande rivoluzione che la storia conosca e conquistava il continente europeo, mentre la borghesia inglese, già emancipata politicamente, rivoluzionava l’industria e si assoggettava l’India politicamente e tutto il resto del mondo commercialmente, gli impotenti borghesi tedeschi riuscirono ad arrivare soltanto alla “buona volontà”[…] Questa buona volontà di Kant corrisponde complessivamente all’impotenza, alla depressione e alla miseria dei borghesi tedeschi, i cui meschini interessi non furono mai capaci di svilupparsi in interessi comuni nazionali, di una classe e quindi furono continuamente sfruttati dai borghesi di tutte le altre nazioni […]›› K. Marx- F. Engels, L’Ideología tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1958, pp. 187 ss.)  in universale, e interpretarono la volontà effettiva della borghesia francese come le leggi del volere puro, del volere quale esso dev’essere, del vero volere umano.

Il vero e proprio lavoro di cotesti letterati tedeschi consistette soltanto in questo, che essi cioè procurarono di mettere in accordo le nuove idee francesi con la loro antecedente coscienza filosofica, e ossia, a dir meglio, s’impegnarono di appropriarsi le nuove idee dal loro punto di vista filosofico.

Cotesta appropriazione s’andò compiendo a quel medesimo modo nel quale in generale si giunge ad appropriarsi una lingua straniera… e ossia traducendo.

Gli è noto in che modo i monaci del Medio-Evo usassero di raschiare i manoscritti contenenti le classiche scritture del mondo pagano antico, per poi scrivervi novellamente su le assurde leggende dei santi cattolici.

I letterati tedeschi operarono in senso inverso nel maneggiare cotesti profani scritti francesi. Essi fecero scivolare la loro insensataggine su l’originale francese, e ve l’appiccicarono. Là dove, per es., la critica francese si aggira su i rapporti e su le funzioni della moneta, essi scrivono «alienazione della natura umana», e là dove la critica francese concerne lo stato borghese, essi scrivono «abolizione del dominio dell’universale astratto».

Coteste viziate sostituzioni della fraseologia filosofica agli svolgimenti critici dei francesi, furono dagli autori stessi battezzate per «filosofia dell’azione», per «socialismo vero», per «scienza tedesca del socialismo», per «dimostrazione filosofica del socialismo».

Per cotal via la letteratura francese socialistico-comunistica rimase evirata. E come essa cessava, in mano ai tedeschi, di esprimere la lotta di una classe contro di un’altra, così a ragione i tedeschi si vantano di aver superata «la unilateralità francese» e di rappresentare invece dei bisogni veri il bisogno della verità, e in cambio degli interessi del proletariato quelli della natura umana, dell’uomo in generale, dell’uomo che non appartiene a nessuna classe, e anzi non appartiene punto alla realtà, ma solo al vaporoso cielo della fantasia filosofica. Cotesto socialismo tedesco, che pigliava cosi solennemente sul serio le sue goffe esercitazioni da scolaro, e ne menava vanto all’uso dei ciarlatani, andò poco per volta e via via perdendo la sua innocenza da pedanti.

La lotta della borghesia contro la feudalità e contro la monarchia assoluta, e ossia, in una parola, il movimento liberale, s’andò facendo più serio in Germania, e specie in Prussia.

Il socialismo «vero›› ebbe così la fortunata occasione di contrapporre al movimento politico le rivendicazioni socialistiche, e di lanciare i già noti anatemi contro il liberalismo, contro lo stato rappresentativo, contro la concorrenza borghese, e così di seguito contro tutte le altre cose borghesi, libertà di stampa, diritto comune, libertà in genere, eguaglianza, e di andar predicando al popolo come esso per tal movimento borghese abbia tutto da perdere e nulla da guadagnare. Molto a proposito il socialismo tedesco seppe dimenticare, come quella critica francese, di cui esso era una misera eco, supponesse come esistente di fatto la società borghese moderna con le sue materiali condizioni di vita, e con la congrua costituzione politica; presupposti cotesti a raggiungere i quali occorreva in Germania di lottare ancora come per una conquista.

I governi assoluti di Germania, con tutto il loro codazzo di preti, di maestri di scuola, di nobiluzzi rurali e di burocratici si giovarono di tale socialismo come di spauracchio contro la borghesia, che si levava minacciosa.

Quel socialismo fu come il dolce complemento alle amare sferzate e fucilate con le quali i governi tedeschi han trattato le sommosse degli operai (si riferisce alle insurrezioni degli operai dell’industria tesile avvenute in Boemia e Slesia nella primavera del 1844).

Cotesto socialismo «vero» mentre diventava un’arma dei governi contro la borghesia tedesca, rappresentava anche direttamente un interesse reazionario, e cioè quello dei piccoli borghesi, che così come furono tramandati dal secolo sedicesimo, e così come da quel tempo in poi son sempre riapparsi in nuove forme, costituiscono il vero e proprio fondamento sociale delle presenti condizioni della Germania.

Conservare la piccola borghesia gli è come conservare il presente assetto sociale tedesco. Cotesta piccola borghesia vede nel dominio della borghesia politica ed industriale la sua sicura rovina, e ciò per due ragioni: da una parte per la concentrazione del capitale, e da un’altra parte per il venir su di un proletariato rivoluzionario. Il socialismo «vero›› le parve mezzo sicuro per ovviare d’un colpo ai due pericoli. E quello si diffuse come un’epidemia.

Quella veste intessuta di ragnatela speculativa, ricamata di fiori di pomposa retorica, satura di rugiada sentimentale, quella veste si direbbe quasi trascendentale, della quale i socialisti tedeschi ricoversero quel po’ di loro «verità eterne›› ischeletrite, valse ad aumentare lo spaccio della merce in mezzo a cotal pubblico.

E dal canto suo cotesto socialismo tedesco andò via via riconoscendo la sua propria missione, che è quella di rappresentare in istile pomposo gl’interessi della piccola borghesia.

Elevò al grado di nazione normale la nazione tedesca, e fece del piccolo borghese tedesco l’uomo normale. A tutte le bassezze delle quali cotesto uomo normale è capace dette una significazione occulta, superiore, socialistica, in guisa che appariscono tutto il contrario di quel che sono. Venne alle sue ultime conseguenze col mettersi contro alle tendenze «brutalmente distruttive›› del comunismo, e col proclamarsi imparzialmente superiore alle lotte di classe. Tranne poche eccezioni, tutto ciò che circola in Germania di scritti socialistici e comunistici rientra in cotesta letteratura sudicia e snervante.

 

  1. Il Socialismo conservativo, ossia dei borghesi

Una parte della borghesia cerca di portar rimedio ai mali sociali, per mettere in sicuro l’esistenza della società borghese.

Entrano in cotesta categoria degli economisti, dei filantropi, degli umanitarii, dei miglioratori della sorte delle classi operaie, gli organizzatorí della beneficenza, i protettori degli animali, i fondatori dei circoli di temperanza, e tutta la variopinta genia dei minuti riformatori. E cotesto socialismo borghese è stato per fino ridotto nella forma del sistema bello e compiuto.

Citiamo ad esempio la Philosophie de Ia Mìsère di Proudhons.

I socialisti borghesi vogliono le condizioni di vita della società moderna, senza i danni e le lotte che da essa inevitabilmente derivano. Vogliono la società attuale, sottrazione fattane degli elementi che la rivoluzionano e dissolvono. Vogliono la borghesia senza il proletariato. La borghesia, come è ben naturale, si rappresenta il mondo, nel quale essa domina, come l’ottimo dei mondi possibili. Il socialismo borghese elabora cotesta confortante immagine nella forma di un sistema, o di un quasi sistema. Invitando il proletariato a realizzare i suoi sistemi, e ad entrare nella nuova Gerusalemme, esso non intende se non d’impegnare i proletarii a starsene in questa società attuale, ma rinunciando alle odiose opinioni che di essa si van facendo.

Una seconda forma di questo socialismo, che è meno sistematica ma è di certo più pratica, cerca d’ispirare nella classe operaia il disgusto d’ogni movimento rivoluzionario, procurando di provare, come non questa o quella mutazione politica, ma solo la mutazione delle condizioni materiali, e ossia dei rapporti economici, possa tomarle di giovamento.

Ma sotto al nome di mutazione dei rapporti materiali della vita cotesto socialismo non intende già, e in nessun modo, l’abolizione dei rapporti borghesi della produzione, il che non può aver luogo se non per le vie rivoluzionarie, ma intende solo delle riforme amministrative eseguite sul terreno stesso dei presenti rapporti della produzione, le quali per ciò nulla cambiano nei rapporti fra capitale e lavoro, e che nel caso più favorevole rendono meno costoso alla borghesia l’esercizio del potere, e semplificano l’assetto della sua finanza.

Tale socialismo borghese non raggiunge la sua vera espressione se non quando diviene una mera figura retorica.

Libero scambio! e nell’interesse della classe lavoratrice; dazii protettori! e nell’interesse dei lavoratori; carcere cellulare! e nell’interesse degli operai: – ecco l’ultima parola del socialismo borghese, e la sola pensata e detta sul serio.

Perché il socialismo della borghesia consiste appunto in questo enunciato: che i borghesi sono borghesi nell’interesse dei lavoratori.

 

  1. II Socialismo e il Comunismo critico-utopici

Non intendiamo qui di discorrere di quella letteratura, che in tutte le grandi rivoluzioni moderne si fece rappresentante delle esigenze del proletariato. (Gli scritti di Babeuf e simili.)

I primi tentativi fatti dal proletariato, per dar prevalenza ai suoi proprii interessi di classe, in tempi di generale effervescenza e mentre precipitava la società feudale, dovean di necessità fallire, e così per la condizione poco sviluppata del proletariato stesso, come per la mancanza di quelle condizioni materiali della sua emancipazione, le quali non sono se non un resultato della epoca borghese. La letteratura rivoluzionaria, che accompagnava questi primi movimenti del proletariato, è nel suo contenuto di necessità reazionaria. Essa preconizza un ascetismo generale e una rozza tendenza a tutto agguagliare.

I veri e propri sistemi socialistici e comunistici, ì sistemi di Saint- Simon, Fourier, Owen, ecc. , appariscono in quel primo e poco sviluppato periodo della lotta fra il proletariato e la borghesia, che abbiamo tratteggiato di sopra.

I ritrovatori di tali sistemi riconoscono la opposizione delle classi, e anche l’azione dell’elemento dissolvente nella società dominante. Ma non scorgono dalla parte del proletariato nessuna azione storica, nessun movimento politico che gli sia proprio.

E poiché lo sviluppo dell’antagonismo di classe va di pari passo con lo sviluppo della industria, gli autori di quei sistemi, non trovando già belle e date le condizioni materiali per la emancipazione del proletariato, si mettono in cerca di una scienza sociale, o di certe leggi sociali, come per creare quelle condizioni che non esistono ancora.

La loro personale attività inventiva deve tenere il posto dell’attività sociale, delle condizioni fantastiche devono essere sostituite alle condizioni storiche della emancipazione, a quella organizzazione del proletariato in classe, che si forma poco per volta, vien surrogata una organizzazione della società tutta nuova di sana pianta. La storia del mondo di là da venire si risolve per essi nella propaganda e nella messa in azione dei loro piani sociali.

Sanno si di rappresentare nei loro disegni gl’interessi delle classi dei lavoratori, in quanto son le classi di quelli che soffrono; ma il proletariato non esiste per essi se non sotto questo punto di vista della classe dei sofferenti.

Ma, come è naturale in uno stadio di poco sviluppo della lotta di classe, e data la condizione sociale di cotesti autori, accade che essi si credano come superiori a tutti i contrasti di classe. Essi vogliono migliorare la situazione di tutti i membri della società, compresa quella delle persone che vivono nelle condizioni più vantaggiose. Per ciò richiamano di continuo all’intera società senza far differenze, e anzi si appellano principalmente alla classe dominante. Poiché in fondo basta di aver capito il loro sistema per riconoscerlo come il miglior disegno fra tutti i possibili della miglior serietà fra tutte le possibili.

Rigettano qualsiasi azione politica, e segnatamente ogni azione rivoluzionaria; mirano a raggiungere i loro intenti per le vie pacifiche; e cercano di aprirla via al nuovo evangelo sociale per mezzo di piccoli esperimenti, che secondo l’opinione loro dovrebbero avere forza e valore di esempio, ma che in fatti, com’è naturale, falliscono.

La descrizione fantastica della società futura nasce quando il proletariato è ancor troppo poco sviluppato; cosicché esso si rappresenta appunto in modo fantastico la sua stessa situazione, secondo l’impulso primo verso una totale trasformazione della società, il quale impulso è accompagnato da vaghi presentimenti.

Cotesti scritti socialistici e comunistici contengono anche molti elementi critici. Essi attaccano tutti i fondamenti della società esistente.

Per ciò hanno offerto del materiale di gran valore per illuminare gli operai. I loro enunciati positivi su la società futura, e p.e. l’abolizione del contrasto fra città e campagna, L’abolizione della famiglia, del profitto privato, del salariato, e poi l’annunzio dell’armonia sociale, e la trasformazione dello stato in una semplice amministrazione della produzione – tutti cotesti enunciati non esprimono che lo sparire dell’antagonismo di classe, di quell’ antagonismo che comincia appena a precisarsi nel suo sviluppo, e del quale gli autori di quei sistemi hanno notizia solo nelle sue prime forme indistinte e indeterminate. Per ciò quegli enunciati hanno ancora un senso puramente utopistico.

L’importanza di cotesto socialismo e di cotesto comunismo utopistico è in ragione inversa al fatto dello sviluppo storico. A misura che la lotta di classe svolge e si precisa, cotesto fantastico disegno della lotta, cotesta fantastica opposizione alla lotta, perde ogni valore pratico ed ogni giustificazione teorica. Gli è per ciò, che, mentre gli autori di questi sistemi erano per molti rispetti dei rivoluzionarii, i loro scolari formano sempre delle sette reazionarie. Questi scolari tengon fermo alle opinioni dei maestri anche in opposizione allo sviluppo storico del proletariato, e cercano in conseguenza di smussare il contrasto di classe, e di conciliare gli antagonismi. Sognano sempre la realizzazione sperimentale delle loro utopie sociali, e cioè di stabilire falansterii (erano cosi chiamati i «palazzi sociali» ideali da Fourier), di creare colonie domestiche (Home-Colonies chiamava Owen le sue società modello di tipo comunistico), e di edificare una piccola Icaria (lcaria: il fantastico paese utopistico le cui istituzioni comuniste furono descritte da Cabet [cfr. aggiunte di Engels, in nota, all’edizione tedesca del 1890]) – rifacimento minuscolo della nuova Gerusalemme! – e per costruire cotesti castelli in aria devono fare appello alla filantropia dei cuori e delle tasche borghesi. Poco per volta discendono nella categoria dei socialisti conservatori e reazionari da noi descritti più sopra, e da quelli si distinguono solo per una più sistematica pedanteria, e per la fede da fanatici e da superstiziosi che ripongono nell’azione miracolosa della loro scienza sociale.

Si levano quindi accanitamente contro qualunque movimento politico dei lavoratori, stimando che in quel movimento si riveli una cieca incredulità rispetto al nuovo evangelo.

Così ora si vede che gli Owenisti reagiscono in Inghilterra contro i Cartisti, e i Fourieristi reagiscono in Francia contro i Riformistil (sono i radicali repubblicani francesi che facevano capo al giornale La Réforme).

 

 

  1. Posizione dei comunisti di fronte ai diversi partiti di opposizione

Per quel che abbiamo detto al capo ri, quale sia la posizione dei comunisti di fronte ai partiti operai di già costituiti s’intende da sé; e così è il caso per rispetto ai Cartisti in Inghilterra, e ai riformatori agrarii nel Nord-America (si tratta dei National Reformers, riunitisi nell’Anti-rent League (Lega anti-rendita), i quali chiedevano la distribuzione gratuita delle terre di proprietà dello Stato tra quanti fossero disposti a lavorarle).

Quei partiti combattono per fini ed interessi prossimi ed immediati, ma nel moto attuale rappresentano già il moto dell’avvenire. In Francia i comunisti si ricongiungono al partito socialista-democratico, contro la borghesia conservativa e radicale; ma non rinunziano al diritto di serbare un contegno affatto critico di fronte alle frasi ed alle illusioni, che in quel partito derivano dalla tradizione rivoluzionaria.

Nella Svizzera i comunisti sostengono i radicali, pur riconoscendo che quel partito consta di elementi contraddittorii, e cioè in parte di socialisti democratici alla francese, e in parte di radicali borghesi (i liberali-radicali svizzeri avevano appena contribuito a determinare una svolta decisiva nella vita politica del loro paese, con la vittoria riportata contro i conservatori cattolici del Sonderbund, che cercavano di impedire, anche tramite aiuti dall’estero, l’evoluzione della borghesia in senso liberale).

Fra i Polacchi i comunisti appoggiano quel partito, che fa della rivoluzione agraria la condizione per venire alla emancipazione nazionale, e cioè quel medesimo partito che promosse la insurrezione di Cracovia del 1846 (l’insurrezione di Cracovia del febbraio-marzo 1846, dai conservatori definita «comunista» ebbe in realtà, come sottolineo Marx nella sua commemorazione del 1848, carattere democratico interclassista. Lo czar Nicola I la represse ferocemente).

Tutte le volte che la borghesia proceda in Germania in modi rivoluzionarii, il partito comunistico le sarà compagno di lotta contro la monarchia assoluta, contro la proprietà feudale, e contro la piccola borghesia.

Ma mai e in nessun momento il partito comunista tralascia di risvegliare negli operai la coscienza chiara e precisa dell’antagonismo dominante, quale vera e propria ostilità, fra borghesia e proletariato; perché gli operai tedeschi sappiano subito convertire in armi dirette contro la borghesia le condizioni sociali e politiche messe in essere dal dominio borghese, onde, precipitate che siano le classi reazionarie dalla Germania, cominci senza indugio la lotta contro la borghesia.

I comunisti rivolgono i loro occhi principalmente verso la Germania, che è alla vigilia di una rivoluzione borghese: e poiché essa compirà tale rivoluzione in condizioni generalmente più progredite della civiltà europea, e con un proletariato assai più sviluppato di quel che non fosse il caso dell’Inghilterra nel secolo diciassettesimo e della Germania nel diciottesimo, così cotesto moto borghese sarà l’immediato preludio di una rivoluzione proletaria.

In una parolai comunisti appoggiano da per tutto ogni movimento rivoluzionario, che sia diretto contro il presente stato di cose politico e sociale.

In cotesti movimenti essi mettono principalmente in rilievo, come fondamento del tutto, la questione della proprietà, quale che sia la forma più o meno sviluppata, che essa questione possa avere assunto.

Infine i comunisti lavorano all’intesa ed all’unione dei partiti democratici d’ogni paese.

I comunisti disdegnano di celare le loro vedute ei loro intendimenti. Essi confessano apertamente, che i loro intenti non possono esser raggiunti se non per via della violenta sovversione del tradizionale ordinamento sociale. Che le classi dominanti paventino lo scoppio di una rivoluzione comunista. I proletarii non ci han da perdere che le loro catene. Hanno da guadagnarci tutto un mondo.

PROLETARII Dl TUTTO IL MONDO UNITEVI

Londra, febbraio 1848

LA LEGGE DI PARKINSON

LA LEGGE DI PARKINSON

C. Northcote Parkinson

LA LEGGE DI PARKINSON
ovvero 1:2

Illustrazioni di Osbert Lancaster

Titolo originale

PARKINSON’S LAW OR THE PURSUIT OF PROGRESS

1957 C. Northcote Parkinson

 

 

PREFAZIONE

Agli occhi dei giovanissimi, dei maestri di scuola, ed anche agli occhi di coloro che compilano i testi di storia costituzionale, di politica e di attualità il mondo si presenta, più o meno, come un luogo razionale. Costoro si raffigurano l’elezione dei deputati come una libera scelta fra gli uomini in cui il pubblico ripone fiducia. Costoro ci dipingono il sistema grazie al quale divengono ministri di Stato solo i più saggi, i migliori. Costoro immaginano che i capitani d’industria, liberamente eletti dagli azionisti, scelgano per i posti di maggiore responsabilità solo quelli che in più umile mansione han dato prova della loro capacità. Sono presupposti che ritroviamo, esplicitamente affermati o anche solo sottintesi, in parecchi libri. Sono presupposti, d’altro canto, che appaiono ridicoli a quelli che per esperienza diretta sanno come vanno le cose. Tutte queste solenni adunanze di saggi e di probi esistono solo nella fantasia dei maestri di scuola. Penso quindi che non sia male, di tanto in tanto, esprimere qualche avvertimento in proposito. Dio non voglia che gli studenti smettano di leggere i testi che insegnano la scienza del governo delle cose pubbliche e di quelle private. Basta solo che tali testi si collochino fra le opere di fantasia. Collocateli fra i romanzi di Rider Haggard e di H. G. Wells, fra le opere sull’uomo scimmia e sulle navi spaziali, e quei testi non faranno alcun male a nessuno. Ma se invece li collocate altrove, fra i libri che si consultano e si citano, allora vedrete che possono far più danno di quel che a prima vista non appaia.

Dopo aver constatato con sgomento che cosa gli altri credono sia la verità, in merito ai funzionari dello Stato o ai progetti edilizi, tentai, di tanto in tanto, di mostrare al mio prossimo almeno uno squarcio della realtà vera. Il lettore ai/veduto intenderà subito che tali brani di verità non si fondano su di un’esperienza ordinaria. Ma poiché ritengo che qualche lettore sarà meno avveduto di altri, mi son dato la pena di accennare, di tanto in tanto, alla mole di ricerche su cui si fondano le mie teorie. Immagini pure, chi legge, le tabelle appese al muro, gli schedari, le macchine addizionatrici, i regoli calcolatori, le opere consultate, tutto insomma l’armamentario indispensabile per la preparazione di uno studio qual e il presente. E sia pur certo, il lettore, che la realtà giganteggia su quel che egli ha immaginato, e che le verità che qui si rivelano son frutto, oltre che di una mente dotata (e lo riconoscono in molti) anche di un’attrezzatura grandiosa e costosissima, indispensabile a svolgere le indagini necessarie. Qualcuno forse penserà che sarebbe stato meglio dare più vasta informazione circa gli esperimenti ed i calcoli su cui si fondano le mie teorie.” a costui voglio far osservare che un volume cosi complesso avrebbe richiesto pizi tempo per la lettura e più denaro per l’acquisto. È innegabile che ciascun mio saggio rappresenta il risultato di anni di paziente indagine. Ma bisogna dir subito che non si È raccontato tutto. Una recente scoperta, in un settore specifico dell’arte bellica, apre il terreno a nuove ricerche: la scoperta cioè del fatto che il numero dei nemici uccisi e inversamente proporzionale al numero dei generali di parte amica. Recentissime son pure le osservazioni sull’illeggibilità delle firme, e si È tentato di stabilire a quale livello, nella carriera di un dirigente, la scrittura perde significato anche per il dirigente in parola. Giorno per giorno insomma si annunciano scoperte nuove, ed ho quindi ragione di credere che le prossime edizioni di quest’opera supereranno rapidamente la prima.

Desidero ringraziare i direttori dei periodici i quali hanno consentito alla ristampa di alcuni saggi. Il posto d’onore spetta al direttore di The Economist, la rivista su cui per la prima volta l’umanità ebbe notizia della Legge di Parkinson. Voglio ringraziare il suddetto direttore che ha permesso la ristampa di altri due saggi, “Della comitologia”, e sulle “Pensioni”. Alcuni altri articoli erano già comparsi su Harper’s Magazine e su The Reporter.

Desidero inoltre esprimere la mia profonda gratitudine a Osbert Lancaster, autore dei disegni, i quali danno un tocco di simpatia a quest’opera, che altrimenti il lettore medio avrebbe trovato troppo arida e tecnica. Ringrazio infine i signori della Houghton Miffli Co., editrice negli Stati Uniti dell’opera originaria, per il loro cortese incoraggiamento, senza il quale ben poco avrei osato, ed ancor meno realizzato. E finalmente sia resa nota la gratitudine che io nutro per il grande matematico, che con la sua scienza mi consente di abbagliare talvolta il lettore. A lui, anzi a lei, ma per altro motivo, dedico questo libro.

Singapore, 1958

C. Northcote Parkinson

 

 

LA LEGGE DI PARKINSON

ossia

LA COSTRUZIONE DELLA PIRAMIDE

 

Il lavoro dura sempre quel tanto che è necessario a colmare il tempo disponibile per compierlo. Tutti riconoscono questo semplice assioma quando dicono, secondo il vecchio proverbio, che “l’uomo più affaccendato è quello che ha tempo da perdere”. A una vecchia signora, che in vita sua non ha mai avuto molto da fare, può occorrere una giornata intera per scrivere e spedire una cartolina alla nipote che vive a Bognor Regis. Le ci vorrà un’ora a scovare la cartolina, un’altra ora per rintracciare gli occhiali, mezz’ora per ritrovare l’indirizzo, un’ora e un quarto per scrivere, e venti minuti per risolversi sull’opportunità di prendere o no l’ombrello, quando andrà ad imbucare alla cassetta postale, all’angolo della via. Un’operazione che richiederebbe tre minuti in tutto a un uomo che ha da fare, può all’opposto mettere a terra un’altra persona, dopo una giornata di dubbio, di ansietà e di fatica.

Ammesso che il lavoro (e soprattutto il lavoro cartaceo) è assai elastico, per ciò che riguarda il tempo, apparirà subito chiaro che quasi non esiste alcun rapporto fra il lavoro da svolgere e il numero delle persone a cui tale lavoro è affidato. Non necessariamente l’assenza di attività concreta significa ozio. Non necessariamente la mancanza di un’occupazione effettiva si manifesta coi sintomi della inazione palese. Il lavoro da svolgere si gonfia – e per importanza e per complessità – in proporzione al tempo da occupare. Quasi tutti riconosceranno che questo è vero, ma pochi, all’opposto, riescono a trarne le conseguenze, specie nel campo della burocrazia statale. Sia gli uomini politici che i semplici contribuenti han sempre (con qualche fase di dubbio, bisogna dirlo) presupposto che crescendo il numero complessivo dei funzionari dello Stato debba crescere anche il volume del lavoro da svolgere. Qualche osservatore cinico, opponendosi a quella convinzione, è giunto a pensare che, moltiplicandosi i funzionari dello Stato, qualcuno fra essi possa permettersi di non lavorare affatto o che tutti siano in condizione di ridurre il proprio orario d’ufficio. Ma è un problema di fronte al quale sia la fede che il dubbio son fuori posto. La verità è un’altra, e cioè: non esiste alcun rapporto fra il numero dei funzionari e la quantità del lavoro da compiere. L’aumento del numero totale degli impiegati dipende da una legge, detta Legge di Parkinson. Tale aumento continua invariato, sia che il lavoro cresca, diminuisca o addirittura scompaia. L’importanza della Legge di Parkinson risiede nel fatto che essa è una legge della crescita basata su di un’analisi dei fattori da cui tale crescita è controllata. La validità di questa legge – scoperta di recente – deve basarsi su prove di ordine statistico, che seguiranno. Al lettore medio interesserà tuttavia di più la spiegazione dei fattori che stanno sotto alla tendenza generale definita mediante questa legge. Se ignoriamo per un momento i particolari d’ordine tecnico (e non sono pochi) possiamo distinguere inizialmente due forze motrici, le quali, per quanto ci riguarda, possono esprimersi mediante due asserzioni pressoché assiomatiche, e cioè: I. “Il funzionario vuole moltiplicare i subordinati, e non i concorrenti” e Il. “I funzionari lavorano l’uno per l’altro.”

Per meglio intendere il fattore I figuriamoci un funzionario dello Stato che chiameremo A, il quale si trovi sovraccarico di lavoro. Non ci interessa sapere se l’eccesso di lavoro è reale o immaginario. (Potremmo osservare, en passant, che la sensazione, o anche l’illusione, del signor A, può configurarsi anche come sintomo di diminuita energia: abbastanza normale col sopraggiungere dell’età di mezzo.)

A tale eccesso di lavoro vi sono, in senso lato, tre rimedi possibili. Il funzionario può dimettersi; chiedere di dividere il lavoro con un collega, che chiameremo B; chiedere l’aiuto di due subordinati, i signori C e D. Credo che in tutta la storia non sia mai accaduto che A abbia scelto alternativa diversa dalla numero tre. Dimettendosi infatti egli perderebbe ogni diritto alla pensione. Se lasciasse salire B fino al suo livello nella scala gerarchica, egli altro non farebbe che crearsi un rivale alla promozione al posto di W, quando W (finalmente) andrà in pensione. Perciò A preferisce sempre avere sotto di sé C e D, funzionari di ruolo e di anzianità inferiore. Essi contribuiranno ad accrescere il prestigio di A, il quale, dividendo il lavoro in due categorie, conquisterà il merito d’essere il solo a sussumerle ambedue. Si faccia attenzione a questo punto: C e D sono, per cosi dire, inseparabili. Impossibile assumere C soltanto. Perché? Perché C, preso da solo, dividerebbe il lavoro a metà con A, acquistando di fatto un prestigio eguale a quello che A non ha voluto lasciar assumere a B, e che acquista tanto maggior rilievo se C è l’unico possibile successore di A. Così i subordinati debbono essere sempre almeno due, e ciascuno sarà tenuto in buon ordine dal timore che il collega venga promosso. Quando poi C a sua volta lamenterà d’essere stracarico di lavoro (e lo farà di certo), il signor A, naturalmente spalleggiato da C, consigliera la nomina di altri due funzionari che aiutino C. Ma per impedire attriti interni, A può far questo solo consigliando la nomina di altri due funzionari, che aiutino D, il quale si trova in posizione pressoché identica. A questo punto è scontata, in pratica, la nomina dei signori E, F, G, H e la promozione di A.

Così per compiere il lavoro che prima spettava a una persona soltanto, abbiamo ben sette funzionari. Ed ora interviene il fattore Il. Infatti questi sette svolgono una tale mole di lavoro, l’uno per l’altro, che sono pienamente occupati, ed in effetti A lavora più di prima. Può darsi benissimo che un documento in arrivo passi sul tavolo di ciascuno di essi. Il funzionario E stabilisce che esso documento ricade sotto la competenza di F, il quale presenta una minuta di risposta a C, il quale la corregge drasticamente prima di consultare D, il quale chiede a G di occuparsene. Ma a questo punto G va in ferie, e passa la pratica a H, il quale redige una minuta che vien firmata da D e restituita a C, il quale rivede la minuta da par suo e la presenta ad A nella nuova versione.

Che cosa fa AP Nessuno gli direbbe nulla se firmasse il documento senza nemmeno leggerlo, perché ha in mente un sacco di altre cose. Sapendo che con l’anno prossimo egli prenderà il posto di W, deve stabilire se C o D occuperanno il posto suo. Ha dovuto concedere le ferie a G, anche se costui a rigore non ne aveva diritto. e chiesto se per caso la precedenza non andasse ad H, per motivi di salute. Era pallido in quegli ultimi giorni, anche, ma non soltanto, per certi guai di famiglia. Poi c’è la questione della gratifica speciale a F durante il periodo del congresso e la domanda di E, il quale chiede d’essere trasferito al ministero delle pensioni. A ha sentito dire che D è innamorato di una dattilografa, la quale ha marito, e che G e F non si rivolgono più la parola, e nessuno a quanto pare ne sa il motivo. Perciò A avrebbe una gran voglia di firmare la minuta di C e di farla finita. Ma A è uomo di coscienza. Oppresso com’è dai problemi che i suoi colleghi han creato a se stessi ed a lui – problemi che consistono semplicemente nell’esistenza di questi funzionari – non è tuttavia uomo da trascurare il suo dovere. Legge con cura tutta la minuta, toglie perché inutili le aggiunte di C e di H, e riporta ogni cosa alla forma che aveva dato all’inizio F, un funzionario capace, anche se litigioso. Corregge la lingua – questi giovani non sanno scrivere correttamente – e insomma la risposta che ne vien fuori è esattamente quella che sarebbe stata se i funzionari da C ad H compresi non fossero nemmeno mai venuti al mondo. Un numero di persone di gran lunga maggiore ha impiegato un tempo di gran lunga superiore per giungere allo stesso identico risultato. Nessuno è rimasto con le mani in mano. Tutti han fatto del loro meglio. Ed è sera inoltrata quando finalmente A esce dall’ufficio e parte per il suo viaggio di ritorno a Ealing. Si spegne l’ultima lampada dell’ufficio mentre si addensa l’oscurità che segna la fine di un’altra giornata di fatica burocratica. Fra gli ultimi ad andarsene, le spalle curve e un sorriso sbieco, A pensa che le ore della sera e i capelli bianchi fan parte dello scotto che deve pagare chi ambisca al successo.

Dalla descrizione che abbiamo qui data dei fattori operanti, lo studioso di scienze politiche comprenderà che i burocrati sono, in misura maggiore o minore, destinati a moltiplicarsi. Però non abbiamo ancora detto nulla del lasso di tempo che probabilmente passerà fra la data della nomina di A e la data del probabile congedo di H. A questo proposito si è raccolta gran mole di prove statistiche e la Legge di Parkinson è dedotta appunto da questi dati. Non c’è posto in questa sede per un’analisi più minuta; ma al lettore interesserà sapere che le ricerche ebbero inizio dai dati relativi alla marina di Sua Maestà. Si scelse questo settore perché è più facile commisurare le responsabilità dell’Ammiragliato che non quelle, diciamo, della Camera di Commercio. Ecco alcuni dati tipici. Nel 1914 la Marina aveva una forza complessiva di 146.000 fra ufficiali e marinai, 3.249 fra funzionari e impiegati in servizi portuali, e 57.000 operai portuali. Nel 1928 c’erano soltanto 100.000 tra ufficiali e marinai e soltanto 62.439 operai, ma i funzionari e gli impiegati in servizi portuali a quell’epoca eran saliti a 4.558. In quanto alle navi da guerra, nel 1928 il totale era assai ridotto rispetto al 1914: meno di 20 grandi vascelli in servizio attivo, contro i 62 degli anni bellici. Nel medesimo lasso di tempo i funzionari dell’Ammiragliato eran cresciuti da 2.000 a 3.569, e costituivano, come qualcuno osservò, “una poderosa flotta a terra”. Sarà meglio, per chiarezza, esporre questi dati in una tabella.

STATISTICHE DELL’AMMIRAGLIATO

Anno Aumento o diminuzione percentuale
1914 1928
Grandi vascelli in servizio attivo 62 20 – 67,74
Ufficiali e marinai 146.000 100.000 – 31,5
Operai portuali 57.000 62.439 + 9,54
Funzionari e impiegati in servizio portuale 3.249 4.558 + 40,28
Funzionari dell’Ammiragliato 2.000 3.569 + 78,45

A quell’epoca le critiche eran centrate sulla proporzione fra il numero degli uomini disponibili per il combattimento e il numero di quelli disponibili per compiti amministrativi. Ma tale raffronto non serve agli scopi nostri. A noi interessa osservare che i 2.000 funzionari del 1914 eran diventati 3.569 nel 1928; e che tale aumento non aveva alcun rapporto con un possibile aumento del loro lavoro. Durante quegli anni la marina si era ridotta, in realtà, di un terzo per ciò che riguarda gli uomini e di due terzi per ciò che riguarda le navi. Né c’è da credere che dopo il 1922 i totali potessero crescere; infatti l’accordo navale di Washington limitava il numero complessivo delle navi (ma non limitava il numero complessivo dei funzionari). In quanto a questi ultimi abbiamo un aumento del 78 per cento durante un periodo di quattordici anni; cioè un aumento medio annuo del 5,6 per cento rispetto ai dati del 1914. In realtà il tasso di incremento non fu, come vedremo, così regolare. Ma a noi interessa, in questa sede, considerare solo lo incremento percentuale in un determinato periodo.

Si può dunque spiegare questo aumento del numero complessivo dei funzionari statali in altro modo che partendo dal presupposto che detto totale debba sempre crescere secondo una legge determinante? Qualcuno potrebbe osservare che il periodo di cui parliamo vide un rapido sviluppo della tecnica navale. L’impiego di macchine volanti non cm più un fatto straordinario, sporadico. Si andavano moltiplicando e complicando le attrezzature elettriche. I sottomarini, anche se non approvati, erano tollerati. Gli ufficiali di macchina cominciavano a considerarsi esseri pressoché umani. Essendo questa un’epoca rivoluzionaria, non è facile supporre che i magazzinieri avessero da compilare inventari più complessi. Né ci sarebbe da meravigliarsi nel trovare sul libro paga un maggior numero di disegnatori, di progettisti, di tecnici e di scienziati. Ma tutti costoro, cioè i funzionari in servizio a terra, aumentarono solo del 40 per cento, mentre il totale degli uomini di Whitehall crebbe di quasi l’80 per cento. Per ogni nuovo caposquadra, per ogni nuovo elettricista a Portsmouth dovevano per forza esserci due impiegati nuovi a Charing Cross. Da questa osservazione qualcuno potrebbe essere tentato di concludere momentaneamente che il tasso di incremento del personale amministrativo raddoppia, rispetto al personale tecnico, nei periodi in cui la gente che davvero serve (nel nostro caso i marinai) si riduce del 31,5 per cento. Le statistiche tuttavia provano che quest’ultimo dato percentuale non ha per noi alcun significato. I funzionari si sarebbero moltiplicati secondo lo stesso tasso anche se marinai non ne fossero esistiti affatto.

Sarebbe interessante seguire la fase ulteriore, per la quale il personale dell’Ammiragliato (8.118 nel 1935) sali nel 1954 a 33.788. Ma un miglior settore di indagine ci vien offerto dal personale del Ministero delle Colonie, se lo esaminiamo in un periodo di declino del nostro Impero. Infatti le statistiche dell’Ammiragliato son complicate da alcuni fattori (per esempio i reparti d’aviazione annessi alla marina) che rendono più difficile il confronto fra un anno e il successivo. Invece l’incremento del personale al Ministero delle Colonie è per noi più interessante in quanto ha carattere puramente amministrativo. Ecco qui di seguito i dati che ci interessano.

STATISTICHE DEL MINISTERO DELLE COLONIE

Anno

1935

1939

1943

1947

1954

Personale

372

450

817

1.139

1.661

Prima di calcolare quale sia il tasso di incremento, osserviamo che l’ambito delle responsabilità ministeriali non fu sempre lo stesso in questo periodo di venti anni. Fra il 1935 e il 1939 i territori coloniali non mutarono di molto, né da un punto di vista territoriale, né dal punto di vista del numero degli abitanti. Nel 1943 vi fu una notevole diminuzione, perché certe zone caddero in mano nemica. Nel 1947 invece ci fu un aumento, ma dopo quell’anno avvenne una rapida e progressiva contrazione territoriale, perché molte colonie si diedero l’autogoverno. Sarebbe logico supporre che tali mutamenti dell`estensione dell’Impero, si riflettano nella mole dell’amministrazione centrale. Ma basta dare un’occhiata a quelle cifre per convincersi che il numero totale degli impiegati altro non rappresenta che una serie di stadi dello stesso processo di incremento. E tale incremento, anche se ha rapporti con quello già osservato in altri ministeri, non ha invece rapporto alcuno con la grandezza – e neanche con l’esistenza – dell’Impero. Qual è il tasso di incremento? Ignoriamo, a tale scopo, il rapido aumento del personale che si accompagno alla diminuzione delle responsabilità, durante la seconda guerra mondiale. Bisogna piuttosto osservare il tasso di incremento negli anni di pace: oltre il 5,24 per cento fra il 1935 e il 1939, e un 6,55 per cento fra il 1947 e il 1954. L’incremento medio annuo è pari così al 5,89 per cento, cifra spiccatamente simile a quella già rilevata per l’incremento del personale dell’Ammiragliato fra il 1914 e il 1928.

Un’ulteriore e minuziosa analisi statistica del personale burocratico in altri settori, non si conviene alla presente opera. Noi speriamo tuttavia di poter giungere a una conclusione provvisoria per ciò che riguarda il lasso di tempo che probabilmente passerà fra prima nomina di un determinato funzionario e la nomina successiva dei suoi assistenti, due o più.

Considerando il problema dell’accumulazione del personale puro e semplice, le statistiche finora compiute indicano un incremento medio annuo del 5,75 per cento. Ciò stabilito, ci sarà possibile esprimere in forma matematica la Legge di Parkinson: in qualsiasi ministero, eccezion fatta per i periodi bellici, l’aumento del personale avverrà secondo la formula:

dove k indica il numero di coloro che perseguono la

promozione attraverso la nomina di subordinati; l rappresenta la differenza fra l’età della nomina e quella della pensione; m è il numero delle ore lavorative dedicate a rispondere alle comunicazioni interne; n infine è il numero delle entità effettive da amministrare. La x rappresenterà il numero dei funzionari nuovi necessari ogni anno. I matematici naturalmente sanno che per trovare l’incremento occorre moltiplicare x per I00 e dividerlo per il totale dell’anno precedente così:

e il risultato sarà invariabilmente compreso fra 5,17 e 6,56 per cento, senza alcun nesso con le variazioni nella mole del lavoro (ammesso che ce ne sia) da compiere.

La scoperta di questa formula e dei principi generali su cui essa si basa non ha naturalmente alcun valore politico. Non ci siamo nemmeno pro vati a chiederci se i ministeri debbano aumentar di mole. Se qualcuno ritiene che tale aumento sia indispensabile per ottenere piena occupazione, è padronissimo di pensarlo. E se qualcuno invece mette in dubbio la stabilità di una economia basata sulla lettura delle minute altrui, anch’egli è padronissimo della sua opinione. A questo livello sarebbe prematuro svolgere una ricerca circa il rapporto quantitativo desiderabile fra amministratori e amministrati. Tuttavia, ammesso che esista un rapporto massimo, non sarebbe difficile esprimere con una formula il numero degli anni che dovranno passare prima di raggiungere, in un determinato paese, quel massimo. Ma neanche questa previsione avrebbe valore politico. E vogliamo insistere a dire che la Legge di Parkinson è una scoperta puramente scientifica, e non si applica, se non in teoria, alla politica dei giorni nostri. Sradicare le erbacce non è compito del botanico. Egli ha già fatto abbastanza quando ci dice con che velocità crescono.

 

 

LA TERNA DEI CANDIDATI

ossia

I PRINCIPI DELLA SELEZIONE

La burocrazia moderna, sia essa pubblica o privata, ha di fronte a sé un problema costante: la scelta del personale. La Legge di Parkinson, inesorabile, fa sì che di continuo si debba assumere gente nuova. Bisogna perciò, fra tutti quelli che si presentano, scegliere il candidato giusto. Esaminando i principi sulla base dei quali dovrebbe avvenire la scelta, sarà opportuno considerare separatamente i metodi del passato e quelli del presente.

I metodi del passato (ma non del tutto disusati) si dividono in due categorie generalissime: metodo britannico e metodo cinese. L’uno e l’altro meritano attento esame, se non altro perché essi ebbero, al tempo loro, un successo di gran lunga maggiore, rispetto a quelli di moda oggi. Il metodo britannico (vecchia maniera) si fondava su di un colloquio nel quale il candidato doveva dichiarare la propria identità. Si trovava di fronte alcuni anziani signori, seduti attorno a un tavolo di mogano, i quali gli chiedevano quale fosse il suo nome. Supponiamo che il candidato rispondesse: “John Seymour.” Allora uno dei signori diceva: “Parente forse del duca di Somerset?” Probabile che a questa domanda il candidato rispondesse: “No, signore. ” E allora un altro signore chiedeva: “ln tal caso, lei è parente forse del vescovo di Watminster? ” Se il giovane rispondeva ancora di no, un terzo signore, disperato, chiedeva alfine: “ Insomma, lei di chi è parente? ” Se il candidato rispondeva: “ Ecco, mio padre fa il pescivendolo a Cheapside,” il colloquio era sostanzialmente finito. I signori della commissione si scambiavano occhiate d’intesa, uno suonava un campanello e un altro diceva all’usciere: “Butti fuori quest’individuo.” Potevano cancellare senz’altro dalla lista dei candidati un nome. Se il candidato successivo era Henry Molineux, nipote del conte di Sefton, c’erano per lui buone possibilità, almeno fino al momento in cui giungeva George Howard e dimostrava d’essere nipote del duca di Norfolk. Non c’erano per la commissione serie difficoltà, fino a quando quei signori non si trovassero a dover decidere tra il terzogenito di un baronetto e il secondogenito (ma illegittimo) di un visconte. Ma si cavavano d’impaccio consultando un manuale di etichetta. ln tal modo la scelta era fatta. e spesso con ottimi risultati.

Il metodo britannico (vecchia maniera) ha una variante nel metodo dell’Ammiragliato, ma una variante di poco conto, e determinata solo dal più ristretto ambito delle responsabilità. Il consiglio degli ammiragli non si lasciava commuovere da parentele titolate. Il candidato ideale era quello che alla seconda domanda rispondeva: “ Sì, mio zio è l’ammiraglio Parker. Mio padre è il capitano Foley, mio nonno il commodoro Foley. L’ammiraglio Hardy era mio nonno materno. Altro mio zio è il comandante Hardy. Il maggiore dei miei fratelli è tenente dei fucilieri di marina, il secondogenito è guardiamarina a Dartmouth e il fratellino mio più piccolo va vestito alla marinara.” “ Ah! ”osservava allora il più alto in grado fra gli ammiragli. “E, mi dica, perché vuole entrare in marina? ” La risposta a questa domanda tuttavia contava poco, giacché il segretario aveva di già scritto che il candidato era degno. Nel caso di una scelta fra due candidati egualmente degni per motivo di parentela, uno degli ammiragli chiedeva all’improvviso: “Mi dica il numero del tassi su cui lei è venuto fin qua. ” Se il candidato affermava d’essere venuto con l’autobus, subito lo buttavano fuori. Il candidato che rispondesse: “ No lo so, ” veniva respinto. Quello infine che dichiarava (mentendo) “numero 2351” era assunto immediatamente, perché si era dimostrato giovane di bella iniziativa. Tale metodo ha dato quasi sempre buoni risultati.

Il metodo britannico (nuova maniera) fu elaborato alla fine del secolo decimonono, secondo criteri più confacenti a un paese democratico. La commissione preposta alla scelta dei candidati chiedeva all’improvviso: “Che scuole ha frequentato?” e il giovane rispondeva, a seconda dei casi, Harrow, Haileybury, Rugby. La domanda successiva era questa, invariabilmente: “E che sport ha praticato?” Buone possibilità aveva il giovane in grado di rispondere: “Ho giocato a tennis, a cricket, a rugby, a palla-a-mano,” precisando anche le squadre di cui aveva fatto parte. In questo caso la domanda successiva era: “Lei gioca al polo? ” e la domanda mirava a impedire che il candidato si facesse una opinione eccessiva di sé. Ma anche senza il polo, quel giovane era degno di seria considerazione. Quasi non si sprecava tempo, all’opposto, col candidato il quale dichiarasse d’aver fatto i suoi studi a Wiggleworth. “Dove?” chiedeva il presidente sbalordito, e poi, dopo aver risentito il nome: “Ma dove si trova? Ah, nel Lancashire!”, ma la risposta “Ping-pong, ciclismo e boccette ” eliminava definitivamente dalla lista il nome del giovane provinciale. Anzi, qualcuno borbottava contro quei bei tipi che venivan lì a far perdere tempo alla commissione. Anche questo metodo ha dato buoni risultati.

Il metodo cinese (vecchia maniera) fu ricopiato in misura tale dalle altre nazioni che pochi ormai ne intendono l’origine cinese. È il metodo dell’esame di concorso scritto. In Cina, sotto la dinastia Ming, si solevano sottoporre gli studenti migliori all’esame provinciale, che si teneva ogni tre anni. L’esame consisteva di tre sedute, di tre giorni ciascuna. Nella prima seduta il candidato scriveva tre saggi e componeva una poesia di otto distici. Nella seconda seduta scriveva cinque saggi su di un tema classico. Nella terza scriveva cinque saggi sull’arte di governo. Ai candidati promossi (meno del due per cento) toccava l’onore dell’esame finale, nella capitale dell’impero. Questo esame consisteva di una sola seduta, e il candidato scriveva un saggio su un problema d’attualità politica. I promossi in maggioranza diventavano funzionari dello Stato, e l’importanza dell’incarico era proporzionata al voto ottenuto. Questo sistema funzionava bene.

Il sistema cinese fu studiato dagli europei fra il 1815 e il 1830 e nel 1832 lo adottò la Compagnia delle Ind-ie Orientali. Un’apposita commissione, nel 1854 (ne era presidente il Macaulay) studiò la bontà del metodo, che fu poi introdotto, nel 1855, nella nostra burocrazia. Aspetto essenziale degli esami alla maniera cinese è il loro carattere letterario. I candidati dovevano dar prova di buona conoscenza dei classici, di capacità di scrivere in modo elegante (sia in prosa che in poesia). Dovevano inoltre dimostrare d’aver il fiato occorrente a terminare la lunga prova. Il Rapporto Trevelyan-Northcote faceva sue tali caratteristiche, e cosi pure il sistema che da quel rapporto nacque. Si partiva insomma dal presupposto che la cultura classica e la bravura letteraria mettessero qualsiasi candidato in grado di occupare qualsiasi posto nella nostra burocrazia. Si partiva dal presupposto (certo non errato) che una cultura scientifica non serve a nulla – tranne, forse, alla scienza. Si partiva infine dal presupposto che fosse impossibile stabilire una graduatoria di merito fra candidati esaminati in discipline diverse. Giacché è impossibile stabilire se è migliore A in geologia o B in fisica, è pratico, almeno, poterli escludere ambedue perché non servono. Ma se invece tutti i candidati debbono, come esame, scrivere versi in greco o in latino, diventa relativamente facile stabilire chi ha scritto i versi migliori. Cosi uomini scelti in base alla loro bravura nelle materie classiche venivano poi mandati a governare l’India. Quelli che si classificavano subito dopo i primi, restavano in Inghilterra, a governarla. Gli altri o venivano respinti oppure mandati in colonia. Certo, sarebbe ingiusto affermare che questo sistema sia stato un fallimento, ma esso non può certo vantare la fortuna che toccò agli altri sistemi sin allora in uso. Intanto niente poteva garantire che il candidato coi voti migliori non si dimostrasse poi completamente scemo; ciò che non di rado avvenne veramente. Perché la capacità di scrivere versi in greco può essere anche l’unica di cui un individuo è provvisto. Si è dato anche il caso di candidati vittoriosi che all’esame si eran fatti impersonare da qualcun altro, dimostrandosi poi del tutto incapaci di scrivere, all’occorrenza, poesie in greco. Insomma la scelta basata sull’esame di concorso ha avuto un successo non mai più che modesto.

Ma per quanto il sistema suddetto sia difettoso, è certo che esso ha dato risultati migliori, rispetto ad ogni altro sistema escogitato dopo di allora. I metodi moderni si basano sulla prova dell’intelligenza e sul colloquio psicologico. La prova dell’intelligenza ha un difetto: quelli che meglio la superano si rivelano poi analfabeti o quasi. Si spreca infatti tanto di quel tempo a studiare l’arte di farsi esaminare che al candidato non ne resta per studiare altro. Il colloquio psicologico è ormai diventato, come molti sanno, una sorta di casalingo giudizio di Dio. I candidati vanno tutti assieme a trascorrere la domenica in un bel posto, sotto l’osservazione continua degli esperti. Se uno di loro inciampa sullo stuoino, davanti all’uscio, e dice “accidenti!” gli esaminatori, che stanno in agguato nascosti, levan di tasca il taccuino e annotano: “ Scarsa coordinazione fisica” e “ Carenza di autocontrollo”. Non occorre descrivere questo metodo in tutti i particolari, ma i risultati di esso li abbiamo sott’occhio ed è inutile dire che sono quanto mai deplorevoli. Gli individui che riescono in esami di questo tipo hanno di solito temperamento cauto e sospettoso, pedantesco e mediocre: parlano poco e non fanno nulla. Assai usuale, quando si assume gente con questo metodo, che l’unico fra cinquecento candidati sia poi messo da parte dopo poche settimane perché è inutile e perfino inferiore al livello dei suoi colleghi al ministero. Insomma tra i vari metodi di scelta finora sperimentati, l’ultimo è senza dubbio il peggiore.

E in avvenire quale metodo si dovrà usare? Una indicazione per le nostre ricerche ci può venire da un aspetto poco reclamizzato della tecnica selettiva contemporanea. Accade così di rado di dover assumere al ministero degli Esteri un traduttore dal cinese che il metodo usato in tali casi lo conoscono pochissimi. Si fa il bando per quel posto e le domande vengono esaminate (è un nostro esempio) da una commissione di cinque individui, dei quali tre sono funzionari dello Stato e due studiosi cinesi eminentissimi. Ammucchiate sul tavolo dinanzi alla commissione ci sono 483 domande con allegate le referenze. Tutti i candidati sono cinesi e tutti, senza eccezione, hanno almeno la laurea all’Università di Pechino o di Amoy e la libera docenza in filosofia a Cornell o alla John Hopkins. Non ce n’era neanche uno che non fosse stato ministro nel governo di Formosa. Alcuni hanno allegato la fotografia, altri (forse han fatto bene) se ne son ben guardati. Il presidente si rivolge al più autorevole fra i due esperti cinesi e dice: “Penso che il dottor Wu possa dirci quali tra i candidati debbano costituire la terna. ” Il dottor Wu ha un sorriso enigmatico e indica il mucchio delle domande. “Nessuno di questi va bene,” si limita a dire. E il presidente, sorpreso; “Ma come… voglio dire, perché no?” “Perché un vero studioso non avrebbe mai fatto domanda, nel timore di perdere la sua reputazione, una volta respinto.” “E allora cosa dobbiamo fare?” chiede il Presidente. “Forse,” dice il dottor Wu, “convinceremo il dottor Lim ad accettare questo posto. Cosa ne pensa lei, dottor Li?” “Sì, credo di sì,” dice il dottor Li, “ma non possiamo naturalmente avvicinarlo di persona. Chiederemo al dottor Tan se a suo avviso il posto può interessare al dottor Lim.” “Io non conosco il dottor Tan,” dice il dottor Wu, “ma conosco il suo amico, dottor Wong.” A questo punto il presidente ha in capo una tale confusione che non sa chi bisogna avvicinare e chi deve compiere l’avvicinamento. Ma la cosa importante è che tutte le do mande finiscono nel cestino, che si prende in considerazione solo un candidato, il quale non ha neppure fatto domanda.

Noi non consigliamo l’adozione generale del metodo cinese moderno, ma da esso possiamo trarre una conclusione utile: il fallimento degli altri metodi è dovuto soprattutto al fatto che ci sono troppi candidati. Tutti sanno che con qualche accorgimento iniziale se ne può subito ridurre il numero. Ormai è d’uso comune la formula “esclusi quelli in età superiore ai cinquanta, più tutti quelli in età inferiore ai venti, più tutti gli irlandesi”. Applicando questa formula si riduce notevolmente la lista, ma i nomi che restano son pur sempre troppi. È veramente impossibile scegliere tra trecento persone tutte ben, come suol dirsi, “referenziate”, e tutte egualmente raccomandate. Siamo quindi indotti a pensare che lo sbaglio stia nel bando di concorso. Esso ha invogliato troppa gente a far domanda, e questo tè un inconveniente di cui pochi si rendono conto, tanto vero che si redigono bandi in termini tali che inevitabilmente le domande piovono a migliaia. Si annuncia per esempio che è disponibile un posto di responsabilità, perché chi lo occupava è entrato a far parte della Camera dei Lords: ricco stipendio, ottima pensione, compiti nominali, privilegi immensi, incerti apprezzabili, alloggio gratuito, macchina ministeriale e illimitate agevolazioni di viaggio. I candidati facciano domanda immediata ma precisa accludendo copie (mai gli originali) di non oltre tre referenze. Risultato? Un diluvio di domande: parecchie sono di pazzi, altrettante di maggiori dell’esercito a riposo, ma abilissimi (lo affermano sempre) nell’arte di trattare gli uomini. In questo caso non c’è altro da fare che dar fuoco al mucchio delle domande e riflettere daccapo sulla questione. Si sarebbe risparmiato tempo e fastidio riflettendo prima di emanare il bando.

Ci vuol poco a comprendere che il bando di concorso, quando è perfetto, provocherà una sola domanda, e cioè quella dell’unico uomo adatto ad occupare quel posto. Cominciamo con un esempio paradossale :

Cercasi acrobata capace di camminare su un filo teso a 60 metri di altezza sopra un falò ardente. Due volte per sera, il sabato tre volte. Offresi salario 25 sterline settimanali. Non esiste pensione né indennità in caso di incidenti. Presentarsi personalmente al Circo del Gatto Selvatico fra le 9 e le lo del mattino.

La redazione di questo bando forse non è perfetta, ma lo scopo e quello: trovare il punto preciso di equilibrio tra l’attrattiva dello stipendio e il rischio, in modo che si presenti un solo candidato. Il posto non interesserebbe certo a chi non è pratico della danza sul filo. È inutile aggiungere che il candidato deve essere sano nel fisico, astemio e non soggetto a vertigini. È inutile aggiungerlo perché il candidato lo sa. È anche inutile precisare che sono esclusi quelli che non sopportano le grandi altezze. Essi si escluderanno da sé. L’abilità di chi redige il bando sta nel bilanciare lo stipendio con il pericolo. Se offrisse 1.000 sterline alla settimana avrebbe una decina di domande. Se ne offrisse 15 non ne avrebbe alcuna. La somma esatta da specificare, la cifra minima capace di attrarre chi davvero sa compiere l’impresa sta fra le 15 e le 1.000 sterline. Se c’è più di un candidato, ciò significa che la cifra è un pochino troppo alta. E ora, all’opposto, prendiamo un altro esempio, meno paradossale:

Cercasi archeologo fornito di grandi titoli accademici, desideroso di trascorrere quindici anni agli scavi delle Tombe Inca, a Helsdump sul fiume degli Alligatori. Si garantisce croce di cavaliere ufficiale o titolo equipollente. Stipendio 2.000 sterline annue. Prevista la pensione, che sinora però nessuno ha riscosso. Domanda in triplice copia al direttore dell’Istitut0 Grubbenburrow, Sickdale, III., U.S.A.

In questo bando c’è un perfetto equilibrio fra vantaggi e svantaggi. Non c’è bisogno di precisare che i candidati dovranno essere resistenti, coraggiosi e scapoli. È anche inutile aggiungere che i candidati debbono andar pazzi per le tombe, perché certamente essi dovranno essere pazzi. Avendo così ridotto a un massimo di circa tre il numero dei candidati, il bando ha avuto l’accortezza di proporre uno stipendio troppo esiguo per lusingare due di essi e una onorificenza esattamente bastevole a interessare il terzo. È lecito supporre che offrendo la commenda si sarebbero avute due domande, mentre offrendo la croce di cavaliere semplice non ce ne sarebbe stata alcuna; il bando di cui abbiamo dato esempio invece provoca un solo candidato, il quale è certamente pazzo. Ma questo non importa: abbiamo trovato l’uomo che cercavamo.

Qualcuno dirà che È poco probabile il caso di dover assumere un danzatore su filo o uno scavatore di tombe, e che ben più spesso invece si presenta il problema di trovare candidati a posti molto meno esotici. Questo è vero, ma certi principi restano validi. Supponiamo ora che il posto messo a concorso sia quello di Primo Ministro. Oggi si tende ad accettare con fiducia vari metodi elettivi, con risultati che quasi invariabilmente sono disastrosi. Ma se invece noi ripensassimo alle favole della nostra infanzia ci accorgeremmo che all’epoca a cui tali favole si riferiscono usavano metodi assai più soddisfacenti. Quando il re doveva scegliere l’uomo che sposasse la sua figlia maggiore (o l’unica sua figlia) per ereditare il regno, egli di solito preparava una sorta di corsa ad ostacoli dalla quale usciva con onore solo l’uomo adatto. (Anzi, in molti casi da tale corsa usciva soltanto l’uomo adatto.) Per apparecchiare la prova i re di quell’epoca, non troppo nettamente definita, erano ben provvisti di personale e di attrezzature: maghi, demoni, fate, vampiri, lupi, mannari, giganti e nani. I loro reami erano provvisti di montagne magiche, fiumi di fuoco, tesori nascosti e foreste incantate. Qualcuno dirà che sotto questo aspetto gli attuali governanti sono meno fortunati, ma questo in realtà è tutt’altro che certo. Chi ha ai suoi ordini psicologi, psichiatri, alienisti, esperti di statistica, tecnici dell’efficienza, non si trova in condizione peggiore (e nemmeno migliore) di chi una volta poteva contare sull’intervento di orrende streghe e di provvide fate. Chi può disporre di macchine fotografiche, impianti televisivi, reti radiofoniche, apparecchi radiologici non si trova in condizione peggiore (e nemmeno migliore) di chi un tempo usava bacchette magiche, globi di cristallo, pozzi del desiderio e mantelli dell’invisibilità. O almeno è possibile il raffronto fra i mezzi rispettivi di cui gli uni e gli altri dispongono o disponevano. Occorre solo tradurre la tecnica delle fiabe in una forma che vada bene per il mondo moderno. E questo, come vedremo, può farsi senza sostanziali difficoltà.

Per prima cosa occorrerà stabilire quali doti si richiedono al Primo Ministro, doti che non in tutti i casi saranno le medesime, ma dovranno essere stabilite ed espresse volta per volta. Supponiamo che le doti fondamentali siano: 1. energia, 2. coraggio, 3. patriottismo, 4. esperienza, 5. popolarità e 6. eloquenza. Il lettore noterà subito che tali doti sono generiche e che forse tutti i candidati riterranno di possederle. Sarebbe facile restringere il campo chiedendo “esperienza come domatore di leone” ed “eloquenza in lingua mandarina”. Ma non È in questo modo che noi vogliamo restringere il campo. Noi non vogliamo chiedere una qualità in forma specifica, ma piuttosto ciascuna qualità in altissimo grado. In altre parole il candidato vittorioso dovrà essere l’uomo più energico, più coraggioso, più patriottico, più esperto, più popolare e più eloquente del paese. Solo un uomo evidentemente può essere tale, e noi appunto vogliamo avere la sua domanda. Il bando deve essere redatto in modo tale da escludere tutti gli altri. Ecco un esempio di come dovrebbe suonare.

Cercasi Primo Ministro di Ruritania. Orario di lavoro: dalle 4 del mattino alle 11,59 della sera. I candidati dovranno battersi in tre riprese contro il campione dei pesi massimi (con guanti regolamentari). I candidati moriranno per la patria, con mezzi indolori, una volta raggiunta l’età della pensione (65). Dovranno sostenere un esame di procedura parlamentare e ove non ottengano una votazione di almeno 95/ 100 saranno liquidati. Saranno liquidati anche non ottenendo almeno il 75 per cento di voti favorevoli da una inchiesta condotta col metodo Gallup per stabilire la loro popolarità. Infine dovranno dar prova di eloquenza in una chiesa Battista, pronunciandovi una predica allo scopo di convincere i presenti a ballare il rock and roll. Saranno liquidati tutti quelli che non riusciranno nella prova. I candidati si presentino al Circolo Sportivo (entrata laterale) alle 11,15, la mattina del 19 settembre. Saranno loro forniti i guanti da pugilato, ma dovranno provvedere da sé alle scarpe gommate, alla maglietta e ai calzoncini.

Il lettore noterà che questo bando elimina l’impiccio dei moduli, delle referenze, delle fotografie e delle terne di candidati. Se il bando è redatto in modo giusto, ci sarà solo un candidato, il quale potrà insediarsi al suo posto immediatamente o quasi. Ma cosa succede se non ci saranno candidati? Questo è segno che occorre redigere il bando in forma nuova, e che noi abbiamo evidentemente chiesto qualcosa che non esiste. Perciò si può utilizzare lo stesso bando (che dopotutto occupa poco spazio) con qualche lieve modifica. Per esempio si può ridurre il voto richiesto da 95 a 85/100, oppure contentarsi di un 65 per cento nell’inchiesta sulla popolarità, o di due sole riprese per l’incontro di pugilato col campione dei pesi massimi. Si può insomma mitigare le condizioni fino a che non compare una domanda.

Ma supponiamo invece che si presentino due o anche tre candidati. Questo sarà segno della nostra insufficienza scientifica. Sarà segno che abbiamo abbassato troppo il voto richiesto, e che dovevamo fissarlo all’87/100 con un 66 per cento di popolarità. Qualunque sia la causa, ormai il danno è fatto. In sala d’aspetto ci sono due, e magari tre candidati. A noi tocca scegliere e non possiamo buttar via tutta la mattinata. Qualcuno consiglierà di avviare il duello all’ultimo sangue eliminando i candidati di minor merito. Ma non è questa la maniera più sbrigativa. Supponiamo che tutti e tre i candidati abbiano le doti da noi considerate essenziali. La cosa migliore È chieder loro un’altra dote e ricorrere alla più semplice fra le prove. Cioè chiedere alla signorina più a portata di mano (una segretaria o una dattilografa, secondo il caso): “Lei quale preferisce?” La signorina indicherà subito uno dei candidati e la storia sarà finita. Qualcuno ha obiettato che questo equivale a lanciare in aria la monetina o comunque a lasciar che decida il caso. Invece il caso non c’entra. Si tratta solo di un’ulteriore dote, entrata in ballo all’ultimo momento, e che finora non avevamo tenuto in nessun conto, la dote del sex appeal.

 

 

DELLA COMITOLOGIA

ossia

IL COEFFICIENTE DI INEFFICIENZA

Il ciclo vitale del comitato ha una importanza tale per la nostra conoscenza dei problemi d’attualità che c’è da meravigliarsi del fatto che cosi scarsa attenzione sia stata dedicata a quella scienza che si chiama comitologia. Tale scienza si basa su un principio primo ed elementarissimo: ogni comitato, ogni consiglio, ha carattere organico e non meccanico: esso non è una struttura, ma una pianta. Esso mette radici e cresce, fiorisce appassisce e muore, spargendo il seme da cui a loro volta fioriranno altri consigli, altri comitati. Solo coloro che tengono in mente tale principio possono sperare di procedere nella comprensione della struttura e della storia del governo moderno.

I consigli (oggi tutti lo riconoscono) si dividono all’ingrosso in due categorie: a. Quelli da cui i singoli membri hanno qualcosa da guadagnare; b. Quelli a cui i singoli membri hanno qualcosa da dare. Per il nostro scopo, i casi che appartengono al secondo gruppo hanno un’importanza molto relativa; alcuni anzi non credono nemmeno che possano chiamarsi consigli. Dal primo gruppo, di gran lunga il più numeroso, è più facile apprendere i principi che, con qualche lieve modifica, valgono in tutti i casi. Fra i consigli del primo gruppo i più lussureggianti e i più profondamente radicati son quelli che danno ai propri membri maggior potenza e maggior prestigio. Quasi in ogni parte del mondo tali consigli si chiamano consigli di stato o “gabinetti”. Questo capitolo si fonda su un ampio studio dei gabinetti di varie nazioni, nello spazio e nel tempo.

I comitologi e gli storici, ma anche le persone ordinarie che nominano i gabinetti, ritengono, dopo un attento esame al microscopio, che la grandezza ideale di un gabinetto non debba superare il numero di cinque. Entro questi limiti la pianta è vitale, giacché consente che due dei cinque siano ammalati o assenti contemporaneamente. È facile convocare cinque persone le quali, una volta riunite, possono funzionare con competenza, segretezza e velocità. Di questi cinque membri, quattro saranno versati, rispettivamente, nelle finanze, in politica estera, in problemi relativi alla difesa, e nell’amministrazione della giustizia. Il quinto, non essendo riuscito a impadronirsi di nessuna di queste scienze di solito vien nominato Presidente o Primo Ministro.

Pur essendo chiaro che è meglio limitare il numero dei membri a cinque, l’osservazione ci insegna che assai presto tale numero sale a sette o nove. Tale aumento, pressoché inevitabile (fanno eccezione tuttavia il Lussemburgo e l’Honduras), si giustifica con il pretesto che occorre una competenza specifica in più che quattro argomenti soltanto. Ma la ragione, potentissima, per cui la squadra si amplia è un’altra. Infatti in un gabinetto di nove ministri si noterà che tre prendono le decisioni, due forniscono informazioni, uno dà consigli d’ordine finanziario. Il Presidente è neutrale e lui compreso i membri che funzionano sono sette. Gli altri due – lo si capisce a prima vista – son lì per motivi meramente ornamentali. Questa divisione di compiti si manifestò per la prima volta in Inghilterra verso il 1639, ma non c’è dubbio che già da molto tempo si era manifestata la pazzia di includere più di tre uomini capaci ed eloquenti in un consiglio. Noi non sappiamo nulla sulla funzione degli altri due membri, quelli che tacciono, ma c’è motivo di credere che un gabinetto, al secondo stadio del suo sviluppo, non possa funzionare senza di loro.

Esistono gabinetti (vengono subito in mente alcuni esempi: Costarica, Equador, Irlanda del Nord, Liberia, Filippine, Uruguay e Panama) che sono rimasti al secondo stadio, cioè hanno limitato a nove il numero dei propri membri. Ma si tratta comunque di una piccola minoranza. Altrove, in paesi più vasti, in genere tutti i gabinetti sono andati soggetti alla legge della crescita. Si ammettono nuovi membri, alcuni a motivo della loro competenza specifica, altri – e sono i più – perché darebbero troppo fastidio restando fuori. Si può vincere la loro opposizione solo compromettendoli nelle decisioni che si prendono. Man mano che essi entrano (e si calmano) il numero totale dei membri cresce da dieci a venti. In questa terza fase già si presentano notevoli svantaggi.

Lo svantaggio più evidente è la difficoltà di riunire tante persone nello stesso posto, lo stesso giorno, alla stessa ora. Uno parte il 18, un altro sarà di ritorno solo il 21. Un terzo non è mai libero di giovedì, un quarto irreperibile prima delle cinque pomeridiane. Ma questo è solo l’inizio dei guai perché una volta che la maggioranza sia riunita, assai grande è la possibilità che alcuni membri siano troppo vecchi, stanchi, sordi o incapaci di farsi ascoltare. Pochi son stati scelti col presupposto che siano, siano stati, possano essere utili. Magari molti di essi sono stati accolti nel gabinetto solo per cattivarsi la simpatia di un gruppo che sta al di fuori del gabinetto. Essi perciò tendono a riferire tutto ciò che accade al gruppo di cui sono rappresentanti. Va così perduta la segretezza e, quel che è peggio, i singoli membri cominciano a prepararsi in anticipo i discorsi che faranno. Pronunciano la loro orazione e dopo raccontano agli amici quello che immaginano di aver detto. Ma quanto più chiacchierano questi membri meramente ornamentali, tanto più i gruppi esterni insistono a chiedere nuovi membri che li rappresentino. Si formano così fazioni interne le quali cercano di acquistare forza reclutando elementi nuovi. Si raggiunge e si sorpassa il traguardo dei venti. E così, all’improvviso, il gabinetto entra nella fase numero quattro, quella finale, della sua storia.

A questo livello di evoluzione del gabinetto (cioè fra i 20 e i 22 membri) tutto il consiglio va soggetto a un improvviso mutamento chimico, anzi organico. Facile discernere e intendere la natura di questo mutamento. In primo luogo i 5 membri che contano davvero si riuniscono per conto proprio prima che si raduni il consiglio. Essendo già state prese le decisioni, agli altri resta poco da fare. Di conseguenza cessa ogni resistenza all’ulteriore aumento del consiglio. Crescendo il numero dei membri non si sprecherà tempo in più; infatti le riunioni del consiglio sono sostanzialmente tempo sprecato. Perciò la pressione di gruppi esterni viene temporaneamente soddisfatta accettando i loro rappresentanti, e passeranno decine d’anni prima che essi comprendano quanto sia illusorio questo vantaggio. Spalancate le porte, il numero dei membri sale da 20 a 30 e poi da 30 a 40. Può darsi che presto ci capiti di vedere un gabinetto che raggiunge il traguardo dei 1000 membri. Ma questo non importa. Infatti il gabinetto ha cessato di essere un gabinetto vero, e le sue vecchie funzioni sono passate a qualche altro organo.

Cinque volte, nella storia d’Inghilterra, la pianta ha percorso il suo ciclo vitale. Sarebbe certo difficile dimostrare che la prima incarnazione del gabinetto – il Consiglio della Corona che oggi si chiama Camera dei Lords – abbia mai avuto solo cinque membri. All’epoca di cui abbiamo qualche notizia, si era già perso il carattere originario di quel consiglio e il numero dei membri, tali in linea ereditaria, variava già da 29 a 50. In seguito il numero crebbe, di pari passo con la perdita del potere effettivo. Facciamo cifre tonde: nel 1601 60 membri, 140 nel 1661, 220 nel 1760, 400 nel 1850, 650 nel 1911 e 850 nel 1952.

Ma quando si formò l’embrione nel grembo della nobiltà inglese? Verso il 1257, quando i membri del consiglio, ristrettissimo, si chiamavano Lords del Consiglio del Re, ed erano meno di 10. Nel 1378 erano 11, e tanti rimasero fino al 1410. Poi, dopo il regno di Enrico IV, cominciarono a moltiplicarsi. I 20 del 1433 erano diventati 41 nel 1504, e giunsero ad essere 172 quando alla fine il consiglio smise di riunirsi.

All’interno del Consiglio del Re si sviluppò la terza incarnazione del gabinetto – si chiamava Consiglio Privato – che all’inizio contava nove membri. Sali a 20 nel 1540, a 29 nel 1547 e a 44 nel 1558. Il Consiglio Privato, man mano che perdeva in efficienza, cresceva di mole. Nel 1679 erano 47 i suoi membri, 67 nel 1723, 200 nel 1902 e 300 nel 1951.

All’interno del Consiglio Privato si formò il Consiglio di Gabinetto, che verso il 1615 si sostituì al primo. Erano solo otto membri all’epoca di cui abbiamo le prime notizie, ma nel 1700 si era già a 12, e a 20 nel 1725. Al Consiglio di Gabinetto si sostituì un gruppo nato nel suo grembo, che si chiamò semplicemente Gabinetto. Sullo sviluppo di quest’ultima pianta sarà bene esprimersi mediante una tabella. Eccola:

Tavola I

IL GABINETTO INGLESE

Anno 1740 1784 1801 1841 1885
Numero dei membri 5 7 12 14 16

 

Anno 1900 1915 1935 1939 1945
Numero dei membri 20 22 22 23 16

 

Anno 1945 1949 1954
Numero dei membri 20 17 18 00 00

 

Chiaro che dopo il 1939 si è cercato in ogni modo di salvare questa istituzione: qualcosa di simile ai tentativi che si fecero per salvare il Consiglio Privato durante il regno della Regina Elisabetta I. La fine del Gabinetto parve imminente nel 1940, poiché era sorto un gabinetto ad esso interno (5,7 o 9 membri) e pronto a prenderne il posto. È tuttavia un punto controverso. Può anche darsi che il gabinetto britannico .abbia ancora la sua importanza.

Rispetto al gabinetto britannico quello americano ha dimostrato straordinaria resistenza all’inflazione politica. Nel 1789 aveva cinque membri, il numero perfetto, ancora 7 soltanto nel 1840, 9 nel 1901, 10 nel 1913, 11 nel 1945, e poi – contro la tradizione – di nuovo 10 nel 1953. Non sappiamo quale sarà il successo di questo tentativo, avviato nel 1947, di ridurre il numero dei membri. L’esperienza starebbe a dimostrare che inevitabilmente si riprenderà la vecchia tendenza. Sia detto fra parentesi, gli Stati Uniti hanno un invidiabile primato, a mezzo col Guatemala e con El Salvador: un gabinetto con un numero di membri inferiore a quello del Nicaragua e del Paraguay.

E gli altri paesi? Quelli non totalitari hanno in maggioranza gabinetti varianti fra i 12 e i 20 membri. La media, su 60 paesi, è superiore a 16; più frequenti i gabinetti di 15 membri (se ne annoverano sette esempi) e di 9 (ancora sette esempi). Di gran lunga il più strano è il gabinetto neozelandese: uno dei suoi membri si proclama “ministro dell’agricoltura e delle foreste, ministro degli affari Maori, incaricato della conservazione del paesaggio”. Ai banchetti ufficiali neozelandesi il capotavola darà la parola al “ministro della Sanità, vice primo ministro, ministro incaricato delle aziende statalizzate, del censo e delle statistiche, della pubblicità e delle informazioni”. Per fortuna in altri paesi è assai rara una simile orientale abbondanza. Dagli esempi britannici par lecito dedurre che il livello dell’inefficienza si raggiunge quando il numero complessivo dei membri supera i 20 o forse i 21. Il Consiglio della Corona, il Consiglio del Re e il Consiglio Privato avevano tutti passato il segno dei 20 quando ne cominciò il declino. Il gabinetto inglese è oggi al di sotto di quel numero, essendosi appena salvato dall`abisso in cui stava precipitando. Da questi esempi saremmo tentati di dedurre che i gabinetti – come qualsiasi altro consiglio – con un numero di membri superiore ai 21 stanno già perdendo la realtà del potere, mentre quelli anche più numerosi l`hanno di già perduta. Ma una teoria siffatta non può reggere senza il sostegno delle prove statistiche. Eccone un esempio, solo parziale, sempre sotto forma di tabella.

 

Tavola II

MOLE DEI GABINETTI

Numero dei membri

Paesi

6

Honduras, Lussemburgo

7

Haiti, Islanda, Svizzera

9

Costarica Equador, Irlanda del Nord, Liberia, Panama, Uruguay

10

Guatemala, El Salvador, Stati Uniti

11

Brasile, Nicaragua, Pakistan, Paraguay

12

Bolivia, Cile, Perù

13

Columbia, Repubblica Domenicana, Norvegia, Tailandia

14

Danimarca, India, Sudafrica, Svezia

15

Austria, Belgio, Finlandia, Iran, Nuova Zelanda, Portogallo, Venezuela

16

Irak, Olanda, Turchia

17

Irlanda, Israele, Spagna

18

Egitto, Gran Bretagna, Messico

19

Germania Occidentale, Grecia, Indonesia, Italia

20

Australia, Formosa, Giappone

21

Argentina, Birmania, Canada, Francia

22

Cina

24

Germania Orientale

26

Bulgaria

27

Cuba

29

Romania

32

Cecoslovacchia

35

Iugoslavia

38

URSS

Non sarebbe forse lecito tracciare una linea sotto la parola Francia (21 membri di gabinetto) e spiegare che il consiglio dei ministri non ha più alcun potere nei paesi elencati al disotto di quella linea? Certi comitologi paion propensi ad accettare tale conclusione senza discutere più oltre. Altri invece consigliano maggiore prudenza, specialmente quando si esamini la situazione ai confini del 21. Ma ormai quasi tutti ammettono che il coefficiente di inefficienza deve trovarsi fra 19 e 22.

Possiamo tentare una spiegazione di questa ipotesi? Occorre però anzitutto fare una netta distinzione fra realtà e teoria, fra sintomo e malattia. Circa il sintomo più ovvio quasi tutti son d’accordo. Sappiamo infatti che una riunione a cui partecipino più di 21 persone comincia a cambiare carattere. All’uno e all’altro capo della tavola la conversazione si scinde e continua divisa in due tronconi. Per farsi sentire quindi chi parla all’intero uditorio deve alzarsi in piedi. Una volta ritto, non può evitare il discorso, se non altro per forza d’abitudine. “Signor presidente,” comincerà, “penso di poter affermare senza tema di smentita – e parlo sulla base di venticinque anni (potrei quasi dire ventisette) di esperienza – che la questione deve essere affrontata con la massima considerazione. Una pesante responsabilità incombe su di noi, signori, e per mia parte io… ”

In mezzo a tante chiacchiere inutili, quelli fra i presenti – se ce ne sono – che vogliono essere utili a qualcosa, si scambiano bigliettini su cui è scritto: “Vieni a desinare a casa mia, domani. Ne discuteremo.”

E cos’altro dovrebbero fare? Continua il ronzio interminabile di quella voce: l’oratore potrebbe anche parlare nel sonno. Il consiglio, di cui egli è il membro meno utile, ha smesso di contare qualcosa. È finito, disperato, morto.

Su questo non ci son dubbi. Ma la causa radicale dell’inconveniente va più a fondo, ed in qualche misura deve ancora essere messa in luce. Troppi fattori vitali restano sconosciuti. Per esempio: qual è la forma, quale la grandezza della tavola, in sala di consiglio? Quale l’età media dei presenti? A che ora si riunisce il consiglio? In un capitolo come è questo, dedicato cioè al lettore non specializzato, sarebbe assurdo ripetere i calcoli grazie ai quali si è stabilito un primo coefficiente di inefficienza. Basti quindi sapere che dopo lunghe ricerche l’Istituto di Comitologia ha stabilito una formula ormai largamente (anche se non universalmente) accettata dagli esperti del ramo. Non sarà male premettere che i tecnici i quali hanno svolta l’inchiesta presupponevano clima temperato, poltrone di cuoio, astemia quasi completa. Ciò premesso, ecco la formula

Nella nostra formula m indica il numero medio dei membri presenti; ° il numero dei membri che

subiscono l’influenza di pressioni esterne; d la distanza, espressa in centimetri, fra i due membri che seggono più lontani l’uno dall’altro; p la pazienza del presidente, misurata secondo la scala Peabody; b la pressione sanguigna media dei tre membri più anziani, rilevata poco prima della riunione. In tal modo X ci darà il numero dei membri presenti nel momento in cui è manifestamente impossibile che il consiglio possa più funzionare. Ciò dà in altre parole il coefficiente di inefficienza, che dovrebbe stare fra il 19,9 e 22,4. (Si scusino i decimali, i quali stanno a indicare le assenze parziali; cioè i membri che non hanno partecipato a parte della seduta.)

Non sarebbe giusto concludere, dopo solo una rapida occhiata all’equazione, che la scienza comitologica è molto progredita. I comitologi e i subcomitologi non oserebbero mai vantarsene, se non altro per timore della disoccupazione. Anzi, essi affermano che i loro studi sono appena agli inizi, e che siamo alle soglie di formidabili sviluppi. Facendo perciò la tara dell’interesse personale – cioè diminuendo del 90 per cento quel che essi affermano – possiamo tuttavia concludere che c’è ancora molto lavoro da svolgere.

Volendo, potremmo indicare la formula grazie alla quale si determina il numero perfetto dei membri di un consiglio. Il numero aureo giace fra il 3 (sotto del quale non esiste più il quorum) ed il 21 circa (oltre il quale l’organismo comincia a morire). Qualcuno ha avanzato l’ipotesi, di per sé interessante, secondo la quale il numero perfetto sarebbe otto. Perché? Perché, come si vede dalla nostra Tabella II, è l’unico numero che tutti gli stati esistenti hanno unanimemente evitato. Teoria affascinante, certo, ma che offre il fianco a una grave obiezione. Re Carlo I preferì proprio il numero otto per il suo Consiglio di Stato. E avete visto che bella fine ha fatto?

 

 

 

LA VOLONTÀ DEL POPOLO

ossia

IL GRANDE RADUNO

 

Tutti vedono la differenza fondamentale fra le istituzioni parlamentari inglesi e francesi, poi copiate da tutte le altre assemblee che da quelle due derivano. E tutti intendono che tale differenza, nettissima, non ha nulla a che fare con il temperamento dei due popoli. Deriva invece dai criteri con cui si mettono seduti i membri dei due parlamenti. Gli inglesi, che hanno alle spalle un’educazione sportiva, entrano nella Camera dei Comuni con lo stato d’animo di chi preferirebbe fare qualcosa d’altro. Se là dentro non possono giocare a tennis o a golf, per lo meno possono far conto che la politica sia un gioco, con regole molto simili a quelle che governano tutti i giochi. Senza questo trucco della fantasia, il Parlamento avrebbe un interesse anche minore di quello che ha. Cosi gli inglesi, quasi per istinto, formano due squadre contrapposte. con tanto di arbitro e di segnalinee, e si battono, a parole, fino all’esaurimento. La camera dei Comuni è fatta in modo tale che il singolo Membro è costretto, in pratica, a schierarsi da una parte o dall’altra, prima ancora di sapere di che cosa si parla. L’inglese è stato educato, sin dalla nascita, a giocare a pro della sua squadra, e questo fatto gli risparmia ogni indebito sforzo mentale. Quando in punta di piedi va a sedersi al suo posto (l’oratore ha quasi finito) egli sa esattamente come intervenire nella discussione, proprio in quel momento. Se chi parla e della parte sua dirà. “Bene, bene.” Se invece della Parte opposta, potrà dire senza paura: “Vergogna! o anche solo: “Oh!” In seguito, se gli va, può anche chiedere al suo vicino di che cosa, secondo lui, si sta parlando. A rigore però non e indispensabile. In ogni caso il Membro ne sa quanto basta per non calciare la palla verso la porta propria. Gli uomini seduti dalla parte. opposta hanno sempre torto, e tutto quel che dicono sono chiacchiere inutili. Invece gli uomini che sian seduti dalla parte sua son tutti grandi statisti, e i loro discorsi una felice miscela di saggezza, eloquenza e moderazione. Non conta sapere dove abbia fatto i suoi studi politici, il nostro Membro: qualunque sia la sua università, vi avrà imparato soprattutto questo: quando è il momento di applaudire e quando invece di disapprovare. Comunque il sistema britannico, come già abbiamo detto, dipende solo dalla disposizione dei seggi. Se le panche non fossero disposte in due file, l`una di fronte all’altra, nessuno più distinguerebbe il vero dal falso, la saggezza dalla pazzia. Occorrerebbe in questo caso stare a sentire quel che dice il prossimo, cosa quanto mai ridicola perché una metà dei discorsi sono necessariamente privi di significato.

L’errore francese fu quello di disporre i seggi dei rappresentanti a semicerchio, tutti fronte alla presidenza. Non dico immaginatevi la confusione che ne deriva, perché immaginarsi è inutile: sanno tutti come stanno le cose. In tal modo risulta impossibile formare due squadre contrapposte e stabilire (se non ascoltando i discorsi altrui) qual è l’argomentazione più convincente. Ulteriore svantaggio: la lingua francese (gli Stati Uniti ebbero l’accortezza di non seguire tale esempio). Ma anche senza difficolta di ordine linguistico, il sistema francese e già di per sé scadente. Invece di costituire due parti (quella giusta e quella sbagliata), in modo che sia subito chiaro come stanno le cose, i francesi formano una moltitudine di squadre, fronte da ogni parte. C’è in campo una tale confusione che nemmeno può cominciare il gioco. I rappresentanti si distinguono, sostanzialmente, in una destra e in una sinistra, a seconda del posto in cui siedono. Ottimo criterio: peccato che i francesi non abbiano pensato anche a disporre i loro rappresentanti in ordine alfabetico. Infatti la forma semicircolare della camera consente infinite sottili sfumature nei vari gradi di destrismo e di sinistrismo. Non c’è la netta divisione britannica fra destra e sinistra, fra giusto e torto. Si dirà, in Francia, che quel deputato è a sinistra di monsieur Untel, ma a destra di monsieur Quelquechose. Cosa possono fare i francesi? Cosa faremmo noi in Inghilterra con un sistema siffatto? La risposta è: “Nulla.”

Del resto lo sanno tutti. Si sa meno invece quale grande importanza abbia la disposizione dei seggi in altre assemblee, in altre riunioni, internazionali, nazionali, locali. Il discorso vale anche per le riunioni che avvengono attorno a un tavolo, come la famosa Conferenza della Tavola Rotonda. Basta pensarci un attimo e si comprenderà che una Conferenza della Tavola Quadrata sarebbe cosa totalmente diversa, e una Conferenza della Tavola Rettangolare sarebbe altra cosa ancora. Tali differenze non influiscono soltanto sulla lunghezza e sull’acrimonia della discussione; influiscono anche sulle decisioni (ammesso che se ne prendano). Assai di rado, come tutti sanno, la votazione ha qualche rapporto col merito della questione trattata. La decisione ultima dipende da molti fattori, alcuni dei quali occorre esaminare subito. Ma diciamo peraltro questo: la decisione vien sempre, di fatto, presa in base ai voti del blocco di centro. E questo non potrebbe accadere alla Camera dei Comuni, dove non si consente che nasca un blocco di centro. ll blocco di centro invece ha un’importanza decisiva nelle assemblee dell’altro tipo, ed è composto dagli elementi qui sotto indicati:

  1. Quelli che non han letto i documenti, le relazioni, i memorandum preparati prima della riunione e spediti da tempo a tutti coloro che dovrebbero parteciparvi.
  2. Quelli che son troppo stupidi per seguire la discussione. È facile distinguerli perché di solito costoro si dicono l’un l’altro: “Ma questo, di che cosa sta parlando?”
  3. I sordi. Tengono le mani a coppa sulle orecchie e borbottano: “Dovrebbero alzare la voce.”
  4. Quelli che a tarda notte erano ubriachi e si sono alzati (Dio sa perché) con un tremendo mal di capo, convinti che al mondo nulla più conta.
  5. I vegliardi, che si fanno un punto d’orgoglio d’essere sempre in gamba, più in gamba di parecchi fra questi giovani. “Son venuto a piedi,” bisbigliano. “A ottantadue anni è una bella impresa, non le pare?”
  6. I deboli, che per tale debolezza hanno promesso all’una e all’altra parte di dare il proprio voto, e non sanno come comportarsi. Sono indecisi: o astenersi o fingersi ammalati.

Chi vuol conquistare i voti del blocco di centro dovrà in primo luogo individuare e contare i membri che lo compongono. Ciò fatto, tutto il resto dipende solo dal posto in cui essi si metteranno a sedere. La cosa migliore è dare incarico a un amico (in senso politico) fidato e vigoroso di attaccare discorso, prima che cominci il dibattito, coi suddetti tipi del blocco di centro. In questa chiacchierata preliminare l’amico starà ben attento a non far parola della questione su cui si svolgerà il dibattito. Ci sono alcune mosse d’apertura che sarà bene insegnargli. Eccone sei, una per ogni tipo indicato sopra:

  1. “Tempo perso, dico io, tutta questa carta stampata. Io ho buttato ogni cosa nel cestino.”
  2. “Con tutte queste chiacchiere tra poco mi addormento. lo vorrei che la gente chiacchierasse meno e venisse subito al dunque. A me non la fanno, mi creda.”
  3. “L’acustica di questa sala è tremenda. Ma questi famosi tecnici che ci stanno a fare? NON SENTO NEMMENO LA METÀ DI QUEL CHE DICONO. E LEI?”
  4. “Che posto disgraziato! Secondo me dipende dalla ventilazione. Quasi mi sento male. E lei come si sente?”
  5. “ Davvero, ma come fa? Mi dica il segreto. Forse l’alimentazione?”
  6. “Ci sono tanti argomenti pro e contro che io non so davvero a chi dare il voto. Lei cosa mi consiglia?”

Se l’amico sa far bene queste mosse iniziali, riuscirà a intavolare una vivace conversazione, e intanto piloterà il suo uomo, quello del blocco di centro, verso l’aula. Intanto un altro compare si metterà davanti alla coppia, e avanzerà nella loro stessa direzione. Ma sarà meglio ricorrere a un esempio concreto. Supponiamo che l’amico (politico naturalmente) signor Gagliardi piloti il signor Malcerti (blocco di centro, tipo ƒ) verso un seggio che sta quasi dinanzi alla presidenza. Davanti a loro avanza l’altro amico, il signor Fedeli, il quale si mette a sedere, facendo finta di non aver veduti i due che lo seguono. Fedeli infatti si volge dall’altra parte e saluta con la mano qualcuno, distante. Poi si sporge verso il seggio anteriore e dice qualcosa all’uomo che ci è sopra. Solo dopo che Malcerti si è messo a sedere, Fedeli si volgerà per dirgli: “Caro amico, son contento di vederla. ”Lascerà passare qualche minuto ancora, poi scorgerà Gagliardi e fingendosi sorpreso dirà: “Salve, Gagliardi, non credevo di incontrarla qua dentro!” E Gagliardi risponde: “Sto meglio, grazie. Era solo un raffreddore.” In tal modo la disposizione sui seggi apparirà casuale, e amichevole. Termina così la prima fase dell’operazione, che sarà la medesima indipendentemente dalla categoria a cui appartiene l’uomo del blocco di centro. La seconda fase invece muterà a seconda del carattere dell’uomo che bisogna influenzare. Nel caso del signor Malcerti (tipo ƒ) scopo della seconda fase è di evitare qualsiasi discussione sul problema in esame, e dargli l’impressione che ogni cosa è ormai già decisa. Seduto nelle prime file, Malcerti non può guardare i suoi colleghi, ed è quindi facile fargli credere che in pratica tutti la pensano allo stesso modo.

Gagliardi dirà: “Proprio non so cosa ci son venuto a fare. Mi par di capire che sul punto quattro son tutti d’accordo. Tutti quelli con cui ho parlato paiono decisi a votare a favore.” (O contro, a seconda del caso.)

“ Strano,” disse Fedeli. “Stavo appunto per dirlo. Ormai pare proprio che non ci siano dubbi.”

“Io non avevo ancora deciso,” dice Gagliardi. “Si posson dire tante cose pro le contro. Ma mettersi all’opposizione sarebbe proprio tempo sprecato. Lei cosa ne pensa, Malcerti?”

“Be’,” dice Malcerti, “ammetto che il problema mi sembra arduo. Da un lato ci sono buoni motivi per votare a favore… Ma d’altro canto… Lei crede che la mozione passerà? ”

“Caro Malcerti, le dirò che mi fido del suo giudizio. Lei mi diceva poco fa che sono già tutti d’accordo.”

“ Davvero le ho detto questo? Be”… pare che ci sia una maggioranza costituita… Ma d’altronde…”

“La ringrazio, Malcerti,” dice Gagliardi, “del consiglio. Anch’io la penso cosi, ma son contento di sentire che lei è dello stesso parere. Mi preme molto la sua opinione.”

Intanto Fedeli si è voltato a parlare con un tizio, seduto alle sue spalle. Gli dice, a bassa voce: “Come sta sua moglie? È uscita dalla clinica?” Ma quando si volge ancora, comunica che anche quelli di dietro la pensano allo stesso modo. Ormai in pratica la mozione è approvata. E se il piano d’azione è ben condotto, il voto sarà favorevole senz’altro.

Mentre la parte avversa si affatica a preparare discorsi e a redigere emendamenti, la parte nostra, superiore per tecnica, si sarà dedicata invece all’incastro di ciascun membro del blocco di centro fra due amici fidati. Quando si arriva al momento cruciale, la vista del collega di destra e di quello di sinistra che alzano la mano costringe il malcerto a fare il medesimo. Nel caso che si fosse addormentato (ciò che sovente accade ai membri del blocco di centro, categorie d ed e) provvederà il collega seduto alla sua destra ad alzargli la mano. Questo per non alzare tutte e due le mani, gesto riprovevole, a quanto dicono. Assicurato l’appoggio del blocco di centro, la mozione verrà approvata con un comodo margine; o respinta, se questo volevamo ottenere. Per ciò che riguarda le questioni controverse da dirimere secondo la volontà del popolo, possiamo dar per scontato che a decidere saranno i membri del blocco di centro. I discorsi rappresentano una palese perdita di tempo. Una fazione non sarà mai d’accordo, l’altra è d’accordo in partenza. Resta il blocco di centro, i cui rappresentanti si dividono in due gruppi: quelli che non sentono cosa si dice, quelli che, se anche sentissero, non capirebbero nulla. Per guadagnarsi i loro voti occorre soprattutto l’esempio di altri che, al loro fianco, votano in un certo modo. Son voti in mano al caso. Non è dunque meglio che li prenda chi sa il suo mestiere?

 

 

 

LO SCHERMO DELLA PERSONALITÀ

ovverossia

LA FORMULA DEL COCKTAIL

 

Il cocktail party è un elemento fondamentale della vita moderna. È un’istituzione su cui s’imperniano tutti i congressi: quello internazionale, quello di cultura, quello industriale. Tutti sanno che un congresso è impossibile senza almeno un cocktail party. Fino a questo momento però non se ne sono studiate scientificamente le funzioni ed i possibili usi. È quindi tempo di dedicare all’argomento un po’ di vigile attenzione. Innanzi tutto: quando si prepara un cocktail party, quali fini abbiamo in mente?

Alla domanda si risponderà in vari modi, e così appar subito chiaro che uno stesso party può servire a diversi scopi. Scegliamone uno a caso e vediamo come si possa raggiungerlo in modo più rapido e completo, applicando il metodo scientifico. Supponiamo che lo scopo sia quello di scoprire l’importanza relativa della gente invitata. Presupponiamo di conoscere già, di ciascuno, posizione sociale e anzianità di servizio. Ma noi vogliamo sapere l’importanza relativa al lavoro in corso. Spesso infatti accade che l`uomo, o la donna, chiave, non sia quello che ufficialmente sta più in alto, e che la sua effettiva influenza appaia chiara solo alla fine del congresso. Quanto più utile sarebbe stato saperlo prima che cominciasse! In tal senso assume importanza vitale il cocktail party, che si terrà il secondo giorno del congresso.

Essendo il nostro scopo d’ordine investigativo, presupponiamo che lo spazio in cui si svolge il cocktail party giaccia tutto al medesimo livello, e che ci sia un solo ingresso. Presupponiamo inoltre che il ricevimento durerà in effetti due ore e venti, anche se sui biglietti d’invito si parla di due ore esatte. Ultimo presupposto: i beveraggi circoleranno liberamente in tutta la zona che ci interessa: un bar visibilmente in funzione cambierebbe infatti la natura del nostro problema. Ciò premesso, come si può distinguere l’importanza reale da quella teorica degli ospiti che sono intervenuti?

La nostra indagine si baserà in primo luogo su di un fatto accertato: cioè la direzione della corrente umana. Sappiamo infatti che gli ospiti, arrivando, si dirigeranno automaticamente verso il lato sinistro della sala. Questo scivolamento a sinistra ha una sua spiegazione, molto interessante e, in parte, biologica. Il cuore è (o meglio, sembra essere) nella parte sinistra del corpo umano. Nelle forme primitive assunte dall’arte bellica si usa perciò uno scudo che protegga il lato sinistro del corpo, lasciando alla mano destra il compito di usare l’arma offensiva. L’arma offensiva più diffusa era un tempo la spada, riposta in una guaina o fodero. Giacche ad estrarre la spada provvede la mano destra, il fodero deve collocarsi a sinistra. Con il fodero a sinistra era fisicamente impossibile montare a cavallo dal lato destro dell’animale, a meno di non voler stare in groppa con la faccia alla coda, sistema non normale. Ma per montare a cavallo dal lato sinistro bisogna spostare la bestia sul lato sinistro della strada, in modo da non impacciare il traffico. Diventa perciò naturale, e giusto, tenersi a sinistra: chi fa il contrario (succede in taluni paesi arretrati) va nettamente contro i più profondi istinti storici. Se togliamo ogni arbitraria norma del traffico, un essere umano normale pende a sinistra.

Secondo fatto notorio: la gente preferisce tenersi alle pareti, anziché al centro della sala. Ciò appar chiaro se si osserva il modo in cui si riempie un ristorante. Per primi vengono occupati i tavoli lungo la parete di sinistra, poi quelli in fondo, poi quelli lungo la parete destra e infine (non senza riluttanza) quelli di centro. Tale è l’avversione umana allo spazio centrale, che certe imprese non sperano più ormai di colmarlo, e per questo creano la cosiddetta pista da ballo. Il lettore comprenderà che questo tipo di comportamento può essere sovvertito da qualche fattore estraneo: per esempio dal bel panorama che si ammira dalle finestre della parete di fondo. Se escludiamo cattedrali, ghiacciai, cascate, il ristorante si empirà necessariamente secondo lo schema suddetto, da sinistra a destra. Questa avversione per lo spazio centrale deriva da istinti preistorici. L’uomo delle caverne che entrava in casa, ossia in caverna, altrui, non era mai certo d’essere bene accolto e quindi voleva avere le spalle al muro, e spazio dinanzi a sé per muoversi. Al centro della caverna si sentiva troppo esposto. Perciò girava tutt’intorno alle pareti della caverna, grugnendo e brandendo la clava. L’uomo moderno si comporta pressoché allo stesso modo: anche lui borbotta fra sé e tormenta la cravatta. Il moto degli ospiti, all’interno di una sala, è identico a quello che abbiamo descritto al ristorante. C’è la tendenza alle pareti. Ma non, si badi bene, sino a toccarle.

Combinando questi due fatti noti, cioè la tendenza a sinistra e l’altra, a evitare lo spazio centrale, ecco la spiegazione biologica del fenomeno che tante volte abbiamo osservato coi nostri occhi: cioè la tendenza oraria del flusso umano. Può esserci qualche vortice, qualche mulinello di minor conto. Per esempio una donna che cerca di evitare l’amica che odia, oi che corre incontro a un’altra amica – anche più odiata della precedente – strillando “Cara!”: comunque il flusso generale è quello, attorno alla stanza, inesorabilmente. La gente che conta, la gente che, come suol dirsi “è nel giro”, sta di solito nel punto dove la corrente è più forte, ed avanza col moto generale a velocità media. Quelli invece che paiono risucchiati contro le pareti, assorti in profonda conversazione con persone che poi incontrano ogni settimana, non contano invece un fico secco. Quelli che si ficcano negli angoli della stanza sono i timidi, i deboli. Quelli che avanzano fino al centro della sala sono gli stravaganti o, più semplicemente, gli sciocchi.

Occorre poi studiare l’ora d’arrivo degli invitati. Possiamo senz’altro presupporre che la gente che conta arriva all’ora che essa stima più utile. Costoro non commetteranno mai l’errore di sopravvalutare la lunghezza del tragitto, arrivando dieci minuti prima che cominci il ricevimento. Né commetteranno l’errore di arrivare ansimanti quando la festa è già finita, perché si è loro fermato l’orologio. No, le persone che noi intendiamo identificare sanno scegliere il momento giusto. Quale momento? Quello nettamente stabilito da due considerazioni. I nostri individui non vorranno mai fare entrata prima che ci sia un certo numero di persone pronte a notarli. Ma nemmeno arriveranno dopo che gli atri individui importanti se ne sono andati (come spesso fanno) a un altro ricevimento, ed almeno un’ora prima della fine di esso. In tal modo potremmo concludere che il momento ideale per presentarsi a un ricevimento è tre quarti d’ora dopo l’inizio segnato sull’invito. Se per esempio il biglietto dice 6,30, l’ora ideale sarà 7,15. Il lettore forse avrà voglia di concludere che una volta scoperto questo, il nostro problema sia risolto. Qualcuno magari dirà: “Non importa quel che succede dopo. Basta guardare la porta, consultare l’orologio, ed ecco la risposta.” Ma il vero esperto sorriderà con benevola ironia. Chi può garantirci infatti che la persona la quale arriva alle 7,15 lo abbia fatto di proposito? Può darsi che qualcuno avesse intenzione di giungere alle 6,30 precise, ma ha fatto tardi perché ha sbagliato indirizzo, o perché l’orologio suo va indietro. Può darsi persino che qualcuno intervenga senza nemmeno l’invito, avendo sbagliato giorno e luogo. È lecito concludere che i personaggi importanti arriveranno fra le 7,10 e le 7,20, ma sarebbe errato ritener vero l’opposto, che cioè siano importanti tutti gli ospiti che si presentano a quell’ora.

A questo stadio della nostra ricerca bisogna pertanto sperimentare e completare la nostra teoria con mezzi empirici. Per intendere in pieno il comportamento delle correnti sociali, dovremo appunto ricorrere alla tecnica in uso nei laboratori di idraulica. Cosa fa lo scienziato? Se per esempio vuole rendersi conto del flusso dell’acqua attorno a un pilone di una data forma, aggiunge all’acqua un colorante, che poi fa scorrere su di una lastra di vetro. Sul vetro pone un modellino del pilone. Poi, dall’alto, fotografa il disegno tracciato dal colorante. Noi dovremmo pertanto marcare le persone notoriamente importanti – macchiarle insomma – e fotografare dall’alto il tragitto che compiono. Qualcuno dirà che non tè facile svolgere una ricerca con questi criteri. Ma per nostra fortuna sappiamo che un’esperienza del genere – “macchiare” le persone importanti – è già avvenuta, in una colonia inglese.

Successe questo: un ex governatore, circa un secolo fa, cercò di convincere tutti i maschi di qualche prestigio a indossare l’abito da sera nero, invece di quello bianco. Non accettarono i suoi consigli e il suo esempio mercanti, banchieri, avvocati, ma rispettarono il suo tacito ordine i funzionari dello stato, che non avevano in proposito opinione alcuna. Risultato: si stabili una tradizione che è continuata fino ai giorni nostri. Gli alti funzionari del governo vanno vestiti di nero, tutti gli altri di bianco. Ora, essendo i funzionari dello stato ancora importanti in quella particolare società, fu facile ai ricercatori seguirne i movimenti dall’alto di una balconata. Poterono addirittura fotografare, e non in una sola occasione, i loro movimenti. Ne venne fuori la conferma alle teorie sinora enunciate, e fu possibile giungere alle conclusioni che oggi finalmente possiamo rendere di pubblico dominio. I rilevamenti – attentissimi – provarono, senza più ombra di dubbio, che le giacche nere arrivavano fra le 7,10 e le 7,20; che circolavano attorno alla stanza in senso orario; che evitavano sia gli angoli che le pareti della stanza, che avevano addirittura orrore dello spazio centrale. Fino a questo punto il comportamento di questi individui conferma in pieno la nostra teoria. Ma poi si è rilevato, durante quelle indagini, un ulteriore e inatteso fenomeno. Una volta giunti a un punto di estrema destra della sala – occorreva una mezz’ora – per dieci minuti e più sostavano in quel punto. Poi se ne andavano, quasi all’improvviso. Solo dopo lungo ed attento studio delle pellicole impressionate si comprese il significato del loro comportamento. La pausa – questa fu la conclusione – serviva a consentire alle altre persone importanti di unirsi al gruppo. Insomma quelli che eran giunti alle 7,10 attendevano gli altri, giunti alle 7,20. Non occorreva molto tempo perché si compisse la radunata degli importanti. Essi desideravano solo farsi vedere dagli altri, come prova che erano in sala. Ciò fatto, cominciava la ritirata, che inevitabilmente era compiuta alle 8,15.

Le nostre osservazioni in quel limitato settore paiono potersi applicare ad ogni altro caso; e non è difficile applicare la formula. Per scoprire gli individui che veramente contano occorre dividere (solo mentalmente) il pavimento in quadrati, contrassegnarli, da sinistra a destra entrando, con le lettere A, B, C, D, E, ed F. Dall’ingresso all’estremità della sala, nel senso della profondità insomma, si marchino i numeri da 1 a 8. L’ora d’inizio del ricevimento si chiami H. Dal momento in cui arriva il primo ospite a quello in cui l’ultimo se ne va trascorreranno due ore e venti circa. Diciamo dunque H+140. Ormai è semplicissimo scoprire quali sono gli ospiti che davvero contano. Sono quelli che troviamo raggruppati nel quadrato E/7 fra l’ora H+75 e l’ora H+90. La persona più importante di tutte si troverà al centro del gruppo.

Il lettore comprenderà che l’efficacia di questa regola sta nel fatto che essa è poco nota. Perciò le cose descritte in questo capitolo si considerino segrete. Non sarà male riporle sotto chiave. Gli studiosi di scienze sociali conservino per sé queste notizie. Il volgo può fare a meno di leggerle.

 

 

 

 

ALTA FINANZA

ovverossia

IL PUNTO DI CADUTA DELL’INTERESSE

 

La gente che s’intende di alta finanza va divisa in due gruppi: quelli che hanno una cospicua ricchezza personale, e quelli che non l’hanno. Per il miliardario un milione di sterline è una cifra reale, comprensibile. Lo studioso di matematica ed il libero docente di economia (partiamo dal presupposto che facciano la fame) considerano un milione di sterline qualcosa di reale, allo stesso titolo di mille sterline, proprio perché non hanno mai posseduto né la prima né la seconda somma di denaro. Ma il mondo è pieno di gente che non fra i miliardari e i matematici, gente Cioè che non sa niente a proposito dei milioni, ma è abituata a vivere e a pensare sulla base delle migliaia. Le assemblee finanziarie sono in larga misura composte da individui di quest’ultimo tipo. Ne consegue un fenomeno che sinora molti hanno osservato, ma studiato nessuno. Lo potremmo chiamare Legge della Non Importanza. Enunciata nella forma più semplice, questa legge suona così: il tempo impiegato a discutere i punti all’ordine del giorno è inversamente proporzionale alla somma implicata.

Ora che ci ripenso. non mi sembra del tutto giusta la mia affermazione, che nessuno cioè ha mai fatto studi su questa legge. Se ne sono fatti, ma con criteri tali che i ricercatori non sono mai giunti a capo di nulla. Essi partivano infatti dal presupposto che avesse grande importanza la successione dei vari punti all’ordine del giorno. Altro loro presupposto: gran parte del tempo libero sarà dedicata ai punti fra l’uno e il sette, lasciando poi automaticamente passare tutti gli altri. Tutti sanno quali furono le conseguenze di questo sbaglio. La conferenza del dottor Guggenheim al congresso di Muttworth fu accolta con uno scherno che a quei tempi forse parve eccessivo, ma le discussioni che sull’argomento si ebbero in seguito paiono dimostrare che le critiche erano giuste. Cosi si sono sprecati anni in ricerche che non potevano approdare a nulla perché partivano da presupposti sbagliati. Noi ora vediamo chiaramente che la successione dei punti all’ordine del giorno ha importanza molto relativa, per ciò che attiene al nostro problema. E pensiamo anche, ormai, che fu fortunato il dottor Guggenheim a poter fuggire, come gli accadde, in mutande. Se avesse osato proporre quella sua conclusione al successivo congresso, che avvenne nel settembre, sarebbe stato accolto con ben altro che scherno. Il pubblico avrebbe pensato che l’insigne studioso intendeva perder tempo di proposito.

Se vogliamo che la nostra ricerca vada avanti, bisognerà dimenticare tutto quel che si è fatto sinora. Ricominciare dall’inizio, per comprendere appieno come funziona in realtà un’assemblea di finanzieri. Ad uso e consumo del lettore comune, esporremo le cose in forma drammatica. Cosi:

Presidente: “Siamo giunti al punto numero nove. Ascoltiamo il rapporto del nostro tesoriere, signor McPhail.”

Signor McPhail: “I preventivi circa il reattore atomico sono dinanzi agli occhi di lor signori, nell’appendice H al rapporto del sottocomitato. Lor signori vedranno che il progetto generale e l’impianto son già stati approvati dal professor McFission. Il costo totale ammonterà a 10.000.000 di sterline. Gli appaltatori, signori McNab e McHash, stimano di poter ultimare i lavori per l’aprile 1963. Tuttavia il signor McFee, nostro consulente, ci avverte che non possiamo sperare che i lavori siano in realtà compiuti prima dell’ottobre. Dello stesso avviso è il signor McHeap, famoso geofisico il quale asserisce che occorreranno lavori di puntello all’estremità sud dell’impianto. Il progetto relativo all’edificio principale si trova davanti agli occhi di lor signori – vedano l’appendice IX – e l’intera cianografia sta sul tavolo. Sarò ben lieto di dare altri chiarimenti ai signori membri di questa assemblea che ne facciano richiesta.”

Presidente: “ Ringrazio il signor McPhail per la lucida esposizione del progetto. Vogliano ora gli altri membri esporre il proprio punto di vista.”

A questo punto fermiamoci e consideriamo quali possano essere le opinioni dei vari membri. Supponiamo che siano undici, compreso il presidente ma escluso il segretario. Di questi undici membri quattro – compreso il presidente – non sanno che cosa sia un reattore. Degli altri otto, tre non sanno a cosa serve. Dei cinque che lo sanno, solo due hanno qualche idea del suo possibile costo. Uno di loro si chiama signor Isaacson, l’altro signor Brickworth. Ambedue sono in grado di intervenire. Supponiamo che parli per primo Isaacson.

Signor Isaacson: “Ebbene, signor presidente, vorrei poter nutrire maggior fiducia negli appaltatori e nel nostro consulente. Se ci fossimo subito rivolti al professor Levi, e se avessimo concesso l’appalto ai signori David e Golia, mi sarei sentito più tranquillo, circa questo progetto. Il signor Lyon-Daniels non ci avrebbe fatto perdere tempo cercando di indovinare quali saranno i possibili ritardi nel compimento del lavoro, ed il dottor Moses Bullrush ci avrebbe detto se occorrono davvero i lavori di puntello. ”

Presidente: “Certamente tutti apprezziamo la preoccupazione del signor Isaacson circa il compimento dei lavori nella maniera migliore possibile. Ritengo tuttavia che, essendo ormai ora tarda, non ci sia più tempo per chiedere il parere di altri consulenti tecnici. Certo, il contratto principale non è ancora stato firmato, ma già abbiamo speso considerevoli somme. Se non accettiamo il consiglio dei tecnici, che ci è costato del denaro, dovremo pagarne altrettanto.”

(Mormorio di approvazione degli altri membri)

Signor Isaacson: “Desidererei che il mio intervento fosse messo a verbale.”

Presidente: “Ma certo. Il signor Brickworth ha forse qualcosa da dire?”

Ora, il signor Brickworth è quasi l’unico a sapere di che cosa si stia parlando, e potrebbe dire molte cose. Intanto non lo convince quella cifra tonda, 10.000.000 di sterline. Perché proprio una somma così esatta? E poi chi è McHeap? Non è per caso quel tipo che fu citato in tribunale dalla Società Petrolifera Sciutti e Seccati? Ma questo Brickworth non sa da che parte cominciare. Se per caso citasse la cianografia, gli altri non capirebbero. Dovrebbe addirittura principiare spiegando cos’è un reattore e nessuno dei presenti ammetterebbe di non saperlo già. Meglio dunque non dire nulla.

Signor Brichworth: “Non ho osservazioni da fare.”

Presidente: “Nessun altro chiede la parola? Benissimo. Possiamo quindi concludere che progetti e preventivi restano approvati? Grazie. Posso quindi firmare a vostro nome il contratto principale? (Mormorio di assenso.) Grazie. Possiamo passare al punto numero dieci.”

Considerati anche i pochi secondi necessari per sfogliare le carte e per spiegare i diagrammi, per il punto numero nove son bastati due minuti e mezzo. La riunione procede bene. Ma qualcuno è preoccupato per ciò che riguarda il punto numero nove. Dentro di sé si sta chiedendo se ha davvero fatto sentire il proprio peso. Ormai è tardi per discutere ancora del reattore, ma costui vorrebbe, prima che finisca la riunione, dimostrare d’esser desto e attento alle cose che si dicono.

Presidente: “Punto numero dieci. Ripostiglio per biciclette ad uso impiegati. I signori Bodger e Woodworm ci inviano un preventivo, e si impegnano a fornirci il lavoro per la somma di 350 sterline. Lor signori possono vedere i progetti in tutti i particolari.”

Signor Soƒtleigh: “Io penso, signor presidente, che la somma sia eccessiva. Vedo che il tetto sarà d’alluminio. Non sarebbe meglio farlo di asbesto, che è meno caro?”

Signor Holdƒast: “Sono d’accordo con il signor Softleigh, per ciò che riguarda il costo, ma a mio avviso il tetto dovrebbe essere di ferro galvanizzato. Ritengo che l’intero ripostiglio si potrebbe avere per 300 sterline, o anche meno.”

Signor Daring: “Dirò di più, signor presidente. Mi chiedo se questo ripostiglio è veramente necessario. Mi sembra che noi già facciamo abbastanza a pro del nostro personale. Non sono mai contenti, questo il guaio. La prossima volta vorranno addirittura l’autorimessa.”

Signor Holdƒast: “No, non posso appoggiare l’intervento del signor Daring. Ritengo che il ripostiglio sia necessario. È solo questione di materiali e di costi…”

La discussione è ben avviata. E questo perché tutti comprendono cosa sono 350 sterline, tutti immaginano un ripostiglio per le biciclette. La discussione continua per quarantacinque minuti, col risultato, forse, di risparmiare 50 sterline. Ma alla fine tutti hanno la sensazione di aver lavorato sul serio.

Presidente: “Punto numero undici. Rinfreschi durante le riunioni della commissione per i rapporti con le maestranze. Un mese, 35 scellini.”

Signor Soƒtleigh: “Che genere di rinfreschi furon serviti nel caso specifico?”

Presidente: “Caffè, credo.”

Signor Holdƒast: “E questo fa una spesa annua di… vediamo… 21 sterline?”

Presidente: “Esatto.”

Signor Daring: “Ebbene signor presidente, mi chiedo se la spesa è giustificata. Ma quanto durano queste riunioni?”

Ora la discussione si fa anche più aspra. Magari nella commissione ci sono membri che non intendono la differenza fra l’asbesto e il ferro galvanizzato, ma cosa sia il caffè lo sanno tutti – cos’è, come va fatto, dove va comprato e se deve comprarsi. Questo punto all’ordine del giorno tiene occupati i membri per un’ora e un quarto, ed essi finiranno col chiedere al segretario altre informazioni, rinviando le decisioni alla prossima seduta.

Giustamente il lettore si chiederà a questo punto se su di una somma anche inferiore – diciamo 10, o anche 5 sterline – l’assemblea dei finanzieri trascorrerebbe un lasso di tempo maggiore e proporzionato. A questo proposito dobbiamo ammettere la nostra ignoranza. Possiamo tuttavia affermare, provvisoriamente, che deve esserci un punto in cui il processo si capovolge, giacché i membri dell’assemblea considerano la somma all’esame troppo esigua per essere presa in considerazione. Le ricerche non hanno ancora stabilito quale sia il punto che segna l’inizio del rovesciamento. Il distacco fra i due tempi di discussione, due minuti e mezzo per i 10.000.000 di sterline, un’ora e un quarto per 20 sterline, è veramente marcato. Sarebbe utile e interessante stabilire con esattezza il punto di caduta dell’interesse. Supponiamo che tale punto sia al livello delle 15 sterline: il tesoriere, ove abbia all’ordine del giorno un punto che interessi la somma di 26 sterline, potrebbe scinderlo in due, di cui uno di 14, 1’altro di 12 sterline, con evidente risparmio di tempo e di fatica.

Ripetiamo, la nostra conclusione è solo ipotetica e provvisoria, ma c’è motivo di supporre che il punto di caduta dell’interesse equivalga alla somma che i singoli membri della riunione son disposti a spendere per una scommessa o per una impresa benefica. Un’inchiesta orientata verso gli ippodromi e verso le chiese metodiste, ci consentirebbe di avviare a soluzione l’intero problema. Assai più difficile sarebbe stabilire il punto esatto in cui la somma discussa è troppo grande per poterne parlare. Pare tuttavia che 10.000.000 di sterline e 10 sterline implichino lo stesso esatto tempo di discussione. La nostra stima, due minuti e mezzo, non pretende di essere esatta, ma deve pur esserci un lasso di tempo – fra i due minuti e i quattro minuti e mezzo – che basta per discutere sulle due somme, la massima e la minima.

C’è ancora gran mole di ricerche da svolgere, ma i risultati finali, una volta raggiunti, saranno di immenso interesse e di valore immediato per il bene dell’umanità.

 

 

 

 

LA CAPANNA E LA FUORISERIE

cioè

LA FORMULA DEL SUCCESSO

 

Al lettore che si interessa di antropologia piacerà certo sapere che per certe ricerche dei giorni nostri sono occorsi metodi completamente nuovi. L’antropologo, di solito, trascorre sei settimane, o sei mesi (e finanche sei anni) in mezzo alla tribù dei Boreyu (questo è solo un esempio) stanziata lungo il corso del Teedyas superiore, nella regione di Darndreey. Poi ritorna nel mondo civile carico di fotografie, nastri magnetici, taccuini di appunti, ansioso di cominciare il suo libro sulla vita sessuale e sulla superstizione. La vita dei poveri Boreyu diventa insopportabile, proprio a causa di quell’esploratore ficcanaso. Spesso questi indigeni si convertono al cristianesimo ed entrano nella chiesa presbiteriana nella speranza che, dopo, gli antropologi smetteranno di occuparsi di loro. Ed infatti pare che questo accorgimento abbia sempre funzionato. Ma a disposizione della scienza resta ancora un numero ragguardevole di popoli primitivi, i libri continuano a moltiplicarsi, e quando l’ultima delle tribù africane avrà deciso, per sopravvivere, di intonare gli inni sacri, ci saran sempre i poveri dei tuguri. A costoro, oltre la miseria, tocca anche il tormento dell’inchiesta, della macchina fotografica, del dittafono. Tutti noi sappiamo i risultati – ancora libri – di queste inchieste. La novità di cui parlavamo non sta nella tecnica dell’inchiesta, ma nella scelta dell’ambiente su cui l’inchiesta si svolge. Gli antropologi di questa scuola – recentissima – ignorano sia i primitivi che i poveri. Preferiscono scegliersi il campo di lavoro nel mondo dei ricchi.

L’équipe di cui parleremo – ne fa parte anche l’autore di queste pagine – ha svolto una certa mole di studi preliminari sui grandi armatori greci, e in un secondo tempo ha studiato, con maggiore minuzia, i padroni degli oleodotti in Arabia. Poi, costretta ad abbandonare questi studi per ragioni politiche e d’altro genere, l’équipe fece una inchiesta fra i milionari cinesi di Singapore. Durante quell’inch’iesta abbiamo scoperto l’“Enigma dei Lacchè”, ed abbiamo sentito parlare per la prima volta della Barriera dei cani da guardia Cinesi. Nelle prime fasi della nostra ricerca nemmeno conoscevamo il significato di quei due termini. Non sapevamo neppure se per avventura fossero due espressioni per dire la stessa cosa. Possiamo dire, a nostro onore, d’aver seguito subito la prima traccia che ci si presentò.

Tale traccia ci apparve durante una visita al signor Hu Got Dow, nel suo palazzo di Singapore. Volgendosi allo scudiero che ci aveva mostrato la bellissima collezione di giade il dottor Meddleton esclamò: “Caspita! E dicono che agli inizi della sua carriera era un coolie” ” E l’enigmatico cinese rispose: “Solo un coolie può diventale licco. Solo un coolie somiglia a un coolie. Solo uomo molto licco può pelmettelsi somigliale coolie.” Su queste poche enigmatiche parole (di cui l’uomo non ci dette più alcuna spiegazione) si basò il nostro sistema di ricerca. I risultati del nostro lavoro sono raccolti nel Rapporto Meddleton-Snooperage (1956) ma nulla vieta di riesporli in forma più semplice al lettore ordinario. Eccone dunque un riassunto. Si sono di proposito evitati i particolari di carattere tecnico.

In una certa misura – lo scoprimmo Subito – il problema del coolie-milionario non è poi tanto complesso. Il coolie cinese vive in una capanna dal tetto dl Palma, e campa d`una ciotola di riso Quando assume un occupazione migliore – andare in giro a vendere noccioline, per esempio – campa ancora di riso ed abita in una capanna. Quando fa un ulteriore passo avanti – vende, mettiamo, pezzi di ricambio per biciclette, magari rubati – non abbandona tuttavia né la capanna ne il riso. Risultato: ha soldi da investire. Su dieci coolies siffatti, nove perderanno i loro risparmi in speculazioni sbagliate. Il decimo avrà maggiore astuzia o maggiore fortuna, rispetto agli altri. Ma tuttavia continuerà a vivere nella sua capanna e a mangiare il suo riso. È una tecnica quanto mai degna di studio.

Se pensiamo alla storia americana, la storia delle capanne di tronchi di legno, arriva presto il momento in cui il futuro miliardario deve mettersi la cravatta. Dirà, per giustificarsi che altrimenti non riesce a ispirare fiducia al prossimo. Deve anche trovarsi un alloggio migliore, per motivi (dice lui) di puro prestigio. In realtà la cravatta se la mette per far contenta la moglie, e si trasferisce in una casa nuova per soddisfare l’orgoglio di sua figlia. I cinesi controllano assai meglio le loro donne. Infatti il coolie arricchito si sposta dalla capanna, e dal riso. È cosa nota a tutti, e che si spiega in due modi. In primo luogo la sua casa (a parte ogni altro svantaggio) gli ha portato fortuna, innegabilmente. In secondo luogo una casa più bella finirebbe inevitabilmente per richiamare l’attenzione dell’agente delle tasse. Perciò il cinese, saggio, decide di restarvi. Continuerà a tenersi la vecchia capanna per Il resto della sua vita magari mettendoci l’ufficio. È così restio ad abbandonarla che un trasloco sta a indicare una crisi fondamentale nella sua vita.

Se fa il trasloco, ciò avviene per’ sfuggire alle vessazioni delle società segrete, dei ricattatori, delle bande. Nascondere la crescente ricchezza all’esattore delle tasse non è difficile; ma nasconderla ai soci d’affari è praticamente impossibile. Una volta diffusa la voce che egli se la passa bene, gli “amici” suoi calcoleranno minuziosamente la “stoccata” che gli si può dare. Queste cose le sanno tutti, ma gli studiosi del passato son giunti, con troppa facilità, alla conclusione che la somma in questione è una sola. In realtà son tre: la somma che la vittima pagherebbe quale riscatto, se rapito; la somma che pagherebbe per evitare un articolo diffamatorio sui giornali cinesi; la somma che pagherebbe quale elemosina per salvare la faccia.

Nostro compito è cercar di stabilire la somma numero uno, media, pagabile nel momento in cui avviene il trasloco dall’originaria capanna alla casa nuova, ben recinta e guardata da un cane alsaziano. Questo trasferimento si è chiamato “effrazione della barriera dei cani da guardia”. Gli studiosi di scienze sociali ritengono che questo debba avvenire appena il riscatto esigibile superi il costo massimo del rapimento.

Quasi contemporaneo al trasloco, per un cinese ricco, è l’acquisto di una Chevrolet o di una Packard. Ma capita spesso che l’acquisto preceda nel tempo il trasloco. Ecco il motivo della macchina fuori serie davanti alla porta di un ufficio sordido: uno spettacolo così comune che quasi nessuno ci fa più caso. Finora del fenomeno non si è data spiegazione esauriente. Ammessa – il che è lecito – la necessità dell’automobile, sarebbe legittimo attendersi che anch’essa partecipasse dello squallore generale. Ma per motivi non ancora ben chiariti, la ricchezza, in Cina, si misura anzitutto in termini di cromature, tappezzeria, marca, anno di fabbricazione. E la Packard implica, quasi subito, recinto di rete metallica, finestre con inferriate, rimessa chiusa a chiave e cani da guardia. È avvenuto un mutamento di carattere rivoluzionario. Il proprietario di cani alsaziani non giungerà magari al punto di pagare le tasse, ma almeno deve essere in grado di spiegare i motivi per cui non gli è mai venuto in saccoccia un reddito tassabile. Ed anche se scampa al pagamento di 100.000 dollari ai gangsters, difficilmente eviterà di pagare in qualche modo un qualche ricatto. Inevitabile che gli si presentino, cerimoniosi, dei giornalisti, i quali si vantano di aver sempre rifiutato di pubblicare articoli a lui ostili su fogli di dubbia fama. Inevitabile che la settimana dopo gli stessi giornalisti si ripresentino, questa volta a raccogliere fondi per una qualche nebulosa opera pia. Inevitabile che vengano a trovarlo certi dirigenti sindacali proponendogli di far qualcosa per alleviare le agitazioni, che altrimenti lederebbero i suoi interessi. Insomma deve rassegnarsi, e rinunciare a una parte dei suoi profitti.

Fra i nostri compiti c’era anche quello di raccogliere qualche notizia precisa circa la frase “cane alsaziano” nella carriera di un uomo d’affari cinese. In certo senso questa è stata la parte più difficile di tutta l’inchiesta. Certe cognizioni infatti si raggiungono solo a costo di pantaloni a brandelli e caviglie ingessate. Ripensandoci Ora, possiamo andare orgogliosi, perché, laddove i rischi erano inevitabili, li abbiamo affrontati con animo fermo. Non occorse invece alcun lavoro campestre per scoprire le somme effettive pagate per un riscatto. Tali cifre infatti son note al pubblico e spesso compaiono sulla stampa locale, e sembrano essere esatte. Interessa notare, a proposito di queste somme, lo scarto lieve fra la minima e la massima. Lo scarto è dai 5.000 ai 200.000 dollari. Mai somme troppo esigue (2.000 dollari, per esempio) mai somme troppo alte (per esempio 500.000 dollari). E non c’è dubbio che l’ambito della maggioranza di tali estorsioni è anche più ristretto. Ulteriori indagini varranno senza dubbio a stabilire quale possa considerarsi somma media.

Supponendo che l’estorsione minima sia rappresentata da una cifra bastevole a consentire un margine di profitto, è facile concludere che l’estorsione massima rappresenta tutto quel che si può levar di tasca all’uomo più ricco che mai sia stato catturato per ottenerne il riscatto. Però è evidente che i ricchissimi non hanno mai subito trattamenti simili. Sembra esserci un livello oltre il quale il cinese diventa immune da ricatto. Non solo: in quest’ultima fase il miliardario pare che, anziché nasconderla, ostenti la sua ricchezza, quasi a dimostrare pubblicamente che ha raggiunto il livello dell’immunità. Sinora gli scienziati della nostra équipe non son riusciti a scoprire in che modo si raggiunga questa definitiva immunità. Alcuni che cercavano di documentarsi sull’argomento son stati buttati fuori dal Circolo dei Miliardari. Ma poiché tale livello di immunità deve avere qualche rapporto col numero degli scudieri, degli aiutanti di campo, dei camerieri, dei segretari e dei valletti (a questo livello si esibisce tale massa di persone) i nostri scienziati han definito il problema “Enigma del Lacchè” e l’hanno messo da parte.

C’è motivo però di credere che questo problema non resterà la lungo insoluto. Intanto già sappiamo che, grosso modo, la soluzione va scelta fra due ipotesi, e non è escluso che noi possiamo accettarle ambedue. Qualcuno ritiene infatti che i lacchè siano in realtà uomini armati che formano una impenetrabile guardia del corpo. Altri sostengono che il miliardario si è comprato una società segreta al completo, contro la quale le altre bande mai oserebbero scendere in campo. Verificare la prima teoria – mediante un sequestro di persona ben organizzato – sarebbe relativamente facile: sacrificando un paio di vite si potrebbe stabilire, senza più ombra di dubbio, la verità dei fatti. Per l’altra teoria invece occorrerebbe più cervello e forse anche più coraggio. Giacché abbiamo avuto di già dei feriti da morso di cane fra i membri della nostra équipe, non ce la sentiamo più di proseguire in quella direzione. Non abbiamo più né gli uomini né i fondi necessari a ultimare l’inchiesta. Ma poiché di recente abbiamo avuto certi aiuti dalla Miss Plaste Trust (settore Estremo Oriente) non disperiamo di trovare, e presto, la risposta.

Anche dopo la pubblicazione del nostro rapporto interno resta un problema: diciamo piuttosto l’enigma dell’evasione fiscale in Cina. Siamo riusciti a scoprire soltanto che i metodi occidentali non sono molto usati. Come tutti sanno la tecnica occidentale per non pagare le tasse si basa sulla scoperta del ritardo medio (R.M., come diciamo noi) vigente nell’ufficio imposte con cui dobbiamo trattare. Per ritardo medio si intende, naturalmente, il tempo che intercorre fra il momento in cui una lettera arriva e quello in cui il personale addetto comincia ad occuparsene. Più esattamente potremmo dire che per R.M. si intende il tempo necessario perché una pratica salga dal fondo alla cima del suo mucchio. Supponiamo che l’R.M. sia pari a 27 giorni. In tal caso l’evasore fiscale occidentale inizia la sua campagna con una lettera in cui chiede perché non ha ancora ricevuto l’avviso di pagamento. Potrebbe anche dire una qualsiasi altra cosa, ciò non importa. Egli vuole soltanto che la sua pratica, col nuovo inserto, finisca in fondo al mucchio. Venticinque giorni dopo egli scrive ancora, chiedendo perché non ha avuto risposta alla prima lettera. Cosi la sua pratica, che stava per arrivare in cima al mucchio, ritorna in fondo. Dopo venticinque giorni scrive ancora… Cosi nessuno si occupa veramente della sua pratica, la quale non sale mai in evidenza. Poichè questo modo è noto a tutti, e tutti sappiamo che rende, concludemmo ovviamente che doveva esser noto anche in Cina. Invece scoprimmo che l’R.M. non esiste nei paesi orientali. A causa di certe variazioni di clima e di astemia gli uffici delle imposte orientali non hanno quel ritmo ordinato degli occidentali e quindi non è possibile prevederne il comportamento. Una cosa e certa. qualunque sia il metodo che usano i cinesi, esso non dipende da alcun R.M. noto.

Per questo problema – sia ben chiaro – non abbiamo una soluzione definitiva. Abbiamo solo un’ipotesi, sulla validità della quale sarebbe prematuro pronunciarsi. Tale ipotesi fu avanzata da uno dei membri più brillanti della nostra équipe, e si basa su una felice ma non documentata ispirazione. Secondo tale ipotesi il miliardario cinese non aspetta l’avviso di pagamento, ma preferisce mandare in anticipo, all’agente delle tasse, un assegno, diciamo, di 329,83 dollari. Aggiunge una lettera in cui parla della corrispondenza già intercorsa e di una somma già pagata in contanti. Scopo di questa mossa è guastare il meccanismo della tassazione. Al disordine succede il caos quando arriva una seconda lettera, in cui il miliardario si scusa dell’errore e chiede che gli vengano restituiti 23 centesimi. Tale è lo sbalordimento e la confusione dei funzionari che essi non danno alcuna risposta per circa diciotto mesi. Poi, prima che sia trascorso quel periodo di tempo, ricevono un altro assegno, questa volta di 167,42 dollari. ln questo modo, secondo l’ipotesi, il miliardario in sostanza non paga niente e l’ispettore addetto alle tasse finisce al manicomio. Anche se questa teoria non ha prove, mi sembra degna di attento esame. Per lo meno potremmo sperimentarla.

 

 

 

 

LA LEGGE DEL DECLINO

ossia

L’EDILIZIA BUROCRATICA

 

Chi studi le istituzioni umane sa qual è il criterio tipico per stabilire l’importanza di un individuo. Una formula semplice e valida per qualsiasi parte del mondo si può ricavare conoscendo il numero delle porte da passare, il numero delle segretarie, il numero delle centraliniste e lo spessore, in centimetri, dei tappeti. Non tutti però sanno che questa formula si può applicare, ma a rovescio, per calcolare l’importanza delle istituzioni.

Si prenda per esempio una casa editrice. Come tutti sanno gli editori hanno una forte tendenza a vivere nello squallore e nel caos. L’ospite che imbrocchi quello che a lui pare l’ingresso buono, viene spedito fuori, poi fa il giro del palazzo, imbocca un andito e sale tre piani di scale. Cosi un laboratorio di ricerche di solito sarà alloggiato al pianterreno di quella che una volta era una casa d’affitto: c’è un corridoio di legno pericolante che porta a una baracca col tetto di lamiera, sita là dove una volta era il giardino. E chi non conosce l’aspetto esteriore di un aeroporto internazionale? Appena sceso dall’aereo il viaggiatore scorge (a destra o a sinistra) un grosso edificio in costruzione, tutto circondato dalle impalcature dei muratori. Poi la hostess lo guida a una baracca col tetto di asbesto. E nessuno dubita per un attimo che le cose possano andare altrimenti. All’epoca in cui l’edificio è ultimato, l’aeroporto si sarà spostato in altro luogo.

Le istituzioni di cui abbiamo fatto parola, per quanto attive e produttive esse siano, vegetano in un ambiente così trasandato che sarà bene dedicare subito la nostra attenzione a un qualche altro istituto, che ci mostri, anche nell’aspetto esteriore, decoro e proprietà. Il portone d’ingresso, di bronzo e vetro, è posto al centro di una facciata simmetrica. Scarpe lustre scivolano su lucida gomma verso l’ascensore, scintillante e silenzioso. La centralinista, fornita d’una cultura eccezionale, sussurra qualcosa con labbra al carminio in una cornetta celeste-ghiaccio. Con un gesto della mano ti invita a sedere su di una poltrona cromata, e ti consola della breve, inevitabile attesa, con un sorriso abbagliante. Alzando gli occhi dalla rivista patinata, scopri che i vasti corridoi si irradiano verso le divisioni A, B e C. Da dietro le porte chiuse ti giunge alle orecchie il rumore di un’ordinata attività. Ancora un minuto e ti trovi, immerso fino alla caviglia nel tappeto direttoriale, avviato sicuro e tranquillo verso la lontana nitida scrivania. Ipnotizzato dallo sguardo fermo del capo, intimidito dal Matisse che pende dalla parete di fondo, tu senti di aver trovato, finalmente, l’efficienza, quella vera.

Ma invece non hai scoperto proprio nulla. Noi sappiamo ormai che la perfezione dell’ambiente esteriore è caratteristica di quelle istituzioni che son giunte sull’orlo dello sfacelo. Conclusione che può sembrare paradossale, ma che invece si basa su vastissime ricerche archeologiche e storiche in questa sede possiamo trascurar-e i particolari più complessi, e comprensibili solo agli iniziati. Il criterio generale di indagine è stato il seguente: scegliere e datare gli edifici che appaiono perfetti per gli scopi a cui eran destinati. Lo studio comparativo di tali edifici par dimostrare che la perfezione edilizia è sintomo di decadenza. Nei periodi di reale progresso, nei periodi delle grandi invenzioni non c’è tempo per progettare ambienti perfetti. C’è tempo dopo, quando le cose che contano sono ormai compiute. La perfezione, come tutti sanno, e definitiva, come la morte.

Il turista inesperto, sbalordito dinanzi alla mole di San Pietro, a Roma, penserà che la Basilica e il Vaticano sono la sede ideale del Papato, al vertice della sua potenza e del suo prestigio. Qui, pensa il turista ingenuo, Innocenzo III ha scagliato il fulmine del suo anatema. Qui Gregorio VII ha pensato le sue leggi. Ma basta un’occhiata alla guida per convincersi che i papi davvero potenti regnarono prima della costruzione della chiesa; e che alcuni di essi, addirittura, neppure governarono da Roma. Anzi, i papi persero metà del loro potere proprio mentre l’edificio era in costruzione. Giulio II, che decise di costruire, e Leone X, che approvò il progetto di Raffaello, erano morti da un pezzo quando l’edificio assunse la forma attuale. Il palazzo del Bramante era ancora in costruzione nel 1565, la grande chiesa fu consacrata solo nel 1626, il colonnato fu compiuto solo nel 1667. Prima ancora che i progetti fossero pronti, erano già finiti i grandi giorni del papato. Una volta compiuti i lavori, di quei giorni di gloria si era perduto anche il ricordo.

Facile dimostrare che di solito le cose vanno così. Vediamo la storia della Lega delle Nazioni. Dal 1920, anno della sua creazione, al 1930, tutti riposero grandi speranze in questa istituzione. Ma nel 1933 – forse anche prima – si capì che l’esperimento era fallito. Ma l’incarnazione fisica di esso, il Palazzo delle Nazioni, fu terminato solo nel 1937. Fu un edificio ammirevole: uffici, aule dl riunione, buvette, ogni cosa fu progettata con la massima attenzione. C’era tutto ciò che può escogitare l’ingegno umano: mancava solo la Lega delle Nazioni. Nell’anno in cui fu inaugurato il Palazzo, la Lega in pratica non esisteva più.

Qualcuno dirà che il Palazzo di Versailles sta a dimostrare l’opposto: l’apogeo della monarchia di Luigi XIV si incarna in quell’edificio. Invece, ammettendo che Versailles caratterizzi il trionfo dello spirito di quell’epoca, noi sappiamo che i lavori furon condotti a termine verso la fine del regno; alcuni addirittura dopo la morte del Re Sole. I lavori per Versailles durarono dal 1669 al 1685. Il re vi si trasferì solo nel 1682, ed i lavori non erano ancora finiti. La famosa camera reale ospitò un sovrano solo nel 1701, e la cappella fu ultimata nove anni dopo. Se lo consideriamo non come alloggio del re, ma come sede del governo, Versailles esiste sostanzialmente solo dal 1756. E la massima fioritura del regno di Luigi XIV sta prima del 1679: l’apogeo nel 1682, mentre verso il 1685 comincia la decadenza. Afferma uno storico che Luigi, entrando a Versailles, in sostanza “seppelliva la sua discendenza e la sua razza”. E un altro storico aggiunge: “L’edificio fu ultimato quando cominciava il declino della potenza regale.” Un terzo storico dà sostegno, pur senza dirlo, a questa ipotesi quando chiama gli anni fra il 1685 e il 1713 “anni di decadenza”. In altre parole sbaglia il turista il quale pensa che da Versailles siano partiti gli eserciti vittoriosi di Turenne. Più giusto sarebbe, storicamente parlando, immaginare in quelle sale l’imbarazzo dei messi che venivano ad annunziare la sconfitta di Blenheim: non avranno saputo su cosa alzare lo sguardo, i poveretti, in quel palazzo scintillante di emblemi di vittoria.

Il nome di Blenheim certamente inviterà a pensare al palazzo (si chiama cosi) costruito per il vincitore, il duca di Marlborough. Anche in questo caso siamo di fronte a un edificio perfetto, progettato per ospitare l’eroe nazionale negli anni della pensione. Cosi gigantesco, il palazzo è forse più sensazionale che comodo, tuttavia l’architetto è riuscito a esprimere quel che voleva. Difficile pensare ambiente che meglio di quello possa accogliere in sé una leggenda. Difficile pensare luogo più adatto per le riunioni di vecchi compagni d’arme, il giorno anniversario. Ma la gioia che proviamo a raffigurarci quella scena, ci vien guastata dal pensiero che essa non ci fu mai. Il duca non ha mai abitato in quel palazzo, e non lo ha nemmeno visto compiuto. Egli in realtà abitava a Holywell, presso St. Alban e (durante i soggiorni in città) a Marlborough House. Morì poi a Windsor Lodge e i vecchi compagni d’arme, quando si riunivano, amavano cenare sotto la tenda. A costruire Palazzo Blenheim occorse molto tempo, ma non per la complessità del progetto – che era, per unanime riconoscimento, complesso abbastanza. Occorsero molti anni perché il duca fu in disgrazia e per due anni addirittura in esilio, e proprio quando avrebbe potuto assistere al compimento dell’edificio.

E che dire della monarchia al cui servizio fu il duca di Marlborough? Allo stesso modo che oggi i turisti vagano, guida alla mano, per l’Orangerie e per la Galerie des Glaces, così i futuri archeologi un giorno andranno a curiosare in quella città che si chiamava Londra. Ebbene, quegli archeologi vedranno nelle rovine di Buckingham Palace la vera espressione della monarchia inglese. Rintracceranno il grande viale fra l’Arco dell’Ammiragliato e l’ingresso del palazzo. Ricostruiranno il cortile e la balconata centrale, pensando quanto doveva esser adatto quell’edificio a un sovrano il cui dominio si estendeva alle più remote parti del mondo. Anche un americano dei giorni nostri avrebbe voglia di scuotere il capo dinanzi all’alterigia di un Giorgio III, che ebbe una reggia cosi fastosa. Ma anche in questo caso ecco la verità: i monarchi davvero potenti abitarono tutti in edifici da tempo scomparsi, a Greenwich, o a Nonesuch, a Kenilworth o a Whitehall. Il costruttore di Palazzo Buckingham fu Giorgio IV, sul cui architetto di corte, John Nash, grava la responsabilità di quella che ai suoi tempi si definì “diffusa debolezza e trivialità del gusto”. Ma nemmeno Giorgio IV, il quale abitò a Carlton House o a Brighton, vide mai l’opera compiuta; e neanche Guglielmo IV, il quale pure diede ordine che si completasse. Fu la regina Vittoria la prima a stabilirvisi, nel 1837. Ed anche il suo entusiasmo per Palazzo Buckingham durò poco: suo marito preferiva di gran lunga Windsor, e lei dal canto suo scelse in seguito Balmoral, oppure Osborne, Se quindi vogliamo essere esatti, Palazzo Buckingham, coi suoi splendori, va associato a una fase recente e costituzionale della monarchia inglese. Risale insomma a un’epoca in cui tutto il potere era già passato nelle mani del Parlamento.

È giusto, a questo punto, chiedersi se il Palazzo di Westminster, dove si riunisce la Camera dei Comuni, sia vera espressione del governo parlamentare. Bisogna riconoscere che quell’edificio è progettato splendidamente, come sede di dibattiti, e provvisto di spazio a dovizia per ogni altra cosa – riunioni di comitati, studi tranquilli, rinfreschi, e tè (in terrazza). C’è tutto quel che possa desiderare chi fa le leggi, e tutto È: racchiuso in un edificio straordinariamente comodo e dignitoso. Dovrebbe quindi risalire – ma noi ormai già sappiamo che questo non è vero – all’epoca di massimo fiore del governo parlamentare. Anche in questo caso, naturalmente, la cronologia non vuole darci ragione. L’edificio originario, dove Pitt e Fox gareggiarono in valentia oratoria, fu distrutto da un incendio nel 1834. Pare che sia stato famoso e per la sua scomodità, e per l’alto livello dei dibattiti che vi si svolsero. L’edificio che oggi ammiriamo fu iniziato nel 1840, occupato – ma solo in parte – nel 1852; e nel 1860, quando mori l’architetto, era ancora incompleto. Prese l’aspetto che ha oggi verso il 1868. Ora (e non ci si venga più a dire che si tratta di coincidenze) il declino del nostro parlamento risale, senza dubbio, al Reform Act, che è del 1867. Con l’anno successivo tutte le iniziative di carattere legislativo passarono dal Parlamento al Gabinetto. Il prestigio che si collegava alle due fatidiche lettere, M.P., e cioè Membro del Parlamento, cominciò rapidamente a declinare. Da allora si può dire, al massimo, che “ ai singoli membri restava tuttavia un compito, per quanto umile fosse”. Eran finiti i giorni belli.

Lo stesso può dirsi dei vari ministeri, che acquistarono importanza man mano che ne perdeva il Parlamento. Fatte le debite ricerche, si è appurato che il Ministero per le Indie raggiunse il massimo della sua efficienza quando era sistemato a Palazzo Westminster, in un’ala di esso. Assai più indicativo il caso del Ministero delle Colonie, nei suoi recenti sviluppi. Infatti gli inglesi si conquistarono un impero mentre il ministero competente (ammesso che ci fosse) era alloggiato in edifici di fortuna, a Downing Street. E quando esso si spostò in palazzi appositi, era già iniziata una fase nuova della nostra politica coloniale. Si era nel 1875 e l’edificio pare progettato apposta per far da sfondo alla disastrosa guerra contro i Boeri. Il Ministero delle Colonie ebbe nuovo impulso di vita durante la seconda guerra mondiale. Spostandosi in una sede provvisoria e scomodissima, a Great Smith Street – sede che fu prestata dalla Chiesa d’Inghilterra e che alla origine doveva servire a tutt’altro scopo – la politica coloniale britannica iniziò una fase nuova, di attività illuminata. Tale fase terminerà con il completamento del nuovo edificio progettato sul posto del vecchio Ospedale di Westminster. Per fortuna i lavori non sono ancora cominciati.

Ma nella storia d’Inghilterra non c’è esempio più illuminante di quello che ci offre Nuova Delhi. In nessun altro luogo gli architetti britannici si son visti affidare l’incarico di progettare una capitale altrettanto grande, come centro di un paese altrettanto popoloso. L’intenzione di fondare Nuova Delhi fu annunziata al Durbar Imperiale del 1911; a quell’epoca Giorgio V era successore del Mogul sul trono che si era chiamato, un tempo, del Pavone. Sir Edwin Lutyens si accinse allora a disegnare i progetti della Versailles britannica, un complesso splendido nella concezione, minuzioso nei particolari, magistrale nell’elaborazione e di proporzioni eroiche. I vari stadi dei lavori corrispondono ad altrettanti passi all’indietro nella politica coloniale. La legge del 1909 era solo il preludio di quel che doveva venire dopo: l’attentato alla vita del viceré (1912), la Dichiarazione del 1917, il Rapporto Montagu-Chelmsford (1918) e la traduzione di esso in legge (1920). Lord Irwin si trasferì nel nuovo palazzo nell’anno 1929, l’anno in cui il Congresso Indiano chiedeva l’indipendenza, Fanno in cui si aprì la Conferenza della Tavola Rotonda, l’anno prima dell’inizio della campagna per la Disobbedienza Civile. Se non fosse per il timore di annoiare chi legge, potremmo seguire l’intera storia fino al giorno in cui gli inglesi finalmente se ne andarono. Risulterebbe che ad ogni tappa della ritirata si accompagno la realizzazione di un’altra trionfale impresa urbanistica. Il risultato finale altro non fu, grosso modo, che un mausoleo.

Il (declino dell’imperialismo britannico cominciò di fatto con le elezioni del 1906 e con la vittoria di ideologie liberali e semisocialiste. Non c’è quindi da sorprendersi se proprio “1906” troviamo scolpito in pietra imperitura, a significare la fine dei lavori, sul portale del Ministero della Guerra. Forse la battaglia di Waterloo fu diretta da qualche oscuro ufficetto ricavato nelle caserme della cavalleria. Invece gli sciagurati piani di attacco ai Dardanelli furono emanati da un ambiente quanto mai decoroso. Non può darsi che i complessi edifici del Pentagono, ad Arligton in Virginia, debbano significare qualcosa per chi li ha progettati? Sarebbe ingiusto, certo, cercare un rapporto logico fra il Pentagono e il Cimitero Nazionale, che sorgono vicinissimi. Ma è un argomento che andrebbe preso in considerazione.

Non è affatto certo che un lettore di questo capitolo (ove ne abbia il mezzo) possa prolungare la vita di un istituto morente togliendolo dalla sua bella sede. Tuttavia noi possiamo sperare di impedire che una determinata organizzazione si strangoli con le proprie mani, nascendo. Abbiamo sott’occhio numerosissimi «esempi di istituti che vengono al mondo con un apparato completo di dirigenti, consulenti, funzionari, per i quali tutti c’è un edificio progettato appositamente. L’esperienza dimostra che l’istituto morirà, soffocato dalla propria perfezione, incapace di mettere radici per mancanza di terreno, impossibilitato a crescere perché è nato già grande, inetto a dare frutti e perfino fiori. L’esperto, di fronte a un esempio di simile progettazione – si veda a questo proposito il palazzo delle Nazioni Unite – scuoterà tristemente il capo, stenderà un lenzuolo sopra il cadavere e in punta di piedi uscirà all’aria aperta.

 

 

 

 

INCOMPOSITE

ovvero

DELLA PARALISI PROGRESSIVA

 

Ovunque si trovano organizzazioni (di tipo amministrativo, commerciale, accademico) nelle quali i funzionari più alti in grado sono lenti e ottusi, quelli sotto di loro attivi solo nel farsi le scarpe l’uno con l’altro, mentre i giovani sono psicologicamente frustati o poco seri. Poco si tenta di fare, meno ancora si conclude. E di fronte a questo quadro così triste, l’osservatore è indotto a credere che i responsabili hanno fatto del loro meglio, hanno lottato contro le avversità ed infine si son dichiarati sconfitti. Ma i risultati di certe recenti inchieste dimostrano che non necessariamente c’è stata la sconfitta. In parecchie istituzioni moribonde da noi esaminate, lo stato finale di coma è un obiettivo perseguito e raggiunto dopo sforzi prolungati. Lo stato di coma è palesemente conseguenza di una malattia, ma di una malattia che in larga misura il paziente ha provocato da sé. Appena essa si manifesta, il paziente ne favorisce il progresso, ne aggrava le cause, ne accoglie i sintomi con gioia. È una malattia di inferiorità indotta, e si chiama incomposite. E una infermità più comune di quel che si crede, e la diagnosi di essa è più facile della terapia.

Il nostro studio della paralisi organizzativa comincia ovviamente dalla descrizione del corso della malattia, dai primi sintomi al coma finale. La seconda parte della nostra inchiesta riguarderà i sintomi e la diagnosi. Nella terza fase diremo qualcosa sui possibili rimedi, argomento su cui però non sappiamo nulla. E non è probabile che altre scoperte avvengano nel futuro immediato, perché in Inghilterra la ricerca medica è tradizionalmente contraria a che si parli troppo dell’argomento. Infatti ai medici inglesi di solito basta individuare i sintomi e stabilire le cause. I francesi invece cominciano col parlare della terapia, lasciando la diagnosi (se pure se ne occupano) a più tardi. Questa volta ci sentiamo in obbligo di accettare il metodo inglese, certamente più scientifico anche se non utile al paziente. Meglio viaggiare tranquilli che arrivare alla meta.

Il primo segno di pericolo si ha quando nella gerarchia organizzativa compare un individuo il quale combina in sé in alto grado incompetenza e gelosia. Queste due doti, ciascuna presa da sé, non hanno molto interesse, e quasi tutti le possediamo in certa misura. Ma quando le due doti raggiungono quel certo grado di concentrazione – secondo la formula I3 G5 – avviene una reazione chimica. I due elementi si fondono producendo una sostanza nuova, che si chiama “incomposia”. La presenza di questa sostanza si può dedurre dal comportamento di qualsiasi individuo il quale, non essendo riuscito a far nulla nel suo settore, cerca di continuo di ficcare il naso negli altri settori e di prendere il controllo dell’amministrazione centrale. Lo specialista, osservando questo singolare miscuglio di inefficienza e ambizione, scuoterà il capo, mormorando: “Incomposia primaria o idiopatica.” I sintomi, come vedremo, sono inequivocabili.

Il secondo stadio della malattia si raggiunge quando l’ individuo infetto assume il controllo, parziale o completo, dell’organizzazione centrale. Spesso a tale stadio si giunge senza passare attraverso l’infezione primaria, giacché l’individuo è entrato nell’organizzazione al secondo livello. L’affetto da incomposite si riconosce facilmente, a questo stadio, per la tenacia con cui si batte di continuo per buttar fuori tutti quelli più capaci di lui, ed anche per la resistenza alla nomina o alla promozione di chiunque in seguito possa dimostrarsi più capace di lui. Non osa dire: “Il signor Asterisco è troppo capace.” Dirà: “Asterisco? Capace, certo ma anche quadrato? Io preferirei Virgoletta.” Il nostro uomo non osa nemmeno dire: “Di fronte al signor Asterisco mi sento piccolo.” E perciò dice: “Il signor Virgoletta mi pare più sensato.” “Sensato” è una parola interessante, che, nella frase suddetta, sta a significare l’opposto di intelligente; indica infatti l’individuo che fa come han sempre fatto gli altri. Cosi il signor Virgoletta è promosso e il signor Asterisco si cerca un altro posto. In tal modo l’amministrazione centrale a poco a poco si riempie di gente più stupida del presidente, del direttore, dell’amministratore. Se a capo dell’organizzazione c’è un uomo di second’ordine, costui farà in modo che i suoi subordinati siano individui di terz’ordine; e questi a loro volta vorranno avere dei collaboratori di quart’ordine. Ci sarà insomma una vera e propria gara di stupidità, e alcuni addirittura faranno finta di essere più cretini di quello che sono veramente.

Al terzo e ultimo stadio della malattia si giunge quando non esiste più la menoma scintilla di intelligenza in tutta l’organizzazione, da capo a fondo. È lo stato di coma di cui si è parlato all’inizio. Quando si giunge a questo stadio l’istituzione è praticamente morta. Essa può anche restare in coma per venti anni di seguito, Può disintegrarsi a poco a poco, ma può anche dar segni di miglioramento. I casi di guarigione sono pochissimi. A qualcuno sembrerà impossibile che avvenga guarigione senza terapia. Invece tutto il processo è naturale e rassomiglia molto a un altro processo, quello per cui certi organismi viventi divengono man mano più resistenti a veleni che in condizioni normali sarebbero letali. È come se tutta l’organizzazione fosse stata spruzzata di D.D.T., un D.D.T. capace di eliminare le capacità che incontra sul proprio cammino. Per qualche tempo questo sistema raggiunge i risultati che si volevano raggiungere. Ma poi alcuni individui divengono immuni a quel D.D.T. Essi nascondono tale prerogativa dietro una maschera di stolido buonumore, e gli addetti alle operazioni di spruzzamento, quelli cioè che hanno il compito di eliminare i capaci, non riescono, per stupidità propria, a riconoscere l’individuo capace (e mascherato), quando ne incontrano uno. Così un individuo sveglio riesce a penetrare nelle difese esterne dell’organizzazione e comincia ad avanzare in direzione del vertice. Costui par che non combini mai nulla, parla sempre di golf, ridacchia, perde le carte, dimentica i nomi, ha una faccia in tutto simile a quella degli altri. Solo quando è arrivato in alto getta la maschera all’improvviso ed appare come un demone in una pantomima di fate. Gli alti dirigenti scoprono, con grandi urla di disperazione, che la capacità è riuscita a insinuarsi in mezzo a loro. Ma è troppo tardi e non c’è nulla da fare. Il male è fatto, la malattia indietreggia, ed è anche possibile, entro dieci anni, una guarigione completa. Sia detto tuttavia che son rari questi casi di guarigione spontanea. Molto più spesso la malattia percorre i tre stadi or ora descritti e diviene incurabile.

Abbiamo visto dunque che cos’è questa incomposite. Restano da esaminare i sintomi che la distinguono. Una cosa è descrivere il diffondersi dell’infezione in un caso clinico immaginario, ben classificato sin dal suo inizio. Altra cosa è invece entrare in una fabbrica, in una caserma, in un ufficio, in una università e riconoscere i sintomi a prima vista. Sappiamo come si comporta l’agente immobiliare quando va a visitare una casa in vendita per conto dell’acquirente. Prima o poi lo vedrete aprire una credenza, o prendere a calci lo zoccolo di una parete ed esclamare: “Casca a pezzi!” Quando invece agisce per conto del venditore fa sparire la chiave della credenza, mentre distrae l’attenzione del compratore mostrandogli il panorama. Allo stesso modo lo studioso di scienze politiche può riconoscere i sintomi dell’incomposite, anche nello stadio primario. Sosta, annusa, scuote il capo con aria saputa, ma in modo che sia subito palese che egli sa. Come fa a sapere? Come può dire che l’incomposite si è già insinuata in quell’organismo? Facile sarebbe la diagnosi se egli avesse sott’occhio la sorgente primaria dell’infezione. La cosa diviene impossibile quando il germe è invece in vacanza. La sua influenza va rintracciata. Va rintracciata soprattutto in certe osservazioni che fanno gli altri. Per esempio: “Sarebbe un errore, da parte nostra, azzardar troppo. Non possiamo competere con Ottimania. Qui da noi, in Mediocrizia, noi svolgiamo un’opera assai utile, facciamo fronte alle necessità del paese. Contentiamoci dunque.” Oppure: “Non possiamo pretendere d’essere al primo posto. Assurdo stare a sentire quel che raccontano quelli di Doddaffare. Come se fossero gente di Ottimania.” O ancora: “Certi nostri giovani son stati trasferiti in Ottimania, un paio lavorano a Doddaffare. Facciano loro, e buona fortuna. Buon pro gli faccia. Gli scambi di idee e di personale son cosa ottima, anche se, a dire il vero, quei pochi che ci hanno mandato da Ottimania non eran proprio di prim’ordine. A noi toccano solo gli scarti. Ma non bisogna lamentarsi. Quando e possibile, evitare sempre gli attriti. E modestamente nel nostro piccolo anche noi svolgiamo il nostro lavoro, e bene.”

Cosa significano queste battute? Significano, anzi dimostrano che a questi uomini si è posto un livello di rendimento troppo basso. Si chiede appunto un livello di rendimento basso, e se ne tollera anche uno inferiore. Le direttive di un capo di second’ordine destinate a funzionari di terz’ordine parlano solo di risultati minimi e di mezzi idonei. Non si vuole un maggior livello di competenza perché il capo non riuscirebbe a controllare un’organizzazione efficiente. A lettere d’oro, sulla porta di ingresso, si è scritto: “Terz’ordine, sempre.” Il principio dominante è quello. Bisogna tuttavia riconoscere che si ammette ancora l’esistenza di un secondo e di un prim’ordine. Resta infatti un barlume di colpevolezza, una lieve sensazione di disagio quando qualcuno nomina Ottimania. Colpevolezza e disagio che però non durano a lungo, perchè presto sopravviene il secondo stadio della malattia, quello che ci accingiamo a descrivere.

Il secondo stadio si riconosce da taluni sintomi fondamentali , e uno di essi è il Compiacimento. Essendo limitati gli obiettivi che si posero nella prima fase, tutti son stati ampiamente raggiunti. Con un bersaglio a dieci passi dalla bocca del fucile, il punteggio e stato alto. I dirigenti han fatto quel che dovevano fare, e ciò li riempie di soddisfazione. Hanno eseguito il proprio compito, e dimenticato che lo sforzo è stato esiguo, esiguo essendo il risultato. Essi si accorgono soltanto d’esserci riusciti, a differenza di quei bei tipi di Doddaffare. Sempre più essi si compiacciono del proprio operato, ed il compiacimento si manifesta in frasi come le seguenti: “Il capo è un uomo quadrato, e molto abile, a conoscerlo bene. Non parla mai troppo – non è il tipo – ma di rado sbaglia.” (Queste ultime parole possono esser dette giustamente di uno che non fa mai nulla.) Oppure: “Non ci convincono i tipi cosiddetti brillanti. Gente troppo abile, che può diventare pericolosa, perché sconvolge i sistemi usuali di lavoro, e tira sempre fuori progetti nuovi, mai sperimentati. Noi ci fidiamo solo del buon senso e della collaborazione, con ottimi risultati.” E infine: “Noi siamo orgogliosi della nostra mensa. Chissà come riesce il responsabile a farci mangiare così, ed a quel prezzo. È una fortuna avere un uomo simile! ”Si noti che questa frase vien pronunciata mentre siam tutti seduti a una tavola coperta da un foglio sporco di carta oleata, dinanzi a certa roba immangiabile e innominabile, coi brividi nella schiena, alla vista e all’odore di quello che voglion far passare per caffè. Bisogna dire che la mensa è assai più rivelatrice dell’ufficio in sé. Come per giudicare alla svelta di una casa si va a guardare il gabinetto (e si bada se c’è il rotolo della carta igienica), come per giudicare un ristorante si verifica in che condizioni è l’ampollino dell’olio, allo stesso modo si giudicano queste organizzazioni badando a come funziona la mensa. Se i muri sono marroni o verdi, se le tende sono rosse (oppure non esistono), se nella minestra c’è l’orzo (con o senza mosca), se nella lista ci son polpette o patate, e se i dirigenti si dichiarano soddisfatti di ogni cosa – ebbene, allora l’istituto è in pessime condizioni. Perché il compiacimento, in questo caso, è arrivato a un punto tale che i responsabili non distinguono più fra cibo e spazzatura. Siamo al livello in cui il compiacimento domina assoluto.

Il terzo ed ultimo stadio è quello in cui al compiacimento subentra l’apatia. I dirigenti non si vantano più della loro efficienza, confrontandosi con altri istituti. Anzi, hanno dimenticato che gli altri esistono. Non mangiano più alla mensa, si portano un panino da casa e seminano briciole sul piano della scrivania. Al quadro murale c’è il manifesto di un concerto avvenuto quattro anni or sono. Sulla porta del signor Brown c’è la targa del signor Smith. Sulla porta del signor Smith c’è scritto “Signor Robinson” con inchiostro sbiadito sopra un’etichetta per la spedizione dei bagagli. Al posto dei vetri rotti c’è un pezzo di cartone. L’interruttore della luce dà la scossa, lieve ma dolorosa. Dal soffitto crollano calcinacci e la tappezzeria fa la muffa alle pareti. L’ascensore non funziona e ‘il rubinetto dello spogliatoio non si apre più. Dal lucernario viene acqua, che ha riempito il secchio e trabocca. Dagli scantinati giunge il miagolio di un gatto affamato. L’ultimo stadio della malattia ha portato l’intera organizzazione al collasso. I sintomi della malattia in questa forma acuta sono così numerosi e palesi che l’esperto li scopre anche al telefono, senza bisogno di recarsi di persona in visita. Quando una voce stanca risponde: “Pronto!” (la più inutile delle risposte) l’esperto ha già sentito abbastanza. Dirà fra di sé: “Be”, stadio terziario. Non c’e più nulla da fare.” È troppo tardi per tentare una qualsiasi terapia. In pratica l’istituto è morto.

Abbiamo descritto la malattia vista dal di dentro e vista dal di fuori. Conosciamo l’origine, gli sviluppi, i risultati dell’infezione ed anche i sintomi che ci avvertono della sua presenza. I medici inglesi di rado procedono oltre nella loro ricerca. Una volta che la malattia è identificata, descritta, il medico inglese si ritiene soddisfatto e si accinge a studiare un altro problema. Se gli chiedete quale può essere la cura, egli alza gli occhi sbalordito e suggerisce la penicillina, preceduta o seguita dall’estrazione completa dei denti del malato. Si capisce subito che tale aspetto della questione non gli interessa. Dobbiamo comportarci come lui? Oppure, in quanto studiosi di scienze politiche, considerare se e cosa si possa fare? Certo, sarebbe prematuro discutere nei particolari una possibile terapia, ma sarebbe anche utile indicare le linee generali che possono avviare ad una soluzione. Possiamo almeno esporre alcuni principi. Il primo è questo: un’istituzione ammalata non può cambiarsi da sé. Vi sono esempi, come già abbiamo detto, di malattie guarite senza cura alcuna, malattie che erano comparse senza alcun sintomo. Ma questi son casi rari che lo specialista considera anormali e in fondo nocivi. La cura, qualunque essa sia, deve venire dall’esterno. Un ammalato potrebbe anche dopo l’anestesia locale, operarsi da sé l’appendicite, ma questa è una pratica che molti considerano errata e contro la quale hanno molto da obiettare. Altre operazioni si prestano ancor meno all’abilità manuale del paziente Quando la malattia è in stadio avanzato bisogna ricorrere a uno specialista e in qualche caso addirittura alla massima autorità vivente, cioè a Parkinson. Certo, gli onorari sono altissimi, ma in un caso del genere non ci si può arrestare di fronte alla spesa, perché e questione di vita o di morte.

Il secondo principio potrebbe enunciarsi così: lo stadio primario della malattia si può curare mediante semplici iniezioni; per lo stadio secondario può giovare, in qualche caso, l’intervento chirurgico; lo stadio terziario infine deve considerarsi, almeno per il momento, incurabile. C’è stata una epoca in cui i medici ragionavano sempre di pozioni e di pillole, che ormai però son fuori moda, seguì un’epoca in cui essi parlavano – in termini assai più vaghi – di psicologia; ma anche questa usanza è ormai fuori moda, perché quasi tutti gli psicanalisti si son riconosciuti pazzi. La nostra è un’epoca di iniezioni e di incisioni è quindi necessario che lo studioso di scienze politiche si tenga al passo con gli sviluppi della medicina. Dinanzi a un caso di infezione primaria bisogna subito preparare la siringa, preoccupandoci solo di sapere cosa metterci dentro, oltre l’acqua. In linea di principio la siringa dovrebbe contenere una qualche sostanza attiva: ma dove dobbiamo prenderla? Ci sarebbe una cura del tipo “o la va o la spacca”: mettere nella siringa un’alta dose di Intolleranza, ma questa è una medicina difficile da trovare e troppo drastica. L’intolleranza si trova nelle vene dei sergenti maggiori ed è composta di due elementi chimici, cioè: L’ottimo non è buono abbastanza, e non si accettano scuse in nessun caso. L’ individuo intollerante, iniettato nell’ istituzione ammalata, ha un effetto tonico e può anche spingere l’organismo a ribellarsi contro il germe infettivo. La cura è buona certamente, ma non altrettanto certamente essa è definitiva. Non sappiamo cioè se la sostanza infetta sarà davvero espulsa dal sistema. Le cognizioni che abbiamo ci farebbero credere che in prima istanza la cura è solo palliativa, e la malattia rimane, latente seppur inattiva. Talune autorità ritengono che la cura sarebbe completa con successive iniezioni, ma altre autorità temono che una terapia continuata provocherebbe nuove irritazioni, quasi pericolose quanto la malattia originaria. L’intolleranza perciò è un medicamento da usare con cautela.

C’è un’altra medicina, alquanto più tenue, e si chiama Ridicolo, ma è malsicura, instabile, poco nota nei suoi effetti. Non c’è motivo di temere che una iniezione di Ridicolo possa causare danni allo organismo, ma non è nemmeno certo che essa abbia effetti curativi. ln genere si ritiene che gli individui affetti da incomposite hanno uno spesso strato di pelle e quindi sono insensibili al ridicolo. Può anche darsi che il ridicolo tenda a isolare l’infezione: questo e il massimo che si possa sperare, e finora nessuno ha attribuito al medicamento tanto valore.

Diremo infine che un terzo farmaco, la Punizione – facile a ritrovarsi – e stato sperimentato in casi del genere con qualche effetto. Ma anche qui si presentano certe difficoltà. Questo farmaco dà uno stimolo immediato, ma può anche produrre un risultato diametralmente opposto a quello che si prefiggeva lo specialista. Dopo un momentaneo spasmo d attività, il malato di incomposite ricadrà in uno stato di passività anche maggiore, diventando un pericoloso focolaio di infezione. Se la punizione entrerà nell’uso, vi dovrà entrare come elemento in un preparato che contenga anche intolleranza e ridicolo, e forse altre medicine finora mai sperimentate. Aggiungeremo che questo preparato non esiste ancora.

Riteniamo che al secondo stadio la malattia possa guarirsi con intervento chirurgico. Il lettore che se ne intende avrà certo sentito parlare del Sacco Nuciforme e dei lavori per cui va giustamente famoso il professor Tagliapanza. L’operazione che l’illustre chirurgo ha compiuto per primo consiste, semplicemente, nella rimozione delle parti infette e nella introduzione simultanea di sangue nuovo tratto da un organismo simile. Tale operazione ha avuto a volte successo. Bisogna però aggiungere che in altri casi e fallita, perché essa dà al sistema un urto troppo grave. In qualche caso è impossibile trovare sangue nuovo e può anche darsi che, una volta trovato, esso rifiuti di combinarsi con quello vecchio. D’altro canto questo sistema drastico offre senza dubbio le migliori speranze di guarigione completa.

Al terzo stadio non possiamo fare più nulla. La istituzione è in pratica morta. La si può fondare da capo, ma solo dopo averle cambiato nome, sito e personale. A quelli che badano all’economia verrà la voglia di trapiantare nell’istituzione nuova una parte della vecchia, magari il nome della tradizione. Il trapianto sarebbe mortale, e la tradizione e proprio ciò che bisogna evitare. Non c’è più parte del vecchio organismo ammalato che possa considerarsi immune da infezione. Non bisogna spostare dal luogo originario né il personale, né le attrezzature, né le tradizioni. Occorre una disinfezione completa seguita da un periodo di rigorosa quarantena. Il personale infetto va spedito, con referenze lusinghiere, alle istituzioni concorrenti che si considerino a noi particolarmente ostili. Attrezzature e archivi vanno distrutti senza esitare. In quanto agli edifici, la cosa migliore è contrarre una forte assicurazione e poi farli saltare in aria. Solo quando al posto dell’istituto ci sarà un ammasso di macerie nerastre potremo esser certi che i germi della malattia sono morti.

 

 

 

 

L’ETÀ DELLA PENSIONE

ovverossia

IL COEFFICIENTE DANZIANITÀ

Fra i molteplici problemi affrontati e risolti in quest’opera, è giusto lasciare per ultimo quello della pensione. Numerose commissioni d’inchiesta hanno studiato il problema, e ci hanno esposto un certo numero di dati tutti però disperatamente contraddittori; mentre i risultati finali sono stati confusi, vaghi e inconcludenti. L’età della pensione è fissata, a seconda dei casi, fra i 55 e i 75 anni con criteri arbitrari e poco scientifici. Qualunque sia l’età della pensione, fissata o a casaccio o secondo una qualche tradizione, è facile poi difenderla, usando sempre le medesime argomentazioni. Nel caso che l’età della pensione sia stabilita ai 65 anni, l’esperienza avrà insegnato che la capacità e l’energia del pensionando cominciano a decadere verso i 62. Sarebbe questa un’utilissima scoperta; purtroppo un fenomeno identico si è osservato in quelle organizzazioni che mandano a riposo i propri dipendenti a 60 anni. Costoro, così ci dicono, cominciano a mollare verso i 57. E ancora: chi deve andare in pensione a 55 anni comincia a non rendere più quando compie i 52. Parrebbe insomma che l’efficienza venga meno alla età di P-3, qualunque sia il valore di P. Il fatto in sé è interessante, ma non ci serve, se dobbiamo stabilire quale dev’essere il valore di P.

Ma se la formula P-3 non ci serve direttamente, può servire invece a stabilire che le indagini sinora svolte erano mal orientate. La vecchia osservazione, secondo la quale certi uomini son vecchi a 50 anni, altri invece ancora in gamba a 80 o 90, può anche esser giusta, ma non ci serve a niente. La verità è che l’età della pensione non deve tenersi in alcun rapporto con l’uomo che stiamo considerando. Bisogna invece badare a un altro uomo, cioè a quello che prenderà il suo posto. Quest’uomo (chiamiamolo Y), destinato a prendere il posto del primo (X) quando costui va ‘in pensione, percorrerà le seguenti fasi, nella sua carriera:

1)  Età dell’abilitazione (A)
2) Età della discrezione (D) = A + 3
3) Età della promozione (P) = D + 7
4) Età della responsabilità (R) = P + 5
5) Età dell’autorità (AA) = R + 3
6) Età della realizzazione (RR) = AA + 7
7) Età della distinzione (DD) = RR + 9
8) Età della dignità (DDD) = DD + 6
9) Età della saggezza (S) = DDD + 3
10) Età dell’ostruzione (O) = S + 7

La scala suesposta dipende dal valore numerico di A. Questo A è un termine tecnico. Non significa che un individuo, giunto in A, sappia alcunché delle cose di cui deve occuparsi. Gli architetti, per esempio, superano un certo esame, ma di rado a quel livello (e spesso a qualsiasi livello) sanno fare alcunché di utile. Il termine A indica l’età in cui inizia la carriera di un professionista, o di un uomo d’affari, di solito dopo un complesso periodo di addestramento che è stato fruttuoso solo a quelli che vengon pagati per organizzarlo. Il lettore vedrà che se A = 22, ‘il signor X giungerà in O (cioè nella fase finale, quella dell’ostruzione) a 72 anni. Per quanto riguarda la sua efficienza, non c`è motivo valido per sostituirlo fino a quando non sia giunto ai 71. Ma a noi, come si è detto, non interessa il comportamento di X, bensì quello di Y, il suo successore. In che rapporto stanno le rispettive età di X e di Y? O più precisamente, quanti anni avrà X quando Y sarà assunto nel ministero o nella ditta?

A questo problema si è dedicata attenta e lunga considerazione. Le nostre ricerche parrebbero dimostrare che lo scarto di età fra X ed Y è 15 anni esatti. (Di solito non accade che al padre succeda direttamente il figlio.) Se prendiamo questo scarto medio di 15 anni, e se presupponiamo A = 22, troveremo che Y avrà raggiunto RR (cioè l’età della realizzazione) a 47 anni, quando X ne ha 62. Ed è proprio a questo punto che avviene la crisi. Infatti Y, intralciato nei suoi propositi ambiziosi dal fatto che X controlla ancora la situazione, passa – fatto ormai provato – in una serie di stadi diversi da quelli descritti. Essi sono i seguenti:

6) Età della frustrazione (F) = AA + 7
7) Età della gelosia (G) = F + 4
8) Età della rassegnazione (R) = G + 9
9) Età dell’oblio (O) = R+5

Cosi quando X avrà raggiunto i 72 anni, Y ne avrà 57, e starà per entrare nell’età della rassegnazione. Se X va in pensione a quell’età, Y non è in grado di prendere il suo posto, poiché è rassegnato (dopo un decennio di frustrazione e di gelosia) a una carriera mediocre. Insomma per Y la buona occasione si presenta con dieci anni di ritardo.

L’età della frustrazione non sarà sempre la stessa, giacché dipende dal fattore A; i sintomi tuttavia son facili da riconoscersi. L’uomo a cui si nega la possibilità di prendere decisioni importanti, comincia a considerare importanti le decisioni che gli lasciano prendere. Diventa pignolo sulla tenuta dell’archivio, attento a che le matite abbiano la punta, preoccupato che le finestre siano aperte (o chiuse), capace di usare due o tre diversi colori d’inchiostro. L’età della gelosia si rivela per il fatto che il Nostro tende a vantarsi della propria anzianità. “Dopo tutto, sono ancora qualcuno,” oppure: “Non mi hanno mai chiesto un parere,” o ancora: “Il Tale non ha grande esperienza.” Ma a questa fase segue quella della rassegnazione: “Io non sono fatto come certi ambiziosi, ”ovvero: “E venga anche Caio in commissione: un altro fastidio che si poteva evitare, credete a me,” o ancora: “Meglio così; se mi avessero promosso, addio tempo libero per giocare a golf.” Qualcuno sostiene che l’età della frustrazione ha per sintomo anche uno spiccato interesse per i fatti politici locali. Ma noi sappiamo invece che questo è sintomo di un’altra malattia; matrimonio mal riuscito. Da questi sintomi, e dagli altri che abbiamo descritto, appar chiaro che l’uomo il quale a 47 anni sia ancora in posizione subordinata, non servirà più a nulla.

Il problema, mi par chiaro, e di fare in modo che X vada in pensione all’età di 60: cioè quando è capace di fare il suo lavoro meglio di chiunque altro. Tale brusco mutamento può essere negativo, ma in caso contrario c’è il rischio di non avere un uomo capace di succedere a X quando costui va in pensione. E quanto più bravo è stato X, quanto più lunga la sua carriera, tanto più disperata la possibilità di trovargli un rimpiazzo. Quelli che hanno un’anzianità di poco inferiore alla sua, sono già troppo vecchi e per troppo tempo son rimasti in posizione subordinata. Essi posson servire solo a sbarrare la strada ai più giovani; compito che certamente svolgeranno da par loro. Per anni non verrà fuori un successore degno, forse non verrà fuori mai, a meno che una crisi repentina abbia. portato alla ribalta un capo nuovo. Cosi bisogna prendere quella grave decisione. Se X non va in pensione presto, tutta l’organizzazione finirà per soffrirne. Ma come si può rimuovere X?

Per far questo (ma anche per molte altre cose) ci viene in soccorso la scienza moderna. Superati ormai i grossolani metodi del passato. Un tempo gli altri dirigenti parlavano a voce bassa, durante le riunioni, in modo da non farsi sentire; qualcuno addirittura apriva e chiudeva la bocca soltanto, mentre gli altri annuivano, così che il presidente doveva convincersi d’essere completamente sordo. Ma c’è una tecnica moderna più efficace e più sicura: si basa sui viaggi in aereo e sulla compilazione dei moduli. Viaggi e moduli, somministrati nella giusta dose, indurranno il dirigente a dimettersi. Certe tribù primitive africane usavano liquidare il re, o comunque il capo, a un certo punto della sua carriera, cioè Q dopo un numero prestabilito di anni, ovvero quando egli cominciava a dar segni di decadenza. La tecnica odierna la possiamo descrivere così: si presenta al grand’uomo un programma di congressi. Uno a Helsinki in giugno, l’altro ad Adelaide in luglio, un altro ancora a Ottawa in agosto: fra un congresso e l’altro tre settimane circa. Gli si fa notare che il prestigio del ministero o della ditta dipende dalla sua presenza in quei luoghi, e che i partecipanti si offenderebbero se egli delegasse qualcun altro a rappresentarlo. Il programma dei viaggi aerei, del resto, gli consente di tornare in ufficio per tre o quattro giorni, fra un congresso e l’altro. Ed ogni volta egli troverà ‘il cestino delle pratiche in arrivo ben colmo di moduli da riempire. Alcuni di questi moduli riguardano i viaggi, altri si riferiscono a richieste di permessi, altri ancora portano l’intestazione “tassa sul reddito”. Riempiti i moduli che aspettavano la sua firma dopo il congresso di Ottawa, subito gli sarà dato il programma di una nuova serie di congressi; uno a Manila in settembre, un altro al Messico in ottobre, un terzo a Quebec in novembre. Il Nostro ammetterà, verso dicembre, che è tempo per lui di andare in pensione. In gennaio lo annunzierà pubblicamente.

In sostanza questa tecnica si basa sull’organizzazione dei congressi in luoghi il più possibile distanti, e con la massima possibile variazione dal clima caldo a quello freddo. Bisogna assolutamente evitare qualsiasi tranquillo viaggio via mare. Aereo soltanto, sempre. Non conta quale sia la rotta, giacché tutte le rotte sono organizzate in vista delle necessità postali, e non di quelle dei passeggeri. Non c’è bisogno di indagini per sapere che, con ogni certezza, ogni volo implicherà la partenza alle 2,50 del mattino: necessario quindi presentarsi all’aeroporto alla 1,30. L’arrivo, così dire l’orario, è previsto per le 3,10 antimeridiane del giorno successivo. Invariabilmente l’aereo giungerà in ritardo, e toccherà terra, di fatto, alle 3,57. Cosi i passeggeri avran terminato di sbrigare le pratiche doganali verso le 4,35. Poiché il viaggio si svolge in una sola direzione, attorno al mondo, è tutt’altro che impossibile che il viaggiatore faccia colazione tre volte. Viaggiando invece nella direzione opposta, il passeggero resterà senza cibo per ore e ore, e si vedrà offrire un bicchierino di sherry proprio quando sta per crollare dallo sfinimento. Gran parte delle ore di viaggio saranno naturalmente occupate dalla compilazione di moduli, circa la valuta e circa le condizioni di salute del passeggero. Che somma si porta dietro, in dollari (USA), sterline, franchi, marchi, fiorini, yen, lire italiane, sterline (australiane); quanto in lettere di credito, quanto in travellers’ cheques, quanto in francobolli, quanto in vaglia postali. Dove ha dormito la notte scorsa, e dove la notte precedente a quella? (Questa È: una domanda facile, perché il viaggiatore d’aereo può in buona fede dichiarare che per una settimana non ha dormito affatto.) Quando è nato e qual è il nome di sua nonna, da ragazza? Quanti figli ha, e perché? Quanto durerà il soggiorno? Dove sarà alloggiato? Qual è lo scopo della sua visita? (C’è uno scopo? Il viaggiatore ormai può anche averlo dimenticato.) Ha avuto la varicella, e in caso negativo perché? Ha il visto per la Patagonia e il permesso di rientro via Hong Kong? Le dichiarazioni false saranno punite con l’ergastolo. Prego allacciare le cinture. Stiamo per atterrare sul campo di Rangoon. Ora locale 2,47 antimeridiane. Temperatura esterna 110° F. Ci fermeremo a Rangoon per un’ora circa. La colazione sarà servita a bordo cinque ore dopo la partenza. Grazie (Dio, di cosa?). Vietato fumare.

Il lettore avrà già capito che il viaggio in aereo, considerato come stimolo al ritiro in pensione, comprende una buona dose di moduli da compilare. Ma tale compilazione costituisce di per sé una prova, non necessariamente connessa col viaggio. L’arte di redigere i moduli da riempire si basa su tre elementi: oscurità, carenza di spazio, gravità delle minacce di ammenda per i trasgressori e gli incapaci. Nell`ufficio che redige i moduli, all’oscurità provvedono vari competenti, dei quali uno bada all’ambiguità, uno all’inutilità, un altro al gergo. Certi espedienti più semplici hanno ormai carattere di automatismo. Prediletta, come mossa iniziale, è quella dello spazio bianco, a destra in alto, su cui sta scritto

Riferimento relativo mese di …

Poiché il modulo è giunto il 16 febbraio, nessuno sa se esso si riferisce al mese scorso, a quello in corso o al prossimo. Lo sa solo chi ha mandato il modulo, ma a lui non si può chiedere l’informazione, perché solo lui ha il diritto di far domande. A questo punto interviene l’esperto in ambiguità, il quale ha chiesto prima il parere al consulente sullo spazio, anzi, sulla carenza di spazio. Ed ecco cosa ne vien fuori:

Cancellare la parola che non interessa

Nome completo

Indirizzo

Domicilio

Anno e

Motivo della naturalizzazione

Status

Sig.

Sig.ra

Sìg.na

 

Questo modulo è fatto apposta, naturalmente, per un tale che si chiami Colonnello, oppure Lord, oppure dottore Alexander Winthrop Percival Blenkishop-Fotheringay of Battleaxe Towers, Layer-dela-Haye, presso Newcastle-under-Lyme, provincia di Kesteven, Lancashire (ammesso che queste parole abbiano un significato). Accanto a “indirizzo” figura la parola “domicilio”, che può avere un significato solo per un esperto di diritto internazionale; poi viene quel misterioso accenno alla naturalizzazione. Infine la parola “status” dinanzi alla quale il compilatore si chiede se deve mettere “ammiraglio in pensione”, oppure “sposato”, oppure “cittadino americano”, oppure “direttore generale”.

All’esperto in ambiguità succede ora lo specialista in inutilità, il quale chiede il parere del consulente sullo spazio. Ed ecco cosa mettono insieme:

Numero della carta d’identità o del passaporto

Nome completo del nonno

Nome completo della nonna da ragazza

Se vaccinato quando e perchè

Altri particolari

N.B. – La pena per le dichiarazioni false è fissata in 5.000 sterline oppure un anno di prigione, o anche l’uno e l’altro

 

Il capolavoro, ormai quasi ultimato, passa allo specialista di gergo, il quale redige quanto segue:

Quali circostanze speciali (253) si adducano per giustificare l’assegnazione convenuta per cui si sia fatta richiesta relativa al periodo a cui si riferisce la precedente domanda (143), prescindendo dalla revisione della precedente quota, e in che senso ed a che fine e se l’attuale o una qualsiasi precedente domanda inoltrata da ogni e qualsiasi altra persona o persone sia stata respinta da qualsivoglia autorità della sottosezione VII (35) o per qualsivoglia altro motivo, indipendentemente da un eventuale ricorso contro detta decisione, di cui si esporrà motivo e risultato.

 

 

Infine il modulo passa al tecnico che vi aggiunge lo spazio per la firma, cioè il fastigio che corona l’opera:

 

Io / noi (maiuscolo stampatello) ……………………………………………………………

Dichiaro/iamo sotto mia/nostra responsabilità che le informazioni da me/noi fornite qua sopra sono, per mia/nostra conoscenza, vere, come testimonia la mia/nostra firma apposta addì …………………. del mese di ………… 19 …………

(Firma) ……………………………………………………..

TESTIMONE

Timbro ……………………………………

nome …………………………….

indirizzo ………………………..

occupazione ………………….

Fotografia formato passaporto

Impronta digitale indice

Quest’ultima parte potrebbe sembrare chiara, se non fosse per un ultimo motivo di incertezza: di chi si richiede la fotografia e l’impronta digitale? Di me/noi o del testimone? Tuttavia questo forse non importa.

Le esperienze sinora fatte dimostrano che un funzionario anziano che occupi un posto di responsabilità, è costretto a dimettersi dopo un congruo numero di moduli da riempire e di viaggi in aereo. Ci sono anche esempi di funzionari che decidono di andare in pensione prima ancora che sia cominciata la cura. Basta parlar loro di un congresso a Stoccolma o a Vancouver, ed essi comprendono che è giunta l’ora. Ai giorni nostri quasi mai occorre adottare metodi drastici. L’ultimo caso di cui si abbia memoria risale all’immediato dopoguerra. Il funzionario in questione era individuo particolarmente robusto, e si dovette ricorrere a un lungo giro, in visita a miniere di stagno e a piantagioni di gomma in Malacca. Tale metodo funziona meglio nel mese di gennaio, e su aerei a reazione, in modo che lo scarto climatico sia più netto. Sceso dall’aereo alle 5,52 (ora di Malacca) il funzionario fu subito trascinato a un cocktail party, poi a un altro ricevimento, che si tenne in una casa distante quindici miglia dall’albergo dove era avvenuto il primo, indi a una cena (altro viaggio di undici miglia, ma in direzione opposta). Andò a letto alle 2,30 del mattino, poi fu a bordo dell’aereo alle 7. Atterrò a Ipoh giusto in tempo per far colazione, poi fu condotto a visitare due piantagioni di gomma, una miniera di stagno, una piantagione di palme da olio e una fabbrica di ananas in scatola. Dopo il pranzo, offerto al Rotary Club, fu condotto a visitare una scuola, una clinica, e un centro comunitario. Seguirono due cocktail party, un banchetto cinese di venti portate, con numerosi brindisi a base di acquavite, servita dentro bicchieroni da acqua. Le discussioni aziendali cominciarono la mattina dopo e proseguirono per tre giorni: fra una riunione e l’altra ricevimenti e banchetti alla maniera indiana e di Sumatra. Al quinto giorno tutti videro che la cura era stata troppo drastica: quel pomeriggio infatti l’illustre ospite riusciva a stare in piedi solo se sostenuto dalla segretaria, a destra, e dal cameriere privato, a sinistra. Al sesto giorno mori, dando conferma alla diffusa opinione secondo la quale egli doveva essere ammalato o stanco. Oggi si sconsigliano metodi siffatti. anche perché non occorrono più. Infatti ormai la gente ha imparato ad andarsene in pensione quando è il momento.

Resta tuttavia un grave problema. Cosa faremo, personalmente, quando si avvicinerà per noi l’età della pensione, già indicata per il nostro prossimo? Il lettore intenderà subito che il caso nostro personale è completamente diverso da tutti quelli sinora considerati. Noi non diremo mai d’essere in alcun modo indispensabili, ma il fatto sta che non si è ancora delineato un possibile successore. Con sincera riluttanza accettiamo di rinviare di qualche anno il ritiro in pensione, e solo per l’interesse del pubblico. E quando un nostro dipendente si presenterà con un programma di congressi a Teheran o a Hobart, noi ci affretteremo a buttar via quel foglio di carta e ad avvertire che i congressi sono tempo perso. “E poi,” continueremo con bonomia, “ho già preso i miei impegni. Nei prossimi due mesi andrò a pesca di salmoni, e sarò di ritorno verso la fine di ottobre. Per quella data voglio che tutti i moduli siano riempiti. Arrivederci ad allora.”

Noi sappiamo i metodi occorrenti per mandare in pensione chi ci precede. Se vogliono che andiamo in pensione anche noi, quelli che ci seguono trovino loro un metodo nuovo.

LA DOTTRINA DEL FASCISMO

PREFAZIONE

I programmi scolastici approvati col R. D. 7 maggio 1936-XIV, n. 762, prescrivono, per i licei classici e scientifici e gli istituti magistrali, la conoscenza della « Dottrina del Fascismo ».

L’Editore è pertanto lieto di offrire agli insegnanti e agli alunni questo volume la cui parte fondamentale é costituita dallo scritto del DUCE, nel quale – son, parole Sue – « è stabilito nettissimamente il mio pensiero dal punto di vista filosofico e dottrinaIe ».

Segue una appendice che raccoglie le leggi più importanti, anche le recentissime, del Regime. Gli studenti meditino queste leggi che realizzano i postulati della dottrina mussoliniana. Diciamo realizzano, perché i provvedimenti legislativi sono la attuazione immediata dei principi del Fascismo e ne preparano gli sviluppi. Bisogna, interpretare al di là della lettera medesima — pur cosi esplicita — lo spirito delle leggi fasciste, si vedrà allora come la precisione e perfino l’aridità del linguaggio si animino di un’irresistibile eloquenza.

L’EDITORE

 

INDICE

LA DOTTRINA DEL FASCISMO
di Benito MUSSOLINI

CAPITOLO I

IDEE FONDAMENTALI

1] Il Fascismo come filosofia

2] Concezione spiritualistica

3] Concezione positiva della vita come lotta

4] Concezione etica

5] Concezione religiosa

6] Concezione etica e realistica

7] Antiindividualismo e libertà

8] Antisocialismo e corporativismo

9] Democrazia e Nazione

10] Concetto dello Stato

11] Stato etico

12] Contenuto dello Stato

13] Autorità

 

CAPITOLO II

DOTTRINA POLITICA E SOCIALE

1] Origini della dottrina

2] Svolgimento

3] Contro il pacifismo: la guerra, e la vita come dovere

4] La politica demografica e il “prossimo”

5] Contro il materialismo storico e il principio della lotta di classe

6] Contro le ideologie democratiche

7] Le menzogne della democrazia

8] Contro le dottrine liberali

9` Il Fascismo non torna indietro

10] Valore e missione dello Stato

11] L’unità dello Stato e le contraddizioni del capitalismo

12] Lo Stato fascista e la religione

13] Impero e disciplina

 

 

 

 

CAPITOLO I

IDEE FONDAMENTALI

1 – Il Fascismo come filosofia.

Come ogni salda concezione politica, il Fascismo è prassi ed è pensiero, azione a cui è immanente una dottrina, e dottrina che, sorgendo da un dato sistema di forze storiche, vi resta inserita e vi opera dal di dentro1.

Ha quindi una forma correlativa alle contingenze di luogo e di tempo, ma ha insieme un contenuto ideale che la eleva a formula di verità nella storia superiore del pensiero2. Non si agisce spiritualmente nel mondo come volontà umana dominatrice di volontà senza un concetto della realtà transeunte e particolare su cui bisogna agire, e della realtà permanente e universale in cui la prima ha il suo essere e la sua vita. Per conoscere gli uomini bisogna conoscere l’uomo; e per conoscere l’uomo bisogna conoscere la realtà e le sue leggi. Non c’è concetto dello Stato che non sia fondamentalmente concetto della vita: filosofia o intuizione, sistema di idee che si svolge in una costruzione logica o si raccoglie in una visione o in una fede, ma è sempre, almeno virtualmente, una concezione organica del mondo.

Ora, il Fascismo italiano, pena la morte o. peggio, il suicidio, deve darsi un “corpo di dottrine”. Non saranno, non devono essere delle camicie di Nesso che ci vincolino per l’eternità – poiché il domani è misterioso e impensato – ma devono costituire una norma orientatrice della nostra quotidiana attività politica e individuale.
Io stesso, che le ho dettate, sono il primo a riconoscere che le nostre modeste tavole programmatiche – gli orientamenti teorici e pratici del Fascismo – devono essere rivedute, corrette, ampliata, corroborate, perché qua e là hanno subito le ingiurie del tempo. Credo che il nocciolo essenziale sia sempre nei suoi postulati, che per due anni hanno servito come segnale di raccolta per le schiere del Fascismo italiano; ma, pur prendendo l’avvio da quel nucleo primigenio, è tempo di procedere ad una ulteriore, più ampia elaborazione dello stesso programma.
A quest’opera di vita per il Fascismo dovrebbero con particolare fervore concorrere tutti i fascisti d’Italia, specialmente in quelle zone, dove, col patto o senza, si è pervenuti ad una pacifica convivenza dei due movimenti antagonistici.
La parola è un po’ grossa; ma io vorrei che nei due mesi che ci separano dall’Adunata Nazionale si creasse la filosofia del Fascismo italiano. Milano con la sua prima scuola di propaganda e cultura concorre a questo scopo. Non si tratta soltanto di preparare gli elementi programmatici sui quali poggiare solidamente la organizzazione di quel partito nel quale dovrà sfociare ineluttabilmente il movimento fascista; si tratta anche di smentire la stupida fola, secondo la quale nel Fascismo ci sarebbero soltanto dei violenti e non anche, com’è in realtà, degli spiriti inquieti e meditativi.
Questo indirizzo nuovo dell’attività fascista non danneggia – ne sono certissimo – quel magnifico spirito e temperamento di bellicosità, caratteristica peculiare del Fascismo. Attrezzare il cervello di dottrine e di solidi convincimenti non significa disarmare, ma irrobustire, rendere sempre più cosciente l’azione. I soldati che si battono con cognizione di causa sono sempre i migliori. Il Fascismo può e deve prendere a divisa il binomio mazziniano: Pensiero e Azione. [Lettera a M. Bianchi, 27 agosto 1921, in occasione dell’apertura della Scuola di propaganda e cultura fascista in Milano; v.- Messaggi e Proclami, Milano, Libreria d’Italia, 1929, pag. 39.]
Bisogna mettere in contatto i fascisti, far si che la loro attività sia anche una attività di dottrina, una attività spirituale e di pensiero…
Ora, se i nostri avversari fossero stati presenti alla nostra- riunione, si sarebbero convinti che il Fascismo non è soltanto azione, è anche pensiero… [Scritti e Discorsi: 1924, edizione definitiva; Hoepli, Milano, vol. IV, pag. 243. Nelle note seguenti sarà indicata con “S. e D.°’ la edizione definitiva degli Scritti e Discorsi di Benito Mussolini.]

2 Oggi io affermo che il Fascismo in quanto idea, dottrina, realizzazione, e universale; italiano nei suoi particolari istituti, esso è universale nello spirito, né potrebbe essere altrimenti. Lo spirito è universale per la sua stessa natura. Si può quindi prevedere una Europa fascista, una Europa che inspiri le sue istituzioni alle dottrine e alla pratica del Fascismo. Una Europa cioè che risolva, in senso fascista, il problema dello Stato moderno, dello Stato del XX secolo, ben diverso dagli Stati che esistevano prima del 1789 o che si formarono dopo. Il Fascismo oggi risponde ad esigenze di carattere universale. Esso risolve infatti il triplice problema dei rapporti fra Stato e individuo, fra Stato e gruppi, fra gruppi e gruppi organizzati. [S. e D.: 1930; vol. VII, pag. 230.]

 

2 – Concezione spiritualistica.

Cosi il Fascismo non si intenderebbe in molti dei suoi atteggiamenti pratici, come organizzazione di partito, come sistema di educazione, come disciplina, se non si guardasse alla luce del suo modo generale di concepire la vita. Modo spiritualistico3.

Il mondo per il Fascismo non è questo mondo materiale che appare alla superficie, in cui l’uomo è un individuo separato da tutti gli altri e per sé stante, ed è governato da una legge naturale, che istintivamente lo trae a vivere una vita di piacere egoistico e momentaneo. L’uomo del Fascismo è individuo che è nazione e patria, legge morale che stringe insieme individui e generazioni in una tradizione e in una missione, che sopprime l’istinto della vita chiusa nel breve giro del piacere per instaurare nel dovere una vita superiore libera da limiti di tempo e di spazio: una vita in cui l’individuo, attraverso l’abnegazione di sé, il sacrificio dei suoi interessi particolari, la stessa morte, realizza quell’esistenza tutta spirituale in cui è il suo valore di uomo.

3 Questo processo politico è affiancato da un processo filosofico: se è vero che la materia è rimasta per un secolo sugli altari, oggi è lo spirito che ne prende il posto. Conseguentemente vengono ripudiate tutte le manifestazioni peculiari dello spirito democratico: il facilonismo, l’improvvisazione, la mancanza di senso personale di responsabilità, l’esaltazione del numero e di quella misteriosa divinità che si chiama “popolo”. Tutte le creazioni dello spirito – a cominciare da quelle religiose – vengono al primo piano, mentre nessuno osa più attardarsi nelle posizioni di quell’anticlericalismo che fu, per molti decenni, nel mondo occidentale, l’occupazione preferita della democrazia. Quando si dice che Dio ritorna, s’intende affermare che i valori dello spirito ritornano. [S. e D.: 1922; vol. II, pag. 264.]
Vi è una zona riservata, più che alla ricerca, alla meditazione dei supremi fini della vita. Quindi, la scienza parte dall`esperienza ma sbocca fatalmente nella filosofia e, a mio avviso, solo la filosofia può illuminare la scienza e portarla sul terreno dell’idea universale. [S. e D.: vol. V, pagina 464.]
Il movimento fascista per essere compreso deve essere considerato in tutta la sua vastità e profondità di fenomeno spirituale. Le sue manifestazioni sono state le più potenti e le più decisive, ma non bisogna fermarsi ad esse. Il Fascismo italiano non è stato infatti solamente una rivolta politica contro governi fiacchi e incapaci che avevano lasciato decadere l’autorità dello Stato e minacciavano di arrestare l’Italia sulla via del suo maggiore sviluppo, ma è stato una rivolta spirituale contro vecchie ideologie che corrompevano i sacri principi della religione, della patria e della famiglia. Rivolta spirituale dunque, il Fascismo è stato espresso direttamente dal popolo. [Un messaggio al pubblico inglese, 5 gennaio 1924; o.: Messaggi e Proclami, Milano, Libreria d’Italia, 1929, p. 107.]

 

3 – Concezione positiva della vita come lotta.

Dunque concezione spiritualistica, sorta anch’essa dalla generale reazione del secolo contro il fiacco e materialistico positivismo dell’Ottocento. Antipositivistica, ma positiva: non scettica, né agnostica, né pessimistica, né passivamente ottimistica, come sono in genere le dottrine (tutte negative) che pongono il centro della vita fuori dell’uomo, che con la sua libera volontà può e deve crearsi il suo mondo. Il Fascismo vuole l’uomo attivo e impegnato nell’azione con tutte le sue energie: lo vuole virilmente consapevole delle difficoltà che ci sono, e pronto ad affrontarle. Concepisce la vita come lotta, pensando che spetti all’uomo conquistarsi quella che sia veramente degna di lui, creando prima di tutto in sé stesso lo strumento (fisico, morale, intellettuale) per edificarla. Cosi per l’individuo singolo, così per la nazione, così per l’umanità 4.

Quindi l’alto valore della cultura in tutte le sue forme (arte, religione, scienza)5, e l’importanza grandissima dell’educazione. Quindi anche il valore essenziale del lavoro, con cui l’uomo vince la natura e crea il mondo umano (economico, politico, morale, intellettuale).

4 La lotta è l’origine di tutte le cose perché la vita è tutta piena di contrasti: c’è l’amore e l’odio, il bianco e il nero, il giorno e la notte, il bene e il male, e finché questi contrasti non si assommano in equilibrio, la lotta sarà sempre nel fondo della natura umana, come suprema fatalità. E del resto è bene che sia così. Oggi può essere la lotta di guerra economica, di idee, ma il giorno in cui piú non si lottasse, sarebbe giorno di malinconia, di fine, di rovina. Ora, questo giorno non verrà. Appunto perché la storia si presenta sempre come un panorama cangiante. Se si pretendesse di ritornare alla calma, alla pace, alla tranquillità, si combatterebbero le odierne tendenze dell’attuale periodo dinamico. Bisogna prepararsi ad altre sorprese, ad altre lotte. Non ci sarà un periodo di pace sino a quando i popoli si abbandoneranno ad un sogno cristiano di fratellanza universale e potranno stendersi la mano oltre gli oceani e le montagne. Io, per mio conto, non credo troppo a questi ideali, ma non li escludo perché io non escludo niente… [S. e D.: 1921; vol. II, pagg. 99-100.]

5 Intendo l’onore delle nazioni nel contributo che hanno dato alla cultura dell’umanità. [E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, 1932, pag. 199.]

 

4 – Concezione etica.

Questa concezione positiva della vita è evidentemente una concezione etica. E investe tutta la realtà, nonché l’attività umana che la signoreggia. Nessuna azione sottratta al giudizio morale; niente al mondo che si possa spogliare del valore che a tutto compete in ordine ai fini morali. La vita perciò quale la concepisce il fascista è seria, austera, religiosa: tutta librata in un mondo sorretto dalle forze morali e responsabili dello spirito. ll fascista disdegna la vita “comoda”6.

6 Chiamai invece questa organizzazione: « Fasci italiani di combattimento ». In questa parola dura e metallica c’era tutto il programma del Fascismo, così come io lo sognavo, così come io lo volevo, cosi come io l`ho fatto!
Ancora questo è il programma, o camerati: combattere.
Per noi fascisti la vita è un combattimento continuo, incessante che noi accettiamo con grande disinvoltura, con grande coraggio, con la intrepidezza necessaria. [S. e D.: 1926; vol. V, pagg. 297-98.]
Eccoci persino di nuovo al nocciolo della filosofia fascista. Quando un filosofo finlandese mi pregò recentemente di dargli il senso del Fascismo in una frase, io scrissi in lingua tedesca: « Noi siamo contro la vita comoda!› Ludwig, 1. c., pag. 190.]

 

5 – Concezione religiosa.

Il Fascismo è una concezione religiosa7, in cui l’uomo è veduto nel suo immanente rapporto con una legge superiore, con una Volontà obiettiva che trascende l’individuo particolare e lo eleva a membro consapevole di una società spirituale. Chi nella politica religiosa del regime fascista si è fermato a considerazioni di mera opportunità, non ha inteso che il Fascismo, oltre a essere un sistema di governo, è anche, e prima di tutto, un sistema di pensiero.

7 Se il Fascismo non fosse una fede, come darebbe lo stoicismo e il coraggio ai suoi gregari? Solo una fede, che ha raggiunto le altitudini religiose, solo una fede può suggerire le parole uscite dalle labbra ormai esangui di Federico Florio. [S. e D.: 1922; vol. ll, pag. 233.]

 

6 – Concezione etica e realistica.

Il Fascismo è una concezione storica, nella quale l’uomo non è quello che è se non in funzione del processo spirituale a cui concorre, nel gruppo familiare sociale, nella nazione e nella storia, a cui tutte le nazioni collaborano. Donde il gran valore della tradizione nelle memorie, nella lingua, nei costumi, nelle norme del vivere sociale8. Fuori della storia l’uomo è nulla. Perciò il Fascismo è contro tutte le astrazioni individualistiche, a base materialistica, tipo sec. XVIII; ed è contro tutte le utopie e le innovazioni giacobine. Esso non crede possibile la “felicità” sulla terra, come fu nel desiderio della letteratura economicistica del 700, e quindi respinge tutte le concezioni teleologiche per cui a un certo periodo della storia ci sarebbe una sistemazione definitiva del genere umano. Questo significa mettersi fuori della storia e della vita che è continuo fluire e divenire. Il Fascismo politicamente vuol essere una dottrina realistica; praticamente, aspira a risolvere solo i problemi che si pongono storicamente da sé e che da sé trovano o suggeriscono la propria soluzione9. Per agire tra gli uomini, come nella natura, bisogna entrare nel processo della realtà e impadronirsi delle forze in atto10.

8 La tradizione è certamente una delle più grandi forze spirituali dei popoli in quanto che è una creazione successiva e costante della loro anima. [S. e D.: 1922; vol. Il, pag. 235.]

9 Il nostro temperamento ci porta a valutare l’aspetto concreto dei problemi, non già le loro sublimazioni ideologiche o mistiche. Per questo ritroviamo facilmente l’equilibrio [S. e D.: 1917; vol. I, pag. 272.]
La nostra battaglia è più ingrata ma è più bella, perché ci impone di contare soltanto sulle nostre forze. Noi abbiamo stracciato tutte le verità rivelate, abbiamo sputato su tutti i dogmi, respinto tutti i paradisi, schernito tutti i ciarlatani – bianchi, rossi, neri – che mettono in commercio le droghe miracolosa per dare la “felicità” al genere umano. Non crediamo ai programmi, agli schemi, ai santi, agli apostoli: non crediamo soprattutto alla felicità, alla salvazione, alla terra promessa. Non crediamo a una soluzione unica – sia essa di specie economica o politica o morale – a una soluzione lineare dei problemi della vita, perché – o illustri cantastorie di tutte le sacristie – la vita non è lineare e non la ridurrete mai a un segmento chiuso fra bisogni primordiali. [S. e D.: 1920; vol. II, pagine 53-4.]

10 Noi non siamo, noi non vogliamo essere mummia perennemente immobili con la faccia rivolta allo stesso orizzonte, o rinchiuderci tra le siepi anguste della beghinitá sovversiva, dove si biascicano meccanicamente le formule corrispondenti alle preci delle religioni professate; ma siamo uomini e uomini vivi che vogliamo dare il nostro contributo, sia pure modesto, alla creazione della storia. [S. e D.: 1914; vol. I, pag. 8.]
Noi agitiamo dei valori morali e tradizionali che il socialismo trascura o disprezza; ma soprattutto lo spirito fascista rifugge da tutto ciò che è ipoteca arbitraria sul misterioso futuro. [S. e D.: 1921; vol. II, pagina 153.]
Davanti alle parole ed ai concetti che vi si riannodano, di destra e di sinistra, di conservazione e di rinnovazione, di tradizione e di progresso, noi non ci aggrappiamo disperatamente al passato, come a tavola suprema di salvezza, né ci lanciamo a capofitto fra le nebbie seducenti dell’avvenire. [S. e D.: 1922; vol. II, pag. 236.]
Il negativo, l’eterno immobile, è dannazione. Io sono per il movimento. Io sono un marciatore. [Ludwig, 1. c., pag. 204.]

 

7 – Antiindividualismo e libertà.

Antiindividualistica, la concezione fascista è per lo Stato; ed è per l’individuo in quanto esso coincide con lo Stato, coscienza e volontà universale dell’uomo nella sua esistenza storica11. È contro il liberalismo classico, che sorse dal bisogno di reagire all’assolutismo e ha esaurito la sua funzione storica da quando lo Stato si è trasformato nella stessa coscienza e volontà popolare. Il liberalismo negava lo Stato nell’interesse dell’individuo particolare; il Fascismo riafferma lo Stato come realtà vera dell’individuo12. E se la libertà dev’essere l’attributo dell’uomo reale, e non di quell’astratto fantoccio a cui pensava il liberalismo individualistico, il Fascismo è per la libertà. È per la sola libertà che possa essere una cosa seria, la libertà dello Stato e dell’individuo nello Stato13. Giacché, per il fascista, tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato. In tal senso il Fascismo è totalitario, e lo Stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo14.

11 Siamo i primi ad avere affermato, di fronte all’individualismo demoliberale, che l’individuo non esiste, se non in quanto è nello Stato e subordinato alle necessità dello Stato, e che, man mano che la civiltà assume forme sempre più complesse, la libertà dell’individuo sempre più si restringe. [S. e D.: 1929; vol. VII, pag. 147.]
Il senso dello Stato grandeggia nella coscienza degli Italiani, i quali sentono che solo lo Stato è la insostituibile garanzia della loro unità e della loro indipendenza; che solo lo Stato rappresenta la continuità nell’avvenire della loro stirpe e della loro storia! [Id., pag. 152.]
Se negli ottanta anni trascorsi abbiamo realizzato dei progressi cosi imponenti, voi pensate e potete supporre e prevedere che nei prossimi cinquanta od ottanta anni il cammino dell’Italia, di questa Italia che noi sentiamo cosi potente, cosi percorsa da linfe vitali, sarà veramente grandioso specialmente se durerà la concordia di tutti i cittadini, se lo Stato continuerà ed essere l’arbitro nelle contese politiche e sociali, se tutto sarà nello Stato e niente fuori dello Stato, perché oggi non si concepisce un individuo fuori dello Stato se non sia l’individuo selvaggio che non può rivendicare per sé che la solitudine e la sabbia del deserto. [S. e D.: 1928; vol. VI, pag. 173.]
Il Fascismo ha restituito allo Stato la sua attività sovrana – rivendicandone, contro tutti i particolarismi di classe e di categoria, l’assoluto valore etico; ha restituito al governo dello Stato, ridotto a strumento esecutivo dell’assemblea elettiva, la sua dignità di rappresentante della personalità dello Stato e la pienezza della sua potestà di imperio; ha sottratto l’amministrazione alle pressioni di tutte le faziosità e di tutti gli interessi. [S. e D.: 1928; vol. VI, pag. 292.]

12 Né si pensi di negare il carattere morale dello Stato fascista, perché io mi vergognerei di parlare da questa tribuna se non sentissi di rappresentare la forza morale e spirituale dello Stato. Che cosa sarebbe lo Stato se non avesse un suo spirito, una sua morale, che è quella che da la forza alle sue leggi, e per la quale esso riesce a farsi ubbidire dai cittadini?
… Lo Stato fascista rivendica in pieno il suo carattere di eticità: e cattolico, ma è fascista, anzi soprattutto, esclusivamente, essenzialmente fascista. Il Cattolicismo lo integra, e noi lo dichiariamo apertamente, ma nessuno pensi, sotto la specie filosofica e metafisica, di cambiarci le carte in tavola. [S. e D.: 1929; vol. VII, pag. 104-5.]
… uno Stato che è conscio della sua missione e che rappresenta un popolo che cammina, uno Stato che trasforma questo popolo continuamente, anche nel suo aspetto fisico. A questo popolo lo Stato deve dire delle grandi parole, agitare delle grandi idee e dei grandi problemi non fare soltanto dell’ordinaria amministrazione. [Id., pag. 105.]

13 Il concetto di libertà non è assoluto perché nella vita nulla vi è di assoluto. La liberta non è un diritto, è un dovere. Non è una elargizione: è una conquista; non è un’eguaglianza: è un privilegio. Il concetto di libertà muta col passare del tempo. C’è una liberta in tempo di pace che non è più la libertà in tempo di guerra. C’è una libertà in tempo di ricchezza che non può essere concessa in tempo di miseria. [S. e D.: 1924; volume IV, pag. 77.]
… nel nostro Stato la liberta all’individuo non manca. Egli la possiede più che l’uomo isolato: poiché lo Stato lo protegge, egli è una parte dello Stato. L’uomo isolato invece resta indifeso. [Ludwig, 1. c., pagina 129.]

14 Oggi preannunziamo al mondo la creazione del potente Stato unitario italiano, dall’Alpi alla Sicilia, e questo Stato si esprime in una democrazia accentrata, organizzata, unitaria, nella quale democrazia il popolo circola a suo agio, perchè, o signori, o voi immettete il popolo nella città della dello Stato, ed egli la difenderà, o sarà al di fuori, ed egli l’assalterà. [S. e D.: 1927; vol VI, pag. 77.]
Nel regime fascista l’unita di tutte le classi, l’unita politica, sociale e morale del popolo italiano si realizza nello Stato e soltanto nello Stato fascista. [S. e D.: 1928; vol. VI, pag. 282.]

 

8 – Antisocialismo e corporativismo.

Né individui fuori dello Stato, né gruppi (partiti politici, associazioni, sindacati, classi)15. Perciò il Fascismo è contro il socialismo che irrigidisce il movimento storico nella lotta di classe e ignora l’unità statale che le classi fonde in una sola realtà economica e morale; e analogamente, è contro il sindacalismo classista. Ma nell’orbita dello Stato ordinatore, le reali esigenze da cui trasse origine il movimento socialista e sindacalista, il Fascismo le Vuole riconosciute e le fa valere nel sistema corporativo degli interessi conciliati nell’unità dello Stato16.

15 Abbiamo creato lo Stato unitario italiano. Pensate che dall’Impero in poi, l’Italia non fu più uno Stato unitario. Noi qui riaffermiamo solennemente la nostra dottrina concernente lo Stato; qui riaffermo non meno energicamente la mia formula del discorso alla Scala di Milano «tutto nello Stato, niente contro lo Stato, nulla al di fuori dello Stato ›. [S. e D.: l92?; pol. VI, pag. 26.]

16 … siamo cioè in uno Stato che controlla tutte le forze che agiscono in seno alla nazione. Controlliamo le forze politiche, controlliamo le forze morali, controlliamo le forze economiche, siamo quindi in pieno Stato corporativo fascista…
Noi rappresentiamo un principio nuovo nel mondo, noi rappresentiamo la antitesi netta, categorica, definitiva di tutto il mondo della democrazia, della plutocrazia, della massoneria, di tutto il mondo, per dire in una parola, degli immortali principi dell’89. [S. E D.: 1926; pol. V, pagine 310-11.]
Il Ministero delle Corporazioni non è un organo burocratico e nemmeno vuole sostituirsi alle organizzazioni sindacali nella loro azione necessariamente autonoma, diretta ad inquadrare, selezionare, migliorare i loro aderenti. Il Ministero delle Corporazioni è l’organo per cui, al centro o alla periferia, si realizza la corporazione integrale, si attuano gli equilibri fra gli interessi e le forze del mondo economico. Attuazione possibile, sul terreno dello Stato, perché solo lo Stato trascende gli interessi contrastanti dei singoli e dei gruppi, per coordinarli ad un fine superiore, attuazione resa più spedita dal fatto che tutte le organizzazioni economiche riconosciute, garantite, tutelate nello Stato corporativo, vivono nell’orbita comune del Fascismo: accettano cioè la concezione dottrinale e pratica del Fascismo. [S. e D.: 1926; pol. V, pagg. 371-72.]
… abbiamo sostituito lo Stato corporativo e fascista, lo Stato della società nazionale, lo Stato che raccoglie, controlla, armonizza e contempera gli interessi di tutte le classi sociali, le quali si vedono egualmente tutelate. E mentre prima, durante gli anni del regime demo-liberale, le masse laboriose guardavano con diffidenza lo Sta-to, erano al di fuori dello Stato, erano contro lo Stato, consideravano lo Stato come un nemico d’ogni giorno e di ogni ora, oggi non c’è Italiano che lavori, che non cerchi il suo posto nelle Corporazioni, nelle federazioni, che non voglia essere una molecola vivente di quel grande, immenso organismo vivente che è lo Stato nazionale corporativo fascista. [S. e D.: 1926; vol. V, pag. 449.]

 

9 – Democrazia e Nazione.

Gli individui sono classi secondo le categorie degli interessi; sono sindacati secondo le differenziate attività economiche cointeressate; ma sono prima di tutto e soprattutto Stato. Il quale non è numero, come somma d’individui formanti la maggioranza di un popolo. E perciò il Fascismo è contro la democrazia che ragguaglia il popolo al maggior numero abbassandolo al livello dei piú17; ma è la forma più schietta di democrazia se il popolo è concepito, come dev’essere, qualitativamente e non quantitativamente, come l’idea più potente perché più morale, più coerente, più vera, che nel popolo si attua quale coscienza e volontà di pochi, anzi di Uno, e quale ideale tende ad attuarsi nella coscienza e volontà di tutti18. Di tutti coloro che dalla natura e dalla storia, etnicamente, traggono ragione di formare una nazione, avviati sopra la stessa linea di sviluppo e formazione spirituale, come una coscienza e una volontà sola. Non razza, né regione geograficamente individuata, ma schiatta storicamente perpetuantesi, moltitudine unificata da una idea, che è volontà di esistenza e di potenza: coscienza di sé, personalità19.

17 La guerra è stata “rivoluzionaria” nel senso che ha liquidato – tra fiumi di sangue – il secolo della democrazia, il secolo del numero, delle maggioranze, della quantità. [S. e D.: 1922; vol. Il, pag. 265.]

18 V. nota 13.

19 Razza: questo è un sentimento, non una realtà; il 95% è sentimento. [Ludwig, I. c., pag. 75.]

 

10 – Concetto dello Stato.

Questa personalità superiore è bensì nazione in quanto è Stato. Non è la nazione a generare lo Stato, secondo il vieto concetto naturalistico che servi di base alla pubblicistica degli Stati nazionali nel secolo XIX. Anzi la nazione è creata dallo Stato, che dà al popolo, consapevole della propria unità morale, una volontà, e quindi un’effettiva esistenza. Il diritto di una nazione all’indipendenza deriva non da una letteraria e ideale coscienza del proprio essere, e tanto meno da una situazione di fatto più o meno inconsapevole e inerte, ma da una coscienza attiva, da una volontà politica in atto e disposta a dimostrare il proprio diritto: cioè, da una sorta di Stato già in fieri. Lo Stato infatti, come volontà etica universale, è creatore del diritto20.

20 Una nazione esiste in quanto è un popolo. Un popolo ascende in quanto sia numeroso, laborioso e ordinato. La potenza è la risultante di questo fondamentale trinomio [S. e D.: 1929; vol. VII, pagg. 14-15.]
Il Fascismo non nega lo Stato; afferma che una società civica nazionale o imperiale non può essere pensata che sotto la specie di Stato. [S. e D.: 1922; val. II, pag. 294.]
Per noi la nazione è soprattutto’ spirito e non soltanto territorio. Ci sono Stati che hanno avuto immensi territori e che non lasciarono traccia alcuna nella storia umana. Non è soltanto numero, perché si ebbero, nella storia, degli Stati piccolissimi, microscopici, che hanno lasciato documenti memorabili, imperituri nell’arte e nella filosofia.
La grandezza della nazione è il complesso di tutte queste virtù, di tutte queste condizioni. Una nazione è grande quando traduce nella realtà la forza del suo spirito. [Id., pag. 346.]
Noi vogliamo unificare la nazione nello Stato sovrano, che è sopra di tutti e può essere contro tutti perché rappresenta la continuità morale della nazione nella storia. Senza lo Stato non c’è nazione. Ci sono soltanto degli aggregati umani, suscettibili di tutte le disintegrazioni che la storia può infliggere loro. [S. e D.: 1924; vol. IV, pagg. 244-5.]

 

11 – Stato etico.

La nazione come Stato è una realtà etica che esiste e vive in quanto si sviluppa. Il suo arresto è la sua morte. Perciò lo Stato non solo è autorità che governa e dà forma di legge e valore di vita spirituale alle volontà individuali, ma è anche potenza che fa valere la sua volontà all’esterno, facendola riconoscere e rispettare, ossia dimostrandone col fatto l’universalità in tutte le determinazioni necessarie del suo svolgimento21. È perciò organizzazione ed espansione, almeno virtuale. Cosi può adeguarsi alla natura dell’umana volontà, che nel suo sviluppo non conosce barriere, e che si realizza provando la propria infinità22.

21 Io credo che i popoli… se vogliono vivere, debbono sviluppare una certa volontà di potenza; altrimenti vegetano e vivacchiano e saranno preda di un popolo più forte che questa volontà di potenza ha maggiormente sviluppata. [Discorso al Senato, 28 maggio 1926.]

22 È il Fascismo che ha rifoggiato il carattere degli Italiani, scrostando dalle nostre anime ogni scoria impura, temprandolo a tutti i sacrifizi, dando al volto italiano il suo vero aspetto di forza e di bellezza. [S. e D.: 1926; vol. V, pag. 346.]
Non è fuor di luogo illustrare il carattere intrinseco, la significazione profonda della Leva fascista. Non si tratta soltanto di una cerimonia, ma di un momento importantissimo di quel sistema di educazione e preparazione totalitaria e integrale dell’uomo italiano che la Rivoluzione fascista considera come uno dei compiti fondamentali e pregiudiziali dello Stato, anzi il fondamentale. Qualora lo Stato non lo assolva o accetti comunque di discuterne, esso mette in gioco puramente e semplicemente il suo diritto di esistere. [S. e D.: 1928; vol. VI, pag. 156.]

 

12 – Contenuto dello Stato.

Lo Stato fascista, forma più alta e potente della personalità, è forza, ma spirituale. La quale riassume tutte le forme della vita morale e intellettuale dell’uomo. Non si può quindi limitare a semplici funzioni di ordine e tutela, come voleva il liberalismo. Non è un ‘semplice meccanismo che limiti la sfera delle presunte libertà individuali. È forma e norma interiore, e disciplina di tutta la persona; penetra la volontà come l’intelligenza. Il suo principio, ispirazione centrale dell’umana personalità vivente nella comunità civile, scende nel profondo e si annida nel cuore dell’uomo d’azione come del pensatore, dell’artista come dello scienziato: anima dell’anima.

 

13 – Autorità.

Il Fascismo insomma non è soltanto datore di leggi e fondatore d’istituti, ma educatore e promotore di vita spirituale. Vuol rifare non le forme della vita umana, ma il contenuto, l’uomo, il carattere, la fede. E a questo fine vuole disciplina, e autorità che scenda addentro negli spiriti, e vi domini incontrastata. La sua insegna perciò è il fascio littorio, simbolo dell’unità, della forza e della giustizia.

 

CAPITOLO II

DOTTRINA POLITICA E SOCIALE

1 -Origini della dottrina.

Quando, nell’ormai lontano marzo del 1919, dalle colonne del POPOLO D’lTALIA io convocai a Milano i superstiti interventisti intervenuti, che mi avevano seguito sin dalla costituzione dei Fasci di azione rivoluzionaria – avvenuta nel gennaio del 1915 –, non c’era nessuno specifico piano dottrinale nel mio spirito. Di una sola dottrina io recavo l’esperienza vissuta: quella del socialismo dal 1903-1904 sino all’inverno del 1914: circa un decennio. Esperienza di gregario e di capo, ma non esperienza dottrinale. La mia dottrina anche in quel periodo, era stata la dottrina dell’azione. Una dottrina univoca, universalmente accettata, del socialismo non esisteva più sin dal 1905, quando cominciò in Germania il movimento revisionista facente capo al Bernstein e per contro si formò, nell’altalena delle tendenze, un movimento di sinistra rivoluzionario, che in Italia non uscì mai dal campo delle frasi, mentre, nel socialismo russo, fu il preludio del bolscevismo. Riformismo, rivoluzionarismo, centrismo, di questa terminologia anche gli echi sono spenti, mentre nel grande fiume del Fascismo troverete i filoni che si dipartirono dal Sorel, dal Péguy, dal Lagardelle del Mouvement socialiste e dalla coorte dei sindacalisti italiani, che tra il 1904 e il 1914 portarono una nota di novità nell’ambiente socialistico italiano – svirilizzato e cloroformizzato dalla fornicazione giolittiana – con le PAGINE LIBERE di Olivetti, LA LUPA di Orano, il DIVENIRE SOCIALE di Enrico Leone.

Nel 1919, finita la guerra, il socialismo era già morto come dottrina: esisteva solo come rancore, aveva ancora una sola possibilità, specialmente in Italia, la rappresaglia contro coloro che avevano voluto la guerra e che dovevano “espiarla”. Il POPOLO D’ITALIA recava nel sottotitolo « quotidiano dei combattenti e dei produttori ». La parola “produttori” era già l’espressione di un indirizzo mentale. Il Fascismo non fu tenuto a balia da una dottrina elaborata in precedenza, a tavolino: nacque da un bisogno di azione e fu azione; non fu partito, ma nei primi due anni, antipartito e movimento. Il nome che io diedi all’organizzazione, ne fissava i caratteri. Eppure chi rilegga, nei fogli oramai gualciti dell’epoca, il resoconto dell’adunata costitutiva dei Fasci italiani di combattimento, non troverà una dottrina, ma una serie di spunti, di anticipazioni, di accenni, che, liberati dall’inevitabile ganga delle contingenze, dovevano poi, dopo alcuni anni, svilupparsi in una serie di posizioni dottrinali, che facevano del Fascismo una dottrina politica a sé stante, in confronto di tutte le altre e passate e contemporanee. « Se la borghesia – dicevo allora – crede di trovare in noi dei parafulmini si inganna. Noi dobbiamo andare incontro al lavoro… Vogliamo abituare le classi operaie alla capacità direttiva, anche per convincerle che non ‘è facile mandare avanti una industria o un commercio… Combatteremo il retroguardismo tecnico e spirituale… Aperta la successione del regime noi non dobbiamo essere degli imbelli. Dobbiamo correre; se il regime sarà superato saremo noi che dovremo occupare il suo posto. Il diritto di successione ci viene perché spingemmo il paese alla guerra e lo conducemmo alla vittoria! L’attuale rappresentanza politica non ci può bastare, vogliamo una rappresentanza diretta dei singoli interessi… Si potrebbe dire contro questo programma che si ritorna alle corporazioni. Non importa!… Vorrei perciò che l’assemblea accettasse le rivendicazioni del sindacalismo nazionale dal punto di vista economico… »

Non è singolare che sin dalla prima giornata di Piazza San Sepolcro risuoni la parola “corporazione” che doveva, nel corso della Rivoluzione, significare una delle creazioni legislative e sociali alla base del regime?

 

2 -Svolgimento.

Gli anni che precedettero la marcia su Roma, furono anni durante i quali le necessità dell’azione non tollerarono indagini o complete elaborazioni dottrinali. Si battagliava nelle città e nei villaggi. Si discuteva, ma – quel ch’è più sacro e importante – si moriva. Si sapeva morire. La dottrina – bell’e formata, con divisione di capitoli e paragrafi e contorno di elucubrazioni – poteva mancare; ma c’era a sostituirla qualche cosa di più decisivo: la fede. Purtuttavia, a chi rimemori sulla scorta dei libri, degli articoli, dei voti dei congressi, dei discorsi maggiori e minori, chi sappia indagare e scegliere, troverà che i fondamenti della dottrina furono gettati mentre infuriava la battaglia. È precisamente in quegli anni, che anche il pensiero fascista si arma, si raffina, procede verso una sua organizzazione. I problemi dell’individuo e dello Stato; i problemi dell’autorità e della libertà; i problemi politici e sociali e quelli più specificatamente nazionali; la lotta contro le dottrine liberali, democratiche, socialistiche, massoniche, popolaresche fu condotta contemporaneamente alle “spedizioni punitive”. Ma poiché mancò il “sistema”, si negò dagli avversari in malafede al Fascismo ogni capacità di dottrina, mentre la dottrina veniva sorgendo, sia pure tumultuosamente, dapprima sotto l’aspetto di una negazione violenta e dogmatica, come accade di tutte le idee che esordiscono, poi sotto l’aspetto positivo di una costruzione, che trovava, successivamente negli anni 1926, 1927 e 1928, la sua realizzazione nelle leggi e negli istituti del regime.

Il Fascismo è oggi nettamente individuato non solo come regime, ma come dottrina. Questa parola va interpretata nel senso che oggi il Fascismo, esercitando la sua critica su sé stesso e sugli altri, ha un suo proprio inconfondibile punto di vista, di riferimento – e quindi di direzione – dinnanzi a tutti i problemi che angustiano, nelle cose o nelle intelligenze, i popoli del mondo.

 

3 – Contro il pacifismo: la guerra, e la vita come dovere.

Anzitutto il Fascismo, per quanto riguarda, in generale, l’avvenire e lo sviluppo dell’umanità, e a parte ogni considerazione di politica attuale, non crede alla possibilità né all°uti1ità della pace perpetua. Respinge quindi il pacifismo che nasconde una rinuncia alla lotta e una viltà – di fronte al sacrificio. Solo la guerra porta al massimo di tensione tutte le energie umane e imprime un sigillo di nobiltà ai popoli che hanno la virtù di affrontarla. Tutte le altre prove sono dei sostituti, che non pongono mai l’uomo di fronte a sé stesso, nell’alternativa della vita e della morte. Una dottrina, quindi, che parta dal postulato pregiudiziale della pace, è estranea al Fascismo; così come estranee allo spirito del Fascismo, anche se accettate per quel tanto di utilità che possano avere in determinate situazioni politiche, sono tutte le costruzioni internazionalistiche e societarie, le quali, come la storia dimostra, si possono disperdere al vento quando elementi sentimentali, ideali e pratici, muovono a tempesta il cuore dei popoli. Questo spirito antipacifista, il Fascismo lo trasporta anche nella vita degli individui. L’orgoglioso motto squadrista “ me ne frego “, scritto sulle bende di una ferita, è un atto di filosofia non soltanto stoica, è il sunto di una dottrina non soltanto politica: è l’educazione al combattimento, l’accettazione dei rischi che esso comporta; è un nuovo stile di vita italiano. Cosi il fascista accetta, ama la vita, ignora e ritiene vile il suicidio; comprende la vita come dovere, elevazione, conquista: la vita che deve essere alta e piena: vissuta per sé, ma soprattutto per gli altri, vicini e lontani, presenti e futuri.

 

4 – La politica demografica e il “prossimo”.

La politica “demografica” del regime è la conseguenza di queste premesse. Anche il fascista ama infatti il suo prossimo, ma questo “prossimo” non è per lui un concetto vago e inafferrabile: l’amore per il prossimo non impedisce le necessarie educatrici severità, e ancora meno le differenziazioni e le distanze. Il Fascismo respinge gli abbracciamenti universali e, pur vivendo nella comunità dei popoli civili, li guarda vigilante e diffidente negli occhi, li segue nei loro stati d’animo e nella trasformazione dei loro interessi, né si lascia ingannare da apparenze mutevoli e fallaci.

 

5 – Contro il materialismo storico e il principio della lotta di classe.

Una siffatta concezione della vita porta il Fascismo a essere la negazione recisa di quella dottrina che costituì la base del socialismo cosiddetto scientifico o marxiano: la dottrina del materialismo storico, secondo il quale la storia delle civiltà umane si spiegherebbe soltanto con la lotta d’interessi fra i diversi gruppi sociali e col cambiamento dei mezzi e strumenti di produzione. Che le vicende dell’economia – scoperte di materie prime, nuovi metodi di lavoro, invenzioni scientifiche – abbiano una loro importanza, nessuno nega, ma che esse bastino a spiegare la storia umana escludendone tutti gli altri fattori, è assurdo: il Fascismo crede ancora e sempre nella santità e nell’eroismo, cioè in atti nei quali nessun motivo economico – lontano o vicino – agisce. Negato il materialismo storico, per cui gli uomini non sarebbero che comparse della storia, che appaiono e scompaiono alla superficie dei flutti, mentre nel profondo si agitano e lavorano le vere forze direttrici, è negata anche la lotta di classe, immutabile e irreparabile, che di questa concezione economicistica della storia è la naturale figliazione, e soprattutto è negato che la lotta di classe sia l’agente preponderante delle trasformazioni sociali. Colpito il socialismo in questi due capisaldi della sua dottrina, di esso non resta allora che l’aspirazione sentimentale – antica come l’umanità – a una convivenza sociale nella quale siano alleviate le sofferenze e i dolori della, più umile gente. Ma qui il Fascismo respinge il concetto di “felicità” economica, che si realizzerebbe socialisticamente e quasi automaticamente a un dato momento dell’evoluzione dell’economia, con l’assicurare a tutti il massimo di benessere. Il Fascismo nega il concetto materialistico di “felicità” come possibile e lo abbandona agli economisti della prima metà del 700; nega cioè l’equazione benessere = felicità, che convertirebbe gli uomini in animali di una cosa sola pensosi: quella di essere pasciuti e ingrassati, ridotti, quindi, alla pura e semplice vita vegetativa.

 

6 – Contro le ideologie democratiche.

Dopo il socialismo, il Fascismo batte in breccia tutto il complesso delle ideologie democratiche e le respinge, sia nelle loro premesse teoriche, sia nelle loro applicazioni o strumentazioni pratiche. Il Fascismo nega che il numero, per il semplice fatto di essere numero, possa dirigere le società umane; nega che questo numero possa governare attraverso una consultazione periodica; afferma la disuguaglianza irrimediabile e feconda e benefica degli uomini che non si possono livellare attraverso un fatto meccanico ed estrinseco com’è il suffragio universale. Regimi democratici possono essere definiti quelli nei quali, di tanto in tanto, si dà al popolo l’illusione di essere sovrano, mentre la vera effettiva sovranità sta in altre forze talora irresponsabili e segrete. La democrazia è un regime senza re, ma con moltissimi re talora più esclusivi, tirannici e rovinosi che un solo re che sia tiranno. Questo spiega perché il Fascismo, pur avendo prima del 1922 – per ragioni di contingenza – assunto un atteggiamento di tendenzialità repubblicana, vi rinuncio prima della marcia su Roma, convinto che la questione delle forme politiche di uno Stato non è, oggi, preminente e che studiando nel campionario delle monarchie passate e presenti, delle repubbliche passate e presenti, risulta che monarchia e repubblica non sono da giudicare sotto la specie dell’eternità, ma rappresentano forme nelle quali si estrinseca. l’evoluzione politica, la storia, la tradizione, la psicologia di un determinato paese. Ora il Fascismo supera l’antitesi monarchia-repubblica sulla quale si attardò il democraticismo, caricando la prima di tutte le insufficienze, e apologizzando l’ultima come regime di perfezione. Ora s’è visto che ci sono repubbliche intimamente reazionarie o assolutistiche, e monarchie che accolgono le più ardite esperienze politiche e sociali.

 

7 – Le menzogne della democrazia.

“ La ragione, la scienza – diceva Renan che ebbe delle illuminazioni prefasciste, in una delle sue MEDITAZIONI FILOSOFICHE – sono dei prodotti dell’umanità, ma volere la ragione direttamente per il popolo e attraverso il popolo è una chimera. Non è necessario per l’esistenza della ragione che tutto il mondo la conosca. ln ogni caso se tale iniziazione dovesse farsi non si farebbe attraverso la bassa democrazia, che sembra dover condurre all’estinzione di ogni cultura difficile, e di ogni più alta disciplina. Il principio che la società esiste solo per il benessere e la libertà degli individui che la compongono non sembra essere conforme ai piani della natura, piani nei quali la specie sola è presa in considerazione e l’individuo sembra sacrificato. È da fortemente temere che l’ultima parola della democrazia così intesa (mi affretto a dire che si può intendere anche diversamente) non sia uno stato sociale nel quale una massa degenerata non avrebbe altra preoccupazione che godere i piaceri ignorabili dell’uomo volgare. “

Fin qui Renan. ll Fascismo respinge nella democrazia l’assurda menzogna convenzionale dell’egualitarismo politico e l’abito dell’irresponsabilità collettiva e il mito della felicità e del progresso indefinito. Ma, se la democrazia può essere diversamente intesa, cioè se democrazia significa non respingere il popolo ai margini dello Stato, il Fascismo poté da chi scrive essere definito una “ democrazia organizzata, centralizzata, autoritaria “.

 

8 – Contro le dottrine liberali.

Di fronte alle dottrine liberali, il Fascismo è in atteggiamento di assoluta opposizione, e nel campo della politica e in quello dell’economia. Non bisogna esagerare – a scopi semplicemente di polemica attuale l’importanza del liberalismo nel secolo scorso, e fare di quella che fu una delle numerose dottrine sbocciate in quel secolo, una religione dell’umanità per tutti i tempi presenti e futuri. Il liberalismo non fiori che per un quindicennio. Nacque nel 1830 come reazione alla Santa Alleanza che voleva respingere l’Europa al pre-’89, ed ebbe il suo anno di splendore nel 1848 quando anche Pio IX fu liberale. Subito dopo cominciò la decadenza. Se il ’48 fu un anno di luce e di poesia, il ’49 fu un anno di tenebre e di tragedia. La repubblica di Roma fu uccisa da un’altra repubblica, quella di Francia. Nello stesso anno, Marx lanciava il vangelo della religione del socialismo col famoso Manifesto dei comunisti. Nel 1851 Napoleone III fa il suo illiberale colpo di Stato e regna sulla Francia fino al 1870, quando fu rovesciato da un moto di popolo, ma in seguito a una disfatta militare fra le più grandi che conti la storia. Il vittorioso è Bismarck, il quale non seppe mai dove stesse di casa la religione della libertà e di quali profeti si servisse. È sintomatico che un popolo di alta civiltà, come il popolo tedesco, abbia ignorato in pieno, per tutto il sec. XIX, la religione della libertà. Non c’è che una parentesi. Rappresentata da quello che è stato chiamato il “ ridicolo parlamento di Francoforte “, che durò una stagione. La Germania ha raggiunto la sua unità nazionale al di fuori del liberalismo, contro il liberalismo, dottrina che sembra estranea all’anima tedesca, anima essenzialmente monarchica, mentre il liberalismo è l’anticamera storica e logica dell’anarchia. Le tappe dell’unità tedesca sono le tre guerre del ’64, ‘66, ’70, guidate da “liberali” come Moltke e Bismarck. Quanto all’unità italiana, il liberalismo vi ha avuto una parte assolutamente inferiore all’apporto dato da Mazzini e da Garibaldi che liberali non furono. Senza l’intervento dell’illiberale Napoleone, non avremmo avuto la Lombardia, e senza l’aiuto dell’illiberale Bismarck a Sadowa e a Sedan, molto probabilmente non avremmo avuto, nel ‘66, la Venezia; e nel 1870 non saremmo entrati a Roma. Dal 1870 al 1915, corre il periodo nel quale gli stessi sacerdoti del nuovo credo accusano il crepuscolo della loro religione: battuta in breccia dal decadentismo nella letteratura, dall’attivismo nella pratica. Attivismo: cioè nazionalismo, futurismo, Fascismo. Il secolo “liberale” dopo avere accumulato un’infinità di nodi gordiani, cerca di scioglierli con l’ecatombe della guerra mondiale. Mai nessuna religione impose così immane sacrificio. Gli dèi del liberalismo avevano sete di sangue? Ora il liberalismo sta per chiudere le porte dei suoi templi deserti perché i popoli sentono che il suo agnosticismo nell’economia, il suo indifferentismo nella politica e nella morale condurrebbe, come ha condotto, a sicura rovina gli Stati. Si spiega con ciò che tutte le esperienze politiche del mondo contemporaneo sono antiliberali ed è supremamente ridicolo volerle perciò classificare fuori della storia; come se la storia fosse una bandita di caccia riservata al liberalismo e ai suoi professori, come se il liberalismo fosse la parola definitiva e non più superabile della civiltà.

 

9 – Il Fascismo non torna indietro.

Le negazioni fasciste del socialismo, della democrazia, del liberalismo, non devono tuttavia far credere che il Fascismo voglia respingere il mondo a quello che esso era prima di quel 1789, che viene indicato come l’anno di apertura del secolo demo-liberale. Non si torna indietro. La dottrina fascista non ha eletto a suo profeta De Maistre. L’assolutismo monarchico, fu, e così pure ogni ecclesiolatria. Cosi “furono” i privilegi feudali e la divisione in caste impenetrabili e non comunicabili fra di loro. Il concetto di autorità fascista non ha niente a che vedere con lo Stato di polizia. Un partito che governa totalitariamente una nazione, è un fatto nuovo nella storia. Non sono possibili riferimenti e confronti. Il Fascismo dalle macerie delle dottrine liberali, socialistiche, democratiche, trae quegli elementi che hanno ancora un valore di vita. Mantiene quelli che si potrebbero dire i fatti acquisiti della storia, respinge tutto il resto, cioè il concetto di una dottrina buona per tutti i tempi e per tutti i popoli.

Ammesso che il sec. XIX sia stato il secolo del socialismo, del liberalismo, della democrazia, non è detto che anche il sec. XX debba essere il secolo del socialismo, del liberalismo, della democrazia. Le dottrine politiche passano, i popoli restano. Si può pensare che questo sia il secolo dell’autorità, un secolo di “destra”, un secolo fascista; se il XIX fu il secolo dell’individuo (liberalismo significa individualismo), si può pensare che questo sia il secolo “collettivo” e quindi il secolo dello Stato. Che una nuova dottrina possa utilizzare gli elementi ancora vitali di altre dottrine è perfettamente logico. Nessuna dottrina nacque tutta nuova, lucente, mai vista. Nessuna dottrina può vantare una “originalità” assoluta. Essa è legata, non fosse che storicamente, alle altre dottrine che furono, alle altre dottrine che saranno. Cosi il socialismo scientifico di Marx è legato al socialismo utopistico dei Fourier, degli Owen, dei Saint-Simon: cosi il liberalismo dell’800 si riattacca a tutto il movimento illuministico del 700. Cosi le dottrine democratiche sono legate all’Enciclopedia. Ogni dottrina tende a indirizzare Fattività degli uomini verso un determinato obiettivo; ma 1°.-attività degli uomini reagisce sulla dottrina, la trasforma, l’adatta alle nuove necessità o la supera. La dottrina, quindi, dev’essere essa stessa non un’esercitazione di parole, ma un atto di vita. In ciò le venature pragmatistiche del Fascismo, la sua volontà di potenza, il suo volere essere, la sua posizione di fronte al fatto “violenza” e al suo valore.

 

10 – Valore e missione dello Stato.

Caposaldo della dottrina fascista è la concezione dello Stato, della sua essenza, dei suoi compiti, delle sue finalità. Per il Fascismo lo Stato è un assoluto, davanti al quale individui e gruppi sono il relativo. Individui e gruppi sono “pensabili” in quanto siano nello Stato. Lo Stato liberale non dirige il giuoco e lo sviluppo materiale e spirituale delle collettività, ma si limita a registrare i risultati; lo Stato fascista ha una sua consapevolezza, una sua volontà, per questo si chiama uno Stato “etico”. Nel 1929 alla prima assemblea quinquennale del regime io dicevo:1 “ Per il Fascismo lo Stato non è il “guardiano notturno” che si occupa soltanto della sicurezza personale dei cittadini; non è nemmeno una organizzazione a fini puramente materiali, come quella di garantire un certo benessere e una relativa pacifica convivenza sociale, nel qual caso a realizzarlo basterebbe un consiglio di amministrazione; non à nemmeno una creazione di politica pura, senza aderenze con la realtà materiale e complessa della vita dei singoli e di quella dei popoli. Lo Stato così come il Fascismo lo concepisce e attua è un fatto spirituale e morale, poiché concreta organizzazione politica, giuridica, economica della Nazione, e tale organizzazione è, nel suo sorgere e nel suo sviluppo, una manifestazione dello spirito. Lo Stato è garante della sicurezza interna ed esterna, ma è anche il custode e il trasmettitore dello spirito del popolo così come fu nei secoli elaborato nella lingua, nel costume, nella fede.

Lo Stato non è soltanto presente, ma è anche passato e soprattutto futuro. È lo Stato che trascendendo il limite breve delle vite individuali rappresenta la coscienza immanente della nazione. Le forme in cui gli Stati si esprimono, mutano, ma la necessità rimane. È lo Stato che educa i cittadini alla virtù civile, li rende consapevoli della loro missione, li sollecita all’unità; armonizza i loro interessi nella giustizia; tramanda le conquiste del pensiero nelle scienze, nelle arti, nel diritto, nell’umana solidarietà; porta gli uomini dalla vita elementare della tribù alla più alta espressione umana di potenza che è l’Impero; affida ai secoli i nomi di coloro che morirono per la sua integrità o per obbedire alle sue leggi; addita come esempio e raccomanda alle generazioni che verranno i capitani che lo accrebbero di territorio e i geni che lo illuminarono di gloria. Quando declina il senso dello Stato e prevalgono le tendenze dissociatrici e centrifughe degli individui o dei gruppi, le società nazionali volgono al tramonto. “

1 Scritti e Discorsi: 1929; vol. VII, pagg. 26-7.

 

11 – L’unità dello Stato e le contraddizioni del capitalismo.

Dal 1929 a oggi, l’evoluzione economica politica universale ha ancora rafforzato queste posizioni dottrinali. Chi giganteggia è lo Stato. Chi può risolvere le drammatiche contraddizioni del capitalismo è lo Stato. Quella che si chiama crisi, non si può risolvere se non dallo Stato, entro lo Stato. Dove sono-le ombre dei ]ules Simon, che agli albori del liberalismo proclamavano che “ lo Stato deve lavorare a rendersi inutile e a preparare le sue dimissioni”? Dei Mac-Culloch, che nella seconda metà del secolo scorso affermavano che lo Stato deve astenersi dal troppo governare? E che cosa direbbe mai dinnanzi ai continui, sollecitati, inevitabili interventi dello Stato nelle vicende economiche, l’inglese Bentham, secondo il quale l’industria avrebbe dovuto chiedere allo Stato soltanto di essere lasciata in pace, o il tedesco Humboldt, secondo il quale lo Stato “ozioso” doveva essere considerato il migliore? Vero è che la seconda ondata degli economisti liberali fu meno estremista della prima e già lo stesso Smith apriva – sia pure cautamente – la porta agli interventi dello Stato nell’economia. Se chi dice liberalismo dice individuo, chi dice Fascismo dice Stato. Ma lo Stato fascista è unico ed è una creazione originale. Non è reazionario, ma rivoluzionario, in quanto anticipa le soluzioni di determinati problemi universali quali sono posti altrove nel campo politico dal frazionamento dei partiti, dal prepotere del parlamentarismo, dall’irresponsabilità delle assemblee, nel campo economico dalle funzioni sindacali sempre più numerose e potenti sia nel settore operaio come in quello industriale, dai loro conflitti e dalle loro intese; nel campo morale dalla necessità dell’ordine, della disciplina, dell’obbedienza a quelli che sono i dettami morali della patria. Il Fascismo vuole lo Stato forte, organico e al tempo stesso poggiato su una larga base popolare. Lo Stato fascista ha rivendicato a sé anche il campo dell’economia e, attraverso le istituzioni corporative, sociali, educative da lui create, il senso dello Stato arriva sino alle estreme propaggini e nello Stato circolano, inquadrate nelle rispettive organizzazioni, tutte le forze politiche, economiche, spirituali della Nazione. Uno Stato che poggia su milioni di individui che lo riconoscono, lo sentono, sono pronti a servirlo, non è lo Stato tirannico del signore medievale. Non ha niente di comune con gli Stati assolutistici di prima o dopo l’89. L’individuo nello Stato fascista non è annullato, ma piuttosto moltiplicato, cosi come in un reggimento un soldato non è diminuito, ma moltiplicato per il numero dei suoi camerati. Lo Stato fascista organizza la Nazione, ma lascia poi agli individui margini sufficienti; esso ha limitato le libertà inutili o nocive e ha conservato quelle essenziali. Chi giudica su questo terreno non può essere l`individuo, ma soltanto lo Stato.

 

12 – Lo Stato fascista e la religione.

Lo Stato fascista non rimane indifferente di fronte al fatto religioso in genere e a quella particolare religione positiva che è il cattolicismo italiano. Lo Stato non ha una teologia, ma ha una morale. Nello Stato fascista la religione viene considerata come una delle manifestazioni più profonde dello spirito; non viene, quindi, soltanto rispettata, ma difesa e protetta. Lo Stato fascista non crea un suo “Dio” così come volle fare a un certo momento, nei deliri estremi della Convenzione, Robespierre; né cerca vanamente di cancellarlo dagli animi come fa il bolscevismo; il Fascismo rispetta il Dio degli asceti, dei santi, degli eroi e anche il Dio cosi com’è visto e pregato dal cuore ingenuo e primitivo del popolo.

 

13 – Impero e disciplina.

Lo Stato fascista è una volontà di potenza e d’imperio. La tradizione romana è qui un’idea di forza. Nella dottrina del Fascismo non è soltanto una espressione territoriale o militare o mercantile, ma spirituale 0 morale. Si può pensare a un Impero, cioè a una Nazione che direttamente o indirettamente guida altre Nazioni senza bisogno di conquistare un solo chilometro quadrato di territorio. Per il Fascismo la tendenza all’Impero, cioè all’espansione delle Nazioni, è una manifestazione di vitalità: il suo contrario, o il piede di casa, è un segno di decadenza: popoli che sorgono o risorgono sono imperialisti, popoli che muoiono sono rinunciatari. Il Fascismo è la dottrina più adeguata a rappresentare le tendenze, gli stati d’animo di un popolo come l’italiano che risorge dopo molti secoli di abbandono o di servitù straniera. Ma l’Impero chiede disciplina, coordinazione degli sforzi, dovere e sacrificio; questo spiega molti aspetti dell’azione pratica del regime e l’indirizzo di molte forze dello Stato e la severità necessaria contro coloro che vorrebbero opporsi a questo moto spontaneo e fatale dell’Italia nel sec. XX e opporsi agitando le ideologie superate del sec. XIX, ripudiate dovunque si siano osati grandi esperimenti di trasformazioni politiche e sociali. Non mai come in questo momento i popoli hanno avuto sete di autorità, di direttive, di ordine. Se ogni secolo ha una sua dottrina, da mille indizi appare che quella del secolo attuale è il Fascismo. Che sia una dottrina di vita, lo mostra il fatto che ha suscitato una fede: che la fede abbia conquistato le anime, lo dimostra il fatto che il Fascismo ha avuto i suoi caduti e i suoi martiri.

Il Fascismo ha oramai nel mondo l’universalità di tutte le dottrine che, realizzandosi, rappresentano un momento nella storia dello spirito umano.

IL DECRETO DEL S. UFFIZIO CONTRO IL COMUNISMO

IL DECRETO DEL S. UFFIZIO CONTRO IL COMUNISMO

COMMENTO AD USO DEI PARROCI E CONFESSORI

Sac. ERBERTO d’AGNESE

Professore di Teologia Morale nella Pontificia Facoltà Teologica del Seminario Arcivescovile di Napoli

Nihil obstat quominus imprimatur: Joseph Can. PETRICCIONE Cens. Theol.

Imprimatur Jos. M. De Nicola Ep. Tit. Pergamen. V. G

1949

 

PREFAZIONE

Quest’opuscolo, piccolo di mole ma veramente prezioso. lo si deve alla competenza non comune di Mons. Erberto d’Agnese, Professore di Teologia Morale nella facoltà Teologica di Napoli.

L’Autore – che insegna Morale da quindici anni – si è deciso a commentare il DECRETO DEL S. UFFIZIO SUL COMUNISMO, dopo le vive premure di amici ed ex-alunni, che si sono rivolti a lui per avere schiarimenti, c dopo che la Rev.ma Curia di Napoli ha voluto che tenesse su detto Decreto il « caso morale » del 21 luglio u. s.

Mons. d’Agnese, con chiarezza, precisione e brevità – doti abituali delle sue lezioni – ha trattato, in modo esauriente, il difficile argomento, e vi ha aggiunto una « casistica » molto utile per i Pastori di anime.

Sono stati proposti i casi più frequenti, e peraltro l’Autore non ha presunto affatto esaurire tutta la « casistica » che può sorgere dall’applicazione del Decreto; ed e disposto a rispondere, ben volentieri, a quanti gli proporranno nuovi casi specifici.

Possa questo lavoro di Mons. D’Agnese essere di aiuto al Rev. Clero, ed apportare luce al laicato cattolico, affinché, con la persuasione, si possano ricondurre alla Madre Chiesa tanti figli ingannati dall’errore comunista.

Napoli, 9 agosto 1949.

Mons. EGIDIO JOVINE

Vice-Direttore del Settimanale « La Croce »

 

 

Suprema Sacra Congregatio Sancti Officii

DECRETUM

Quaesitum est ab hac Suprema Sacra Congregatione :

  1. utrum licituin sit partibus communistarum nomen dare vel eisdem favorem praestare;
  2. utrum licitum sit edere, propagare vel legere libros, periodica, diaria vel folia, quae doctrinae vel actioni connnunistarurn patrocinantur, vel in eis scribere;
  3. utrunl christifideles, qui actus de quibus in nn. 1 et 2 scienter et libere posuerint, ad Sacramenta admitti possint;
  4. utrum christifideles, qui communistarum doctrinam materialisticam et antichristianam profitentur, et in primis qui eam defendunt vel propagant, ipso facto, tamquam apostatae a fide catholica, incurrant in excommunicationem speciali modo Sedi Apostolicae reservatam.

Resp.

Ad 1. Negative: communismus enim est materialisticus et antichristianus; communistarum autem duces, etsi verbis quandoque profitentur se Religionem non oppugnare, re tamen, sive doctrina sive actione, Deo veraeque Religioni et Ecclesiae Christi sese infensos esse ostendunt;

Ad 2. Negative: prohibentur enim ipso iure (cfr. can. 1399 C. I. C.);

Ad 3. Negative, secundum ordinaria principia de Sacramentis denegandis iis qui non sunt dispositi;

Ad 4. Affirmative.

Datum Romae, die 1 Iulii 1949.

 

Traduzione italiana del Decreto stesso.

A questa Suprema Sacra Congregazione sono stati fatti i seguenti quesiti:

  1. se sia lecito iscriversi a Partiti Comunisti o dare ad essi appoggio;
  2. se sia lecito pubblicare, diffondere o leggere libri, periodici, giornali o fogli volanti, che sostengono la dottrina o la prassi del comunismo, o collaborare in essi con degli scritti;
  3. se i fedeli, che compiono consapevolmente e liberamente atti di cui ai nn. 1 e 2 possano essere ammessi ai Sacramenti;
  4. se i fedeli che professano ‘la dottrina del Comunismo, materialista e anticristiano, ed anzitutto coloro che la difendono o se ne fanno propagandisti, incorrano « ipso facto », come apostati dalla fede cattolica, nella scomunica in modo speciale riservata alla Sede Apostolica.

Risp.

al 1°- Negativamente: il Comunismo, infatti, è materialista e anticristiano; i dirigenti, poi, del Comunismo, benché a parole dichiarino qualche volta di non combattere la Religione, di fatto però, con la teoria e con l’azione, si dimostrano ostili a Dio, alla vera Religione e alla Chiesa di Cristo;

al 2°- Negativamente: perché proibiti dallo stesso diritto canonico (can. 1399);

al 3°- Negativamente: secondo i principii riguardanti il rifiuto dei Sacramenti a coloro che non hanno le necessarie disposizioni;

al 4° – Affermativamente.

Roma, 1 luglio 1949.

 


Circa il decreto del S. Uffizio, che riguarda il comunismo, diamo il presente commento ad uso dei parroci e confessori.

Distinguiamo questo commento in quattro parti, seguendo le risposte ai quattro quesiti rivolti alla Suprema Sacra Congregazione del Santo Uffizio.

 

È lecito iscriversi al partito comunista o favorirlo?

  1. È ILLECITO «iscriversi a partiti comunisti », perché: « il comunismo… è materialista e anticristiano: i dirigenti, poi, del comunismo, benché a parole dichiarino qualche volta di non combattere la Religione, di fatto però, con la teoria e con Fazione, si dimostrano ostili a Dio, alla vera Religione e alla Chiesa di Cristo».
  2. Iscriversi al partito comunista, per sé, è GRAVEMENTE illecito; perché il decreto, nella risposta al terzo quesito, parla di « rifiuto dei Sacramenti ». Ora è evidente che i Sacramenti possono essere negati soltanto a coloro che sono, e vogliono restare, in peccato mortale.

Per lo stesso motivo deve ritenersi che, per sé, è GRAVEMENTE illecito « dare appoggio » al partito comunista; nonché « pubblicare, diffondere o leggere libri, periodici, giornali o fogli volanti, che sostengono la dottrina o la prassi del comunismo, o collaborare in essi con degli scritti ».

  1. Quanto è stato precedentemente osservato si applica anche a quelle « associazioni che sono organizzate direttamente dal comunismo, per esempio, la Gioventù Comunista, i Sindacati propriamente comunisti ecc. Chi si inscrive a queste associazioni pone un atto per sé illecito » (dall’articolo – Il decreto sul comunismo – de L’ Osservatore Romano, n. 172, del 27-7-1949).
  2. È GRAVEMENTE ILLECITO « dare appoggio » al partito comunista. Ogni « apporto diretto o indiretto.. ai partiti comunisti, vale a dire ai nemici di Dio, di Nostro Signore Gesù Cristo, della Chiesa Cattolica » (Oss. Rom. l. c.) è certamente peccato grave; come, per esempio: dare al partito comunista il voto, sia nelle elezioni politiche che nelle comunali e regionali; partecipare attivamente ai suoi convegni o cortei; offrire ad essi i mezzi per la propaganda; ecc.
  3. « Tutti sanno che vi sono varie forme di socialismo, tra loro ben diverse. Qui basti dire che un partito socialista, il quale fa assolutamente causa comune con i partiti comunisti e unisce direttamente le sue forze a quelle del comunismo, favorendolo in modo esplicito, è già condannato nella prima parte del Decreto » (Oss. Rom l. c.).

È lecito pubblicare, diffondere, leggere pubblicazioni comuniste o scrivere in esse?

È gravemente illecito, cioè, per sé, è peccato mortale:

  1. « pubblicare »,
  2. o « diffondere »,
  3. o « leggere libri, periodici, giornali o fogli volanti, che sostengono la dottrina o la prassi del comunismo »,
  4. o « collaborare in essi con degli scritti ».

Osserviamo:

  1. « Pubblicare »: Peccano coloro che sono la causa primaria e principale della pubblicazione, cioè l’AUTORE (o il DIRETTORE), l’ EDITORE ed il TIPOGRAFO.Gli operai od impiegati della casa editrice o della tipografia, per sé, non peccano, perché di loro non si può dire che « pubblicano »: sottostanno, peraltro, alla legge naturale che proibisce la cooperazione al male, e perciò il loro peccato può essere più o meno grave secondo che la loro cooperazione è formale o semplicemente materiale: possono essere del tutto scusati da colpa, se vi è un motivo proporzionatamente grave; e purché non si tratti della pubblicazione di un argomento intrinsecamente cattivo, come sarebbe un argomento direttamente ed esplicitamente contrario alla fede e alla morale cattolica (COCCHI: Commentarium in C.J.C. – Vol. VI – N. 67 – Ed. III. – a. 1933).
  2. « Diffondere »: Peccano certamente quelli che spontaneamente diffondono pubblicazioni comuniste, e quelli che, invitati a far ciò, scientemente e liberamente accettano.
  3. « Leggere »: Se trattasi di libri, la lettura di essi costituisce peccato grave se NOTEVOLE è la parte che viene letta: notevole, o qualitativamente (è proprio la parte che contiene l’errore condannato), o quantitativamente (6-10 pagine).Se, invece, trattasi di periodici, giornali o fogli volanti:
    1. peccano gravemente quelli che ABITUALMENTE li leggono e quelli che, anche UNA SOLA VOLTA, leggono in essi un tratto NOTEVOLE che sia DIRETTAMENTE contrario alla fede od ai costumi;
    2. peccano venialmente quelli che, DI TANTO IN TANTO, leggono in essi ciò che, SOLO DI PASSAGGIO, si riferisce a quanto è contrario alla fede od ai costumi;
    3. non commettono alcuna colpa quelli che leggono in essi un articolo INNOCUO, in una circostanza PARTICOLARE, per un RAGIONEVOLE ed URGENTE MOTIVO, e quando NON si sia potuto FACILMENTE chiedere il permesso (Cocchi, l. c): il permesso, nella vigente prassi e disciplina, può chiedersi ed ottenersi dall’Ordinario diocesano.
  4. « Libri, periodici, giornali o fogli volanti, che sostengono la dottrina o la prassi del comunismo »: il decreto del S. Uffizio ricorda che detti libri sono « proibiti dallo stesso diritto canonico (can. 1399) ».

Infatti, il can. 1399 proibisce, fra gli altri:

    1. i libri che difendono eresie, scismi o sono contro i fondamenti della fede e della religione o il buon costume (numeri 2° e 3°);
    2. i libri che attaccano il domma, diffondono errori condannati, e che sono contro la disciplina e la gerarchia ecclesiastiche, nonché contro lo stato clericale o religioso (numero 6°).

Orbene, tutti possono rendersi conto che i « libri… che sostengono la dottrina o la prassi del comunismo » sono libri che cadono nella proibizione dei numeri 2°, 3° e 6° del can. 1399.

Si noti che, quanto dal can. 1399 è detto dei libri, è detto pure, a norma del paragrafo 2 del can. 1384, dei giornali, periodici ed altri scritti.

Ossia, quando il Codice di Diritto Canonico tratta della proibizione dei libri, alla parola « libro » si dà un’interpretazione ESTENSIVA; non cosi, quando il Codice di Diritto Canonico tratta dei libri in ordine alla scomunica (Cocchi, op. cit. Vol. VIII –  N, 143. Arregui: Summ. Theol. Mor – N. 919- Ed. 9° – a. 1925).

E qui è opportuno ricordare ai confessori – benché il decreto del S. Uffizio non parli di ciò – che se si tratta di libri (non giornali, periodici 0 fogli volanti) di comunisti apostati, eretici e scismatici che – sostenendo la dottrina o la prassi del comunismo-difendono l’apostasia, l’eresia o lo scisma, in tal caso gli editori, i difensori, i lettori ed i possessori di quei libri non solo peccano, ma, a norma del paragrafo 1 del can. 2318, cadono anche nella scomunica in modo speciale riservata alla Sede Apostolica. Si faccia attenzione a non confondere questa scomunica con quella cui allude il decreto del S. Uffizio nella risposta al quarto quesito. La scomunica, di cui s’è trattato ora, ed alla quale non allude il decreto del S. Uffizio, è comminata dal paragrafo 1 del can. 2318; mentre la scomunica, cui allude il decreto del S. Uffizio nella risposta al quarto quesito, è comminata dal numero 1° del paragrafo 2 del can. 2314.

  1. « Collaborare in essi con degli scritti »: Peccano tutti coloro che scrivono in quei libri, periodici, giornali o fogli volanti; anche se gli scritti non sono marxisti, perché la dizione (in eis scribere) usata dal decreto del S. Uffizio è molto generica.

« Chi scrive in un giornale comunista, anche se tratta di cronaca teatrale, letteraria, sportiva, SCRIVE sempre nei giornali elencati, COLLABORA CON LO SCRIVERE IN ESSI, mette il suo talento, la sua riputazione al servizio del partito. E ciò è illecito » (Oss. Rom. l. 0.).

 

Condizioni per l’ammissione ai SS. Sacramenti.

I fedeli – che, CONSAPEVOLMENTE e LIBERAMENTE,

  1. sono iscritti ai partiti comunisti,
  2. o danno ad essi appoggio;
  3. o pubblicano,
  4. o diffondono,
  5. o leggono libri, periodici, giornali o fogli volanti, che sostengono la dottrina o la prassi del comunismo,
  6. o scrivono in essi –

non possono essere ammessi ai Sacramenti, e ciò in forza degli « ordinari principii riguardanti il rifiuto dei Sacramenti a coloro che non hanno le necessarie disposizioni ».

I sei atti precedentemente elencati costituiscono impedimento alla lecita ricezione dei Sacramenti, quando sono compiuti CONSAPEVOLMENTE e LIBERAMENTE, cioè con perfetta conoscenza della malizia dell’atto e con deliberato consenso. Si ricordi, a tal proposito, che la consapevolezza e la libertà dell’atto umano sono certamente soppressi ‘dall’ignoranza invincibile, dalla violenza assoluta, nonché dalla passione antecedente e dal timore che tolgano lo uso di ragione.

Ma il decreto del S. Uffizio, quando usa l’espressione « scienter et libere », vuole riferirsi non tanto ai principii etici secondo i quali l’atto è o non umano (il che è evidente) ma quanto a situazioni di fatto che possono menomare la libertà dell’agente. Queste situazioni di fatto possono verificarsi specialmente per quanto riguarda l’appartenenza ad un partito comunista sotto l’influsso di una violenza morale (timore grave) o fisica.

La Chiesa « sa bene che vi sono dei fedeli che contro la loro volontà, per una violenza morale – e forse talora anche fisica – sono forzati ad inscriversi ad un partito comunista. Il Sacerdote dovrà essere in tal caso il giudice delle circostanze, nelle quali il penitente è costretto a prendere la tessera di un partito, che nel proprio cuore egli detesta e condanna » (Oss. Rom. l. c.).

È logico, però, che se coloro i quali pongono i sei atti precedentemente elencati commettono peccato mortale, si devono debitamente disporre per poter lecitamente ricevere i Sacramenti.

  1. Per quanto riguarda il Sacramento della Penitenza, il confessore, per poter assolvere il penitente, dovrà principalmente avere la morale certezza della serietà del proposito.

Secondo i casi, poi, e secondo i generali principii della Teologia Morale, il confessore impartirà subito l’assoluzione o la differirà ad avvenuta esecuzione del proposito stesso.

In genere, allo scopo di dare un orientamento ai confessori, possiamo dire che se il peccato è costituito da un fatto transeunte e sporadico (per esempio: aver dato appoggio al partito comunista, aver letta o diffusa la stampa comunista, aver talvolta scritto nelle pubblicazioni comuniste, ecc.), in tal caso il confessore potrà, ordinariamente, assolvere subito il penitente; se, invece, il peccato è costituito da un fatto abituale e di natura sua permanente (per esempio: iscrizione al partito comunista; ufficio di direttore, editore o tipografo di pubblicazioni comuniste; ecc.), in tal caso il confessore, ordinariamente, esigerà prima l’attuazione del proposito, e poi impartirà l’assoluzione.

  1. Circa il matrimonio, che i fedeli desiderano eventualmente contrarre con comunisti – i quali o, per l’appartenenza al partito comunista, son divenuti PUBBLICI peccatori; o, per la professione, difesa e propaganda della dottrina comunista (come si dirà a proposito della risposta del S. Uffizio al quarto quesito), hanno NOTORIAMENTE rinunziato alla fede cattolica, e sono divenuti NOTORIAMENTE scomunicati – i parroci abbiano presenti i canoni 1065 e 1066 del Codice di Diritto Canonico.

Secondo i citati canoni:

  1. I fedeli siano dissuasi dal contrarre matrimonio con quelli che notoriamente hanno rinunziato alla fede cattolica.
  2. Il parroco non assista a detto matrimonio senza consultare l’Ordinario, il quale, considerate tutte le circostanze, può permettere al parroco di assistere al matrimonio, purché ve ne sia urgente e grave motivo, e purché prudentemente giudichi che sia sufficientemente assicurata l’educazione cattolica di tutta la prole e sia rimosso ogni pericolo di perversione dell’altro coniuge.
  3. Se il pubblico peccatore o il notoriamente scomunicato, prima della celebrazione del matrimonio, ricusa di confessarsi o riconciliarsi con la Chiesa, il parroco non assista al matrimonio, eccetto che non vi sia in contrario un grave ed urgente motivo, circa il quale, possibilmente, consulti l’Ordinario.

Se il comunista, quale apostata, è stato dichiarato INFAME (infamia jurís ferendae sententiae) – numero 2° del paragrafo 1 del can. 2314 – NON può VALIDAMENTE essere ammesso all’ufficio di padrino, sia nel Sacramento del Battesimo che in quello della Cresima, a norma del numero 2° del can, 765 e numero 2° del can. 795.

Se poi il delitto di apostasia, per cui il comunista è caduto nella scomunica, è NOTORIO; o se il comunista, a norma del paragrafo 3 del can. 2293, è divenuto INFAME DI INFAMIA DI FATTO; in tali casi – a norma del numero 2° del can. 766 e del numero 3” del can. 796 – il comunista NON può LECITAMENTE essere ammesso all’ufficio di padrino sia nel Sacramento del Battesimo che in quello della Cresima.

 

Scomunica contro i comunisti.

I fedeli – che:

  1. « professano »,
  2. o « difendono »,
  3. o si « fanno propagandisti » della « dottrina del comunismo, materialistica ed anticristiana » – divengono, per ciò stesso, apostati, e, in quanto tali, a norma del can. 2314 (numero 1° del paragrafo 1 e paragrafo 2), incorrono nella scomunica in modo speciale riservata alla Sede Apostolica.

 

  1. Apostata – a norma del paragrafo 2 del can. 1325 – è chi, dopo aver ricevuto il S. Battesimo, totalmente recede dalla fede cristiana.Ora è evidente che chi professa, difende, propaga una dottrina, qual è quella comunista, materialistica ed anticristiana, non si limita a negare questa o quella verità di fede (il che costituirebbe eresia, contro la quale è comminata la stessa scomunica di cui stiamo trattando), ma nega tutto il complesso della fede ed i fondamenti stessi della fede, per cui diviene apostata, e, in quanto tale, cade nella scomunica in modo speciale riservata alla Sede Apostolica.
  2. Notiamo che, come risulta dal modo di esprimersi del decreto, per cadere nella scomunica, basta soltanto professare la dottrina materialistica ed anticristiana del comunismo, anche se non la si difende o propaga, perché la sola professione di tale dottrina è già apostasia.
  3. Però cade nella scomunica non chi semplicemente commette il peccato (che può essere anche interno) della professione della dottrina comunista, ma chi commette il DELITTO di tale professione.

Mentre il peccato può essere anche solo interno, il delitto è sempre ESTERNO.

Per delitto – secondo il paragrafo 1 del can 2195 – s’intende l’esterna e moralmente imputabile violazione di una legge, alla quale (violazione) sia annessa una sanzione canonica.

Perché, dunque, si abbia il delitto, richiedesi un atto che, sebbene possa anche restare occulto (non pubblico), tuttavia sia compiuto così che possa essere percepito sensibilmente dagli altri. Nel nostro caso, basta che la professione dell’apostasia sia costituita da un atto esternamente manifestato con segni o parole o fatti; anche se nessuno abbia ascoltato o visto, e quindi anche se il delitto sia rimasto del tutto occulto (Cocchi: op. cit – Vol. VIII – nn. 1 e 135).

Per quanto riguarda la difesa e la propaganda della dottrina comunista, è chiaro che tali atti, per la loro stessa natura, sono esterni.

  1. Per incorrere nella scomunica, non è necessario essere iscritto al partito comunista, ma basta professare o difendere o propagare la dottrina comunista.

Per contrario, chi, benché iscritto al partito comunista, non professa o difende o propaga la dottrina comunista, non cade nella scomunica.

  1. A norma del paragrafo 2 del can. 2314, l’assoluzione dalla scomunica, annessa al delitto di apostasia, è riservata alla Sede Apostolica; ma il confessore può regolarsi anche a norma del paragrafo 1 e 3 del can. 2254.

Secondo il paragrafo 1 del can. 2254, nei casi più urgenti, e cioè per evitare scandalo o infamia, ovvero se è di angustia al penitente rimanere in istato di grave peccato per il tempo necessario perché il superiore competente provveda, qualunque confessore può assolvere nel foro sacramentale dalla scomunica riservata, imponendo sotto pena di reincidenza di ricorrere dentro un mese, almeno per lettera o per il confessore, se ciò è possibile senza grave incomodo, e tacendo il nome del reo, alla S. Penitenzieria o al Vescovo o ad altro Superiore che abbia la facoltà, e di stare ai loro ordini.

Secondo, poi, il paragrafo 3 del can. 2254, se, in qualche caso straordinario, questo ricorso è moralmente impossibile, il confessore può assolvere senza onere di ricorrere, imponendo quanto è di dovere oltre le penitenze e soddisfazioni per la scomunica, sotto pena di reincidenza se il penitente non adempie ciò, nel tempo stabilito dal confessore.

Però, a norma del paragrafo 2 del can. 2314, se il delitto di apostasia è portato al foro esterno dell’ Ordinario, anche per libera confessione, lo stesso Ordinario, ma non il Vicario Generale senza mandato speciale, può, previa giuridica abiura, assolvere il delinquente in foro esterno; ed il delinquente, così assolto dalla scomunica in foro esterno, può ricevere da qualunque confessore l’assoluzione dal peccato nel foro interno sacramentale. L’abiura giuridicamente si compie davanti all’Ordinario, o un suo delegato, e davanti ad almeno due testimoni.

Finalmente – a norma dei canoni 882 e 2252 – se l’assoluzione, dalla scomunica in modo speciale riservata alla Sede Apostolica per il delitto di apostasia commesso da un comunista, è stata impartita in pericolo di morte; e se, in seguito, il moribondo così assolto guarisce; non è necessario il ricorso alla S. Penitenzieria o al Vescovo o ad altro Superiore che abbia la facoltà, perché il ricorso, per l’assoluzione dalla scomunica impartita in pericolo di morte, è necessario solo per le scomuniche ab homine e per quelle riservate in MODO SPECIALISSIMO alla Sede Apostolica, mentre quella in esame è riservata in MODO SPECIALE.

Però, anche per quest’ultimo caso, riteniamo prudente regolarsi secondo quanto dice Prümmer (Man. Theol. Mor. – Tom. III- N. 424, nota, b –  Ed. VI- VII – a. 1933), e cioè che il ricorso è tuttavia necessario se lo scomunicato (comunista apostata) moribondo, che poi guarisce, era NOTORIAMENTE scomunicato; giacché bisognerà riparare lo scandalo, nel modo che sarà indicato dal legittimo Superiore.

Nel concludere queste modeste note di commento, ci permettiamo esortare i nostri confratelli ad evitare ogni difetto ed ogni eccesso nella spiegazione ed applicazione del decreto del S. Uffizio.

Noi sacerdoti non dobbiamo dire o fare né meno, né più di quanto la Chiesa ha detto, e di quanto la Chiesa vuole che facciamo all’ unico scopo della salvezza delle anime.

Riflettiamo che anche il recente decreto non è ad destructionem, ma ad aedificationem.

Dobbiamo rifuggire da ogni rispetto umano e da ogni timore nella spiegazione ed applicazione del decreto, ma dobbiamo anche evitare ogni indiscreto e falso zelo.

Nella predicazione dobbiamo essere oggettivi, brevi, calmi; evitando ogni attacco personale, ogni esagerazione, ogni asprezza.

Nel Sacramento della Penitenza dobbiamo essere pazienti, comprensivi, lungimiranti; evitando ogni nervosismo, ogni grettezza, ogni miopia.

Nella cura delle anime in genere – e specialmente per ciò che riguarda il Sacramento del Matrimonio e l’ufficio di padrino nei Sacramenti del Battesimo e della Cresima – dobbiamo essere paterni, rispettosi, cortesi; evitando ogni posa, ogni offesa, ogni sgarbo.

Sempre ed in tutto, senz’ alcun tradimento della verità, trionfi la carità.

 

 

APPENDICE I

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Osservazione preliminare.

Quanto si è detto finora in quest’ opuscolo corrisponde, secondo il nostro modesto parere, a ciò che può ritenersi con MORALE CERTEZZA circa l’argomento trattato.

Abbiamo voluto evitare, nell’esposizione precedente, ogni DISCUSSIONE, e guardarci dal sollevare DUBBI, e proporre OPINIONI, che potrebbero essere probabili almeno di probabilità intrinseca.

Abbiamo seguito questo metodo, allo scopo di offrire ai parroci e confessori soltanto PRINCIPII ed APPLICAZIONI di DOTTRINA CERTA: in tal modo, essi sono in grado di sapere con CERTEZZA, almeno nei CASI PIU COMUNI, come debbono regolarsi.

Ma possono darsi casi di coscienza, in cui NON sia CERTO se e come debba applicarsi il decreto del S. Uffizio ?… Senza dubbio.

Possono, inoltre, darsi casi di coscienza, per la soluzione dei quali non basta il decreto del S. Uffizio, ma bisogna appellarsi al Codice di Diritto Canonico o ai principii generali della Teologia Morale ?… Certamente.

A tal proposito ricordiamo di aver già sentito dire, più volte, da non pochi sacerdoti, che il S. Uffizio dovrebbe dire esplicitamente questo e quest’altro, chiarire questo e quel dubbio, ecc. Ma non è questa la prassi delle Congregazioni Romane!

È già troppo, forse, che il S. Uffizio, dopo il decreto, abbia pubblicato una DICHIARAZIONE circa il matrimonio dei comunisti.

Che pretenderemmo ?… Che il S. Uffizio pubblicasse un nuovo decreto o una ulteriore dichiarazione per ogni dubbio che può sorgere ?…

Il S. Uffizio ha enunciato i principii generali: secondo tali principii possono risolversi, senza alcun dubbio, i casi più comuni: il resto è lasciato allo studio dei moralisti e canonisti, e quindi alle correnti di pensiero che finiscono con lo sfociare in opinioni più o meno probabili.

Chiunque è anche solo iniziato agli studi di Teologia Morale sa che la Morale è costituita di dottrina certa, e di dottrina semplicemente probabile: la Chiesa non interviene sempre ed in tutte le questioni: lascia spesso ampio respiro alle libere discussioni.

Riteniamo, perciò, opportuno proporre alcuni quesiti pratici, e le risposte che a noi sembrano intrinsecamente probabili; pronti a riformare le nostre opinioni, se e quando la Chiesa si pronunzierà diversamente; ovvero se le ragioni, che, in seguito, potranno addurre gli studiosi di Teologia Morale, avranno un valore tale, da distruggere la probabilità delle opinioni, che noi timidamente stiamo per proporre.

Aggiungeremo anche alcuni quesiti, che vanno risolti non semplicemente appellandosi al decreto del S. Uffizio, ma applicando disposizioni del Codice di Diritto Canonico e principii generali di Teologia Morale.

Osserviamo infine che non ci sembra possano sorgere dubbi positivi circa la scomunica: ci limitiamo, perciò, ad esaminare soltanto alcuni casi circa la liceità di determinati atti o atteggiamenti.

 

  1. È lecito, in Italia, iscriversi alla C. G. I. L. ?

A rigore, ci sembra ancora lecito, perché, nonostante il continuo frantumarsi della C.G.I.L., essa non può dirsi ancora un sindacato « propriamente comunista » (come si esprime l’articolo citato de L’ Osservatore Romano).

Inoltre, la C.G.I.L è ancora, GIURIDICAMENTE, APARTITICA.

Ma, DI FATTO, chi ad essa è iscritto, non dà, almeno indirettamente, « appoggio » al partito comunista ?..

Ci sembra trattarsi di un appoggio molto indiretto e remoto, e quindi NON IMPUTABILE AL SINGOLO ISCRITTO.

A proposito di appoggio indiretto, ricordiamo che, anche riguardo al comunismo, può verificarsi, secondo i noti principii della Teologia Morale, un VOLONTARIO INDIRETTO NON IMPUTABILE, ovvero la liceità del porre una CAUSA CHE PRODUCE DUE EFFETTI uno buono ed un altro cattivo.

È chiaro, peraltro, che i fedeli vanno esortati ad iscriversi ai sindacati liberi; ed è augurabile che questi sappiano e vogliano difendere i diritti dei lavoratori più e meglio di quanto non facciano i sindacati rossi.

In tale settore, noi sacerdoti facciamo appello alla sensibilità sociale dei cattolici sindacalisti, affinché quando consigliamo i nostri fedeli di iscriversi ai sindacati liberi, non ci si possa rispondere: « Nessuno – meglio della C. G. I. L. – difende i nostri diritti» !..

 

  1. È lecito iscriversi al P. S. L. l.?

A tutto rigore, ci sembra ancora lecito.

Secondo, infatti, 1′ articolo citato de L’Osservatore Romano (articolo che, evidentemente, non è una risposta del S. Uffizio, ma che ci sembra ispirato dall’Autorità Ecclesiastica), il P.S.L.I. non « fa assolutamente causa comune » col partito comunista, nè « unisce direttamente le sue forze a quelle del comunismo, favorendolo in modo esplicito ».

Non nascondiamo che, nel dare questa risposta, restiamo molto perplessi, perché anche il P. S. L. I. è marxista. Tuttavia, sul terreno pratico, sappiamo pure che, finora, il P. S. L. I. non si è mostrato troppo marxista, ed è restato un partito socialdemocratico.

Certamente i fedeli vanno sconsigliati dall’appartenere a questo partito, nonché dal dargli il voto nelle elezioni, perché esso non dà sicura garanzia alla difesa dei principii cristiani nella vita sociale.

Se, infatti, almeno sul terreno pratico, è vero che il P. S. L. I. è restato un partito democratico più che marxista o bolscevico, è anche vero che, sul piano speculativo e pratico, s’è dimostrato pregno di deprecabile laicismo.

 

  1. È lecito ‘iscriversi all’ U. D. I.?

Non è lecito, perche l’Unione Donne Italiane (U.D.I.) fa parte di quelle « associazioni che sono organizzate direttamente dal comunismo » (Oss. Rom. l. c.).

 

  1. L’ iscrizione ad un partito comunista è un atto intrinsecamente cattivo?

Molto abbiamo sentito discutere su questo scabroso e penoso argomento.

Il quesito è della massima importanza, perché se l’iscrizione ad un partito comunista è un atto INTRINSECAMENTE cattivo, neppure il timore (grave incomodo) scusa dalla colpa di iscriversi ad esso; se, invece, è un atto NON INTRINSECAMENTE cattivo, il timore grave (grave incomodo) può scusare dalla colpa.

Alla prima e semplice lettura del decreto del S. Uffizio si poteva, forse, rimanere perplessi intorno a tale questione; ma, poi, il citato articolo de L’ Osservatore Romano ha fatto molta luce su di essa.

Perciò, al quesito proposto, possiamo rispondere:

  1. Il comunismo è DOTTRINA INTRINSECAMENTE CATTIVA.
  2. Un partito comunista è DOTTRINA e PRASSI INTRINSECAMENTE CATTIVA.
  3. L’ appartenenza FORMALE – cioè SPONTANEA e con PADESIONE alla dottrina ATEA, MATERIALISTICA, ANTICRISTIANA del comunismo – ad un partito comunista è AZIONE INTRINSECAMENTE CATTIVA.
  4. L’iscrizione MATERIALE o PASSIVA ad un partito comunista può NON essere un atto INTRINSECAMENTE CATTIVO, quando ci sia un MOTIVO GRAVE.

L’articolo citato de L’Osservatore Romano precisa molto bene che cosa si richiede perché si verifichi il fatto MATERIALE dell’ iscrizione ad un partito comunista, e cioè si richiede che coloro i quali vi si iscrivono, lo facciano « contro la loro volontà », e siano « forzati » a farlo; ossia richiedesi che colui il quale vi si iscrive sia « COSTRETTO a prendere la tessera di un partito, che NEL PROPRIO CUORE egli DETESTA e CONDANNA ».

Come si vede, trattasi di un’iscrizione semplicemente MATERIALE, sia perché è CONTRARIA alla propria volontà, e sia perché si limita al SOLO fatto MATERIALE di «prendere la tessera ».

Questo fatto materiale, inoltre, dev’essere giustificato – come si esprime lo stesso articolo de L’Osservatore Romano -da « una VIOLENZA MORALE », che potrebbe essere « forse talora anche FISICA ».

Può, dunque, essere ammesso ai Sacramenti, e sopratutto può ricevere l’assoluzione, un lavoratore che sta per iscriversi al partito comunista – o, già iscritto, dice di non potersi da esso dimettere – perché agendo diversamente perderebbe il lavoro, con tutte le gravi conseguenze per sé e per la sua famiglia

Rispondiamo che tale lavoratore può essere assolto – o essere ammesso ai Sacramenti – se si verificano le seguenti condizioni, di cui il sacerdote dovrà essere giudice:

  1. L’ iscrizione – o la continuata appartenenza al partito comunista – dev’esser un fatto CONTRARIO ALLA VOLONTÀ del lavoratore.
  2. Il lavoratore deve, nel proprio cuore, DETESTARE e CONDANNARE il partito comunista.
  3. L’iscrizione o appartenenza al partito comunista deve limitarsi al SOLO fatto di PRENDERE LA TESSERA.
  4. Il motivo, per cui il lavoratore è costretto a prendere la tessera del partito comunista, dev’essere CERTO (di certezza morale) e GRAVE

 

  1. E’ lecito ai giornalai vendere pubblicazioni comuniste?

Il decreto del S. Uffizio parla di coloro che «diffondono » libri, periodici, giornali o fogli volanti, ecc.

Ora, il giornalaio può essere considerato come uno che « diffonde » le pubblicazioni comuniste?..

Ci sembra di no.

« Diffondere » è diverso dal « vendere ».

« Diffondere » indica un atto positivo; mentre « vendere » indica, se così possiamo esprimerci, un atto semplicemente negativo Possiamo, dunque, noi sacerdoti assolvere il giornalaio, il quale ci dice: « Ho presso di me, e non posso farne a meno, anche giornali comunisti: li vendo a chi me li chiede »?..

Riteniamo che questo giornalaio possa essere assolto.

Il caso in esame ci sembra simile, o quasi, a quello dei venditori di armi, di vino, ecc. di cui conosciamo la soluzione.

Ma il « vendere » i giornali comunisti se non equivale a « diffonderli », equivale almeno a « dare appoggio » al partito comunista ?..

Rispondiamo che può equivalere a « dare appoggio » al partito comunista, ma ricordiamo pure che può verificarsi, anche in questo caso – come abbiamo precedentemente osservato – un VOLONTARIO INDIRETTO NON IMPUTABILE, ovvero la liceità del porre una CAUSA CHE PRODUCE DUE EFFETTI…

Certamente poi il giornalaio peccherebbe, se attivamente diffondesse le pubblicazioni comuniste.

 

  1. E’ lecito far inserire nei giornali comunisti avvisi pubblicitario necrologici?

Rispondiamo che, per se, è lecito, perché chi fa inserire tali avvisi nei giornali comunisti non « scrive » in essi.

Il decreto del S. Uffizio parla soltanto di coloro che SCRIVONO nelle pubblicazioni comuniste: « in eis scribere ».

Però, se il giornale comunista è espressione politica e finanziaria del partito comunista, come spesso avviene, in tal caso le inserzioni in esso costituiscono, per sé, un « dare appoggio » al partito: il che è illecito.

Tuttavia, anche su questo punto, si potrebbe fare della casistica

Per esempio: chi, UNA SOLA VOLTA, ha fatto inserire in un giornale comunista un avviso pubblicitario o necrologico, ha commesso peccato MORTALE – o VENIALE ?.. Ci sembra che abbia commesso soltanto peccato VENIALE, perché, nell’esempio addotto, l’ « appoggio » al partito comunista NON costituisce MATERIA né politicamente né finanziariamente GRAVE.

Altro sarebbe il caso di chi, ABITUALMENTE, inserisse nei giornali comunisti avvisi pubblicitari; perché in questo caso, l’ «appoggio » almeno finanziario al partito costituirebbe MATERIA GRAVE.

Comunque, i fedeli vanno esortati a non servirsi, in alcun modo, delle pubblicazioni comuniste.

 

  1. I comunisti possono essere ammessi alla Cresima ed alla S. Comunione?

Se sono comunisti FORMALI e NOTORII, non possono cresimarsi né comunicarsi, se prima non si riconciliano con la Chiesa.

 

  1. Possono essere assolti i comunisti moribondi destituiti dei sensi?

Se prima di perdere i sensi manifestarono il desiderio di riconciliarsi con Dio e con la Chiesa DEBBONO essere assolti, almeno CONDIZIONATAMENTE; meglio, però, ASSOLUTAMENTE, specialmente se consta con assoluta certezza che, prima di perdere i sensi, manifestarono il suddetto desiderio.

Se, invece, prima di perdere i sensi, non manifestarono detto desiderio, in tal caso, probabilmente, POSSONO, escluso lo scandalo, essere assolti CONDIZIONATAMENTE (Jorio: Theol. Mor. – Vol. III – N. 440, 2° e 5° – Ed. VI – a. 1940).

 

  1. Può amministrarsi I’Estrema Unzione ai comunisti destituiti dei sensi?

Se prima di perdere i sensi chiesero esplicitamente o implicitamente questo Sacramento; ovvero se si può presumere che, se ci avessero pensato, l’avrebbero chiesto; in tali casi l’Estrema Unzione DEVE essere amministrata ASSOLUTAMENTE a questi moribondi (Jorio, op. cit. – N. 866, quater. 1°).

Se, invece, quei comunisti perseverarono nella professione della dottrina materialistica ed anticristiana del comunismo (perseverarono cioè nell’apostasia) fino al momento della perdita dei sensi, in tal caso, se non consta con certezza la loro perseverante contumacia nel peccato (ed in pratica non può mai constare, trattandosi di destituiti dei sensi), e rimosso lo scandalo, a questi poveri moribondi, probabilmente, PUÒ essere amministrata l’Estrema Unzione CONDIZIONATAMENTE. La condizione, allo scopo di non impedire eventualmente la reviviscenza del Sacramento, dev’essere: SI CAPAX ES, e NON: si dispositus es (Jorio, op. cit – NN. 868 e 869).

 

  1. I comunisti debbono essere privati della sepoltura ecclesiastica?

Se i comunisti, prima di morire, hanno dato qualche segno di penitenza, possono avere la sepoltura ecclesiastica.

Si badi che il comunista, che ha ricevuto la assoluzione e l’Estrema Unzione quando era destituito di sensi, non può, solo per questo, avere la sepoltura ecclesiastica: è sempre, cioè, necessario, per ottenere la sepoltura ecclesiastica, aver dato, prima di perdere i sensi, qualche segno di penitenza.

Se, poi, non c’è stato nessun segno di penitenza, prima della morte, non possono avere la sepoltura ecclesiastica – a norma del can. 1240 – i comunisti che erano:

  1. notorii apostati,
  2. scomunicati con sentenza,
  3. o anche semplicemente pubblici e manifesti peccatori.

Per coloro i quali non ha avuto luogo la sepoltura ecclesiastica, non si può nemmeno – a norma del can. 1241 – celebrare la Messa esequiale, anche anniversaria, né si possono celebrare altri pubblici officii funebri.

 

  1. Possono essere benedette, specialmente con la Benedizione Pasquale del Parroco, le case dei comunisti?

Il decreto del S. Uffizio parla solo dei Sacramenti.

Il Codice di Diritto Canonico nulla dice circa la benedizione delle case dei cattivi cattolici.

Il quesito, quindi, va risolto coi principii morali generali.

Per sé, nulla osta alla benedizione delle suddette case.

Un ostacolo potrebbe derivare da un eventuale scandalo, o da una sentenza con la quale il comunista è stato scomunicato (can. 2260).

Il parroco valuti attentamente tutti i vantaggi e tutti gli svantaggi di una tale benedizione negata, e si regoli con ogni prudenza.

Poniamo il caso di una famiglia, in cui sia comunista solo il padre o qualche figlio, perché privare la casa di questa famiglia della benedizione pasquale ?..

E poi, escluso il caso di scandalo, non potrebbe la benedizione pasquale delle case costituire una chiamata di Dio per gli erranti ?..

Non potrebbe, il parroco zelante, profittare proprio di quest’ occasione per dire una buona parola ai comunisti ?..

Con queste riflessioni, abbiamo voluto esprimere soltanto il nostro modesto parere: i parroci ne sanno più di noi, e sanno regolarsi tenendo conto di tutte le circostanze.

 

  1. Possono essere battezzati I figli dei comunisti?

Se si tratta di comunisti MATERIALI, non v’è nessuna difficoltà al riguardo.

Se, invece, trattasi di comunisti FORMALI, cioè di comunisti (padre e madre) che son caduti nell’apostasia o nell’ eresia o nello scisma – i loro figli infanti (che non hanno cioè ancora raggiunto l’uso di ragione) lecitamente sono battezzati:

  1. in pericolo di morte, anche contro la volontà dei genitori;
  2. fuori del pericolo di morte- e purché si provveda per l’ avvenire alla loro educazione cattolica – se i genitori o tutori o almeno uno di loro sono consenzienti; ovvero se i genitori, i nonni o i tutori sono morti o smarriti, o se hanno perduto o non possono esercitare il loro diritto (can. 750 e can. 751).

 

  1. i figli dei comunisti possono essere ammessi alla Cresima?

Se questi figli non sono anch’essi comunisti, non c’è nessuna difficoltà, servatis servandis, a che siano ammessi al Sacramento della Cresima.

Anzi, appunto perché figli di comunisti, hanno maggior bisogno del Sacramento della Cresima, per ricevere dallo Spirito Santo quei doni soprannaturali, che sono necessari nella professione e difesa della fede cattolica.

 

  1. Possono essere ammessi ai Sacramenti coloro che convivono con

comunisti?

Abbiamo proposto questo quesito, non perché implichi qualche difficoltà, ma perché effettivamente ci è stato proposto da alcuni.

La risposta è ovviamente affermativa.

Quale colpa commettono, infatti, coloro che convivono con comunisti ?..

Qualsiasi motivo, non grave, ma semplicemente ragionevole, rende lecita detta convivenza.

Si abbia pure presente, ai giorni nostri, la crisi degli alloggi !..

Insomma, detta convivenza è, per sé, lecita: eccetto che non costituisca occasione libera e prossima di peccato.

 

***

 

Non crediamo affatto di aver esaurito tutti i casi che possono essere sottoposti al giudizio del sacerdote.

Abbiamo voluto soltanto accennare ad alcuni casi, per la soluzione dei quali, non basta semplicemente appellarsi al decreto del S. Uffizio né è ragionevole attendere dal S. Uffizio medesimo una risposta ufficiale ed esplicita.

Concludiamo questo modestissimo lavoro, col ricordare un principio GENERALE, ma PREZIOSISSIMO, per la direzione delle anime:

  1. Nei casi CERTI, regoliamoci come DI DOVERE, FORTITER ma anche SUAVITER.
  2. Nei casi DUBBI:
    1. NON IMPONIAMO una obbligazione, quando essa non consta con certezza;
    2. dolcemente insinuandoci nell’ animo dei fedeli, sappiamo CONSIGLIARE il più perfetto.

 

 

APPENDICE II.

Suprema Sacra Congregatio Sancti Offim

DE COMMUNISTARUM MATRIMONII CELEBRATlONE

D E C L A R A T I O

Quaesitum est utrum exclusio oommunistarum ab usu Sacramentorum in Decreto S. Officii diei 1 iulii 1949 statuta, secum ferat etiam exclusionem a celebrando matrimonio: et quatenus negative, an communistarum matrimonia regantur praescriptis canonum 1060-1061.

Ad rem Sacra Congregatio S. Officii declarat:

Attenta speciali natura sacramenti matrimonii, cuius ministri sunt ipsi contrahentes et in quo sacerdos fungitur nunere testis ex officio, sacerdos assistere potest matrimoniis communistarum ad normam canonum 1065, 1066.

In matrimoniis vero eorum, de quibus agit n. 4 praefati Decreti, servanda erunt praescripta canonum 1061, 1102, 1109 par. 3.

Datum ex Aedibus S. Officii die 11 augusti 1949.

 

COMMENTO ALLA DICHIARAZIONE DEL S. UFFIZIO

  1. Il matrimonio di una persona cattolica con una persona comunista è un matrimonio ostacolato dall’ impedimento proibente (impediente) di mista religione?

Rispondiamo NEGATIVAMENTE, perché, secondo la dichiarazione del S. Uffizio (11 agosto 1949), detto matrimonio è regolato dai canoni 1065 e 1066, come abbiamo già notato nella terza parte del commento al decreto del S. Uffizio.

 

  1. Ma se trattasi del matrimonio con un comunista apostata (e quindi scomunicato), bisogna osservare le cautele stabilite per l’impedimento di mista religione?

Rispondiamo AFFERMATIVAMENTE, a norma della dichiarazione del S. Uffizio.

Le cautele sono quelle stabilite dal can. 1061, e cioè:

  1. a) Non si permetta il matrimonio, se non per motivi urgenti, giusti e gravi.
  2. b) Il coniuge comunista dia cauzione che rimuoverà ogni pericolo di perversione dell’altro coniuge, ed entrambi i coniugi diano cauzione che faranno battezzare ed educheranno cattolicamente tutta la prole.
  3. c) Si abbia la morale certezza dell’adempimente delle cauzioni.
  4. d) Le cauzioni, regolarmente, siano scritte.

 

  1. Quando trattasi del matrimonio con un comunista apostata (e quindi scomunicato), che cosa si richiede, da parte delle interrogazioni circa il consenso matrimoniale, perché l’assistenza del parroco (o dell’ordinario) al matrimonio sia valida?

Si richiede, secondo la dichiarazione del S. Uffizio, ed a norma del paragrafo 1 del can. 1102 e del numero 3° del paragrafo 1 del can. 1095, che il parroco (o l’Ordinario) chieda e riceva il consenso dei contraenti SENZA ESSERE A CIÒ COSTRETTO DA VIOLENZA O TIMORE GRAVE.

 

  1. Quando trattasi del matrimonio con un comunista apostata (e quindi scomunicato), si possono permettere i Sacri Riti?

Secondo la dichiarazione del S. Uffizio, ed a norma del paragrafo 2 del can 1102, è PROIBITO OGNI RITO SACRO; che se da ciò si prevedono danni gravi, l’Ordinario può permettere qualcuna delle consuete cerimonie ecclesiastiche, mai però la celebrazione della Messa.

 

  1. Il matrimonio con un comunista apostata (e quindi scomunicato) può essere celebrato in Chiesa?

Secondo la dichiarazione del S. Uffizio, ed a norma del paragrafo 3 del can. 1109, detto matrimonio si celebri FUORI CHIESA; che se poi l’Ordinario prudentemente giudica che ciò non può osservarsi senza che ne derivino gravi danni, può, col suo prudente criterio, dispensare, ma sempre – com’ è detto sopra (paragrafo 2 del can. 1102) -con la proibizione di ogni rito sacro.

QUANTI ALTRI DOVRANNO MORIRE?

DI PIERLUIGI PENNATI

La storia è sempre quella, ormai ci siamo abituati: operai che lavorano in ambiente tossico e restano intossicati, come mai?

L’evidenza dovrebbe essere che nessuno di loro indossava presidi adatti a proteggerli dalle esalazioni tossiche, altrimenti almeno uno si sarebbe salvato, invece sei operai che lavoravano per operazioni di pulizia di un forno all’interno di una ditta di materiali ferrosi in via Rho, a Milano sono stati soccorsi dopo essersi intossicati, quattro di loro sono stati trovati dal 118 in condizioni disperate, tanto che due di loro sono sono morti poco dopo per arresto cardiaco durante il trasporto all’ospedale di Monza e al Sacco di Milano ed altri due sono giunti gravissimi.

Il bilancio finale della giornata sarà poi di tre morti e tre intossicati.

Quando si lavora per vivere non si dovrebbe morire per lavorare, eppure la totale deregulation voluta dai governi degli ultimi venti anni, di destra o sinistra che siano stati, ha ormai portato a dover operare in condizioni disperate: la sicurezza costa e per abbassare il costo del lavoro si deve solo fingere di farla.

Se fossero le prime vittime dovremmo pensare ad un caso sporadico, invece, da qualche tempo gli incidenti sul lavoro sono in aumento, in particolare nel settore dei servizi alle imprese che registra un +6%, guarda caso proprio il settore più soggetto alla deregulation degli appalti e dei subappalti, dove, per risparmiare anche pochi centesimi, si contravviene palesemente a qualsiasi norma di sicurezza: non si comprano scale, cinture di sicurezza, maschere antipolvere e persino antigas, dato che ogni presidio è un costo aggiuntivo che rende la propria offerta meno concorrenziale e quindi si dichiara sulla carta di acquistare e poi non lo si fa veramente o, al massimo, si riusa quello che già si ha anche quando non lo si può fare.

Sfuggire ai controlli e prendere quei pochi maledetti euro che ti offrono per lavorare è la parola d’ordine.

Quando si muore per lavorare, invece che lavorare per vivere ci si dovrebbe fare delle domande serie e quando si governa non si dovrebbe derogare alle più basilari norme degli stati liberi: la vita e la salute dei cittadini devono essere poste davanti a tutto.

“L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro” (art. 1 della Costituzione), non mi stancherò mai di ripeterlo: si deve lavorare per vivere il meglio possibile, non si può vivere solo per lavorare e, per giunta, rischiando la pelle.

Chi non fa nulla per ovviare a tutto ciò è complice allo stesso modo di chi ha istituito questo sbagliato stato di cose per la nazione e, per la proprietà associativa, chi vota anche uno solo di questi è a sua volta complice dei primi.

Siamo in campagna elettorale, sentiamo le solite promesse e viviamo il momento peggiore degli ultimi decenni per le condizioni economiche ed ambientali di lavoro, dimentichiamo l’economia internazionale e pensiamo un po’ di più a noi stessi: quello che capita ad uno può capitare a tutti, quegli operai morti ed intossicati sono nostri parenti stretti, sono quelli che ci stanno dicendo che lavorare oggi non è più dignitoso ed è diventato persino pericoloso al punto da perdere la vita con facilità.

Siamo tanti, possiamo cambiare, dobbiamo cambiare, serve solo uscire dagli stereotipi e dagli egoismi e cambiare cacciando tutti coloro che non hanno mantenuto fede al loro mandato.

QUELLA CONCORRENZA EUROPEA CHE FA SCAPPARE WHIRPOOL

DI PIERLUIGI PENNATI

Il lungo corteo che ieri ha percorso i cinque chilometri che separano lo stabilimento dal centro cittadino di Riva di Chieri, in provincia di Torino, è passato anche davanti all’oratorio dove da qualche mese campeggia uno striscione: «Noi stiamo con i lavoratori della Embraco».

Questa l’ennesima azienda che delocalizza andandosene dall’Italia, questo il paese dove tra pochi giorni ci saranno quasi 500 nuovi poveri senza un lavoro vero, non un lavoretto od un impiego temporaneo, un lavoro vero e che si pensava stabile che di colpo, quasi senza preavviso, viene a mancare.

È Whirlpool Usa, quotata a New York, che lo chiede, l’azienda Embraco, che per lei produce motori per frigoriferi, deve chiudere la produzione in Italia per spostarla, si dice, nello stabilimento di Spisska Nova Ves in Slovacchia, dove i lavoratori sarebbero già in allerta nonostante lo scontento per le condizioni lavorative poco dignitose.

La ragione?

Né la controllante Whirpool, che si limita a dare ordini, né Embraco la specificano, diramando solo una nota nella quale si conferma “l’intenzione di procedere alla cessazione della produzione nello stabilimento di Riva Presso Chieri, mantenendo comunque una presenza in Italia”.

Tutto arriva dopo anni di aiuti elargiti da Finpiemonte, e non solo, alla Embraco per continuare a produrre nello stabilimento di Riva: nel 2004 la giunta guidata da Enzo Ghigo, Forza Italia, sovvenzionò con 7,7 milioni di euro, il governo Berlusconi fornì 5 milioni e la provincia poco più di mezzo milione, mentre al governo della regione sotto Roberto Cota si devono le ultime risorse, non meno di due milioni sulla carta, assegnati solo per un terzo, mentre, nella trattativa che era già in corso dopo l’annuncio nelle ultime settimane di una riduzione della produzione, la giunta regionale in carica aveva offerto il restante milione e mezzo di euro, rifiutato però dalla proprietà che ora chiude e se ne va, anche se non completamente, nella nota diramata, l’azienda sostiene che “l’Italia rimane un Paese importante per Embraco che manterrà qui una presenza con un ufficio commerciale al fine di continuare ad assistere la propria clientela”, ben 40 unità che sopravvivranno ai 537 occupati, con un bilancio di 497 lavoratori licenziati.

Nella stessa nota si legge anche che “prima di giungere a questa decisione sono stati attentamente valutati diversi scenari alternativi ma nessuno di questi ha rappresentato una soluzione appropriata per continuare la produzione nello stabilimento” e l’azienda si dice anche “pienamente consapevole delle sue responsabilità nei confronti dei propri dipendenti”, per i quali “lavorerà in stretta collaborazione con i rappresentanti sindacali, le autorità pubbliche e i funzionari locali per cercare soluzioni perseguibili e su misura per il personale coinvolto”.

Ma la realtà è che, come sempre, le decisioni sembrano essere già state prese e ora si vorrebbero probabilmente usare gli strumenti di legge per evitare problemi e se possibile persino guadagnarci, anche perché se in Italia i dati ufficiali dicono che il costo del lavoro è di 27,5 Euro l’ora, in Slovacchia, dove sembra essere destinata la produzione, è di soli 10,2, con un più che dimezzamento del costo della mano d’opera per l’azienda.

Proprio la mano d’opera, è evidente, è l’unico elemento della produzione che sfugge alle leggi generali dei mercati, infatti se per una materia prima il valore dipende da fattori quasi incomprimibili e la trasformazione rientra negli investimenti, il lavoro umano dipende solo da quanto la persona è in grado di accettare e sopportare in termini economici e di tempo, quindi, almeno teoricamente, può essere portato agli estremi fisici attraverso la competizione tra i soggetti.

Così, senza regole che impediscano almeno ai paesi membri della comunità europea di “rubarsi” le imprese, attirandole con condizioni migliori per loro, e senza limiti generali che tengano conto del valore anche della dignità umana, in Europa si passa da un costo del lavoro di 42 Euro in Danimarca a 4,4 in Bulgaria e, senza cercare in nazioni lontane, nella sola Comunità Europea ci sono ben sedici nazioni dove il lavoro costa meno che in Italia, persino in Inghilterra, e, tra queste, dieci sono sotto la metà del nostro valore nazionale.

Così, in uno scenario nazionale dove si scoprono esistere realtà che già pagano i dipendenti pochi euro l’ora, a quasi nulla serviranno le promesse elettorali di fissare il salario minimo ad almeno dieci euro l’ora, servono invece riforme che tengano conto della dignità delle persone in modo globale o che ci possano sottrarre a questo perverso sistema di concorrenza tra stati, che dovrebbero essere “fratelli” e che invece si accaparrano attività piantandosi “coltelli” alle spalle, vale a dire uscire dall’Europa.

La politica dei favori alle imprese ha fallito, anche questo sembra essere evidente, serve ora un ritorno ad una politica della nazione, curiosamente quella stessa politica attuata a partire dalla fondazione della repubblica che, salvaguardando ed aumentando diritti e dignità dei lavoratori, è stata capace di portare l’Italia fuori dalla crisi del dopoguerra, ma che è durata solo fino agli anni ’80, quando, in nome di un’economia globale sconosciuta al popolo, si sono cominciati a erodere, fino ad annullarli, diritti e tutele, non solo del singolo ma anche della società, arrivando alla cancellazione della divisione tra affari e commercio che prima proteggeva il mercato del lavoro e che oggi sta portandolo alla distruzione.

Embraco non sarà l’ultima azienda che se ne va, le aziende, se i governi non fermano questi processi, si spostano dove conviene a loro e non dove conviene ai dipendenti: Adriano Olivetti, inascoltato, pensava ad una “fabbrica per l’uomo” e non ad un ”uomo per la fabbrica”, dopo tanti anni oggi rischiamo di non avere nemmeno più le fabbriche.

COME IN TUTTA LA VITA DAVANTI: L'INFERNO DEL LAVORO PRECARIO

DI PIERLUIGI PENNATI

Qualche volta si dice di mettere tutto se stessi nel lavoro e di portarselo persino a casa, a Roma, invece, i dirigenti di un call center andavano proprio a casa, o quasi con i dipendenti.

Era forse per ottenere maggior efficienza, o solamente per soddisfazione personale, che Rosa Fiorini e Cesare Porrà, dirigenti di un call center, avrebbero imposto ai dipendenti regole non scritte ed oggi classificate come atti persecutori dalla procura della repubblica di Roma.

L’azienda Euro Contatc srl, operativa insieme alla consorella Fenice srl tra i cui clienti c’è anche l’Eni, è stata chiamata a giudizio da una ex dipendente, per ora sola, che ha raccontato di essere stata cacciata dal posto di lavoro per aver intrecciato nel giugno 2016 una relazione con uno dei team leader, a propria volta licenziato.

Quanto succedeva sul posto di lavoro è ora sotto inchiesta e secondo l’accusa esisterebbe un vero e proprio «metodo della Fenice», dal nome del secondo call center dove avverrebbero i soprusi, tra questi, il divieto di relazioni sentimentali tra colleghi, alla base della prima accusa contro i dirigenti, ma anche la proibizione di aiutare i compagni di lavoro in difficoltà, anzi lasciarli sbagliare e persino “soffiare” le lacune del vicino di scrivania sarebbero richieste previste per permettere di farli umiliare dai superiori, inoltre mai prestare denaro a qualsiasi titolo ad altri dipendenti, il divieto assoluto di tenere nella propria rubrica personale i numeri di telefono del personale licenziato e persino il divieto categorico di frequentare i colleghi in gruppo fuori dal lavoro senza la presenza dei capi.

Negli atti di inquisizione la PM Antonella Nespola scrive addirittura che «le comunicazioni possono avvenire soltanto nel gruppo di Whatsapp aziendale» per poterne probabilmente controllare le opinioni.

Un altro ex dipendente, sentito dalla PM circa le relazioni personali tra dipendenti, ha dichiarato che «Secondo la Fiorini, portano alla creazione di un nucleo troppo compatto», ovvero che il personale si può coalizzare contro di lei e smettere di sottostare ai suoi soprusi, la punizione: il licenziamento in tronco.

Le stringenti regole aziendali, comunicate oralmente ai nuovi assunti, sarebbero state valide 24 ore su 24 ed in qualsiasi luogo i dipendenti si fossero trovati, ma il legale degli inquisiti, Elio Bellino Panza, contesterebbe i fatti e replica: «Non esiste alcun “metodo Fenice”, in azienda tutti possono avere relazioni sentimentali».

La prima udienza del processo sarà celebrata a maggio e per adesso vede solo una ex dipendente a promuovere l’azione legale costituendosi parte civile assistita dal suo avvocato Graziella Zingarelli, anche se tante sarebbero le testimonianze concordi raccolte durante le indagini che confermerebbero l’esistenza delle prescrizioni vessatorie.

Pur assurda, la storia, riportata per prima dal Corriere, non è così incredibile e ricorda da vicino l’ambiente descritto nel film del 2008 «Tutta la vita davanti», diretto da Paolo Virzì e liberamente ispirato al libro “Il mondo deve sapere” di Michela Murgia, che si sviluppa nel call center Multiple Italia: una pellicola di denuncia degli effetti deleteri e perversi sull’ambiente di lavoro del precariato, segno che il problema non emerge solo ora, ma viene da lontano.

Secondo uno dei testimoni che ha lavorato nel centro tra il 2012 ed il 2016, l’ideatrice del «metodo della Fenice», sarebbe Rosa Fiorini, «una che considera l’ufficio come casa sua», invasata come Daniela, la capo telefonista del film di Virzì e che quando ha una delazione «va da chi è in difficoltà dandogli del fallito».

Altre due ex impiegate, che dichiarano di essere scappate per il troppo stress cui erano sottoposte, aggiungono benzina sul fuoco, una aggiungendo che «noi ragazze ci vedevano il venerdì, ma solo se c’era la Fiorini, mentre i maschi uscivano con Porrà, senza di loro non potevamo organizzare nulla» ed un’altra di essere scappata quando la Fiorini l’aveva accusata di avere una relazione con un altro dipendente: «Mi diede della poco di buono, non volli nemmeno il TFR».

Ci raccontano da anni che serve elasticità nelle assunzioni, che i lazzaroni devono poter essere licenziati e che le regole troppo ferree per le assunzioni non favoriscono l’economia, ma la precarizzazione del posto di lavoro ha ormai portato non solo a questi fenomeni, ma addirittura all’impossibilità di pianificare la propria vita presente e futura perché i datori di lavoro pretendono ormai di controllare anche la nostra vita privata e le istituzioni non forniscono più alcuna garanzia di sopravvivenza a chi non ha un lavoro stabile, assurda contraddizione in termini.

Si parla tanto di riforma dell’articolo 18 della legge 300/70, ma nessuno si ricorda che quella legge contiene altri 40 articoli mai riformati e che i primi 13 sono contenuti nel Titolo I, denominato “Della libertà e dignità del lavoratore”, tra queste sono specificate la libertà di opinione (Art. 1), il divieto di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori e tanto meno di quello diretto sulle sue cose personali (Art. 4), la tutela e la prevenzione della salute e dell’integrità fisica dei dipendenti (Art. 9), la tutela delle mansioni del lavoratore (Art. 13), anche se quest’ultimo è stato minato dalle norme introdotte con il Jobs Act.

La legge 300/70 è stata approvata dopo tumulti e proteste, era e rimane una legge di progresso e civiltà di cui l’Italia si è potuta dotare a seguito del sacrificio di migliaia di lavoratori, alla fine sarebbe già sufficiente far rispettare le norme che esistono, anche se molte di quelle modificate dovrebbe essere oggi recuperate.

L’Italia non ha un salario minimo stabilito per legge e non ha una vera legge che sanzioni duramente chi non rispetta le norme esistenti, anzi, alla fine non fa nemmeno rispettare le leggi che esistono tramite una giurisprudenza che mischiando interpretazioni di norme vecchie e nuove, alla luce delle aperture dei mercati in ambito internazionale per favorire il mero computo finanziario degli stati, ha già di fatto annullato quasi completamente il titolo del Titolo I della legge 300/70: “la libertà e dignità del lavoratore”.

Il caos del Call center romano non è certamente isolato e non si svolge solamente in quel tipo di ambiente, tutti i luoghi di lavoro dove si impiega personale precario sono a rischio se non già affetti della malattia del sopruso e dell’annientamento della dignità della persona.

È Tempo di smettere di stupirci di situazioni del genere, non per abitudine lasciando che tutto accada passivamente, ma è tempo di ribellarci civilmente, l’unico strumento democratico ancora nelle mani dei cittadini sono le elezioni.

Paolo Borsellino ha detto: ”La Rivoluzione si fa nelle piazze con il popolo, ma il cambiamento si fa dentro la cabina elettorale con la matita in mano. Quella matita, più forte di qualsiasi arma, più pericolosa di una lupara e più affilata di un coltello”.

Se pensiamo che Paolo Borsellino non sia morto invano seguiamo il suo insegnamento in massa, l’occasione è vicina e sarà l’unica per altri cinque anni.

L'INUTILE POLEMICA DEI SACCHETTI BIO

DI PIERLUIGI PENNATI

L’anno scorso credo di aver usato in un supermercato un massimo totale di 20 sacchetti bio o meno, di solito evito i sacchetti e riciclo quelli che già ho e trovo la tassa sui sacchetti una cosa ridicola, invece di trovare soluzioni imponiamo tasse e ci distraiamo dal vero obiettivo.

Ma se l’obiettivo è usare meno plastica, ci sono molte cose da fare prima di imporre tasse, per esempio in Germania ci sono 25 centesimi di deposito su ogni bottiglia di plastica, grande o piccola che sia, se la riporti al negozio te li ridanno, se non la riporti un clochard la ripesca dal cestino delle immondizie e la riporta lui al posto tuo, così si becca il quarto di euro con il quale, ho visto personalmente, si compra da mangiare, lo stesso per il vetro, da 8 a 12 centesimi a bottiglia.

Risultato: non ci sono in giro bottiglie, né di plastica né di vetro, eppure ne bevono di birra in Germania…

Ma l’ultima frontiera tedesca, non ci crederete, sono i gasatori per l’acqua, con una bombola ricaricabile si producono da 40 a 60 litri di acqua gasata usando quella del rubinetto, da quando ne possiedo uno non compero più plastica e vi assicuro il sapore è persino migliore e la qualità garantita, cosa non sempre vera per le bottiglie acquistate al supermercato… inoltre non ho il problema dello stoccaggio e dello smaliomento a casa.

Insomma, si può fare di meglio senza tante polemiche e/o grandi sforzi, tanto un’altra tassa è pronta all’orizzonte, ma perlomeno posso discutere di come tornare indietro dietro, a quando non c’era il Jobs Act e Renzi era uno sconosciuto, almeno a scuola, anche se lo chiamavano il bomba, non faceva danni all’Italia.

Voteremo?

Spero di si e spero che NON ri-voteremo quelli che hanno promesso giustizia sociale ed hanno giustiziato la società.

FINE LEGISLATURA CON IL BOTTO

DI PIERLUIGI PENNATI

Sta per finire l’anno, con esso anche la legislatura e, forse, per il momento il peggior periodo di crisi della nostra repubblica, persino nel dopoguerra vi era almeno la speranza della ripresa, mentre oggi non sembrano esserci prospettive in vista.

Ormai da anni ci hanno abituato che la politica e gli amministratori pubblici non pianificano più nulla, nulla che vada oltre la propria previsione di permanenza in carica, vale a dire il governo di anno in anno, o di fiducia in fiducia, e gli amministratori locali, come i sindaci, non oltre il proprio mandato, quattro anni al massimo.

Già, perché il problema dell’amministratore pubblico sembra essere più il portare a termine personalmente un progetto che pianificare qualcosa di davvero utile per la società, infatti se una attività dura troppo a lungo sarà inaugurata da qualcun altro, probabilmente dell’opposizione, che prenderà meriti e gloria e nessuno vuole lavorare per regalare qualcosa ad altri realizzando così solo progetti di breve durata, con impatto psicologico e risultati immediati, magari svendendo proprietà pubbliche e i tassando i cittadini: rapido rientro di costi, ma nessuna prospettiva futura.

Dalla parte degli imprenditori, invece, sempre rincorrendo il risultato immediato è stato ormai sdoganato un metodo cruento, ma davvero efficace di operare: usare i dipendenti per i propri scopi capitalistici.

Con questo non voglio parlare di proletariato, rivoluzione comunista o lotta di classe, ma solo di interesse privato a discapito della collettività, ormai persa di vista dai grandi investitori che operano sempre più in ambito internazionale, complice l’allentamento delle barriere di confine tra moltissimi stati, in particolare nell’eurozona, ma non solo.

Mi spiego meglio, perché il problema viene davvero da lontano ed è ormai fissato solo nella storia: nel 1988 Silvio Berlusconi, allora relativamente giovane imprenditore, acquisiva la Standa, l’elemento è importante perché attraverso questa catena di supermercati sdoganava il metodo imprenditoriale moderno per il quale l’imprenditore organizza un’azienda ed i lavoratori, forti del loro impatto sul governo territoriale o nazionale e dell’impatto sull’opinione pubblica, ottengono le necessarie facilitazioni altrimenti negato ed il caso più evidente fu forse la nuova apertura di Mestre.

Questo supermercato venne allestito dalla Standa in un capannone industriale appena fuori città, senza le necessarie licenze ed adeguato allo scopo, dopo averlo riempito di merce ed assunto centinaia di dipendenti, la licenza commerciale fu, ovviamente negata, trattandosi di area precedentemente destinata dal comune ad altri scopi.

I dipendenti, appena assunti, perdevano già il lavoro “per colpa del comune” di Mestre che creava disoccupazione ed impediva lo sviluppo economico del proprio territorio, così gli amministratori, posti sotto accusa dall’opinione pubblica, furono costretti a consentire l’apertura dell’esercizio in tempi record e tutto si concluse con buona pace generale: un nuovo centro commerciale a servizio della città, nuovi posti di lavoro e benessere in arrivo per tutti.

Ma cos’era realmente successo?

Semplice, ignari in cerca di lavoro erano stati usati per ottenere una licenza altrimenti impossibile.

Come è finita la Standa?

Liquidata definitivamente nel 2012 dopo 14 anni di contenzioso giudiziario con i dipendenti.

Chi ci ha guadagnato?

Cercatelo voi in rete, io non voglio farmi querelare…

Da allora la scena si è ripetuta ovunque, con copioni differenti e con sceneggiature di volta in volta adattate, ma sempre lo stesso ritornello con i dipendenti ricattati usati come arma dai sempre più grandi e potenti gruppi industriali, facendoci così oggi chiudere l’anno con i dipendenti di Fiat, Alfa, Alitalia, Ilva, Perugina e Natuzzi che, se andrà bene, sotto il vischio troveranno la cassa integrazione e poi si vedrà.

Per loro, forse, con qualche sacrificio si potrà protrarre l’agonia ancora qualche mese, od addirittura qualche anno: salari sempre più bassi e condizioni sempre peggiori, in un’Italia la cui costituzione farcita di diritti ormai disattesi compie 70 anni proprio il 1° gennaio dell’anno che sta per iniziare.

Il lavoro è citato diciassette volte nel testo costituzionale, il concetto più esteso, più che un diritto, la base e fondamenta della repubblica italiana e forse proprio per questo il più colpito ed utilizzato: ultimo atto la Melegatti.

La vicenda Natale Melegatti 2017 è del tutto simile a quella della Standa 1989, 28 anni dopo i dipendenti sono stati usati dalla dirigenza per salvare l’azienda e con effetto temporaneo e limitato, infatti se è vero che è stato raggiunto l’obiettivo del milione e cinquecentomila panettoni prodotti e venduti, e con questo salvato il natale, pagati i debiti e gli stipendi arretrati, è anche vero che la colomba pasquale non è ancora al sicuro e che l’operazione salvataggio non può replicarsi ad ogni ricorrenza senza una pianificazione seria ed un piano industriale sostenibile.

A pesare sul futuro Melegatti sono quasi gli stessi problemi che affliggono le già citate Fiat, Alfa, Alitalia, Ilva, Perugina, Natuzzi ed altri 160 tavoli di crisi aperti in altrettante aziende italiane, vale a dire una gestione manageriale poco capace e delle pianificazioni industriali inefficienti che nulla hanno spesso a vedere con la crisi generale dei mercati.

Bisogna capire che la “crescita” non è il solo parametro che regge l’economia, esiste anche la stabilità e la decrescita felice, vale a dire un modo di vedere le cose ed il futuro che tenga conto anche del fatto che prima o poi ci si dovrà arrestare nel crescere e forse, ripeto forse, si dovrà persino decrescere in modo sostenibile.

Senza una pianificazione oculata continueremo a lasciar gestire ad industriali miopi, incapaci o, magari, solamente furbi, aziende che sfruttano i dipendenti oltre il consentito dalla dignità umana per poi dover gestire le crisi attraverso strumenti statali che non esistono perché non sorretti dalla stessa economia che si è consentito entrasse in crisi.

Vizi privati e pubbliche virtù ad alto costo sociale.

Tutto ciò non dovrebbe essere consentito dalla legge, pagare un dipendente 33 centesimi all’ora, come è successo in un Call Center siciliano, dovrebbe essere paragonato alla riduzione in schiavitù, deve esistere un limite legale sotto il quale non è possibile impiegare personale n uno stato civile, una paga oraria minima stabilita dalla legge in base alle esigenze di base per poter sopravvivere dignitosamente, non senza polemiche il Canton Ticino ha appena stabilito che per sopravvivere in Svizzera occorrono non meno di tremila franchi al mese, poco più di diciannove franchi all’ora di stipendio sotto il quale nessuno, ripeto nessuno, può essere impiegato in quel paese con pene severe per chi prova a farlo.

Questo perché secondo uno studio commissionato dallo stato ticinese, chi non ha abbastanza denaro in tasca smette di pagare nell’ordine: tasse, abbigliamento, medicinali.

Il risultato è che lo stato perde risorse e si impoverisce, le persone conducono una vita poco dignitosa e la salute generale peggiora proponendo sempre più emergenze sanitarie.

Soluzione semplice, efficace e degna di uno stato moderno ed io che ho sempre considerato gli svizzeri dei sempliciotti di campagna, scopro che invece sono solo semplicemente pratici, come serve essere nelle campagne.

Così alla Melegatti, ormai diventata il simbolo di questo Natale, a causa della nostra miopia generale restano i 15 milioni, pagati in contanti invece di venire finanziati, spesi per acquistare uno stabilimento inutile ed ancora chiuso ed inattivo, i tour estivi e le sponsorizzazioni pagate al cantante Scanu, per il quale si dice la direttrice abbia un debole, invece di corrispondere regolarmente gli stipendi a 70 dipendenti e le scelte pubblicitarie e commerciali sbagliate e dannose che hanno portato l’azienda alla crisi attuale, azienda che, salvata dai dipendenti, non cambierà dirigenza e probabilmente metodi con la prospettiva di chiudere comunque. Staremo a vedere.

Anche Alitalia è ancora lì, i “capitani coraggiosi” tanto celebrati da Berlusconi e poi sponsorizzati da Renzi con il suo “se vola Alitalia vola l’Italia”, hanno fallito catastroficamente e, nonostante i continui “regali” ricevuti dai vari governi, non hanno saputo rilanciare la compagnia, solo comprimerne i costi, oggi in linea con il mercato globale, ma sempre incapaci di riempire gli aeroplani, vera ragione conclamata del fallimento oggi posto di nuovo solo sulle spalle di dipendenti e cittadini.

E gli stipendi dei “capitani”? Nessuno li ha mai toccati, sempre in rialzo, ingiustamente contro la tendenza al ribasso di quelli dei lavoratori.

Questo 2017 sta per finire e con esso anche la legislatura ed il, forse, peggior periodo per la nostra repubblica che mai come prima non vede prospettive valide all’orizzonte: la politica è divisa, la legge elettorale iniqua, i partiti allo sbando, tutti a cercare consenso tra gli estremi sentimenti, razzismo, diritti, emigrazione, speculazione, … tutto ciò che può colpire la sensibilità della popolazione e carpirne il voto, poi si ricomincerà a vivere alla giornata.

L’Italia, ma anche il resto del mondo, ha la necessità di ripartire dalle proprie basi, dalle radici della dignità umana e della giustizia: per moltissimi anni sono esistite leggi che ponevano le persone al riparo dalla crisi dell’uomo prima che del suo denaro, queste regole sono state cancellate per favorire i mercati che sono così cresciuti a discapito delle persone, con il risultato di cancellare la crescita della dignità e dei diritti umani di base, della libertà e del futuro di tutti noi.

Se davvero dobbiamo ripartire si deve ricominciare da quello che già avevamo conquistato con grandi sacrifici: la dignità dell’uomo.

Secondo la Caritas Migrantes dal 2014 in poi vi sono stati più italiani che hanno espatriano per lavorare, migranti economici, che stranieri che sono arrivati in Italia per lo stesso motivo, migranti economici, con un bilancio negativo sulla popolazione complessiva.

Secondo l’Associazione Italiana Residenti Esteri, AIRE, gli italiani che espatriano svolgono all’estero lavori che in patria rifiutano: camerieri, trasportatori, elettricisti, muratori, etc, realizzando di fatto uno scambio di mano d’opera con gli immigrati e la ragione di tutto ciò deve essere trovata nelle condizioni di lavoro, infatti gli italiani che all’estero fanno avori che non accettano in Italia lo fanno dove le condizioni economiche ed i diritti sono ancora considerati a livelli accettabili per una vita dignitosa, cosa ormai quasi impossibile in patria.

Così, in Italia, quei lavori ormai sottopagati e senza più diritti adeguati per i nostri connazionali, sono accettati da coloro che nelle rispettive nazioni di origine spesso non avevano nemmeno un passaporto e nella nostra terra, invece, hanno documenti e, seppur ancora pochi, diritti che non avevano la possibilità nemmeno di immaginare.

Quello che stiamo facendo è così trasformare lentamente la nostra nazione, che partecipa orgogliosamente ai meeting dei “grandi della terra”, in uno stato del terzo mondo, non per la presenza di troppi immigrati, ma per l’assenza di dignità tipica di quegli stati.

Se il nuovo anno deve segnare davvero una svolta, prima di tutto si dovrà tornare indietro, non approvando nuove leggi, ma ripristinando di quelle che già c’erano e tutelavano le persone, cancellando dapprima la legge Amato di riforma degli istituti bancari ed il decreto Biagi, per poi affrontare pensioni, Fornero, Jobs Act e tutte le dannose leggi di riforma degli ultimi governi.

Se non saremo capaci di tornare indietro, difficilmente potremo continuare ad andare avanti.

OFFRONO 12.000 EURO L’ANNO E POI PAGANO 92 EURO AL MESE

DI PIERLUIGI PENNATI

L’annuncio via web, 12.000 euro annui di retribuzione per un lavoro in un Call Center, pochi ma di questi tempi meglio che nulla, si devono essere detti quelli che hanno risposto, sede di lavoro a Taranto.

La realtà era però ben differente, un contratto firmato in copia unica, senza possibilità di leggerlo completamente e di rileggerlo con calma per comprenderne i contenuti, così, dopo quasi sessanta giorni l’amara sorpresa: un bonifico di 92 euro per un intero mese di lavoro, circa 33 centesimi l’ora per 1.200 euro l’anno, un decimo delle previsioni.

Secondo l’azienda è tutto regolare, una assenza dal posto di lavoro anche di soli tre minuti fa perdere il diritto al riconoscimento della paga oraria e dei minimi previsti, così gli stipendi, già contenuti, diventano praticamente nulli.

Dopo la dura scoperta, sette persone si sono rivolte ad Andrea Lumino della SLC CGIL Ionica che ha dichiarato di aver interessato i propri legali «che hanno valutato la possibilità di collegare questa situazione alla legge contro il caporalato».

Ma quando la realtà supera l’immaginazione ci si deve chiedere cosa ha permesso tutto ciò, qualche volta curare non è sufficiente, soprattutto se non c’è prevenzione adeguata.

Il problema non è se si tratta o meno di caporalato, il problema è quanto vale oggi il lavoro, indipendentemente da quale sia e da chi lo svolge, deve esistere un limite inferiore oltre il quale non sia lecito andare ed oltre il quale lo sfruttamento della manodopera può essere considerato schiavismo e non può essere tollerato dalla legge.

Secondo il premio nobel per l’economia Joseph E. Stiglitz “I salari pagati ai lavoratori flessibili devono esser più alti e non più bassi, proprio perché più alta è la loro probabilità di licenziamento. In Italia un precario ha una probabilità di esser licenziato 9 volte maggiore di un lavoratore regolare, una probabilità di trovare un nuovo impiego, dopo la fine del contratto, 5 volte minore e fino al 40% dei lavoratori precari è laureato.” Ed aggiunge, “Ma se li mettete a servire patatine fritte o nei call center, perché spendere tanto per istruirli?”.

Se vi sono sbilanciamenti negativi, serve fissare delle regole di base per far crescere l’economia in modo corretto, la precarizzazione del lavoro, secondo il ragionamento di Stiglitz, doveva essere bilanciata con un amento dei salari, invece è avvenuta la cosa opposta: l’aumento della precarietà ha abbassato i salari fino all’assurdo di far pensare qualcuno di poter pagare il lavoro 92 euro al mese.

L’operazione fatta in Italia sui problemi del lavoro a seguito della sua precarizzazione appare paragonabile a quella di un giardiniere che per migliorare la salute di una pianta che ha le radici malate ne pota le foglie, non solo non otterrà nulla, ma ritarderà solo una fine inevitabile con effetti finali catastrofici.

Se non cambiamo passo non ne usciremo e potremo solo peggiorare, ci indigniamo per i maltrattamenti agli animali, ci stupiamo per abusi e ruberie e poi non facciamo nulla per cambiare, ci saranno presto le elezioni e non potremo certo valutare chi non ha mai governato, ma potremo farlo con chi lo ha fatto male, non ha fatto nulla od ha persino peggiorato le cose, costui, o costoro, non dovrebbero essere più rieletti attraverso il voto, unico strumento democratico ancora nella disponibilità del cittadino.

Attendersi di poter ottenere un lavoro in modo clientelare, scambiando il proprio voto per un’aspettativa personale, sembra furbo, ma nella realtà uccide tutti: non possiamo incolpare gli altri per una cosa che dipende da noi, civiltà, coerenza e giustizia devono diventare motori universali e non qualcosa che viene sempre delegato a qualcun altro sconosciuto.

Il cambiamento inizia da noi, aspettarsi un lavoro ben retribuito senza verificare di cosa si tratta, accettare condizioni inferiori al minimo dignitoso, non denunciare e non fare nulla per cambiare, questi sono i veri mali della società.

Spetta alla politica ed agli amministratori pubblici cambiare ma il cambiamento, come sempre, inizia da noi, cambiamo e gli altri cambieranno con noi.

ALESSANDRO A 24 ANNI NON È NORMALE E SI LICENZIA

DI PIERLUIGI PENNATI

Alessandro a 24 anni non è normale e si licenzia, o meglio: non è normale che Alessandro a 24 anni si licenzi.

Già sono tempi strani, nei quali il lavoro è soggetto non ad un mercato, ma ad un mercimonio continuo dove l’unico valore in gioco è il profitto e la dignità umana non è più considerata, per questo non è normale licenziarsi, di questi tempi “ti” licenziano e la frase normale, “mi” licenzio equivale ad un suicidio civile che nessuno farebbe.

Eppure Alessandro, a 24 anni, prende questa decisione: “Ho pensato a lungo prima di pronunciare ad alta voce questa parola” – dice ad Invece Concita di Repubblica – “nel 2017. Ho lavorato per quasi un anno come barista”, “Ottimo ambiente, coi datori di lavoro e coi colleghi. Il mio problema era lo stipendio che, per quanto mi permettesse di vivacchiare, non mi consentiva di pensare al futuro“.

Ecco: un lavoro certo, ottimo ambiente e bravi colleghi, ma stipendio inadeguato e quando ti dicono così la prima cosa che ti viene in mente è di chiederti quanto sarà mai stato lo stipendio, dato che oggi se hai un lavoro è già una fortuna.

Ma Alessandro non è un caso isolato, Alessandro è solo uno che ne ha parlato, i nostri baristi e camerieri emigrano, dato che in Italia il loro lavoro non è più adeguatamente pagato, vanno in altre nazioni dove il loro lavoro è ancora valorizzato adeguatamente e con questo la loro dignità di persone.

Secondo il Centro Studi e Ricerche IDOS, della Caritas Migrantes, dal 2014 in poi nel nostro paese sono più gli italiani che emigrano all’estero che i migranti in arrivo, con un impressionante bilancio negativo che fa davvero riflettere: forse dobbiamo cominciare a renderci conto che dall’Italia non fuggono i cervelli, dall’Italia fuggono persone che non sono più disposte ad accettare lavori che non rispettano la loro dignità, mentre accettano gli stessi lavori in altri stati dove la persona è ancora considerata un valore e per questo retribuita in modo da poter “pensare al futuro”.

Alessandro, dopo il bar ci prova con “un noto marchio d’abbigliamento italiano”, viene assunto e “Il primo giorno mi vengono illustrate alcune regole basilari, del tipo: è vietato instaurare rapporti d’amicizia con i colleghi; è vietato perdersi in chiacchiere con i clienti; se non per esigenze eccezionali è vietato andare ai servizi durante le ore di lavoro, ci si va nei 10 minuti di pausa, rigorosamente timbrati, concessi solo con un minimo di 6 ore di lavoro giornaliere. È vietato bere un caffè nella pausa concessa, dato che l’azienda non dispone di macchinette“.

Il suo ruolo è cassiere e commesso, per il quale è anche “vietato lasciare il posto di lavoro entro il turno stabilito senza prima aver svuotato gli appositi carrelli carichi di merce usata durante la giornata, il tutto solamente dopo aver timbrato, evitando così di andare in straordinario.

Non solo, ogni “infrazione” viene catalogata e porta ad un “verbale”, vale a dire una nota negativa che peserà sui successivi rinnovi dell’impiego, in un ricatto continuo, della durata di tutto il periodo di vigenza contrattuale, che considera anche i “centesimi in più perché il cliente non li ha voluti di resto”, la “troppa confidenza” con clienti e conoscenti, costringendoti a non instaurare alcun rapporto umano nemmeno con i clienti abituali, ed il terrore “di aver piegato male una maglietta”, in una continua ed ininterrotta ansia da prestazione di lavoro.

Per Alessandro la domanda è “Perché mi lamento così tanto, direte voi? Quando c’è gente che un lavoro non ce l’ha o deve sottostare a regole peggiori delle mie?

La sua risposta è “Perché ho 24 anni. A queste regole io non ci sto” e se ne va ancora una volta, poi dice: “per fortuna al bar mi riprendono. Guadagnerò molto meno, ma racconterò una barzelletta ogni tanto, rispetterò il prossimo se mi rispetterà. Siamo esseri umani, non siamo macchine. Il lavoro è importante, ma anche la nostra vita. Non dobbiamo sempre subire, non dobbiamo per forza adattarci a tutto. Lavoriamo ma non dimentichiamoci di rispettarci”.

Nell’intervista, Alessandro Paola, 24 anni, ha deciso che non si possono sacrificare diritti in cambio di soldi, ma questo è proprio il problema, da troppi anni si discute di dare impulso all’economia rilanciando il lavoro e per farlo, invece di fissare regole di base che impediscano il suo eccessivo sfruttamento, si favorisce la precarietà e la compressione dei diritti in favore di dati statistici di occupazione che sono solo numeri matematici costruiti ad arte e che non rispettano più l’uomo che li produce.

Con il Decreto Scuola Lavoro, poi, questi numeri si gonfiano ancora chiamando persino gli studenti ad aumentare le statistiche con il loro lavoro, mentre nella realtà sono ancora a scuola, per l’INAIL uno studente assicurato anche un solo giorno perché “studia lavorando” è un occupato in più, per la società è solo uno studente sfruttato mentre sta ancora studiando.

Il tutto in nome di un “mercato del lavoro” i cui numeri devono essere in costante crescita, pena il fallimento del governo di turno che li snocciola, apparentemente numeri falsati solo per garantire una carriera politica, nella quale nel dire mercato del lavoro sembra si pensi invece al solo valore numerico che produce, senza nemmeno più considerare l’uomo che vi sta dietro, la sua dignità, libertà e morale.

Quando si mettono le persone nella necessità di dover rinunciare a queste cose, si sta facendo male alla società intera, il lavoro rende nobili proprio perché dà dignità e rende liberi ed autonomi, prerogativa un tempo riservata solo a regnanti, nobili e “dignitari”, appunto, cioè “meritevoli di dignità”.

Il lavoro che nobilita dovrebbe avere regole incomprimibili, sicurezza e diritti certi, invece oggi si agisce sempre più in nome di un mercato del lavoro, che altri non è che una mera competizione al ribasso di diritti e dignità in cambio di poca moneta.

Un mercimonio dell’umanità e dell’individuo, azzerati in nome del profitto.

Ci dicono da molto tempo che la competizione ed il mercato facciano bene al progresso dell’economia, ma un’economia che accumula beni a costo di uccidere la dignità delle persone non può essere considerata progresso.

Sono servite lotte anche cruente per nobilitare l’uomo attraverso il lavoro ed oggi gli chiediamo di lavorare senza alcuna nobiltà.

La prima frase dell’articolo 1 della nostra Costituzione cita: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” e prosegue con “La sovranità appartiene al popolo”.

Oggi, attraverso un sistema sempre più complicato di regole che rendono quasi impossibile la partecipazione democratica alla vita dello stato, la sovranità ci è già negata, cosa ne sarà del lavoro?

La parola lavoro è ripetuta ben 17 volte nei primi 40 articoli della costituzione, la frequenza maggiore tra gli argomenti in essa trattati e non è chiamata esplicitamente diritto solo perché di essi è il più importante, essendo il lavoro ben più che un “semplice diritto”, ma uno strumento, “lo strumento” per eccellenza, di emancipazione e progresso, quindi chi fa del lavoro un mercato privo di dignità per l’uomo rinnega, nei fatti, anche la nostra costituzione e non dovrebbe meritare la cittadinanza italiana.

Voglio uno stato che pensa alle persone e non persone che pensano ad uno stato, voglio vivere con dignità, voglio che il lavoro nobiliti e non solo debiliti.

Quasi cento anni fa Adriano Olivetti, che non era certo un semplice operaio, anche se fece brevemente l’operaio per imparare il mestiere, ma un industriale figlio di un industriale che poteva benissimo pensare solo al suo profitto, scrisse: “La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica” ed a chi gli chiese se tutto questo non fosse utopia, rispose: “spesso il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia a lavorarci. E allora può diventare qualcosa di infinitamente più grande”.

Caro babbo natale, ti prego, quest’anno non portarmi doni, portami dignità, sicurezza, autonomia, portami la certezza che quando trovo lavoro questo sia un lavoro vero, che possa essere chiamato tale e che soddisfi il famoso aforisma “il lavoro nobilita l’uomo“.

Portami nobiltà nel lavoro, per Alessandro e per tutti noi.

EZIOPATOGENESI DI UN PIRLA

DI PIERLUIGI PENNATI

Pirla: sostantivo maschile in uso nelle regioni settentrionali italiane il cui significato popolare generale attribuito è di “pene” o per estensione figurativa di “persona stupida, facilmente imbrogliabile”.

Sono di Milano, intendo dire anche di famiglia di origine milanese, e ne ho sentite di tutti i colori circa il significato della parola pirla, il 13 novembre 2002, sul giornale La Repubblica, ne veniva persino pubblicata una dotta spiegazione in occasione della querela ricevuta da Franca Rame per aver dato del “pirla”, ed anche ironicamente del “genio”, all’allora ministro della Giustizia ed esponente della Lega Roberto Castelli.

“Quel pirla del ministro Castelli si spaventa delle manifestazioni davanti alle carceri. Dovrebbe informarsi: le manifestazioni in appoggio allo sciopero della fame dei detenuti avvengono da decenni. Si informi… Le condizioni delle carceri sono tragiche e non sono affatto quelle descritte dal genio di Castelli…”, la frase incriminata.

Ma si può querelare qualcuno per una parola di cui non è chiaro il significato?

Forse, dato che il ministro, bergamasco della Lega Nord, e Franca Rame, milanese, parlano un dialetto affine e quindi dovrebbero comprendersi bene l’un l’altro, ma la giustizia italiana?

100mila euro chiesti alla querelata in sede da avvocati che, secondo quanto riportato dalla giornalista Natalia Aspesi che scrisse l’articolo, “deliziano il tribunale con una colta esegesi della parola pirla, per dimostrare quanto il loro assistito non la meriti. Prima di tutto, è offensivo che verso un ministro sia pure padano e leghista (però di Cisano Bergamasco, non milanese) sia stata usata una parola la cui origine appartiene al dialetto meneghino, “linguaggio storicamente utilizzato dalla popolazione meno colta dell’area milanese, in contrapposizione alla lingua dotta parlata dalla nobiltà e dal clero”. E forse da Castelli. Inoltre, pirla deve essere fatto risalire al latino pilus “che letteralmente significa pestello ma che veniva regolarmente adottato per indicare il membro maschile”. E dare del membro maschile a qualcuno “assume abitualmente il significato di attribuzione di scarsissime qualità intellettuali, accompagnate dall’assenza di presenza di spirito e di avvedutezza”.

Addirittura i capaci avvocati comparano un termine dialettale siciliano “minchione, che sarebbe certamente stato più offensivo, se la Rame l’avesse usato per un padano. Ma sia pirla che minchione “complice anche la maggior facilità di spostamento della popolazione sul territorio, hanno ormai travalicato i confini regionali…“.

Insomma un caso complicato dalla perfetta conoscenza della lingua, che altrimenti l’avrebbe reso semplice, vediamo perché.

Per spiegare cosa significa pirla si deve comprendere il dialetto milanese, pirla è la terza persona singolare del verbo “pirlare”, che a propria volta deriva da una cosa davvero semplice, una antica trottola di legno dalla forma di goccia rovesciata attorno alla quale si avvolgeva una corda per poterla lanciare.

Il gioco consisteva nel farla andare in alcuni posti predefiniti, tra alcuni paletti, contro un punto preciso di un muro o persino farla andare il più lontano possibile alimentando la roteazione con una frusta o la stessa corda utilizzata per il lancio, una cosa da abili giocatori, quindi, ma certamente non piacevole od edificante per la pirla (femminile come trottola) che veniva lanciata in una direzione e per effetto della sua rotazione e delle asperità incontrate, invece, era incontrollabile e … stupida.

Era però la rotazione a farla da padrone, quindi se la pirla si muove e “pirla” a sua volta, pirlare assunse il significato principale di girare: per posizionare una lampadina si deve pirlare nella sua sede, e le estensioni di girare a vuoto od in modo inconcludente.

Ma non è sempre stato un termine negativo, un milanese del passato non vedeva nulla di male nel far pirlare la propria dama danzando in balera, anche se lo stupido che gira senza una meta sicura o dice cose senza capo ne coda è forse il significato che nel tempo è stato più usato.

Sei proprio un pirla!

Significa sia che hai frainteso qualcosa o che sei davvero divertente nelle tue battute.

Ed il pene?

Qui la vicenda si complica e si perde nella fantasia popolare, dato che pirla ha dei sinonimi dialettali, ovvero parole che sono spesso usate con significati simili, tra queste spicca certamente il meno comune “pistola”, colui che le spara grosse, che a Firenze è detto il Bomba (e qui tutti ne conosciamo uno famoso), o anche “pestola” che come per la pistola ha una parte allungata che può essere vista come simbolo fallico.

Parole così usate che diventavano persino soprannomi di persone, in passato quasi una regola per tutti, e che non erano ritenuti così offensivi o vergognosi tanto da apparire persino in alcuni annunci e persino necrologi dove dopo il nome veniva apposto “detto il pestola”.

Anche il sinonimo lombardo, varesino, comasco e persino sconfinante nel piacentino, di “bìgul” o il bergamasco e bresciano “bìgol”, o persino il termine più generale “ciùla”, che nella forma verbale ciulare” assume il significato di avere un rapporto sessuale, sono incriminabili, dato che al pari di pirla assumono significati di stupido o membro maschile.

Il perchè di questa associazione più estesa è generale ed allargato a tutta la nazione, anche in altri luoghi si associa il pene al termine sciocco o stupido, non saprei definire chiaramente il perché, ma forse per la tendenza maschile a seguire le indicazioni provenienti dagli stimoli sessuali senza ragionare troppo, infatti non è infrequente sentire in un qualche dialetto, che qualcuno ragiona “con il pene” o, se particolarmente ottuso, persino “con il deretano”.

Così dal veneto e friulano “móna” (che però è l’organo genitale femminile), il siciliano “minchiuni”, al piemontese “picio”, all’italiano “coglione”, il ligure “belìn”, e chi più ne ha più ne metta, tutti i termini dialettali associati al pene assumo anche il significato di stupido, siano essi usati simpaticamente o meno.

Ma non è tutto, il termine “pirlare” si è trasferito nell’uso corrente italiano quando ci troviamo in cucina, “pirlare un impasto”, cioé arrotondarlo facendolo girare tra le mani o sul piano di lavoro per dargli una forma sferica regolare, è ormai diventato di uso comune e può essere facilmente reperito in rete, anche in questo caso, come nell’originale derivato da trottola, si fa girare, ovvero pirlare, qualcosa, ovvero l’impasto da cucinare.

Inoltre il termine pirla è stato così utilizzato un po’ in tutti i modi ed i significati limitrofi che persino il poeta Eugenio Montale gli ha dedicato una poesia dal titolo “Il pirla”, un cantante italiano chiamato Charlie ottenne un buon successo nel 1988 con la canzone intitolata “Faccia da pirla”, ed il gruppo musicale degli Articolo 31, costituito in periferia di Milano, ha pubblicato nel 2003 la canzone “I consigli di un pirla”.

Tornando per un istante alla vicenda di Franca Rame, che fu poi condannata in primo grado a pagare un risarcimento di 3 mila euro, ed alla legge in generale, va però detto che la giurisprudenza italiana, indipendentemente dalle origini del termine, è oggi concorde nel condannare l’uso della parola pirla, la Corte di Cassazione, con la sentenza 4036 del 2006, lo ha stabilito chiaramente ed inequivocabilmente, quindi attenzione al suo uso, va fatto solo con persone con cui si ha stima e confidenza in modo simpatico, dare del pirla a qualcuno può oggi costare caro.

Concludo con l’osservazione che Pirla è anche una delle 26 frazioni del Comune di Monteggio, nella Canton Ticino della vicina Svizzera, anche se in questo caso le notizie storiche ci dicono con certezza che deriva dal latino pirula, “piccola pietra”.

Insomma, abbiamo capito come un termine semplice, di uso comune ed usato al principio prevalentemente da bambini e ragazzi ha assunto nel tempo un significato molto differente, ai milanesi, però, piace continuare ad usarlo in modo simpatico, dare del pirla in questo contesto non offende nessuno e spesso fa ridere, “sei proprio un pirla se ti offendi per questo” 😉

ALLA RICERCA DELLA DIGNITÀ PERDUTA

DI PIERLUIGI PENNATI

“Forse sta venendo meno il valore della dignità umana. Io e tutti i lavoratori non siamo numeri, siamo persone, con una dignità che dovrebbe essere rispettata”.

È Marica Ricutti a parlare, la mamma licenziata da Ikea perché non poteva iniziare alle 7 del mattino il mercoledì a causa di una terapia per il figlio disabile, licenziata per un paio d’ore di impossibilità a recarsi al lavoro, nonostante non avesse mai chiesto alcun altro privilegio.

Sarebbe pleonastico e stucchevole ripetere la sua situazione, anche perché questo, in Italia, non conta più nulla, il valore dei cittadini in genere è quanto possono produrre in termini di valore economico, vale a dire che più vali se più lavori gratis, senza tutele e facendo debiti.

Da quando, a dicembre 2016, alla “giusta causa” di licenziamento la Cassazione ha aggiunto la motivazione di “mero profitto aziendale” il fondo è stato toccato: l’uomo è scomparso dall’orizzonte del lavoro ed è rimasto solo il suo codice fiscale.

Siamo nella “Repubblica democratica fondata sul lavoro” e non sappiamo difendere e valorizzare i lavoratori.

Ikea in Svezia tutela i lavoratori e costruisce asili per le loro famiglie, in Italia licenzia chi per la famiglia non riesce ad iniziare alle 7 del mattino un giorno solo alla settimana.

Qualcosa non quadra, se il problema non è l’azienda, evidentemente deve essere lo stato nella quale si trova, poi, facciamo sempre in tempo a lamentarci degli immigrati africani, unici che ancora accettano le condizioni di lavoro nel nostro stato, per loro che sono abituati a vedersi negata la dignità di umani è sufficiente un lavoro, per noi che siamo cresciuti nella convinzione di possederla, invece, non basta, per questo i nostri figli cercano lavoro all’estero, non fuggono i nostri cervelli, fuggono le nostre anime in cerca della dignità che meritano.

SAPETE COS'È IL BLACK FRIDAY?

DI PIERLUIGI PENNATI

Certamente: quando tutti fanno sconti incredibili e si compra bene…

Sembra assurdo, ma una giornata storica che è anche un monito è diventata una festa del consumismo.

Il black friday è stato il 24 ottobre del 1929 negli USA, fu forse il più grande crack della storia, le banche fecero tutte bancarotta a causa della speculazione e della bolla finanziaria che si era creata, le persone assaltarono gli istituti per tentare di riavere gli spiccioli rimasti in cassa, perché si tempi le banconote avevano una copertura in oro, cosa che oggi non è più.

La crisi generale che ne seguì fece approvare al congresso nel 1933 il Glass Stegal Act, contenente due semplici norme, l’istituzione di un fondo di garanzia per i depositi bancari ed il divieto di speculare col denaro del risparmio, separando nettamente banche d’affari e banche commerciali.

Il sistema ha protetto l’economia mondiale fino al, se ricordo bene, 1993, quando Giuliano Amato, allora ministro delle finanze, introdusse di nuovo in Italia per primo la commistione tra i due tipi di istituti.

A dicembre 1999, Bill Clinton ad un mese dal terminare il suo ultimo mandato, con un atto votato da entrambi i rami del congresso quasi all’unanimità, diede il colpo di grazia cancellando la legge promulgata da Roosevelt nel ’33.

Il resto del mondo seguì, le banche d’affari comprarono le banche commerciali e la borsa diventò l’unico elemento di mercato trasformando il lavoro umano in mero calcolo economico senza dignità.

Per questo oggi siamo numeri, per questo quando le banche falliscono chiedono a noi i soldi, perché controllano il risparmio ed il nostro denaro, anche quando non siamo d’accordo.

Se esistesse ancora la separazione netta tra le banche, l’economia si reggerebbe sul lavoro e non sullla speculazione e la dignità umana avrebbe un valore, invece le banche non producono più nulla, promettono interessi in denaro su investimenti in denaro, vale a dire puro calcolo economico su numeri che producono numeri.

Il venerdì nero è come l’olocausto e noi, da masochisti, invece di temerlo lo celebriamo come fosse una festa.

ORIO CENTER APERTO ANCHE A NATALE MA I LAVORATORI PROTESTANO

DI PIERLUIGI PENNATI

Era già accaduto a Serravalle ad inizio anno, quando alla notizia che avrebbero dovuto lavorare anche a pasqua i lavoratori del centro outlet si erano ribellati ottenendo solo un maggiore interesse della insensibile clientela, attirata in maggior numero proprio dalla protesta.

Adesso si replica, a Bergamo si lavora anche a Natale e Capodanno, giornate nelle quali tradizionalmente si dovrebbe stare con famiglia ed amici ed invece sembra ormai diventato più interessante poter andare al centro commerciale a passeggiare.

Il grido populista che richiama le nostre tradizioni e sacralità festive sembra dimenticato, qui non ci sono mussulmani da cacciare o migranti da rimandare a casa, qui ci sono le luci che accendono la fantasia delle persone: “offerta speciale”, “ribassi”, “vendita straordinaria”, “fuori tutto” e, più importante ancora “OUTLET”!

Tutti contenti, quindi, tutti meno loro: i dipendenti dei 280 esercizi che sono costretti dalla proprietà dei centri commerciali a rinunciare alle ferie per aprire i negozi destinati al piacere dei nostri occhi e delle tasche della direzione.

Già, ogni medaglia ha un suo rovescio e questa, come ormai tutte le “medaglie” nella nostra nazione, ha un rovescio davvero amaro per chi ci lavora, se ancora il lavoro nel commercio si può chiamare così.

Mentre l’attenzione generale è ormai da molti anni puntata solo sulle grandi aziende dove si lotta per tentare di salvare posti di lavoro destinati comunque ad essere persi per effetto dell’ampliarsi delle regole volute dai vari governi che hanno finito solo per favorire la precarietà nell’industria, nel dimenticato settore del commercio i risicati numeri di dipendenti medi pro impresa, rendono la precarietà una realtà non nuova, ma endemica e radicata che, piano piano, con la complicità dei dati sulla disoccupazione, si sta però trasformando in reale schiavitù.

Negli outlet, ovvero quei posti dove le grandi case di moda scaricano gli invenduti delle stagioni precedenti per potersi ancora sostenere e continuare a vendere nei negozi di punta senza perdere l’immagine del loro prodotto, la situazione è ancora più evidente, infatti questi enormi centri sono per definizione un luogo dove gli orari devono essere più elastici perché si trovano tipicamente fuori mano si deve dare modo agli acquirenti di poterli raggiungere quando hanno più tempo a disposizione, la sera, domenica ed i festivi.

Così, a poco a poco, gli orari si sono allargati, giorni di apertura ampliati e le chiusure ridotte, tanto che all’inizio del 2017 erano mediamente solo 4 in tutto l’anno: Pasqua, Sant’Angelo, Natale e Capodanno.

Così proprio per la riduzione da 4 giorni di chiusura a soli 2 si era scatenata la protesta a Serravalle ed i dipendenti, già esasperati dagli orari dei turni a loro volta “elastici” e dai ricatti delle proprietà, non ce la facevano più, risultato: uno sciopero proclamato il giorno di Pasqua un tempo festivo.

Ma al suono di “se non vieni a Pasqua puoi anche non tornare più al lavoro” solo 4 esercizi sul totale rimasero allora chiusi, facendo fallire miseramente lo sciopero in un tripudio di clienti curiosi attirati proprio dall’evento e terminato con un successo straordinario di vendite.

Alla fine il grido di aiuto dei dipendenti commerciali, sfruttati con contratti precari a mille euro al mese ed anche meno era diventato un boomerang e si era riversato si di loro stessi, come in un circo dove si torturano animali per il piacere degli astanti.

L’episodio, però, era solo il preludio al cambiamento permanente, con il passare dei mesi, e nell’indifferenza generale dei sindacati tradizionali, i due soli giorni di chiusura all’anno diventano la normalità dappertutto, tranne ad Orio al Serio, dove la proprietà comunica ai negozi che, pena la rescissione dei contratti, dovranno aprire anche a Natale e Capodanno, portando a zero in un anno i giorni di chiusura del centro.

Ovviamente i primi a reagire sono stati i dipendenti, ma la cosa curiosa è che a non starci, questa volta, non sono solo loro, ma addirittura i titolari degli esercizi, a loro volta ricattati dalla proprietà che non farebbe mancare velate minacce di aumenti di canoni di locazione o rescissioni dei contratti.

In una circolare datata 17 novembre la proprietà del centro scrive:

Egregi Signori, alla luce delle notizie che sono apparse in questi giorni su diversi organi di stampa locale e nazionale riteniamo importante intervenire in ordine alle prossime imminenti aperture.

In Oriocenter, come tutti sappiamo, svolgono la propria attività ben 280 operatori. Abbiamo appreso che alcuni vostri dipendenti e collaboratori avrebbero aderito ad una raccolta firme di protesta promossa dal sindacato USB.

Per quanto il malcontento ci risulti molto più circoscritto rispetto alle oltre mille adesioni dichiarate dalle organizzazioni sindacali, ci sembra doveroso richiamare la vostra attenzione affinché, per quanto vi compete, provvediate ad attivarvi tempestivamente per gestire al meglio le criticità che potrebbero emergere”.

Secondo il sindacato di base USB, unico sindacato che si sta occupando attivamente del problema, questa lettera sarebbe la traduzione in parole cortesi di quanto affermato verbalmente, vale a dire che alla direzione non importerebbe come si dovranno organizzare i commercianti che dovrebbero, a questo punto, allontanare i dipendenti che si rifiutano di lavorare a Natale per assumerne altri più “flessibili” negli orari.

Per sensibilizzare la clientela al problema, USB ha avviato da un mese una campagna di informazione con un presidio stabile in prossimità dell’ingresso del centro spiegando ai clienti che anche i dipendenti commerciali hanno una loro vita, una famiglia e delle relazioni personali e non è giusto che siano costretti sotto ricatto a lavorare anche a Natale e Capodanno, da sempre festività intoccabili.

È proprio durante il presidio che sarebbe nata la raccolta di firme quale risposta dei dipendenti alla situazione, più di mille i consensi raccolti spontaneamente e già consegnati al prefetto ed alle autorità cittadine con la richiesta di non concedere l’apertura straordinaria del centro almeno in quei due giorni.

Che la battaglia sia importante lo certifica il fatto che vi sono già stati tentativi ben riusciti di distrazione, il giornale locale, l’Eco di Bergamo, che pubblica stabilmente la pubblicità del centro, ha più volte dichiarato che tutte le iniziative erano in capo ad altri sindacati, citando Fisascat Cisl, Filcams Cgil e Uiltucs Uil come promotori delle proteste, cosicchè si è da subito creata non poca confusione su quali fossero gli interlocutori che non hanno portato ad alcun incontro costruttivo fino ad ora, dato che quei sindacati, a detta degli attivisti USB, non sono ne presenti ne attivi presso il centro e nonostante i trafiletti di precisazione pubblicati a seguito delle loro proteste, nessuno sarebbe ancora riuscito a trovare una interlocuzione effettiva con la proprietà che dallo stesso giornale pubblicizza e conferma le nuove aperture.

Così, un’altra volta, una vicenda triste che affligge i lavoratori si sta trasformando un nuovo affare per la proprietà dello stabile che sfruttando la pubblicità che il caso sta creando e cercando di porre in conflitto tra loro le sigle sindacali, unite alla confusione informativa, si aspetta un grande successo di pubblico a discapito della vita delle persone che ci lavorano e dei titolari di negozi che dovrebbero decidere se tiranneggiare i dipendenti per poter continuare la loro attività in un centro commerciale che, comunque, riceve milioni di visitatori all’anno.

Proprietà che ricatterebbe i negozianti, che sarebbero a loro volta costretti a ricattare i dipendenti per non rinunciare alla posizione all’interno del centro e dipendenti costretti a rinunciare agli ultimi giorni di libertà festiva per mantenere un posto di lavoro precario e spesso mal pagato in un clima generale di disoccupazione, impoverimento e disinteresse generale ai problemi del lavoro.

Certamente non una bella prospettiva, nonostante le dichiarazioni di crescita citate costantemente dal governo.

Ma l’Orio Center, che ha inoltre appena raddoppiato la sua dimensione con un nuovo edificio, non è che un esempio della situazione generale, se consideriamo che ogni “innovazione” in termini di negazione di diritti viene immediatamente mutuata dappertutto, mentre gli esempi di ampliamento, quando ci sono, restano casi isolati, facendo si che anche le apertura, ora effettuate “solo” dalle 8 del mattino all’una di notte, potrebbero ampliarsi per effetto di un nuovo tunnel sotterraneo che collegandolo direttamente all’aeroporto di Bergamo, che si trova proprio di fronte a soli 100 metri, potrebbe persino aprire sulle 24 ore diventando il centro commerciale dell’aerostazione con zero ore di chiusura all’anno.

La soluzione, già ventilata, costringerebbe tutti gli esercizi ad organizzarsi in turni, piccoli o grandi che siano, e persino le catene di supermercati che altrove, invece, effettuano almeno le chiusure notturne dovrebbero adeguarsi sdoganando una volta per sempre l’orario continuato anche nei centri commerciali.

Purtroppo con la lentezza e la leggerezza dell’indifferenza sociale, queste modalità di lavoro stanno piano piano diventando la norma ovunque spostando i centri tradizionali di aggregazione sociale, coincidenti con i centri cittadini, nelle periferie dove i caroselli della domenica negli Outlet Village e nei centri commerciali sempre aperti, stanno facendo chiudere tutti piccoli esercizi uccidendo artigianato, commercio ed attività una volta stabili.

Anche il conteggio dei posti di lavoro non sembra essere favorevole, dato che a migliaia di posti di lavoro nei grandi centri si contrappongono altrettanto perdite di posti negli esercizi cittadini, spostando così solo le condizioni contrattuali che a favore delle nuove modalità vanno riducendo salari e diritti in una sorta di spirale perversa che non è mai stato chiarito se davvero faccia bene all’economia, ma che è certamente chiaro stia danneggiando le persone che lavorano.

Un’analisi che è volutamente superficiale ed approssimativa, è sufficiente uscire di casa ed anche senza essere un economista capace si realizza immediatamente che le lamentele delle persone sono generali e precarietà e vessazioni sembrano senza soluzione di continuità e senza prospettiva futura.

Cambiare, come sempre, è possibile, ma, come sempre, dipende da tutti noi, pubblicità e slogan ubriacano oggi più di ieri come una droga che, terminato l’effetto, ci fa ricadere nei problemi quotidiani irrisolti e persino peggiorati nel frattempo facendoci diventare obiettivo a nostra volta delle vessazioni cui ci eravamo disinteressati.

Dal canto mio darò, come sempre, solidarietà ai lavoratori della domenica e festivi NON andando a fare la spesa in quei giorni, basta un po’ di organizzazione, a Natale trascorrere la giornata con i parenti a casa non è una novità, si fa da migliaia di anni, quando i centri commerciali non esistevano nemmeno e se cominceranno a restare deserti spero non apriranno più in quei giorni.

In Italia ci sono migliaia di associazioni che difendono i diritti degli animali con passione e tenacia, possibile che con i lavoratori non si riesca a fare la stessa cosa?

Non abbandoniamo i lavoratori del commercio, ma nemmeno gli altri, come si fa con i cani sull’autostrada, adottare a distanza un commesso od una commessa si può, basta fare a Natale, Capodanno, Pasqua e tutte le domeniche quello che si è sempre fatto prima, dedicarle alla famiglia, gli amici, a passeggiare al mare, lago, montagna od ovunque si voglia, è più salutare per noi stessi, per la società e persino per le nostre tasche.

Pensare che quello che fanno oggi ad un altro lo faranno domani a certamente a noi è ormai diventato l’unico modo di poter fare ancora del bene a noi stessi, quando politica e mondo sindacale tradizionale sono distratti in altre faccende siamo costretti ad aiutare ad aiutarci.

Al contrario, continuare a voler credere che queste situazioni siano destinate ad “altri”, senza considerare che piano piano toccheranno anche noi, è miope e sbagliato, nel corso degli ultimi venti anni sono stati tolti o ridotti moltissimi dei diritti che avevamo negli anni ’70, ma un diritto è un diritto e non dovrebbe scadere mai in favore del mercato, per evitare che il mercato arricchisca impoverendo le persone.

OTTO ORE AL GIORNO SONO POCHE, LA GERMANIA VUOLE ABOLIRLE

DI PIERLUIGI PENNATI

Il nuovo mondo digitale incalza dappertutto, email e messaggistica ci seguono sempre e limitare la giornata lavorativa a sole otto ore di lavoro al giorno non è più attuale.

È il presidente del consiglio consultivo del governo federale, Christoph Schmidt, ad affermarlo al “Welt am Sonntag”, letteralmente “il mondo di domenica”, il più diffuso giornale tedesco del fine settimana, secondo il quale le aziende che vogliono continuare ad esistere nel nuovo mondo digitale dovrebbero essere agili e poter contattare il loro personale in fretta: “L’idea che una giornata inizi alla mattina in ufficio e finisca quando si lasciare l’azienda non è attuale” e suggerisce un allentamento allentamento delle ore di lavoro.

“Orari di lavoro più flessibili sono importanti per la competitività delle aziende tedesche”, continua, “Che ne dite se il tempo massimo di lavoro fosse determinato in futuro solo in una settimana invece che di un giorno?”

Le tutele dei lavoratori in Germania hanno dimostrato di essere efficaci, ma non sono più adatte per alcune aree del mondo digitale, “Quindi,”, secondo Schmidt, “le aziende hanno bisogno di avere la sicurezza di non aver agito illegalmente quando alla sera i dipendenti prendono ancora parte alle chiamate in teleconferenza e la mattina leggono la posta a colazione.”, questo non solo aiuta l’azienda, ma anche il personale, che con la tecnologia digitale potrebbe lavorare in modo più flessibile, anche se una maggiore flessibilità non significa necessariamente un prolungamento occulto delle ore di lavoro.

Una riforma delle legge sull’orario di lavoro è anche uno dei temi dei colloqui esplorativi della coalizione “Giamaica” tra CDU, FDP e Verdi a Berlino, i datori di lavoro hanno evidenziato già da tempo che limitare la giornata lavorativa ad otto ore non è più attuale, proponendo di lasciare solo il limite delle ore settimanali massime esistenti, nelle attuali 48, e riducendo il periodo di riposo tra due giorni lavorativi da undici a nove ore.

Questo favorirebbe la produttività a parità di impegno, ma i sindacati non sono d’accordo, ritengono che questo sia un primo passo verso un prolungamento nascosto delle ore di lavoro complessive: come contabilizzare l’attività che non si svolge in ufficio?

La flessibilità finirebbe per rendere disponibili le persone ad ogni ora del giorno e della notte, mentre in Germania ancora resiste il principio del Feierabend e Feiertag, vale a dire della “sera festiva” e “giornata festiva”, quasi in modo sacrale alla sera ed alla domenica non si lavora, tanto meno durante i giorni festivi repubblicani e religiosi.

Questo tempo è dedicato alla famiglia, agli amici, al divertimento, al riposo, al punto che da alcuni anni grandi aziende, come la Daimler, avevano persino introdotto il divieto di leggere le mail aziendali nel fine settimana, ora, nel nome del progresso e della connettività, si vuole cambiare abitudini, finendo per stravolgere la vita delle persone.

Visto da noi sembra assurdo e ridicolo, tanto siamo abituati ad andare al centro commerciale la domenica ed a rispondere alle email la sera ed persino a Natale, in Germania, invece, sanno che le consuetudini sbagliate sono dannose, alla fine le aziende ottengono la disponibilità 24 ore su 24 del proprio personale senza costi aggiuntivi e, in alcuni casi, persino riducendone i costi, come nei casi di produzioni senza interruzione o distribuite su turni di lavoro, che ottengono la disponibilità dei lavoratori senza corresponsione di indennità di reperibilità, per esempio, costringendo le persone a nascondersi dall’azienda per non essere richiamati, dovendo persino inventare scuse se non sono stati disponibili gratuitamente durante il loro tempo libero.

La globalizzazione ha consegnato nelle mani degli analisti i dati sulle abitudini delle persone, questi stessi dati sono mutuati di nazione in nazione, non per rispettare la libertà e la dignità umana, ma per carpirla a favore di un progresso che finirà per distruggere l’uomo a favore dell’economia.

Quando l’attenzione per la persona non è più al centro del processo di lavoro, ma ne diventa solo un elemento da sfruttare il più possibile, l’uomo perde la sua dignità e non ha più alcun valore, riducendo la propria esistenza al nulla.

Seguendo questo principio in Svezia stanno già da tempo praticando le 6 ore di lavoro al giorno in moltissime aziende, perché, secondo i datori di lavoro che applicano questa riduzione, lavorando di meno si produce di più e meglio, si hanno impiegati ed operai più motivati, meno stressati e che commettono meno errori produttivi, dato che le persone sono prima “esseri umani” che semplici “lavoratori”.

Il limite di otto ore al giorno fu una delle grandi conquiste seguite agli anni bui della rivoluzione industriale, quando gli orari di lavoro degli operai erano mediamente da 13 a 15 ore giornaliere, giungendo alla prima convenzione approvata dall’International Labour Organization nel 1919.

La convenzione, sottoscritta nel 1921 e mai emendata, è tuttora vigente e prevede che ad eccezione delle posizioni manageriali e di supervisione, sia nel settore pubblico che in quello privato vi sia un doppio limite massimo alle ore lavorate, tassativo e inderogabile, di 8 ore giornaliere e 48 ore settimanali.

Accordi sindacali, possono però derogare ai limiti con un massimo di un’ora giornaliera “a recupero” e, in ogni caso, la media di ore rilevata nell’arco di 3 settimane consecutive di lavoro deve essere pari a 8 ore/giorno e 48 ore/settimana, con il vincolo di un massimo di 9 ore/giorno.

Distratti dalla tecnologia, l’informazione spazzatura e le continue emergenze in tutti i campi sociali siamo oggi così abituati a deridere quello che ci succede di male da non ricordare il nostro passato, il perché esistono alcuni limiti e diritti e non riusciamo più a vedere il nostro futuro con la mente libera.

Speriamo che almeno in Germania il riposo, sia esso della sera che dei giorni festivi, possa restare sacro, come lo è sempre stato, per molto tempo ancora: non sempre il “progresso”, specie quello tecnologico, fa bene alla salute, alla libertà ed alla dignità dell’uomo.

NELLA POLITICA TEDESCA IL POSSIBILE FUTURO DI QUELLA ITALIANA

DI PIERLUIGI PENNATI

Il fallimento delle trattative in Germania per la formazione del nuovo governo spaventa la nazione, la possibilità di nuove elezioni e dell’ingovernabilità del paese non è mai stata sperimentata e certamente non è una modalità che piace ai tedeschi, sempre previdenti e sobri nelle loro scelte.

I negoziati tra la CDU, CSU, FDP e Verdi avevano come traguardo le 18:00 di ieri 19 novembre 2017, i liberali, però, a seguito delle difficili trattative per mediare tutte le differenti posizioni politiche, hanno deciso di ritirarsi dai colloqui: “È meglio non governare, che governare in modo sbagliato”, ha detto il leader FDP Christian Lindner.

Il blocco delle trattative allontana così per il momento il quarto mandato per Angela Merkel che si trova incastrata nella crisi politica più grave dei suoi ultimi dodici anni e che ha mandato in confusione la situazione politica tedesca dopo solo otto settimane dalle elezioni generali.

Gli analisti tedeschi sostengono che Angela Merkel potrebbe anche formare un governo di minoranza, ad esempio con FDP e Verdi, ma anche la cancelliera ammette che sarebbe difficilmente governabile.

Una situazione che nella nostra nazione non poteva essere generata quando le forze di destra e sinistra si tenevano tradizionalmente a distanza tra loro, in Germania, invece, la separazione non è mai stata così netta consentendo alle Grossekoalition del passato di godere di un clima di relativa collaborazione dove solo i forti estremismi restavano davvero all’opposizione, mentre il resto della politica pensava al progresso della nazione.

Ora, in uno scenario internazionale sempre più confuso nel quale le differenti anime sociali un po’ dappertutto non sono più così nettamente suddivise tra loro e l’incalzare generale di reazioni populiste dell’elettorato, esasperato anche dalle scelte economiche dei governi che fanno sembrare il rischio impoverimento generale sempre più vicino, le differenze di opinione si sono accentuate e non è più sufficiente una politica generalizzata, servono interventi mirati e riforme strutturali precise, per le quali i partiti politici sempre meno disposti alla mediazione, così anche nella ultra-stabile Germania la crisi della politica si fa sentire.

In Italia, dopo l’approvazione del Rosatellum sul quale pendono già due ricorsi alla Corte Costituzionale e che potrebbe fare anch’esso la fine del Porcellum, è già altrettanto chiaro che il dopo elezioni potrebbe essere altrettanto confuso, infatti nel misto maggioritario-proporzionale, ma più proporzionale che maggioritario, previsto dalla legge, sarà possibile per gli eletti muoversi in modo indipendente dai presupposti pre-elettorali, se necessario, tradendo persino le promesse della campagna e permettendo, per assurdo, la formazione di un governo di bugiardi pinocchi.

Alla fine la legge elettorale italiana finisce solo per favorire le coalizioni, cosicché i partiti che si riuniscono in coalizioni sanno già che dopo il voto, se eletti, dovranno comunque ridiscutere gli eventuali programmi ed accordi di governo pre-elettorali perché nessuno di loro otterrà la maggioranza assoluta in parlamento e quindi quando discusso e detto in campagna elettorale dovrà comunque essere rivisto alla luce dei nuovi possibili partner.

Tanto valeva ritornare al proporzionale secco previsto dalla prima versione della nostra Costituzione.

Quindi, il risultato elettorale sarà probabilmente che, come in Germania, per governare si dovranno trovare mediazioni che concedano ad ogni partecipante al governo di perseguire il proprio programma, almeno in parte, in altre parole potrebbe aprirsi una stagione di ricatti e forzature come mai prima.

Mentre da noi sembra che si continui a gestire il solo presente con la memoria del pesciolino rosso che si resetta ad ogni giravolta, il tradizionalmente pragmatico popolo tedesco è spaventato da elezioni anticipate che potrebbero gettare la nazione nel caos ancora maggiore.

Siamo stati abituati al “governare a qualunque prezzo”, facendone pagare i costi alle classi sociali più deboli, ora nella grande Germania c’è un problema serio e non così distante da noi, sarà interessante vedere come sarà risolto, se sarà risolto, perché quello potrebbe essere anche il nostro destino, sempre che i parlamentari italiani sappiano essere altrettanto pragmatici.

GLI SCIOPERI PORTANO PROGRESSO SOCIALE. VIETATO VIETARLI

DI PIERLUIGI PENNATI

Lo sciopero è la più antica forma di lotta dei poveri conosciuta al mondo: chi non ha nulla può solo smettere di lavorare.

Lo sciopero non è divertente, chi sciopera ci rimette dei soldi, quindi fa una rinuncia certa che, unita allo stato di necessità, inquadra precisamente il problema.

Negli ultimi anni, invece, i poteri forti, quelli dei cosiddetti “padroni”, gli industriali e le banche, ci hanno abituato a pensare che chi sciopera si diverte a torturare i cittadini, soprattutto nei trasporti, dove ricchi lavoratori scioperano per ottenere benefici ancora più grandi ed ingiusti.

Beh, non è così: chi sciopera fa un sacrificio per uno scopo sociale preciso.

Il primo sciopero della storia di cui si abbia notizia si verificò intorno al 1150 a.C., alcune fonti dicono 1165, altre 1152, comunque oltre tremila anni fa, quando, nell’antico Egitto durante il regno di Ramses III, gli operai del villaggio di Deir el-Medinet, addetti alla costruzione dei templi di Tebe, incrociarono le braccia, al grido di “Siamo già al 18 del mese e abbiamo fame!”, a causa del ritardo nel pagamento della paga, ai tempi effettuata in derrate alimentari, grano, pesci, legumi e per la mancata consegna di unguenti necessari a proteggersi dal sole e dal clima secco del deserto.

Lo sciopero durò alcuni giorni, terminando solo quando il dovuto fu interamente consegnato ed ottenendo la creazione di organi di controllo per assicurare la paga in futuro.

Un grande successo, dunque, a costo di sacrifici che hanno portato ad un beneficio collettivo.

Oggi le cose non sono cambiate e lo sciopero continua ad essere l’unica arma disponibile in possesso dei disperati, che hanno solo l’alternativa della rivoluzione armata, come avvenne in Russia nel 1917 a seguito  dei primi scioperi a febbraio nelle Officine Putilov che portarono in qualche mese alla rivoluzione di ottobre, esattamente 100 anni fa.

Combattere o limitare lo sciopero, quindi, significa togliere l’unica arma nelle mani dei poveri, lo sanno bene i potenti ed governi, per questo fanno di tutto per evitarlo o renderlo inefficace.

Il primo sciopero generale in Italia è stato nel settembre 1904, ed anche in epoca fascista, dopo la salita al potere nell’ottobre del 1922 di Benito Mussolini, il più giovane caso di governo dopo Matteo Renzi nella storia dell’Italia unita, ci sono stati degli scioperi così importanti che il Duce sentì la necessità, il 3 aprile 1926, di promulgare una legge, la numero 563, per impedire una nuova insorgenza di fenomeni di ribellione sociale al suo regime.

Questa legge, contenente in modo più ampio la “Disciplina Giuridica Dei Rapporti Collettivi Del Lavoro”, proibì lo sciopero e la serrata commerciale e stabilì che soltanto i sindacati “legalmente riconosciuti”, vale a dire quelli fascisti che già detenevano praticamente il monopolio della rappresentanza sindacale dopo la conclusione del Patto di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925 fra la Confindustria e le corporazioni fasciste, potevano stipulare contratti collettivi ed indire controversie collettive, non senza, però aver cercato prima un tentativo di conciliazione, riducendo i conflitti ad un fatto meramente amministrativo e giuridico.

Situazione non tanto distante da quanto si sta tentando di ristabilire progressivamente oggi a suon di leggi restrittive, tanto è vero che il giornalismo disinformato parla spesso di “sindacatini non rappresentativi” e la giurisprudenza, nonostante la Costituzione Italiana citi all’articolo 39 “L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge”,   ha ormai consolidato la condizione che per poter operare il sindacato deve avere iscritti pari ad almeno il 5% dei lavoratori del comparto o dell’azienda cui si riferisce. La legge voluta da Mussolini prevedeva il 10%.

Inoltre, nonostante lo sciopero fosse vietato, Mussolini aveva previsto che anche eventuali azioni sindacali alternative dovessero prima aver visto un tentativo di “risoluzione amichevole della controversia, e che il tentativo non sia riuscito”, vale a dire esattamente la “procedura di raffreddamento dei conflitti” che oggi viene imposta obbligatoriamente ed in ben due distinte fasi che fanno perdere a chi protesta almeno un mese dall’apertura formale della vertenza, rendendo comunque inefficace almeno la sua tempestività.

Quindi: riconoscimento giuridico, conciliazione preventiva e limitazione, o persino divieto, di sciopero, sono da sempre il fondamento della repressione sui lavoratori, specie i meno abbienti che non altro altri strumenti.

Evidentemente deve essere questa la ragione per cui ci si accanisce ancora oggi contro chi sciopera, spiegando tramite i media disinformati, come avvenuto il 10 novembre per lo sciopero generale del sindacato USB, che chi sciopera è sempre “qualcuno dei trasporti” che infastidisce chi “lavora onestamente”, che chi proclama sono sindacati “non rappresentativi” dal nome impronunciabile e con “motivazioni non comprensibili”, futili o marginali creando disagio strumentalmente.

La verità, invece, era che lo sciopero era generale, gli scioperanti non erano disonesti, che la rappresentatività sindacale è un parametro oggettivo che proprio i sindacati considerati “rappresentativi” non vogliono svelare per non sfigurare, che i nomi dei sindacati non devono necessariamente seguire slogan o regole accattivanti di mercato e che le erano il dannoso Jobs Act, la manovra economica che chiede altri sacrifici, gli interventi di ulteriore riduzione sulle pensioni e la continua precarizzazione dei contratti di lavoro.

Propaganda e/o disinformazione che vanno a braccetto e/o si coalizzano in una sorta di moderno Istituto per l’Unione Cinematografica Educativa, detto anche LUCE in epoca fascista, che dice solo quello che piace al regime o al popolo.

Ma in anni in cui le code agli Apple Store per i nuovi modelli sono interminabili mentre ai seggi elettorali si registra il deserto degli elettori non ci si può aspettare di meno: la storia ci dice che proprio miseria, rabbia e frustrazione, unite all’assenteismo al voto, hanno favorito l’ascesa al potere di Adolf Hitler in Germania dopo la Prima Guerra Mondiale, non siamo in quelle condizioni, spero, ma certamente non possiamo trascurare lo stato sociale in favore di un’economia che ci sta schiacciando e se oggi togliamo ai poveri l’unico strumento di lotta che possiedono, stiamo facendo male non solo a noi stessi ma anche ai nostri figli, condannandoli ad una vita futura di schiavitù sociale, come quella prevista con un realismo sorprendente da Orwell nel 1948.

La stampa dovrebbe informare correttamente e se non lo fa possiamo difenderci solo cercando altre notizie e verificarne le fonti, costa fatica, ma è necessario: gli scioperi hanno portato progresso e benessere negli anni della crisi del dopoguerra, istituendo diritti dove non ve n’erano ed introducendo benefici sociali e welfare state, oggi il processo innescato è esattamente l’opposto, si comprime il diritto di sciopero per poter mantenere i tagli ai diritti ed allo stato sociale.

Non cadiamo in questa trappola, non lasciamoci influenzare da poteri economici che non considerano più la dignità e le persone, diamo forza al diritto di sciopero e diamo solidarietà a chi, in tempi di crisi e precarietà, rinuncia ad una parte del già sempre più magro salario e rischia il posto di lavoro per poter sopravvivere ancora e dare un futuro ai propri figli.

“Ribaltiamo il tavolo”, “riprendiamoci tutto”, erano i temi dei due ultimi congressi del criticato sindacato USB passati in totale silenzio stampa, ma sono, purtroppo, parole d’ordine sempre più attuali e necessarie.

SALARIO MINIMO IN SVIZZERA CONTRO GLI IMPRENDITORI SENZA SCRUPOLI

DI PIERLUIGI PENNATI

Imprenditoria senza scrupoli e continua compressione dei salari che rende difficile e poco dignitosa la vita ai lavoratori ed alle loro famiglie, sembra di parlare della nostra nazione, invece siamo in Svizzera dove per combattere la situazione di “dumping salariale” i cittadini hanno deciso di affidarsi alla legge e fissare un salario minimo.

Il problema esiste in tutte le nazioni: si tratta della soglia di reddito al di sotto della quale non si riesce a vivere dignitosamente o, addirittura, si può essere considerati poveri.

Per risolvere il problema, normalmente, non si fa nulla, la soglia di povertà ed il valore del lavoro sono quasi sempre semplici dati statistici, se non guadagni abbastanza sei in una o nell’altra fascia, in Svizzera, invece, per combattere la svalutazione del mercato del lavoro umano si sono posti il problema per tempo ed i Verdi, con un’iniziativa appoggiata dai Socialisti e dalla Lega, nel 2015 hanno ottenuto il 54% dei consensi dell’elettorato ticinese in un referendum popolare da loro promosso ed ora il governo si è mosso di conseguenza.

L’obiettivo dichiarato dai promotori era “salvare il lavoro in Ticino e lottare contro il dumping salariale” e per questo avevano lanciato il referendum propositivo, impossibile in Italia dove le leggi le fa solo il Parlamento e con i referendum si possono solo abrogare norme esistenti, immediatamente capito dalla popolazione e vinto con un margine positivo ritenuto ampiamente soddisfacente.

Il leader dei Verdi, Sergio Savoia, aveva esultato affermando “Per la prima volta inseriamo, nella Costituzione, il diritto al salario dignitoso”, raggiungendo lo scopo sociale di porre un limite minimo al mercato del lavoro ticinese nei settori in cui mancano i contratti collettivi o questi non sono applicati.

Il fenomeno originava dalla disponibilità di mano d’opera, frontalieri italiani per lo più, approfittando della quale imprenditori con meno scrupoli proponevano salari inaccettabili, per il costo della vita dei residenti, tra questi un caso limite portato in campagna referendaria quello di un’azienda di trasporti di Stabio, cittadina sul confine con la nostra nazione, che pagava gli autisti frontalieri be 500 euro in meno di quelli residenti in Svizzera.

Forse, da noi si sarebbe accolto il fenomeno come concorrenza che fa bene al mercato, in Svizzera, invece, si sono chiesti come le persone possano sopravvivere dignitosamente con salari inadeguati e sono corsi ai ripari, così oggi è stato stabilito dal governo ticinese che per una vita dignitosa pagando le tasse, in Svizzera occorre possedere un salario minimo di poco superiore ai 19 franchi all’ora, che su base mensile fanno all’incirca 3.000 euro.

In effetti il problema è molto serio, il continuo accettare salari sempre più bassi, da parte di lavoratori in competizione per la propria sopravvivenza, ha già portato molte famiglie in Italia sotto la cosiddetta “soglia di povertà”, rendendo quasi impossibile mantenersi con una sola entrata e sempre più spesso nemmeno lavorando in due.

Il salario minimo diventa quindi un parametro di civiltà, che rende inaccettabile per uno stato tollerare offerte di lavoro a valori inferiori alla soglia che trasforma il lavoro in sfruttamento.

In Ticino, però, anche il salario minimo per legge scontenta comunque molte categorie, dato che la contrattazione collettiva già si attesta intorno ai valori oggi fissati per legge ed in quella nazione 3000 franchi non sono poi così tanti per vivere, con il risultato di non spostare di molto il problema nell’immediato, in Italia, invece, la discesa dei salari ha già superato in molti settori la soglia minima di dignità, incentivando datori di lavoro con sempre meno scrupoli ad assumere a personale a prezzi sempre più bassi e costringendo i nostri figli ad emigrare in nazioni dove il lavoro garantisce ancora una propria vita dignitosa.

Secondo i rappresentanti del mondo economico svizzero, il salario minimo riguarderà solo 9100 persone, di cui 6500 frontalieri, mentre metterà in difficoltà “aziende, commerci, piccole attività artigianali che hanno margini di guadagno sensibilmente inferiori e che sono sottoposte a forte competitività”, Verdi e Socialisti, promotori dell’iniziativa, ritengono invece che la cifra decisa dell’esecutivo sia ancora troppo bassa sottolineando che il Ticino è “il Cantone con il più alto tasso di povertà della Svizzera”.

Il salario minimo sarebbe quindi un baluardo contro la povertà che forse, se istituito anche da noi, potrebbe evitare il costoso ed improduttivo “reddito di cittadinanza”, chiesto dai cinque stelle, e gli altri fino ad ora infruttuosi provvedimenti per contrastare povertà e disoccupazione, riavviando e riqualificando quello che ormai sembra somigliare sempre più ad un mercato degli schiavi che al quello del lavoro.

IL SINDACALISTA È UN CRIMINALE DA ARRESTARE

DI PIERLUIGI PENNATI

Perlomeno questa sembra la tesi che ha portato l’azienda GLS di Piacenza a denunciare tre sindacalisti del sindacato di base USB per i reati di cui agli artt. 56, 110, 629 del Codice Penale, vale a dire tentativo di estorsione in concorso tra di loro, come si legge nell’invito ad apparire per un interrogatorio della Procura delle Repubblica, “al fine di conseguire un ingiusto profitto patrimoniale, quali rappresentanti della sigla sindacale USB, nonostante fossero in corso trattative con funzionari della società General Logistic System Entrerprise S.r.l. aventi oggetto richieste di assunzione di personale precedentemente dipendente della Cooperativa Falco, mettevano in atto azioni di sciopero incidenti sulla regolare attività lavorativa non riuscendo comunque nel loro intento per la resistenza della società”.

L’azienda ed il luogo sono gli stessi dove un anno fa veniva ucciso, schiacciato da un TIR, durante un picchetto l’attivista sindacale Abd El Salam, la vertenza ancora una volta per la stabilizzazione di lavoratori precari che attraverso il sistema dei subappalti vengono vessati, sfruttati e sottopagati per contenere i costi senza la minima considerazione per la sicurezza e la dignità dei lavoratori, costretti ad accettare condizioni sempre più difficili per poter continuare a lavorare.

Una vertenza come ormai ce ne sono tante in Italia e tutte con le stesse ragioni di fondo: la lotta alla precarietà ed alla negazione dei diritti della persona sul posto di lavoro, situazione ormai diventata insopportabile in molti ambienti, soprattutto quelli della logistica e dei lavori dove la componente umana è la parte principale, come quelli di fatica e manutenzione.

Per contrastare la situazione e sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema della dignità e dei diritti del  lavoro negati, il sindacato USB ha proclamato da tempo uno sciopero generale per venerdì 10 novembre ed una manifestazione nazionale per sabato 11 novembre, ma questo atto di denuncia di un’azienda nei confronti di sindacalisti scesi in campo non per interesse personale, ma per difendere i diritti degli iscritti è davvero sconcertante ed inaudito.

In una nazione moderna e civile, un simile atto dovrebbe essere deriso ed abbandonato tramite archiviazione, al contrario una magistratura sempre zelante in queste occasioni prende molto sul serio una denuncia di estorsione per aver organizzato uno sciopero ed un picchetto che avrebbero inciso “sulla regolare attività lavorativa” dell’azienda, elemento che pare oggi più importante e considerato persino della vita umana.

Contro l’azienda che vessa e sfrutta i lavoratori nulla.

Già, nulla si può fare legalmente contro chi, per il profitto, comprime diritti e libertà delle persone abusando dello stato di necessità ormai generale, mentre, al contrario, chi tenta di difendere i diritti negati della persona e del lavoro è oggi diventato un criminale da perseguire.

I tre sindacalisti, M.R., R.Z. e I.A., saranno quindi sentiti il 15 novembre da un magistrato che spero voglia non solo archiviare il procedimento nei confronti dei funzionari, ma avviare una procedura di verifica per il comportamento di una azienda che, facendo perdere tempo e denaro all’apparato dello stato, denuncia senza ragione e fondamento apparente tre persone la cui grave colpa è solo quella di cercare di ripristinare un equilibrio di civiltà nel nostro paese.

Se lo sciopero non incidesse “sulla regolare attività lavorativa” delle aziende non sarebbe uno sciopero e se oggi scioperare non è più nemmeno un diritto, come indicato nell’articolo 40 della nostra costituzione, perché “le leggi che lo regolamentano” sono diventate così restrittive da impedirne l’esercizio, dovremmo almeno combattere affinché perlomeno non diventi un reato, come sembra essere nelle intenzioni della GLS di Piacenza ed al vaglio delle indagini dei magistrati.

Forza M.R., R.Z. e I.A., una vostra incriminazione sarebbe davvero uno scandalo e spero sarete scagionati in fretta: confido nella giustizia quando sa essere umana, di una giustizia disumana non so che farmene.

FRATELLI D’ITALIA IN AFFITTO A 13 EURO AL MESE

DI PIERLUIGI PENNATI

«La concessione è scaduta dal 1972, non pagavano l’affitto», questo quanto annunciato su Facebook da Virginia Raggi dopo che, qualche ora prima, verso le 5 del mattino di sabato scorso, i vigili urbani avevano cambiato la serratura e messo i sigilli alla storica sede del Movimento sociale di Colle Oppio.

Il locale, secondo il comune occupato oggi abusivamente da Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, sarebbe angusto e poco più di un magazzino senza finestre, più un luogo simbolico per il movimento che una vera sede e per il quale, nonostante il contratto scaduto da 45 anni, veniva comunque autonomamente versato nelle casse comunali un canone mensile di 13 euro al mese.

In una corrispondenza di qualche tempo fa con il comune di Roma, si stimava in 990 euro la cifra idonea per la sottoscrizione di un nuovo contratto, ma Fratelli d’Italia, facendo notare la situazione di degrado dell’immobile, l’aveva contestata proponendo al suo posto un massimo di 250 euro.

I dirigenti di Fratelli d’Italia Federico Mollicone, Marco Marsilio, Andrea De Priamo e Massimo Milani, che si erano riuniti in protesta davanti alla storica sede del Movimento Sociale dopo la scoperta dei sigilli, hanno esibito i bollettini dei canoni versati e lamentato la mancata risposta del Comune, per loro non sarebbe un caso se la Raggi «tra tutte le occupazioni presenti a Roma, proprio qualche giorno prima delle elezioni di Ostia, dove la sua candidata sta perdendo, manda i vigili urbani nella sede di Fratelli d’Italia. Avrebbe potuto farlo tre mesi prima o tre mesi dopo, invece ha scelto il periodo elettorale».

«Denunciamo Virginia Raggi per diffamazione e abuso di ufficio. Se abbiamo resistito alle bombe e alle Brigate rosse, resisteremo anche a questi cialtroni», hanno affermato, ma, su Facebook, Rosalba Castiglione, assessore al Bilancio M5S, difende il provvedimento: «Siamo determinati ad andare avanti per porre fine allo scempio gestionale di cui il patrimonio immobiliare romano è stato vittima. Una situazione incancrenita che, come questo caso testimonia, affonda le sue radici anche in  tempi altro che recenti. La strada è lunga, ma siamo decisi ad andare fino in fondo per ridare dignità e trasparenza all’utilizzo della proprietà pubblica dei cittadini romani».

Anche Giorgia Meloni usa Facebook per rispondere e pensando ad una manovra di propaganda della sindaca di Roma, scrive: «Chi, a differenza di Virginia Raggi, conosce Roma e il parco del Colle Oppio sa bene che quei locali sono dei semplici ruderi, senza alcuna possibilità di utilizzo a uso commerciale o abitativo e che la presenza della sezione è l’unico argine a un desolante degrado fatto di sporcizia, violenza e criminalità che affligge tutta la zona. Problemi seri e reali come quelli che vive gran parte di Roma e che il Movimento 5 Stelle non è in grado di affrontare».

Anche Fabio Rampelli, capogruppo FdI alla Camera, scende in campo, affermando che questa particolare sede avrebbe una valenza storica cittadina e non solo per la destra, dato che proprio qui si svolse una importante iniziativa anti razzista alla quale partecipò anche monsignor Di Liegro e che a questi luoghi sono legati alcuni dei giovani di destra uccisi negli anni di piombo, come Paolo Di Nella e Stefano Recchioni.

Contro la Raggi parole durissime: «ora gli uomini liberi scendano in campo per fermare il sindaco più cialtrone che abbia mai avuto Roma. Colpire la sede simbolo della destra italiana, a quattro giorni dal voto, è un atto di violenza inqualificabile che meriterebbe l’interdizione per incapacità e malafede. Nessuno lo avrebbe mai fatto, segno evidente che sta alla canna del gas».

Quindi per il comune FdI occuperebbe praticamente in modo clandestino la storica sede da ben 45 anni, mentre per Federico Mollicone, presidente del circolo di FdI-AN Istria e Dalmazia di Colle Oppio, «La sindaca Raggi non sa neppure comunicare con i suoi uffici. La morosità per la locazione dei locali di via Terme di Traiano, una sede strappata all’incuria da un manipolo di esuli giuliano dalmati nel 1946 quando era solo un rudere e sempre rimasta una bandiera per tutta la destra italiana, non esiste e siamo anzi nella fase di sottoscrizione di un nuovo contratto, come richiesto ufficialmente con lettera senza risposta mesi fa».

«Si colpisce la storica sede di Colle oppio», continua, «luogo di aggregazione sociale e culturale che ha visto la presenza di tanti avversari rispettosi e personalità di altissimo profilo, su tutti il compianto direttore della Caritas Monsignor Lui Di Liegro, per colpire FDI AN e Giorgia Meloni, facendo un uso vergognoso e delinquenziale del potere. Si tollerano centinaia di occupazioni illegali da parte dei centri sociali, centinaia di moschee abusive e si colpisce Colle Oppio, la prima sede del MSI in Italia».

Una guerra senza esclusione di colpi, tra clandestini o pseudo tali, dove ad ogni provvedimento si trova una ragione per combattere senza per questo trovare soluzioni comuni e condivise e che valgano per tutti, se non volgiamo avere clandestini è nostro dovere uscire a nostra volta dalla clandestinità, è quindi auspicabile che la vicenda possa concludersi con un provvedimento generale e non con una soluzione “Ad hoc” come spesso accade.

IL TRENO (DEL) BOMBA

DI PIERLUIGI PENNATI

C’è un treno che circola da qualche giorno con “Destinazione Italia”, si tratta di un treno a bordo del quale Matteo Renzi, detto da giovanissimo il Bomba, ha pianificato un giro d’Italia per sostenere la sua campagna elettorale.

Dopo pullman, roulotte, motorini ed altri mezzi, cosa ci sarà mai di strano nell’usare un treno?

Nulla, la stranezza risiede nel fatto che si tratti di un treno fantasma, o quasi, infatti nessun organo di stampa ufficiale o sovvenzionato dallo stato ne parla, se non liquidando la cosa con frasi di repertorio, le “grandi” ed affidabili testate si limitano ad informazioni su come è dipinto il treno e la data di partenza da Roma, il 17 ottobre, nessun programma, nessuna data di arrivo e località toccate, nessuna informazione precisa, nulla.

Solo ANSA, in modo davvero ardito, parlando della tappa di Reggio Calabria del 24 ottobre, si spinge ad un “Fuori dalla stazione c’erano ad attenderlo sostenitori, ma anche un gruppetto di contestatori di Fratelli d’Italia e vigili del fuoco precari”.

Sono invece i blog personali e la piccola stampa indipendente che riportano numerosi video e notizie di contestazioni accese, Imola Oggi, sulla stessa notizia di ANSA titola: “Matteo Renzi in fuga dalla stazione di Reggio Calabria. Non ha salutato neanche gli amici del Pd che lo stavano aspettando”; YouReporter, il giornale fatto dagli utenti, mostra video con insulti e risse all’arrivo del convoglio sia a Reggio che in altre stazioni, persone apparentemente normali, non gruppi organizzati, cittadini sparsi che accorrono alla stazione solo per poter insultare Renzi al suo arrivo in treno.

Anche Libero non è tenero e titola “Matteo Renzi, Destinazione Italia: a ogni tappa del suo tour in treno piovono insulti”, nell’articolo si sostiene che sia stata una “Pessima scelta, quella del tour su rotaia. Già, perché come detto, ogni volta che mette piede giù dal convoglio si scatena una gazzarra disumana: l’ex premier, non lo vuole nessuno.”

Ma questa è solo la realtà della cronaca, in verità non si tratta solo della scelta del mezzo, il treno, si tratta di troppe promesse già non mantenute e di troppi provvedimenti assunti dal governo in antitesi con quella “giustizia sociale” proprio dallo stesso Renzi invocata durante le primarie del suo partito e poi dimenticata in fretta una volta preso il potere.

Il Fatto Quotidiano, più accanito, scopre persino che nessuno sa bene dove il treno andrà e si fermerà: “Pd, il treno di Renzi viaggia in incognito: per evitare proteste e insulti a ogni fermata si cancellano programma e date”, “insulti e proteste nelle stazioni lo staff cambia programma e decide di non divulgare più le tappe, sottraendo il segretario alle imboscate di chi non gradisce la sua passerella lungo i binari. Neppure l’organizzazione del Pd sa dove e quando ferma il treno. E passa la palla alle Fs, che a sua volta la ripassano al partito”.

Un flop enorme, dettato dalle politiche del primo governo Renzi e del secondo Gentiloni che, fingendo indipendenza, cerca di limitare i danni fatti fino ad ora e lavare la faccia di un partito che, dopo la colonizzazione di chi è stato “educato alla passione per la politica nel nome di Zaccagnini”, ex Deputato Costituente e segretario DC, e la fuoriuscita degli esponenti storici del partito quando era ancora di sinistra, nella sua sigla ha ancora PD, ma più che Partito Democratico sembra indicare Poltrone e Divani, quelle poltrone e divani che nonostante il sempre più ampio dissenso si vorrebbero ora mantenere superando le prossime elezioni.

Ma che sia con il Rosatellum od un’altra legge elettorale, andremo finalmente al voto, un giorno, ed in quel momento il voto utile degli italiani sarà il voto espresso.

L’astensionismo degli ultimi decenni ha portato all’attuale situazione, quindi se davvero in Italia vogliamo cambiare facciamo una cosa utile, andiamo tutti a votare.

Qualunque esso sia è solo con un voto ampio e partecipato che si potranno stabilire di nuovo delle vere maggioranze in grado di cambiare in meglio il nostro paese: l’astensione è amica dei regimi totalitari, la partecipazione della democrazia e della libertà.

VOGLIO UN’ITALIA SOLA

DI PIERLUIGI PENNATI

Subisco passivamente un fiume di idiozie sui referendum della lega, possibile che esistano così tanti disinformati?

Luoghi comuni, battute, sciocchezze di ogni genere, nessuno che ammetta che per una volta la Lega, che non avrà comunque il mio voto, è riuscita a puntare il dito esattamente e legalmente sul problema.

Persino l’Europa lo ha scritto nel rapporto sull’Italia approvato settimana scorsa: alla nostra nazione servono più autonomie.

Ma già, “lo chiede l’Europa” vale solo quando fa comodo…

Comunque il problema lo conoscono tutti e tutti lo lamentano, dove finiscono i nostri soldi?

Gestioni più oculate permetterebbero maggior controllo, le autonomie, previste dalla nostra costituzione, sono un metodo, se ne esistono altri fatevi avanti, io sono per l’abolizione di tutte le autonomie o per l’istituzione di tutte quelle mancanti, perche la Sicilia si e la Lombardia no?

Siamo tutti italiani, voglio un’Italia sola e non tante italiette, uno stato, una legge.

IN ITALIA NON SI MUORE ABBASTANZA

DI PIERLUIGI PENNATI

Questa la frase attribuita al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e poi da lui smentita: “Gli italiani muoiono troppo tardi e ciò incide negativamente sui conti dell’Inps”.

La battuta sarebbe stata infelice e per molti verosimile, dato che mostra un ministro insensibile e cinico come sembrano essere gli amministratori negli ultimi tempi, ma la realtà è, se possibile, ancora più dura, infatti l’amministratore pubblico che fa quadrare i conti in modo coerente oggi è visto come colui che non tiene più conto di altri fattori, persino la vita umana.

È per questo che non ci stupiamo, la matematica non è un’opinione e non ammette errori, i numeri sono da sempre asettici e fini a se stessi, un ministro che dicesse questo, quindi non commetterebbe nessun errore e nessuna caduta di stile: avrebbe solo evidenziato quale sia il posto reale riservato alla vita ed alla dignità umana dal sistema economico dal mero punto di vista matematico, cioè nessuno.

Reduci dal conflitto mondiale e dal fascismo i padri della nostra patria hanno scritto un documento, la nostra Costituzione, che conteneva i principi fondamentali per la vita e la dignità delle persone nella nostra repubblica, diritti del singolo e doveri reciproci, tutti valori imprescindibili, tra questi i più importanti ed articolati nel testo sono forse il diritto al lavoro (artt. 4, 35, 36, 37, 38, 39 e 40), alla famiglia (artt. 29, 30 e 31), alla salute (art. 32, all’istruzione ed alle arti (art. 9, 33 e 34), all’informazione (art. 21) e, nel senso più generale, alla pari dignità sociale (art. 3).

Tutti diritti che, attraverso leggi che considerano solo i numeri, possono essere definiti oggi come ampiamente negati o difficili da conseguire, basti pensare ai provvedimenti che li riguardano, il “Jobs Act”, la “buona scuola” e le continue riforme sanitarie che privilegiano i manager ed aumentano i costi per i singoli, riducendo per tutti questi argomenti le possibilità di accesso ai servizi dei cittadini.

Tutto è “privato”, vale a dire demandato alla libera imprenditoria personale, con la conseguenza che tutto diventa “privato”, vale a dire assente.

Rispetto al 1970 il cittadino di oggi è privato di molti dei diritti e dei servizi che possedeva, tra questi un libero accesso alle cure, le analisi e le terapie costano ed i tempi per ottenerle sono spesso biblici, con l’effetto che moltissimi rinunciano, il “posto fisso”, sogno di quegli anni è oggi diventato un’utopia, il Jobs Act, con le sue “tutele crescenti” che non crescono mai, ha reso la sopravvivenza dei singoli e delle famiglie precaria, l’istruzione è resa più complicata da una “buona scuola” che non tiene in adeguato conto le necessità di alunni ed insegnati e le pensioni sono oggi minate persino dall’incremento della salute generale che, nonostante tutto, migliora.

Dovrebbe essere ovvio, per ogni servizio erogato vi sono sempre almeno tre elementi in concorrenza tra loro: la richiesta, i costi e la capacità di erogazione, lo squilibrio tra di essi genera vuoti di lavoro o, al contrario, paralisi e per questa ragione i tre valori dovrebbero essere in grado di modificarsi nel tempo per potersi adattare l’uno all’altro.

Negli ultimi venti anni, invece, per ragioni di bilancio ed indipendentemente dagli altri due fattori, vengono continuamente ridotti i budget, ragione per cui dopo grandi riduzioni e tagli ai settori a parità o persino aumento della richiesta, per evitare le paralisi, si deve oggi eliminare quest’ultima.

Proprio questa sembra essere la filosofia che chi ha travisato le parole del ministro dell’Economia vuole far apparire e proprio questa sembra essere la modalità realmente adottata in tutti i settori dello Stato per risolvere i suoi problemi gestionali: eliminare la clientela eliminandone così i relativi costi.

Ecco che se i tribunali sono pieni si fa in modo che qualche reato non lo sia più e che l’accesso alla giustizia sia più difficoltoso, aumentandone i costi preventivi e complicandone le modalità di attivazione.

Se la sanità non ce la fa più si impongono ticket sempre più costosi, fino all’assurdo che alcuni medicinali, gli antibiotici per esempio, ed alcune prestazioni, le piccole radiografie, spesso costano meno a pagamento che di ticket SSN e le visite specialistiche, a parità di costi, si fanno “privatamente”, alleggerendo il Servizio Sanitario Nazionale ed impedendo alla fine a molti di potersi curare.

Infine, se i numeri dell’occupazione non aumentano si creano i posti precari, così ogni anno si avranno migliaia di nuovi posti di lavoro da sbandierare, ma con l’effetto di avere complessivamente meno occupati e con loro minori diritti dei lavoratori, contribuzione sociale e dignità della persona.

La conclusione di un bilancio puramente matematico della vita di uno stato, il nostro, evidenza che qualche volta persino vivere diventa una colpa: l’essere umano, per la società dei numeri bancari, non è un valore, ma un elemento da sfruttare a piacimento per incrementare il profitto in una corsa senza obiettivi, perché l’aumento del profitto non ha un tetto, ma tende sempre al rialzo a discapito degli altri fattori in gioco.

La direzione presa è certamente pericolosa, quando si raggiungerà il limite e si dovrà dire stop all’incremento del profitto per poter rispettare i diritti ed i valori fondamentali dell’uomo?

Personalmente credo che questo limite sia stato già raggiunto e, per quella che è la mia formazione, ampiamente superato, facendomi ritenere che per proseguire si dovrebbe tornare indietro, almeno un po’, rimettendo i valori umani, perlomeno quelli scritti nella nostra costituzione, prima di tutto il resto.

Un giorno, forse, le banche saranno ricchissime, ma non esisteranno più i risparmiatori: progresso e civiltà non sono solo un aumento di indici economici, progresso e civiltà sono soprattutto il rispetto per le persone, la capacità di convivenza, mutuo aiuto e collaborazione, la rincorsa del mero profitto, invece, prima o poi ucciderà l’umanità, intesa come popolazione, dato che quella intesa come sentimento sembra essere già più che agonizzante.

In tristitia hilaris, in hilaritate tristis, grazie Giordano Bruno per avercelo fatto notare, quelle che sembrano battute divertenti o scandalose nascondono spesso una grande tristezza che ci da modo di capire quale potrebbe essere il nostro destino se non cambieremo direzione ricominciando dall’uomo e non più dal denaro.

RITORNANO LE PROVINCE, CE LO CHIEDE L’EUROPA

DI PIERLUIGI PENNATI

È il Congresso dei poteri locali e regionali del Consiglio d’Europa a dirlo e lo fa tramite alcune raccomandazione contenute nel rapporto di monitoraggio che ha messo ai voti nella sessione plenaria dei lavori, secondo gli esperti dell’unione l’Italia deve “rivedere la politica di progressiva riduzione e di abolizione delle province, ristabilendone le competenze, e dotandole delle risorse finanziarie necessarie per l’esercizio delle loro responsabilità”.

Stop all’abolizione delle province, quindi, ma non solo, sempre nella relazione si dice che è necessario “rafforzare autonomia di bilancio delle Regioni” e persino che debba essere ristabilita “l’elezione diretta per gli organi di governo delle province e delle città metropolitane”, oltre che “fissare un sistema di retribuzione ragionevole e adeguata dei loro amministratori”.

Insomma l’Europa ci dice non solo cosa fare, ma anche che tutto quello che abbiamo fatto è sbagliato e si deve tornare indietro.

“Ce lo chiede l’Europa” è stato il motto che ha portato ad approvazione di leggi, ma anche a modifiche costituzionali, introducendo il pareggio di bilancio, per esempio, ed a desso cosa succederà?

Ascolteremo questa volta il consiglio oppure l’Europa è uno strumento utile solo quando fa comodo a qualche governo?

Il Congresso ha effettuato visite ispettive nella nostra nazione, delle quali l’ultima si è tenuta lo scorso marzo, realizzando una sezioni di osservazioni e raccomandazioni che chiedono un pieno ripristino delle province “il cui futuro, dopo la bocciatura del referendum sulla riforma costituzionale lo scorso dicembre, è incerto”.

Nella relazione, ampia ed articolata, si fa riferimento all’intera vita economica ed amministrativa di provincie e regioni italiane entrando nel dettaglio persino dei sistemi di governo, delle procedure interne e nelle relazioni tra gli enti, arrivando a chiedere che venga introdotta “la possibilità di votare una mozione di revoca o di censura all’interno dei consigli provinciali e metropolitani nei confronti dei loro presidenti o sindaci, per rafforzarne la responsabilità politica”.

Per le regioni, invece,  andrebbero riviste “le norme e i principi finanziari di quelle a statuto ordinario, per rafforzare la loro autonomia di bilancio e aumentare l’aliquota delle loro entrate proprie” riformando nel contempo il sistema perequativo al fine di compensare i divari tra le risorse finanziarie a disposizione delle differenti Regioni, che il Congresso ritiene “inefficace”.

Insomma, più che un rapporto un vero e proprio manuale da applicare al nostro sistema amministrativo generosamente fornito dall’Europa per risolvere i nostri conflitti interni ed i nostri problemi, vedremo ora come reagirà chi da sempre professa il “ce lo chiede l’Europa”.

SE NON CAPISCO LE DONNE

DI PIERLUIGI PENNATI

Dedicato a chi dice che non capisco cosa significa essere donna e dover subire delle “violenze”.

Moltissimi anni fa ero molto giovane, avevo 19 anni, ed avevo conosciuto una ragazza davvero molto bella, bionda (tinta) alta e formosa, ero invidiato da tutti gli amici.

Un giorno mi chiede di accompagnarla da un produttore a Lugano, a lei piaceva cantare e questo “signore” aveva una casa discografica.

Arriviamo sul posto e saliamo nell’appartamento dove aveva l’ufficio, entriamo insieme, chiacchieriamo di progetti canori e copertine per una decina di minuti e poi lui chiede alla mia amichetta di seguirlo nella saletta di registrazione adiacente per registrare un breve provino da mandare ai tecnici del suono.

Spariscono dietro una porta e resto solo nell’ufficio.

Nessun suono dall’altra parte della porta, solo un tenue sottofondo musicale che poteva anche provenire da altrove.

Passano dieci minuti e comincio a spazientirmi, così esploro l’appartamento: grandi vetrate sul lago, quadri sparsi, qualche copertina di dischi alle pareti, una grande teca di vetro in un angolo contenete della sabbia rossastra sulla quale era evidente un grande segno a forma di otto: una mostruosa tarantola giaceva in un angolo… insomma stranezze senza un filo logico, in fondo è un produttore, sarà stato eccentrico.

Dopo quasi un’ora la porta si anima e rientrano, lei sembra accaldata ed ha la cintura, che portava sopra i jeans attillati, allacciata al contrario, lo ricordo bene, perché era molto particolare, come si usava ai tempi, e la fibbia era capovolta.

Cosa hanno fatto in quel tempo?

Non so, ma eravamo entrambi maggiorenni ed indipendenti.

Passano alcuni giorni e lei mi parla di amiche che per lanciarsi nello spettacolo fanno orgie, vere e brave artiste, costrette a competere in quel modo per accaparrarsi l’attenzione del personaggio più influente, qualcuna, addirittura, fuma hashish od assume altro durante gli incontri.

Non so di più, sparì un pomeriggio dopo solo 15 giorni che ci si conosceva: andai a prenderla a casa e la sua coinquilina mi disse che era andata a prendere il sole nella villa di un amico che aveva una bella piscina…

Non la cercai più, anche lei non lo fece e l’amica, incontrata ancora una volta per caso, mi disse che stava pensando alla sua carriera e che certamente  avrei capito, dato che noi uomini siamo tutti maiali allo stesso modo.

Ho capito, ma non siamo tutti maiali allo stesso modo, pensai che fosse una reazione ad averle resistito quando ancora mi accompagnavo all’amica, ma forse mi sopravvalutavo ed oggi mi ricredo.

Qualche anno dopo fu la mia volta, conobbi un facoltoso personaggio, ricco e di buona famiglia, persino cavaliere dello SMOM, che poco alla volta si interessò a me sempre più, mi disse di essere gay e che il suo fidanzato non lo capiva, io si che ero comprensivo e, soprattutto, sprecato, con la mia intelligenza potevo ambire a molto meglio, lui mi avrebbe mostrato come.

Non lo vidi più dopo aver gentilmente declinato alcuni inviti nelle sue ville…

Oggi sbarco il lunario come tanti, sottoposto ad un capo affidabile, che dice sempre si, preferibile ad un assertivo come me, che dice spesso no, sia io che la mia amichetta non abbiamo fatto carriera e soldi, non so la mia amichetta, ma io sono contento della mia vita, tante fatiche, tante delusioni e poche soddisfazioni, ma le poche soddisfazioni valgono certamente molto più delle tante delusioni, perchè una cosa non mi è mai mancata: un profondo rispetto e stima per me stesso.

Non so se diventerò mai ricco e famoso, ma certo so che non lo diventerò rinunciando alla mia dignità ed indipendenza di essere umano: potete imprigionare il mio corpo, seviziarmi e torturarmi, potete costringermi a chiedere pietà, ma non avrete mai la mia libertà, non sarò mai disposto a diventare vostro schiavo.

Chi accetta compromessi per bruciare le tappe non si rispetta e stima, come può chiedere rispetto e stima agli altri?

Dai, ora fatemi nero con il maschilismo e l’insensibilità, che però non centrano nulla.

ABBANDONATO DALL’INPS L’AZIENDA GLI PAGA LO STIPENDIO

Succede a Cesenatico, lui compirà 22 anni tra un mese ed è malato gravemente, ricoverato in ospedale l’INPS considera finito il periodo di diritto alla malattia e gli taglia il sostentamento, ma per fortuna, questa volta, non solo i colleghi di lavoro, ma anche i titolari dell’azienda per cui lavorava si indignano e continuano a pagargli lo stipendio.

Ha scoperto di essere malato del Sarcoma di Ewing, una forma tumorale che si sviluppa prevalentemente a livello osseo, fin dall’età di 11 anni e nonostante le difficili e lunghe terapie è riuscito a diplomarsi ed ad essere assunto dall’azienda Siropack Italia S.r.l. di Cesenatico con la mansione di terminalista.

La Siropack conta circa 30 dipendenti ed all’epoca dell’assunzione non aveva l’obbligo di assumere persone disabili, i titolari, Rocco De Lucia e Barbara Burioli, però commentano: “Prima che sopraggiungesse l’obbligo di assumere una persona diversamente abile, non abbiamo avuto dubbi a puntare su di lui, nella convinzione che il lavoro potesse dargli un ulteriore stimolo per continuare a combattere la sua battaglia personale è un ragazzo infinitamente disponibile e positivo, per questo la sua presenza ha rappresentato, fin dal suo arrivo, un valore aggiunto per tutta l’azienda”.

In un tempo nel quale non solo le aziende, ma persino gli organi dello stato sociale voltano le spalle alle persone nel nome del profitto e del contenimento dei costi, trovare qualcuno che ancora crede nel valore umano non è solo commovente, ma apre una speranza per il futuro.

“La nostra azienda considera quanto subito dal giovane una profonda ingiustizia – continuano i titolari – Siamo rimasti commossi dalla sensibilità dei nostri circa 30 dipendenti, che si sono resi subito disponibili al pagamento di una colletta, ma abbiamo stabilito che sarà la proprietà a provvedere al suo sostentamento, là dove gli organi preposti alla tutela dei lavoratori hanno deciso di voltare le spalle a chi si trova nel bisogno”.

La vicenda ha avuto inizio nel marzo scorso, quando la malattia ha costretto il ragazzo a sottoporsi ad un intervento di rimozione di un polmone che lo ha costretto anche ad lunga e difficile convalescenza ancora in corso e, nonostante le necessità di degenza, l’Inps è intervenuta azzerando lo stipendio che Siropack versava regolarmente al proprio dipendente a partire dalla busta paga di settembre, considerando terminati i giorni di malattia concessi.

I titolari, dell’azienda, che collabora da ormai da due anni, sostenendo vari progetti di ricerca, con l’Istituto Oncologico Romagnolo che lo ha in cura, hanno subito ritenuto trattarsi di “un atto arbitrario e lesivo nei confronti di un ragazzo che sta combattendo contro un tumore e che, come tutti i suoi coetanei, nella quotidianità deve affrontare spese, anche importanti, e progettare il suo futuro”.

Anche il sindaco di Cesenatico, Matteo Gozzoli, avvertito della notizia, è subito intervenuto contattando i titolari della ditta per complimentarsi del “grande gesto che hanno compiuto insieme ai dipendenti dell’azienda” e promettendo che farà di tutto per sensibilizzare le istituzioni, “Porto il caso in Parlamento e Regione” ha detto, accogliendo l’appello lanciato dai suoi datori di lavoro: “Nei periodi in cui il suo stato di salute gli ha permesso di svolgere la propria mansione all’interno della nostra azienda,  si è dimostrato un lavoratore volenteroso, nonché un ragazzo umile e generoso, per questo non possiamo permettere che questa decisione renda ancor più difficile la sua situazione. Agiremo con tutti i mezzi a nostra disposizione per sostenerlo e dimostrargli la nostra vicinanza, ed allo stesso tempo sensibilizzare le autorità competenti affinché i lavoratori come lui possano essere trattati con maggiore umanità”.

Umanità, forse è questa quella che dovremmo recuperare, prima di leggi elettorali e bilanci dello stato.

SE FUORI C’É LA RIVOLUZIONE IO MI BEVO UN ROSATELLUM

Qualcuno prima o poi se ne dovrà accorgere, una guerra civile è già in atto dietro le quinte, anche se tenuta lontana dal grande pubblico e nell’indifferenza di chi ancora pensa al consumo senza considerare il proprio futuro.

I fatti parlano chiaro, per la seconda volta nella storia repubblicana è in atto una enorme crisi sindacale, segno di un disagio che non è più controllabile con mezzi tradizionali: la concertazione ed i provvedimenti tampone hanno fallito.

I sindacati tradizionali arretrano, i giornali hanno parlato ad inizio anno di 700 mila tessere perse dalla CGIL, che ha oltre la metà degli iscritti che non sono occupati, pensionati ed altro, in particolare la FIOM è in caduta libera nonostante sia  tradizionalmente il “sindacato dei lavoratori” per eccellenza, perdendo consenso ed iscritti con una crisi ed un’emorragia imponente a favore dei sindacati autonomi, USB in testa che da questa situazione trae il principale vantaggio crescendo esponenzialmente.

Resiste la CISL, sostanzialmente stabile nei numeri anche se in lieve calo con i delegati, forte anche della sua base nel pubblico impiego, mentre la UIL, nonostante le ristrutturazioni e gli accorpamenti dovuti ai cali di introiti, è persino in leggera crescita, con incrementi anche del 30% dei delegati nelle grandi industrie metalmeccaniche e sbilanciando i rapporti di forza che producono un panorama sindacale nuovo che dovrebbe far pensare molto attentamente a cosa sta succedendo nel nostro paese.

Gli esuberi, le svendite, i subappalti e le migrazioni industriali sono ormai dilaganti e sotto gli occhi di tutti: non esiste una località italiana dove non vi sia un’azienda che dichiara la crisi o che comunque licenzia e ridimensiona.

I contratti di solidarietà, le procedure di “accompagnamento” alla pensione e gli aiuti sociali non sono più sufficienti, anche perché la solidarietà si dà quando si ha disponibilità in eccesso, e non è più il caso, la pensione sta diventando un miraggio irraggiungibile per tutti e gli ammortizzatori sociali sono ormai stati estinti dalla riforma Fornero.

Cosa resta?

La disperazione: per questo sempre più gli scontenti si rivolgono al sindacalismo di base, fatto non di grandi strutture, uffici e funzionari, ma di persone che fanno parte dei lavoratori in sofferenza e che cercano di organizzare i propri colleghi attraverso il volontariato e sfruttando i pochi permessi a disposizione delle rappresentanze aziendali.

Nessuna grande struttura e pochi mezzi, solo persone che, facendo parte esse stesse dei lavoratori in crisi, comprendono meglio i problemi delle loro realtà e cercano di ottenere giustizia, solidarietà e rispetto per la loro dignità.

Questa situazione ha cambiato anche il modo di protestare e fare sindacato, non più riunioni ufficiali in tavoli cui non sono invitati, ma presidi e guerre tra poveri, come è successo il primo agosto a Linate  e Malpensa quando i lavoratori che perdevano il posto di lavoro hanno impedito spontaneamente le operazioni della cooperativa che aveva preso l’appalto e li stava sostituendo.

Mano d’opera con pochi diritti che veniva sostituita da mano d’opera senza diritti, nell’indifferenza di chi, privilegiato e spesso nelle stanze del potere, pensa che il mondo si possa cambiare comprimendo i diritti degli altri in favore dei propri.

Questo atteggiamento non è solo stato attuato dallo stato fascista e quindi contrario principi costituzionali repubblicani, ma persino autolesionista perché farà presto mancheranno le risorse per tutta la nazione, consegnandola a nuovi padroni totalitari.

Solo un anno fa, davanti ai cancelli della società di spedizioni GLS di Piacenza, un lavoratore moriva  sotto le ruote del camion di un “crumiro” durante un picchetto per impedire le attività aziendali di sfruttamento e vessazione dei lavoratori.

Meno di un mese fa un altro incidente scampato ed oggi, un po’ dappertutto, ci sono picchetti e presidi in difesa della sicurezza, della dignità e dei diritti che molto tempo fa i lavoratori ancora avevano e che sono ora trascurati in nome di un profitto che sta uccidendo la classe lavoratrice, in particolare quella più debole costituita dalla massa che compie lavori a supporto e/o preparazione delle attività più “nobili”.

Questa massa di lavoratori è oggi la più grande e meno considerata di tutte le categorie, è quella che traina il mercato del lavoro, ma anche quella che sta morendo in favore delle grandi multinazionali che negano diritti e libertà ed impiegano persone ricattandole con strumenti di legge, come il Jobs Act, che pur di lavorare finiscono per accettare condizioni di schiavitù e sudditanza di fatto ed uccidendo nel contempo la nostra economia.

Secondo i dati dell’Inps relativi al primo trimestre 2017, vi sono più occupati rispetto allo stesso periodo del 2016, ma calano i contratti a tempo indeterminato ed aumentano i licenziamenti, mentre vi è un vero e proprio boom di contratti che applicano il Jobs Act.

Secondo i dati del sindacato USB, le aziende licenziano per poi riassumere con le nuove formule legali: sgravi fiscali e precariato attirano i datori di lavoro che in questo modo ricattano i lavoratori comprimendone le retribuzioni ed aumentando le prestazioni gratuite “non dovute” di chi vede il proprio posto di lavoro minacciato.

Mentre nelle periferie dilaga non più il solo malcontento, ma addirittura la disperazione, mentre i lavoratori lottano tra loro per accaparrarsi le ultime briciole di sopravvivenza rinunciando ai propri diritti, mentre l’economia reale è ormai ridotta al lumicino in favore della grande ed imperscrutabile finanza virtuale, in parlamento il problema principale in Parlamento sembra essere la legge elettorale.

Serve una ripresa delle coscienze prima che dei lavori parlamentari, serve che chi governa, specie se di sinistra, recuperi i valori repubblicani più veri, quelli che ci hanno fatto scappare dal fascismo che affamava il popolo togliendogli risorse in modo davvero vicino a quello che vediamo oggi: comprimendo diritti e pensando di conoscere i bisogni del popolo meglio del popolo stesso.

Siamo andati così avanti che siamo tornati indietro, per proseguire potrebbe essere necessario arretrare un po’, almeno al tempo in cui i diritti rispettavano ancora la dignità della persona.

Qualsiasi sarà la legge elettorale, questa volta, serve invertire la tendenza, andare a votare in massa pensando al nostro futuro comune, l’alternativa al voto potrebbe essere solo un’altra guerra civile che sarebbe meglio evitare.

IL RIO DELLE AMAZON NELL’EUROPA DISUNITA

 

Si chiama Unione Europea, ma ognuno fa un po’ quello che gli pare, almeno fino ai confini faticosamente imposti dalla comunità di stati, confini quasi sempre economici, aiuti di stato, scambi commerciali e moneta unica, al punto che la fiscalità può essere in concorrenza, ma il debito di un paese non può essere compensato con quello degli altri, sbilanciando offerta e domanda all’interno del gruppo di stati associati.

Ieri ce ne siamo accorti con Ryanair, che pur avendo sede in uno stato membro dell’Unione sfugge ai controlli fiscali ed anche alle regole sull’occupazione di tutti gli altri stati membri, pagando tasse inferiori ed applicando contratti di lavoro che altrove all’interno della comunità sarebbero considerati illegali, oggi alla ribalta, invece, è Amazon che, come ha dichiarato la Commissaria UE alla Concorrenza, Margrethe Vestager, «Grazie ai vantaggi fiscali concessi dal Lussemburgo ad Amazon circa tre quarti degli utili di Amazon non sono tassati. In altri termini, Amazon ha potuto pagare 4 volte meno tasse rispetto alle altre società locali sottoposte alle stesse regole fiscali nazionali. È una pratica illegale rispetto alle regole Ue in materia di aiuti di Stato: gli Stati UE non possono accordare alle multinazionali dei vantaggi fiscali selettivi a cui le altre società non hanno accesso».

Circa 250 milioni di euro che Amazon deve pagare, anzi “restituire”, secondo l’Unione, al Lussemburgo per evitare che lo stato venga multato per concorrenza sleale.

Una situazione assurda in un sistema apparentemente mai stato veramente sotto controllo e che oggi sta cominciando ad evidenziare tutte le sue falle, su tutte l’evidente disomogeneità delle regole all’interno del gruppo di stati dove quattro libertà fondamentali sono garantite: la libera circolazione delle merci, delle persone, dei capitali e della prestazione dei servizi.

Come sia possibile garantire tutto ciò con regole differenti in ogni stato è davvero un mistero e le evidenze sembrano dare torto a chi pensa che l’Europa sia davvero Unita.

La cifra è certamente scandalosa, bisogna però chiedersi cosa nasconda il fatto che uno stato possa “rinunciare” a 250 milioni di euro in favore di un’azienda, dato che, escludendo che si tratti di un favore tra amici, qualche tornaconto questa rinuncia lo deve pur produrre e se questo tornaconto sono il resto delle tasse che in questo modo non sono pagate ad altri… allora abbiamo davvero un problema.

Il sistema di rinunciare a parte delle entrate pur di accaparrarsi il resto evidenzia una lotta fratricida in una comunità che dovrebbe essere di amici ed omogenea, una cosiddetta guerra tra poveri che certo non doveva essere lo spirito con cui fu pensata inizialmente la Comunità degli Stati d’Europa, ma che ha finito per diventare quasi una necessità di sopravvivenza in un ambiente dove lo stato “virtuoso” non aiuto lo stato “bisognoso”, ma lo costringe a rinunce ancor maggiori, come nel caso eclatante ed ormai sopito della Grecia, tuttora affamata dai debiti e lasciata sola ad affrontarli.

Così in questa Europa che ci permette di evitare di cambiare moneta in ben 19 stati differenti non ci consente di avere una vita armoniosa al suo interno, un solo prefisso telefonico, un solo sistema fiscale ed un solo unico governo capace di armonizzare, nella speranza di semplificarle, le norme comuni quotidiane.

Ieri Ryanair, oggi Amazon e domani chissà, forse Google o Facebook, ma il problema dell’unificazione delle norme e delle condizioni resta appeso: per ora lo scandalo è solo che il Lussemburgo, badate bene non l’incolpevole Amazon, è stata apparentemente sleale con i suoi confratelli.

LO SCIOPERO CHE NON C’È

 

Centinaia di voli cancellati, aeroporti in tilt, tangenziali bloccate e nessuno sciopero annunciato, come mai?

La ragione è che si è trattato dello sciopero generale dei trasporti proclamato dal sindacato di base USB e che, come per tutti gli scioperi dei sindacati di base che danno fastidio al governo, non è stato battuto dai quotidiani nazionali, quelli che sopravvivono con le sovvenzioni dello stato.

Alganews, senza sovvenzioni, totalizza quotidianamente un numero di lettori superiore a molti di essi, ma, ovviamente, se lo dice uno di questi le cose cambiano, diventa subito importante anche un pettegolezzo.

ANSA non batte la notizia se non per un trafiletto dovere di cronaca, altrimenti che agenzia stampa è?

Repubblica ed il Mattino comunicano che a Napoli la tangenziale è in tilt, sciopero locale?

La Nazione riporta disagi negli aeroporti di Firenze e Pisa, Milanotoday rischio per bus e tram.

Fine della cronaca di una giornata di normale disinformazione, nessun’altra testata ne è al corrente.

Eppure lo sciopero in Italia sottostà a moltissime regole e vincoli, al punto che scioperare è diventato difficilissimo: per prima cosa si deve dire ufficialmente alla controparte di essere arrabbiati per qualcosa ed esperire un primo obbligatorio tentativo di conciliazione, se questi non va bene, si deve ripetere l’incontro alla presenza della prefettura o del governo, a seconda se si tratta di un conflitto locale o nazionale, infine si può scioperare per sole 4 ore e poi per un massimo di 24 con preavvisi di almeno 13 giorni ed altrettanti tra uno sciopero e la proclamazione del successivo… quindi se si fanno i conti per bene sono almeno due mesi che lo sciopero di oggi era in preparazione, eppure nessuno sa nulla, nemmeno quei giornalisti tanto bene informati da sapere che in Oregon un gattino non riesce più a scendere da una pianta ed è stato salvato da un eroico anziano di passaggio…

Sarebbe facile dare la colpa ai social ipnotici od alla disattenzione generale alle cose serie, ma se oggi fa più sensazione un bebè che ride a crepapelle e non ci si scandalizza più per i soprusi sui lavoratori la colpa è solo nostra, che non sappiamo più reagire a nulla, pigri ed assuefatti al messaggio che ci propinano i governi che nessuno, oltre a loro, ci possa salvare, avviandoci verso un baratro inevitabile se non reagiremo in massa.

La rivoluzione di domani si può fare senza armi, sarà sufficiente tornare indietro di trent’anni, a quando le banche di affari erano separate dalle banche commerciali e quando i diritti dei cittadini e dei lavoratori erano garantiti e non negati attraverso norme aggiuntive e vessatorie.

Cancelliamo il Jobs Act, la legge Biagi e le varie riforme del lavoro, via libera alle tutele integrali e rispetto della persona prima che delle banche, forse produrremo meno PIL, ma saremo certamente più sereni e soprattutto via libera allo sciopero sotto tutte le sue forme: chi sciopera non si diverte, perde tempo e salario, mediamente tra 80 e 100 euro, non si spreca denaro se non si è davvero convinti che sia necessario, non è un giro sulla giostra od una gita fuori porta.

Oggi migliaia di lavoratori hanno scioperato con fatica e sofferenza, per farlo hanno dovuto costruire un percorso difficile che realizza l’assurdo che se lavori ti possono licenziare quasi senza preavviso e se vuoi scioperare devi dirlo in anticipo e poi andare comunque a lavorare e persino quando scioperi perché ti stanno licenziando ti vorrebbero obbligare a lavorare fino a quando non avrei più un lavoro… se non è assurdo tutto questo!

Ma la cosa più interessante è la motivazione con la quale USB ha proclamato uno sciopero generale nazionale ed altri due scioperi di sindacati di base sono già previsti per fine ottobre: si sciopera per rivendicare il diritto di sciopero!

È il caso di riflettere se non siamo davvero arrivati al capolinea, ormai non si rivendica più salario perché manca lavoro e stabilità, non si chiedono maggiori tutele perché mancano i diritti di base e si sciopera per poter continuare scioperare, cioè rivendicare l’unico strumento di lotta efficace dei lavoratori… assurdo.

Sullo sciopero si basano le civiltà industriali moderne, è stata approvata la legge 300/70, quelle forse più famosa in Italia, quella denominata “lo statuto dei lavoratori”; festeggiamo l’8 marzo, il primo maggio ed altre date che ci dovrebbero ricordare come siano stati in passato superati grandi soprusi attraverso questo strumento di lotta, mentre chi ancora oggi difende i diritti della base è costretto a rivendicarne il diritto ormai negato.

Lo sciopero di oggi è perfettamente riuscito nonostante il silenzio stampa, moltissimi dei lettori di Alga lo potranno riconoscere, muoversi oggi non è stato facile un po’ ovunque, e la disinformazione ha regnato sovrana: pochi articoli e su edizioni locali per scelte “imperscrutabili” dei grandi editori.

Quello che però è certo è non faremo alcun passo avanti se continueremo a mettere “mi piace” alla notizia del gattino dell’Oregon e non ci scandalizzeremo più per i nostri diritti negati: per ogni utente che oggi non si è potuto muovere c’è almeno un lavoratore oppresso, precario o licenziato, non “altri” soggetti invisibili, ma tanti noi stessi che attraverso la nostra indifferenza ci trascinano nel baratro con loro.

Oggi dare solidarietà a chi sciopera per il lavoro ed i diritti significa cercare di evitare che questi vengano sempre più negati e sempre più irreparabilmente anche a noi.

Pensiamoci.

ELEZIONI TEDESCHE IL GIORNO DOPO, COSA NE PENSA LA STAMPA ESTERA

 

Secondo Christin Brauer di N24, “Molti dei tedeschi hanno votato per la continuità”, “Circa il 25 per cento degli aventi diritto non hanno espresso il proprio voto. Potendone tener conto nei risultati delle elezioni il partito dei non votanti sarebbe la seconda forza in campo.”

Ma se in patria non mancano critiche e timori la stampa estera è molto attenta a queste elezioni tedesche, il risultato è analizzato soprattutto alla luce dei grandi cambiamenti in atto un po’ dovunque, “El País“, dalla Spagna, scrive che “in un mondo ormai pervaso dai timori indotti da Trump, Erdogan e Kim Jong-un, Angela Merkel si distingue per il suo messaggio di stabilità.”

Secondo il giornale, nonostante il crollo degli elettori “Merkel ha l’assertività necessaria di cui c’è bisogno in questo tempi difficili in ambito internazionale.”

Dalla Francia “La Croix” si concentra sulle amare perdite che CDU / CSU hanno dovuto subire e pensa che Angela Merkel ora deve trovare un partner di coalizione per una non facile “maratona” post elettorale.

Per l’austriaco “Die Presse” il risultato è dovuto alla politica tedesca sui rifugiati, “La Germania si è spostata verso destra. Con due anni di ritardo gli elettori tedeschi hanno presentato la loro dichiarazione per la crisi dei rifugiati. E il solo problema che ha reso così forte Alternativa per la Germania (AfD). Considerando la sua palese mancanza di leadership e le sue ricorrenti gravi lotte sul letamaio della storia, in un contesto politico differente i nazionalisti di destra si sarebbero da tempo sciolti, tuttavia, il malcontento sulla politica di apertura delle frontiere di Angela Merkel e l’immigrazione di massa ha dato nuova vita a questo movimento anti-euro che era già moribondo”.

L’austriaco “Der Standard” sostiene che si tratti del “solito affare”, l’unico possibile in Germania.

“La Germania è già da molto tempo senza un raggruppamento nel Bundestag, ma quando si sente quello che molte di queste persone AfD dicono, come di “pulizia” natirale, esclusione e “Stop il culto della colpa”, è grave. Non si deve dimenticare che tutto ciò accade in quel paese che una volta ha subito il terrore nazista ed ora questi rappresentanti del popolo seduti nel Bundestag, il cuore della democrazia, terranno i loro discorsi. Chi credeva tutto poteva continuare come prima, si deve ora ricredere.”

Secondo “Le Monde“, Francia si tratta di “Un risultato deludente per Angela Merkel”

“Rieletta per il quarto mandato affianca il cancelliere a Konrad Adenauer ed Helmut Kohl, ma”, dice il quotidiano, “l’esito deludente dei conservatori tedeschi potrebbe essere persino peggiore del minimo storico raggiunto dalla signora Merkel nel 2009.”

La Croix“, Francia, rincara: “Un primo posto amaro per Angela Merkel”

“Anche se l’Unione tra CDU e CSU di Angela Merkel ha vinto le elezioni parlamentari”, “perde nove punti percentuali rispetto al 2013. Nella sede del partito a Berlino, l’umore era nero.” “Per il partito cristiano-democratico di Angela Merkel ora una inizia una nuova maratona inizia”, nella quale “È necessario trovare partner per una coalizione.”

Per “Le Figaro“, Francia, “La destra radicale si è affermata”.

“Angela Merkel aveva creduto che la popolarità dell’AfD sarebbe morta verso il basso, una volta che la crisi dei rifugiati fosse finita. Il flusso di rifugiati è diminuito drasticamente, ma si è affermata la destra radicale. Ora e per molto tempo non dovrebbero scomparire dal panorama politico tedesco “.

Il “The Guardian“, dal Regno Unito, titola: “I risultati delle elezioni dovrebbero far riflettere”

“L’aumento della AfD è preoccupante, non c’è dubbio. Ed è un segno di crescente frammentazione politica. Si introduce un elemento di veleno e di polarizzazione per chiunque si aggrappi a una democrazia liberale, si deve pensare ad una politica federale della Germania “.

Il “The Times“, Inghilterra, pensa che “Il quarto mandato potrebbe essere avvelenato”

“Il quarto mandato in Germania non è senza precedenti, ma potrebbe essere avvelenato come il suo ex mentore, Helmut Kohl, aveva già sperimentato alla fine del suo governo. Molti ritengono addirittura che la Merkel non riuscirà a restare in carica per tutta la legislatura. L’avvento dell’AfD nel Bundestag, segna la prima volta dal 1960 che un partito al politicamente all’estrema destra è rappresentato in Parlamento ed anche se non v’è alcun pericolo immediato, perché tutti gli altri partiti si rifiutano di formare con esso un governo, essi chiederanno fastidiosamente e con costanza misure più severe contro i migranti.”

“La linea di fondo vede ancora Angela Merkel vincente con un governo da fare e che si preannuncia instabile fin dall’inizio, tuttavia, deve lottare, applicando una vigorosa politica di cambiamento, piuttosto che ritirarsi.”

Secondo il “New York Times“, Stati Uniti d’America, “I colloqui di coalizione dureranno a lungo”.

“Nonostante la loro vittoria Merkel ed i conservatori non possono governare da soli, il che rende probabile che la vita politica del Cancelliere sarà più complicata. La forma e il contenuto di una nuova coalizione di governo richiederanno settimane difficili negoziati. ”

Il “Washington Post“, Stati Uniti d’America, titola “La Merkel dovrà cambiare la sua politica”.

“Gauland e altri candidati AfD hanno usato slogan che sono stati ampiamente percepiti come scandalosi in tutta la campagna, ma alcuni dei loro elettori di domenica hanno espresso la speranza che la presenza del loro partito costringerà la Merkel a cambiare la sua politica recente”.

La Svizzera “NZZ” pensa che “La Merkel non può continuare come prima”

“La forte performance dei partiti minori FDP e AfD non permette al vincitore delle elezioni Merkel, di continuare semplicemente come prima. I due nuovi partiti in parlamento possono mettere la destra sotto pressione e influenzare le politiche del prossimo governo ed il Cancelliere, come un partner di governo o dall’opposizione. A tal fine, l’AfD ha l’obbligo di chiarire il loro corso e di posizionarsi come parte del tutto borghese nel Bundestag. Il partito tenderà a mantenere l’immagina squallida di destra che ha avuto durante la campagna elettorale, giocando con le idee razziste e protestando con l’opportunità di avere una diretta influenza sulla politica tedesca.

 

TERREMOTO AFD AL 12,8 %,. MA LA MERKEL RESTA IN PIEDI

 

Dal nostro inviato in Germania.

Angela Merkel si appresta ad entrare nella leggenda ma il suo record è offuscato da un vero e proprio terremoto politico: l’onda populista che sta attraversando l’Europa non ha risparmiato la Germania e l’AfD con il 12,8% dei suffragi, nonostante i suoi soli 4 anni di vita, diventa il terzo partito tedesco producendo una grande rivoluzione nello scenario politico del paese.

Prima di lei solo Helmut Kohl aveva governato per quattro mandati e complessivamente 16 anni, ora Angela Merkel, la ragazza dell’Est, si appresta ad eguagliarlo, ma a caro prezzo, quella che si appresta all’orizzonte non è più solo una Grosse Koalition, ma addirittura una possibile Riesen (gigante) Koalition, dopo che l’SPD, il partito dello sfidante principale, Martin Schulz, ha registrato il peggior risultato degli ultimi decenni attestandosi al 20,6%.

Commentando gli esiti del voto Schulz ha detto che per l’SPD ”è tempo di tornare all’opposizione” ed ha dichiarato in un’intervista alla radio ARD di voler rimanere leader del partito anche dopo questa storica sconfitta elettorale, ma non sarà presidente della fazione nel Bundestag: “Io non parteciperò alla presidenza della fazione, ma mi concentrerò completamente sul rinnovo del partito”, ha detto domenica in un’intervista ARD.

Angela Merkel, sorpresa per il risultato elettorale, non si è però persa d’animo e si è appellata alla responsabilità dell’SPD per governare fino a Natale, quando pensa di essere pronta con il nuovo governo che, in assenza di SPD, sembra già destinato ad adottare la formazione detta Jamaica, per i colori dei partiti partecipanti, con FDP e Verdi.

L’AfD, forte del risultato, starebbe già pensando ad un comitato d’indagine contro la cancelliera.

Anche il presidente dell’Istituto di Ricerca Economica di Monaco (IFO), Clemens Fuest, pensa che la coalizione “Giamaica è la risposta appropriata”, “il nuovo governo dovrebbe concentrarsi sull’istruzione e la ricerca, sulla digitalizzazione e sulla globalizzazione dell’economia, sulla politica dell’energia e sul clima e sull’integrazione europea. – ha detto – Il FDP ha espresso chiaramente un trasferimento nella zona euro, i Verdi piuttosto per esso. Queste differenze nella politica economica, tuttavia, possono essere colmate “.

Ma non tutti sono sorpresi, il ministro degli Esteri austriaco, Sebastian Kurz, interfvistato sull’argomento ha detto, all’agenzia di stampa APA, che “il risultato non mi sorprende molto”, la ragione per la scarsa performance dell’Unione e il successo dell’AfD alle elezioni del Bundestag risiederebbe nella politica sui rifugiati del governo federale, “c’è molta insoddisfazione con la posizione del governo nella politica dei rifugiati in Germania”, ha aggiunto, “La crisi dei rifugiati non è stata presa sul serio da molti politici e partiti tradizionali in Europa”.

Mentre ancora si spogliavano i voti centinaia di persone dimostravano già a Colonia contro l’AfD, secondo la polizia, una marcia di protesta promossa dal comitato nazionale “Il nazionalismo non è un’alternativa”, ha attraversato il centro cittadino, un gruppo iniziale di 300 partecipanti ha avviato la marcia che si è conclusa in modo pacifico con oltre 700 persone al seguito.

Anche la superstabile e conservatrice Germania è ora al bivio, l’ingresso massiccio di AfD in parlamento creerà non pochi fastidi alla cancelliera che ha ora davanti solo due alternative: la grande coalizione con la SPD, ch eperò sembra non essere possibile per le resistenze del partito, l’alleanza giamaica con CDU / CSU, FDP e Verdi.

Dopo quattro anni di assenza, i liberali sono tornati al Bundestag con circa il dieci per cento, mentre i partiti di collegamento dei Verdi hanno raggiunto circa il nove per cento.

Nel grafico i risultati complessivi da ARD.

ELEZIONI IN GERMANIA. VERSO UNA NUOVA GROSSE KOALITION

 

La cancelliera tedesca Angela Merkel non si sbilancia sulle alleanze del dopo voto e nemmeno Martin Schulz sembra avere intenzione di lasciar trapelare qualcosa. Una Grosse Koalition sembra essere dunque ancora all’orizzonte.

Il problema principale potrebbe essere la crescita dei consensi che sembra registrare Alternative Für Deutschland (AFD), un partito nazionalista e anti-immigrati nato nel 2013 che dal 7-8% dei consensi nel sondaggi di due mesi fa è passato oggi all’11-12.
Il timore che la sera del 24 settembre i consensi raccolti dal movimento di estrema destra possano essere significativi per il governo ha fatto dichiarare al capo della Cancelleria Peter Altmaier (CDU) che i cittadini scontenti dovrebbero evitare di recarsi alle urne piuttosto che scegliere l’AFD.

L’episodio, riportato dalla stampa tedesca, è stato registrato martedì in una video-intervista con il quotidiano “Bild” quando alla domanda se fosse meglio non votare piuttosto che votare AFD, ha risposto “Ma certo”. “L’AFD sta dividendo il nostro paese, sfrutta le preoccupazioni e le paure della gente e credo che un voto per l’AFD non possa essere giustificato, almeno per me.”, Altmaier non ha detto apertamente di non votare, ma ha sostenuto che “è anche così che gli incerti esprimono un parere”.

Il leader della fazione SPD Thomas Oppermann ha prontamente criticato le dichiarazioni dicendo al quotidiano “Bild”, “Mi sembra sbagliato consigliare ai cittadini di non votare per non fornire elettori all’AFD”, mentre il candidato di AFD Alexander Gauland ha replicato: “Sono fantastici i democratici! Ora un membro del governo federale sta persino chiedendo il boicottaggio delle elezioni”.

Uno dei possibili problemi dei rilevamenti è che in ogni caso gli elettori potrebbero essere restii a dichiarare ai sondaggisti un voto di questo tipo, così la co-leader di AFD, Alice Weidel, sostiene che il partito potrebbe persino superare il 20% diventando la seconda forza in Parlamento, davanti alla SPD.

Sebbene ritenuto generalmente improbabile, un’impennata anche solo al del 12% dei nazionalisti genererebbe un grande terremoto nel panorama politico tedesco, terremoto che Angela Merkel sostiene non ci si possa permettere. La stessa Merrkel ha criticato nuovamente le scelte SPD per aver tenuto una coalizione con il partito di sinistra: “I socialdemocratici possono purtroppo chiedere a chi vogliono e quando vogliono, non è mai possibile escludere il rosso-rosso-verde” e pensa che questo sia profondamente sbagliato. “Non ci possiamo permettere esperimenti in questi tempi difficili”, ha aggiunto, tuttavia, nei sondaggi, l’SPD, la Sinistra ed i Verdi non dovrebbero poter attualmente contare su una maggioranza.

Anche il capo della FDP Christian Lindner ha attaccato l’AFD descrivendolo come una macchina populista di provocazione che non è interessata a lavorare sui concetti e sui testi giuridici ed ha dichiarato martedì al “Neue Osnabrücker Zeitung”: “L’AFD è certamente pericoloso, perché incita la nostra gente all’unità razziale, culturale e religiosa e combatte la diversità”.

Schulz, invece, dice di voler affidare la responsabilità della migrazione e dell’integrazione al Ministero del Lavoro e degli Affari Sociali ed ha dichiarato a Stoccarda, al Congresso dell’Associazione tedesca dei giornalisti (BDZV), che era sbagliato che l’argomento fosse un’appendice del Ministero dell’Interno, proponendo l’istituzione di un “Ministero del lavoro e degli affari sociali, la migrazione e l’integrazione”.

Inoltre, lunedì sera nella trasmissione ARD “Wahlarena”, tra le altre cose ha anche promesso che avvierà un cambiamento di corso della cancelleria già durante i primi 100 giorni di governo, il “Reutlinger General-Anzeiger”, ha detto Schulz, “si può finanziare con i fondi necessari sia dall’assicurazione per l’assistenza che con le tasse, inoltre si deve discutere e guardare a ciò che è pratico …”

A pochi giorni dal voto lo scenario post-elettorale della Germania si prospetta quindi davvero complicato, è quasi scontato che Angela Merkel verrà riconfermata cancelliera, dato che tutti i sondaggi danno in netto vantaggio, attorno al 36-38%, la sua Unione Cdu-Csu, ma per il resto l’incertezza è totale e sarà determinata dal risultato che i socialdemocratici (SPD) di Martin Schulz, previsti tra il 20% ed il 25%, otterranno e dalla sorpresa di AFD, che, come detto potrebbe superare ed anche di molto il 12% sbilanciando tutte le possibili coalizioni ed imponendo una loro presenza in una larghissima coalizione di governo con l’Unione, che potrebbe creare grandi problemi ad angela Merkel che, invece, punta ad una grande stabilità e continuità, al punto da aver dichiarato che se vincerà le elezioni Schaeuble sarà confermato ministro delle finanze.

Anche Schaeuble , che è in carica dal 2009, è candidato alle elezioni di domenica ed è molto apprezzato dai tedeschi per la sua strenua difesa dell’austerità imposta alla Grecia ed ad altri paesi dell’area dell’euro in difficoltà, poiché sarebbe proprio questa sua posizione intransigente in difesa del rigore di bilancio in Europa che avrebbe consentito alla Germania di evitare le sbandate capitate ad altri Paesi. Angela Merkel, nel festeggiare lunedì il settantacinquesimo compleanno del ministro, lo ha elogiato definendolo un uomo «di convinzioni e di azioni» e dallo «spirito mai rassegnato».

Secondo i sondaggi della tedesca Wahl Navi i due gruppi più grandi si uniranno dopo le elezioni del Bundestag, l’87% degli intervistati ne sono convinti: il CDU / CSU vincerà la maggior parte dei seggi, il secondo posto, con il 77% degli intervistati a favire, spetta alll’SPD, ma anche circa un ventesimo degli elettori vede l’AFD come il secondo partito più rafforzato dopo le elezioni, mentre il 5% degli intervistati pensa all’FDP.

La terza determinante forza politica tedesca è la questione vera: l’elettorato e gli esperti si interrogano molto su questo aspetto ed il 30% degli intervistati pensa che proprio l’AFD sia in gara per la vetta, mentre il 24% degli intervistati vedono la FDP vincente lasciando indietro Sinistra e Verdi con rispettivamente il 17% ed il 16%.

SCHULZ SORPRENDE. MA MERKEL SEMBRA ANCORA FAVORITA

Per il duello televisivo tra Angela Merkel e Martin Schulz, andato in onda il 3 settembre 2017, le quattro principali reti televisive tedesche volevano accordarsi con i rispettivi rappresentanti sulle modalità di messa in onda con lo scopo di ottenere un “dibattito TV” per il 2017 drammaticamente nuovo, con blocchi da 45 minuti ed un ingresso comune nel programma che favorisse una struttura più chiara e più spazio per la spontaneità e la discussione.

I rappresentanti della Cancelliera hanno però rifiutato di partecipare in queste condizioni, così il modello utilizzato è stato approssimativamente quello del 2013: coppie di moderatori, prima Maybrit Illner (ZDF) e Peter Kloeppel (RTL)  ed a seguire Sandra Maischberger (ARD) e Claus Strunz (ProSieben / SAT.1), che hanno alternato le loro domande in trasmissione senza accordi sostanziali su questioni concrete per favorire comunque spontaneità ed indipendenza giornalistica.

Il risultato è stato un modello divertente, ma un po’ più difficile da gestire del previsto, con il candidato SPD, Martin Schulz, che ha lottato con la cancelliera Angela Merkel cercando spesso di metterla nei guai.

Il motto di Martin Schulz è sembrato essere “chi non ha molto da perdere, può osare di più”, così ha cambiato spesso le carte in tavola sorprendendo per le affermazioni spesso in contrasto con le politiche del suo partito ed arrivando persino a generare un momento di puro stupore quando ha affermato che “quando sarò Cancelliere, annullerò i negoziati di adesione all’UE,” riferendosi chiaramente alla Turchia ed in netto contrasto con la posizione della piattaforma SPD, concludendo che questa è anche la posizione tradizionale dell’Unione che la Merkel da cancelliera non ha (ancora) applicato.

Ma Angela Merkel non si è fatta influenzare troppo dallo sfidante che ha replicato con una tattica ovvia, ma efficace, e ha risposto sempre prontamente a qualunque spostamento di argomento di Schulz, persino quando ha violentemente attaccato i manager delle industrie automobilistiche per la vicenda diesel, sostenendo che vi è stata una “perdita di fiducia senza uguali”, non si è fatta sorprendere replicando con prontezza “sono furiosa!”.

Secondo gli osservatori tedeschi Schulz ha lottato controllando gli attacchi ed influenzato il conflitto che ha avuto, come ci si aspettava, come tema dominante la politica interna sui rifugiati e l’integrazione, argomento sul quale la Merkel a ricevuto le maggiori critiche degli ultimi tempi e che ha finito per occupare la metà dell’intero tempo del dibattito.

Martin Schulz, ha avuto toni critici sull’argomento, definendo come un “compito generazionale” l’integrazione di più di un milione di nuovi arrivati e rivolgendosi chiaramente agli ex elettori fondamentali dell’SPD nella classe operaia dove, nelle recenti elezioni statali, il partito ha avuto le maggiori perdite.

Angela Merkel ha però difeso con energia la politica sui rifugiati che ha tenuto negli ultimi due anni, considerando un propria colpa solamente il non essersi occupata adeguatamente ed in tempo delle strutture dei campi profughi nelle regioni di crisi, ma anche non di aver mai sottovalutato il problema.

Durante il dibattito sono stati toccati temi di politica internazionale, Turchia, Corea del Nord ed Islam, sono invece mancati completamente i temi della formazione e della digitalizzazione, solo accennata alla fine dalla cancelliera, rivelando un approccio tradizionalista e conservatore di entrambi i candidati sugli scottanti temi delle politiche sociali interne, argutamente evitatati, mentre il momento più irritante è stato quando, trattando di religione ed Islam, Martin Schulz ha citato un filoso dicendo che “al di là del giusto e dello sbagliato, c’è un luogo dove tutti ci incontriamo”, alludendo all’aldilà ed entrando in evidente confusione, dalla quale ha cercato di uscire dichiarando che la frase avrebbe dovuto chiudere le sue osservazioni ed era stata detta troppo presto.

A fine dibattito il presentatore RTL Peter Kloeppel ha azzardato l’ipotesi di un secondo incontro per la settimana successiva, immediatamente cassata dalla Merkel.

Nonostante le novità e la tensione si può affermare che il dibattito ha avuto uno stile tradizionale, ognuno ha cercato di usare gli elementi nei quali si sentiva più forte, Merkel sembra aver convinto di più di Schulz, d’altro canto cambiare è sempre un’incognita, e la cancelliera ha dalla sua dati che, sebbene non siano del tutto merito suo perché dipendono in gran parte dalle politiche del suo predecessore Gerhard Schröder (SPD), sono inoppugnabili, come il dato di disoccupazione, oggi al 5,7% per il quale ha affermato “Invece di cinque milioni di disoccupati, di quando ho assunto l’incarico, ora abbiamo 2,5 milioni di disoccupati, dei quali un milione sono disoccupati di lunga durata”.

Dati grezzi, ma di grande impatto che sono stati uniti alla considerazione che nonostante il diktat europeo sia di mandare le persone in pensione a 70 anni, la linea ufficiale della CDU è di non prevedere “di aumentare ulteriormente l’età pensionabile. Siamo ora ad un’età pensionabile di 67 anni”, che, come concordato con l’SPD, sarà introdotta gradualmente.

Dalla parte di Schulz, in genere, sembrano essere state più apprezzate le affermazioni populiste, come sul tasso di criminalità in aumento dove ha detto che “la Sassonia è la zona con la con il più alto tasso di criminalità”, ma anche a Berlino il tema è sensibile avendo realizzato nel 2016 il peggior record di tutti gli stati e delle principali città tedesche, nonostante un lieve calo generale della criminalità nazionale.

L’ultima parola, però, sembra essere stata della cancelliera che nelle sua dichiarazioni finali ha lamentato che il tempo non era stato purtroppo sufficiente per parlare compiutamente dei prossimi quattro anni e ha velocemente accennato alle sfide del futuro digitale ed ai successi del passato: “dall’esperienza degli ultimi anni e la curiosità per il nuovo, vogliamo fare in modo che la Germania sia ancora un paese moderno per i prossimi dieci anni”.

Merkel, ha quindi dichiarato di voler lavorare, ” per voi e con voi “, chiudendo con la frase “sono sicura che possiamo farlo insieme”.

Martin Schulz ha invece concluso il dibattito parlando di “un momento di transizione”, per il quale è necessario il coraggio di un cambiamento che deve modellare il futuro e non somministrare il passato, per Schulz è compito dell’Europa stabilire la giustizia, la sicurezza e la pace nel mondo e rafforzare le democrazie in una “idea di una Germania europea in un’Europa forte, per la quale ho combattuto tutta la mia vita.”

Il bilancio finale, però, ha visto molte convergenze di programma nonostante le apparenti distanze, a partire dalla scelta di abiti di colore blu per entrambi gli sfidanti che ha reso piatte le immagini lasciando più spazio alle parole, Günther Jauch, uno dei più popolari presentatori televisivi tedeschi, ha parlato di spettacolo che rischia ancora una volta una di portare ad una grande coalizione.

Secondo Jauch il dibattito televisivo è stato soprattutto una delusione, per lui Martin Schulz è stato poco aggressivo ed anche se non ha risposto alla domanda diretta su un’eventuale alleanza post elettiva, Jauch ha scritto lunedì mattina sul quotidiano Bild “dal momento che a parlare sono due politici di professione, non mi libero dal sospetto che i potrebbero lavorare insieme e senza problemi in un governo” convinto che “questo duello ha dimostrato ciò che ci minaccia: altri quattro anni in una grande coalizione sotto la Merkel”.

Molti anche i sondaggi e le opinioni divergenti su chi abbia realmente vinto la sfida, le elezioni, ovviamente, scioglieranno ogni dubbio, ma per il momento, anche se gli analisti danno Schulz in testa, secondo il sondaggio lanciato on line per i telespettatori della trasmissione, Merkel “ha convinto di più”.

PAZZA L’IDEA: COMPRIAMOCI ALITALIA

DI PIERLUIGI PENNATI

 

Non capisco, tutti gli analisti parlano di conti in ordine, azienda sana e costi del personale e di gestione persino inferiori a molti concorrenti, ma mal governata, dopo il fallimento dei manager delle clientele politiche quello dei “capitani coraggiosi”, una compagnia da sempre nelle mani, a detta di chi ha analizzato la situazione, di incapaci, almeno nelle politiche e strategie di riempimento dei posti.

Ora, dopo aver già pagato una volta per scongiurare il problema sociale di migliaia di licenziamenti, siamo comunque chiamati da governati espressione di una classe politica agonizzante e mai legittimata da un voto costituzionalmente valido, a pagare comunque, quindi di nuovo, producendo l’effetto di produrre costi doppi per lo stesso problema.

Ma, già, Alitalia è oggi privata e non si può toccare.

Privata, come erano privati i conti correnti dai quali un primo ministro ha deciso una mattina a sorpresa di prelevare una “una tantum” senza che nessuno potesse reagire.

Privata, come private sono le persone che avevano stipulato un contratto con un’assicurazione, l’INPS, che prevedeva dei termini per ottenere una pensione e che un altro primo ministro ha cambiato senza dare la possibilità di recesso e che un altro, dopo di lui, ha allungato di botto mettendo persino sulla strada migliaia di famiglie, quelle dei cosiddetti “esodati”, con la disinvoltura di chi importa poco del prossimo e pensa solo a conti malati e senza anima.

Privata, come sono private ed intoccabili le proprietà dei potenti, mentre quelle delle masse di poveri e “normali” possono essere sacrificate.

Uno dei governi che più ha provocato problemi ai lavoratori degli ultimi decenni, quello di Renzi, ha voluto a tutti i costi vendere aziende di stato che non erano in crisi e producevano utili record, come ENAV, ed ha riorganizzato quelle che lo erano efficentandole, come Finmeccanica che accorpando tutte le aziende controllate ha trasformato un gruppo in perdita in un’azienda che sta sul mercato, ed ira, dopo aver fatto il contrario di quello che il buon senso suggeriva, tramite Gentiloni, si rifiuta l’unica soluzione che potrebbe salva Alitalia ed i suoi 12.000 dipendenti, la statalizzazione.

Serve, sembra, solo riempire gli aerei, quindi una strategia commerciale adatta, possibile che in Italia non ci sia nessuno capace di farla?

Non ci credo. Credo invece che sarebbe molto meglio evitare altri costi sociali riprendendo il controllo di una compagnia oramai sana.

Non vuole farlo lo stato? Lo facciano i suoi cittadini: compriamoci Alitalia!

Non serve molto, possiamo farlo e sarebbe un buon investimento tanto che io sono disposto a fare da apripista mettendoci la prima quota, ma davanti a tutti dovrebbero esserci i dipendenti, con una quota del loro TFR potrebbero formare una base solida su cui i sindacati potrebbero contare per aprire la sottoscrizione pubblica: chi non vorrebbe comprarsi Alitalia?

Serve solo organizzazione, coraggio e cogestione, la formula vincente di partecipazione dei dipendenti, non dei sindacati, alla gestione aziendale che fa volare le quotazioni di BMW, Porche e Mercedes, una forma di co-partecipazione dei dipendenti alla gestione aziendale che dove è applicata nel mondo porta solo frutti e benefici per tutti, gli azionisti ed i dipendenti, che in questo caso sarebbero anche azionisti.
I sindacati deputati dovrebbero essere CUB ed USB, i due sindacati che hanno convinto più di 7.000 dipendenti sul totale a votare no all’accordo che prevedeva solo tagli e licenziamenti, ora gli stessi sindacati che predicano la statalizzazione potrebbero guidarne la “privatizzazione popolare”.

La vogliono tutti, ma a pezzi, solo il governo miope, dopo averne già pagato i costi sociali, non la rivuole? Comperiamola noi, intera!

SCONGIURATI ALTRI SCIOPERI A SORPRESA A LINATE E MALPENSA

In un video i lavoratori dell’aeroporto documentano quello che sta succedendo in attesa che scoppi di nuovo la protesta: le aziende violano le norme per permettere la sostituzione del personale a basso costo.

Quello che succede nel video è significativo: un solo dipendente di AGS  carica i bagagli nella stiva di un aereo della compagnia low cost egiziana Almasria Universal Airlines e solo alla fine del carico si intravede l’arrivo di un secondo addetto che comunque non sembra prendere parte alle operazioni di carico.

I sindacati spiegano che nel filmato appare un Airbus 319 e che in questo caso “Di norma servirebbero tre addetti per caricare la stiva di un aeromobile 319: un addetto deve stare a terra al nastro bagagli, un altro deve stare all’imbocco della stiva per passare i bagagli e un terzo all’estremità della stiva per sistemarli nel modo più opportuno e sicuro” ed invece nel filmato appare un solo operatore che sale e scende dal nastro, prassi normalmente non sarebbe consentita.

AGS non è una compagnia qualunque, ma la società a cui fa riferimento «Alpina», la cooperativa contro la quale le otto sigle sindacali si sono mobilitate da mesi e che il primo di agosto ha fatto scattare la protesta spontanea che ha paralizzato il traffico aereo negli scali milanesi, questa denuncia parla chiaro, l’utilizzo di un solo operatore che preleva i bagagli dal carrello per metterli sul nastro, abbandonando incustodito l’ingresso della stiva e gettando con fretta e nervosismo i bagagli in fondo alla stiva, secondo i sindacati, è un «modo di operare» decisamente «contrario ad ogni regola di sicurezza sul lavoro ed espone l’operaio al rischio di infortuni oltre a sottoporre i bagagli dei passeggeri ad un trattamento a dir poco discutibile. Troppo facile fare concorrenza in questo modo, facendo lavorare un solo operaio quando ne occorrerebbero tre».

Ora il filmato è stato inviato alle autorità aeroportuali nel tentativo di far arrivare alla società un formale ammonimento, ma il rischio che le assemblee programmate potessero far parlare ancora degli scali paralizzando il traffico in mezza Europa, ha suggerito ad ENAC, l’autorità aeroportuale, di sospendere ulteriormente le licenze delle società subentranti fino al 25 settembre, data nella quale i tribunali si esprimeranno presumibilmente, nel merito dei ricorsi presentati sulle liceità dei subappalti.

Una buona notizia in attesa della prossima agitazione o che si possa risolvere felicemente una vertenza nella quale non si vorrebbe far scioperare più nemmeno a chi perde il posto di lavoro e per la quale sarebbe sufficiente almeno non cambiare.

MIGRANTI ECONOMICI DALLA PELLE CHIARA

Leggo dell’ennesima polemica sui migranti e non riesco a trattenermi, la critica è che costoro viaggiano con denaro e telefonini e spesso sono ben vestiti, mentre i nostri migranti dei secoli scorsi non lo erano, inoltre sarebbero le avanguardie di intere famiglie che investono su di loro e quindi ancora più dannosi…

Ora, a parte che nei secoli scorsi la tecnologia era differente e sono sicuro che potendo anche i nostri avi sarebbero partiti con un telefonino per avvertire la famiglia che li avrebbe seguiti, io però mi chiedo spesso cosa pretendiamo, vogliamo denaro e vita comoda per noi e se possibile sprechiamo senza ritegno e pretendiamo che altri non facciano lo stesso?

Se fossimo noi a dover migrare partiremmo senza un telefonino e soldi a sufficienza per il viaggio?

E se fossimo l’avanguardia di una intera famiglia rifiuteremmo l’aiuto dei parenti?

Criticabili o meno i migranti sono tutti uguali e tutti lo specchio dei tempi che vivono, andiamo in vacanza per una settimana con valigie che basterebbero per un intero mese a tutta la famiglia e pretendiamo che gli altri viaggino nudi e senza soldi, eppoi cosa vuol dire migrante economico, che i nostri figli non possono impiegarsi a Wall Street perché non sono americani?

E di Marchionne ne vogliamo parlare? Lo rifiutano solo perché ha del denaro e vuole lavorare in una nazione senza averne la cittadinanza?

I latini dicevano pecunia non olet, infatti profuma e tutti la vogliono, purché sia tanta e solo per loro.

Non scherziamo, io non sono buonista, ma nemmeno forcaiolo, cosa centra se uno scappa da una guerra o cerca lavoro, una priorità bisogna darla, ma credere che tutto si risolva erigendo muri è davvero assurdo, anche perché il muro lo abbiamo già eretto noi ai nostri figli, che con il sistema economico e legislativo che abbiamo permesso si instaurasse in Italia non vogliono più fare lavori sottopagati e sfruttati, per questo non si trova più personale alberghiero e per le pulizie, perché i nostri giovani italiani quei lavori vanno a farli in Austria, Germania, Olanda e qualsiasi altro posto dove salario, diritti e dignità sono ancora rispettati.

Provenire da una foresta dove la gente sparisce per un nonnulla è già scappare da una guerra, così come andare a lavorare all’estero per i nostri figli, che scappano dalla guerra che ogni giorno facciamo ai nostri diritti, permettendone la compressione e la negazione al punto che solo chi proviene da aree più oppresse della nostra ormai accetta la situazione.

I migranti vanno dove possono stare meglio, per questo tutti i figli dei miei amici studiano e lavorano all’estero: migranti economici dalla pelle chiara!

ISCHIA. MA LA COLPA NON E’ SOLO DELL’ABUSIVISMO EDILIZIO

DI PIERLUIGI PENNATI

 

Dopo l’emergenza, la gioia per i salvataggi e poi le polemiche inutili, così adesso la colpa del terremoto è diventata il degrado del sud e dell’abusivismo edilizio di Ischia.

Io stesso ho affermato, ed ancora affermo, che il cambiamento parte da noi, quindi gli abitanti di Ischia, ma anche quelli di Vipiteno e del resto del mondo, sono i primi responsabili del buono o del cattivo andamento delle proprie città, ma affermare che i crolli sono dovuti solo all’abusivismo dilagante è davvero troppo.

Anni fa, a Milano, crollò un palazzo d’epoca senza preavviso, tra le macerie morirono delle persone, abitanti dell’edificio, il gestore del bar che si trovava al piano strada ed alcuni avventori dell’esercizio. La colpa? Infiltrazioni di acqua poco evidenti e quindi trascurate, il terremoto non era stato necessario per abbatterlo, ci aveva pensato da solo.

Così anche la palazzina di Ischia, sotto la quale sono rimasti intrappolati i bambini salvati ieri, era un edificio di inizio secolo e non “abusivo”, semmai trascurato, ma quanti di noi hanno fatto una seria manutenzione antisismica all’edificio in cui abitano negli ultimi venti anni?

Ah, già, da noi non è zona sismica, invece Ischia lo è…

Noi assolti e “gli altri condannati, eppure l’Italia ha la maggior parte del territorio considerato “zona sismica” a vari livelli di pericolo, quindi tutti siamo coinvolti in una seria e necessaria pianificazione, ma i terremoti, come tutti gli altri elementi della natura, seppur possibili non sono sempre esattamente prevedibili e le azioni preventive non sempre attuabili in tempi ragionevoli.

Ne consegue che se il terremoto, non una eruzione od uno smottamento anch’esso possibili sull’isola, hanno portato all’attenzione dell’opinione pubblica il dilagante abusivismo di Ischia, le morti, almeno in questo caso, non sono a questo ascrivibili, anche se la tendopoli, quella si, ne è direttamente conseguente.

Cittadini assolti?

Niente affatto, nessuno è assolto e tutti siamo responsabili, persino chi scrive, la società è fatta per questo, per dare vicendevole sostegno e distribuire responsabilità e non solo per cercare altri colpevoli del momento: se a Ischia è avvenuto un terremoto non è colpa di nessuno, ,a se a Ischia ci sono abusi edilizi è colpa di tutti ed insieme vanno definiti e risolti.

Due situazioni differenti con due diverse soluzioni, prevenzione anti-sismica, anti-idrogeologica, anti-eruttiva la prima, repressione delle condotte sbagliate la seconda.

Così da qualche giorno abbiamo tutti “scoperto” che ad Ischia ci sono abusi edilizi, di questo passo tra non molto diranno persino che “miracolosamente” sono state scoperte acque termali e tutto passerà ancora una volta nel cosiddetto “dimenticatoio”, resteranno gli abusi vecchi, ne sorgeranno di nuovi e quasi tutti saranno felici e contenti: appuntamento tra una cinquantina di anni al prossimo terremoto prevedibile.

Ma in definitiva, cos’è esattamente un “abuso edilizio” e, soprattutto, quali rischi comporta?

Esempi di abusi edilizi ne abbiamo avuti ed ancora ne abbiamo a iosa, un abuso edilizio è una costruzione contro la legge, una legge che a sua volta tiene conto di differenti fattor, facendo si che una casa antisismica può essere abusiva se eretta in una riserva naturale tanto quanto una casa non stabile può esserlo in un luogo che ha ottenuto la licenza, vanno quindi distinti gli abusi e classificati per quello che sono: rischio sismico, rispetto di norme ambientali, architettoniche, igieniche, etc.

Ad Ischia il problema maggiore sembra essere quello ambientale, cui si somma il rischio sismico, ma non solo, risultandone un abuso generale difficilmente classificabile singolarmente, aggiungendo a questi abusi quelli che negli ultimi tempi sono classificati come “abusi di necessità”, vale a dire una contraddizione in termini: come può una cosa “necessaria” essere un abuso?

La soluzione è semplice, si tratta di abusi, vale a dire edifici privi di licenza edilizia o con licenza parziale, senza dei quali una famiglia senza altri mezzi dovrebbe vivere all’aperto od in tenda, quindi in “stato di necessità”.

Come definire e condannare queste situazioni di abuso? Semmai l’abuso è fatto da chi consente la costruzione di “mostri” di cemento di fronte a bellezze naturali e non consente a costoro, in stato di necessità, di edificare una piccola casa, con il risultato che, considerazione su considerazione, si scopre che il fenomeno è complessivo e spesso globale, sommando o sovrapponendo in modo complicato e confuso le necessità dei cittadini, sovrani secondo costituzione, al rispetto per ambiente, le amministrazioni incapaci od interessate ed gli affaristi sempre pronti dietro l’angolo ad approfittare di qualsiasi situazione.

Oggi assolvere o condannare per un terremoto è un esercizio inutile, guardare al domani con spirito costruttivo e pianificatore è molto meglio, perché mentre si discute dell’abusivismo di Ischia odierno, domani 24 agosto 2017 sarà un anno che ad Amatrice qualcuno vive ancora in tenda dopo l’evento di magnitudo 6.0 che ha devastato la sua casa e se in Italia si documentano morti per terremoti da quando l’uomo registra la sua memoria è anche vero che molti piani di prevenzione sono già disponibili, con relative stime di costi, enormi, ma necessari.

Secondo molti di questi studi, per “mettere in sicurezza” tutti gli edifici italiani con una buona approssimazione di efficienza servirebbero almeno 850 miliardi di euro, lasciandoci solo due alternative: cominciare a raccoglierli e spenderli bene od aspettare il prossimo terremoto per poter trovare altri responsabili e piangere i nostri morti.

A questo servono gli investimenti, se sapremo convincerci di essere il nostro futuro, potremo imparare dal nostro passato per usare il presente affinché il domani possa essere un oggi migliore.

TERREMOTO. IL MOSTRO DI ISCHIA E DEI CAMPI FLEGREI

DI PIERLUIGI PENNATI
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A Ischia c’è un mostro, anzi, ci sono tanti mostri e non tutti risiedono sull’isola: sono tutti coloro che continuano a pensare che i problemi siano da rincorrere e non da prevenire e che quello che fanno loro debba sempre essere speciale e giustificato rispetto a quello che fanno tutti gli altri.
Così, un giorno, una scossa di terremoto di 3.6, portata dai sismologi a 4.0 per l’effetto di amplificazione locale, fa crollare palazzine e cornicioni uccidendo persone e ferendone altre, quando, in condizioni “normali”, questo non dovrebbe assolutamente accadere.
Già, condizioni normali, cosa significa?
Significa che Ischia è una miniera d’oro a cielo aperto, ad Ischia l’oro si chiama mare, montagna e sottosuolo termale in un ambiente isolano che rende difficile scappare e quindi a bassa piccola criminalità, che rende tutto il territorio terreno di sfruttamento e possibile bersaglio della criminalità organizzata, quella che non si vede per le strade ed opera dalle case, dagli uffici e sfrutta tutto e tutti senza guardarsi troppo attorno.
La cosa potrebbe sembrare non troppo grave, se non fosse che nello stesso posto si concentrino i tre più grandi rischi della nazione, quello vulcanico, Ischia è un vulcano attivo dell’area flegrea che potrebbe eruttare in qualsiasi momento, quello idrogeologico, con continue frane e smottamenti, e quello sismico, non prettamente legato all’attività vulcanica, ma a quella tettonica, già avvenuto disastrosamente in passato quando le vittime furono oltre 2000.
Davanti a questa evidenza non possiamo pensare che il mostro sia sottoterra, ma sopra di essa, si chiama abusivismo e pressapochismo interessato, due elementi che congiuntamente producono un territorio devastato da cemento fragile, brutto da vedere e che si sbriciola al minimo colpo di vento.
Ma il problema non è solo ad Ischia, è dappertutto, anche se in questa zona è forse più esteso, tutti sanno che il Vesuvio prima o poi esploderà e che l’attesa dell’evento a Napoli potrebbe essere paragonabile a quella della città di San Francisco, che aspetta il Big Ben dalla Faglia di Sant’andrea.
L’esperto vulcanologo della New York University Flavio Dobran, ha scritto solo pochi mesi fa, in un suo studio documentato, “All’improvviso il Vesuvio che sonnecchia dal 1944 esploderà con una potenza mai vista. Una colonna di gas, cenere e lapilli s’innalzerà per duemila metri sopra il cratere. Valanghe di fuoco rotoleranno sui fianchi del vulcano alla velocità di 100 metri al secondo e una temperatura di 1000 gradi centigradi, distruggendo l’intero paesaggio in un raggio di 7 chilometri spazzando via case, bruciando alberi, asfissiando animale, uccidendo forse un milione di esseri umani. Il tutto, in appena 15 minuti”.
Quando?
Statisticamente le eruzioni su larga scala avvengono una volta ogni mille anni, quelle su media scala una volta ogni 4-5 secoli e quelle su piccola scala ogni 30 anni, quindi, sempre secondo l’esperto, se consideriamo che “l’ultima gigantesca eruzione su larga scala è quella descritta da Plinio il Vecchio: quella che il 24 agosto del 79 dopo Cristo distrusse Ercolano e Pompei uccidendo più di duemila persone. La più recente eruzione su media scala è quella del 1631, che rase al suolo Torre del Greco e Torre Annunziata, facendo 4 mila morti in poche ore“, potremmo essere più vicini all’evento di quanto si possa immaginare.
Cosa fare?
La vicenda non è semplice, dato che la ragione vorrebbe una cosa, il cuore un’altra e l’interesse senza ragione e cuore da tanto, troppo tempo spadroneggia quasi indisturbato e con la complicità delle persone che vivono nelle stesse zone a rischio incriminate.
Eppure qualche soluzione potrebbe esserci, forse non definitiva, ma efficace, bisognerebbe cominciare a pensare che il cambiamento e la ricostruzione nascono da noi e prima che qualcosa crolli, bisognerebbe smettere di sperare che “statisticamente” ci possa andare bene e cominciare a sviluppare uno spirito collettivo per il quale i diritti ed i doveri sono condivisi e di tutti e non solo diritti nostri e doveri altrui, lo stato siamo noi, anche se ci vogliono far credere diversamente, per governare bene si deve partecipare con coerenza e senso di giustizia alla vita pubblica affinché tutti ne possiamo godere.
Fare le cose “secondo le regole” non è prerogativa degli stupidi, ma puro egoismo, se tutti costruissimo edifici adatti alla località in cui sorgono, se tutti evitassimo di sfruttare selvaggiamente il territorio, se tutti ci comportassimo onestamente non ci sarebbe bisogno di cercare alcun colpevole per i mali che ci affliggono, ma cercheremmo solo soluzioni ai problemi che si manifestano.
Il mostro non è fuori di noi, non è nel sottosuolo, in un temporale o dentro un vulcano, il mostro risiede dentro di noi, è fatto di egoismo stupido ed ingiustificato, di indifferenza ed insensibilità, di miope visione del futuro e dell’idea che noi si sia sempre dalla parte della ragione e gli altri dal torto, possiamo batterlo, ma solamente cominciando da noi stessi.

FERNANDO ALVAREZ: IL VINCITORE É CHI SA FERMARSI

DI PIERLUIGI PENNATI
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I Mondiali di nuoto Masters di Budapest non sono certo tra le gare più seguite, eppure, se i suoi partecipanti si allenano come e forse più degli atleti più giovani e non sono meno determinati a vincere, ci sono gare che non si possono disputare, sono le gare contro se stessi, contro il rispetto della persona, della vita e della morte.
Così Fernando Alvarez, 71 anni, dopo essersi allenato molto e con grande determinazione a voler vincere le sue gare, non ha comunque potuto fare a meno di provare rispetto per le vittime dell’attentato di Barcellona che ha sconvolto il mondo e non avendo trovato notizia di un fuori programma nelle mail ricevute dal comitato organizzatore gli ha scritto chiedendo un minuto di silenzio prima delle gare.
Non ha ottenuto nessuna risposta, ma non si è perso d’animo, prima della gara ha parlato con la giuria e con la direzione, ma ancora nulla da fare: non c’è tempo da perdere, nemmeno un minuto, un minuto di rispetto.
Così gli attempati atleti si dispongono sui blocchi e gli arbitri danno il via. Alvarez, però, resta immobile sul suo piedistallo prendendosi un minuto di concentrazione e raccoglimento in segno di rispetto per le vittime, per lui il rispetto per l’uomo non può gareggiare con la semplice voglia di vincere una gara atletica.
Terminato il minuto di silenzio parte regolarmente e termina la sua prova.
Tutto normale, la gara è vinta, ma non quella contro altri uomini, quella contro le coscienze indifferenti di tutti.
Alvarez non ha avuto la medaglia d’oro, ma il pubblico ed i media gliela hanno assegnata lo stesso, pochi ricorderanno chi ha vinto la gara dei muscoli, tutti ricorderanno il gesto di Alvarez che resterà per sempre negli annali di uno sport che qualche volta fa propaganda e qualche altra volta si rivela cinico ed indifferente.
Oggi sappiamo che almeno per uno sportivo vincere è meno importante che rispettare il prossimo.
Questo era forse il valore olimpico voluto da Pierre de Coubertin nel fondare i moderni Giochi olimpici, quel “l’importante non è vincere, ma partecipare” del vescovo Ethelbert Talbot, da lui rilanciato, aveva ed ha esattamente questo sapore: il rispetto prima di tutto.
Per Fernando Alvarez “Certe cose non valgono tutto l’oro del mondo”, purtroppo il numero delle persone che la pensano come lui sembra ridursi di anno in anno.
Chapeau, Fernado Alvarez.

EBREI E DOCCE, QUANDO IL DIALOGO POTREBBE FARE LA DIFFERENZA

DI PIERLUIGI PENNATI
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Le parole ebreo e doccia evocano spesso gli orrori delle Shoah, ma questa volta non centra nulla, il fatto è accaduto all’Aparthaus Paradies di Arosa, sulle Alpi svizzere: i proprietari hanno affisso due cartelli nella struttura, uno in piscina, per invitare gli ospiti ebrei a farsi la doccia prima di immergersi, ed uno in cucina, dove venivano istituiti turni per l’accesso al frigorifero da parte degli ebrei.

Una famiglia di religione ebraica ha lamentato incomprensioni fin dall’inizio: “All’arrivo in hotel abbiamo detto alla direttrice che siamo ebrei e lei ci ha detto che in questo periodo arrivano molti ebrei. Non le abbiamo detto niente perché non volevamo cominciare una lite”, ma alla vista dei cartelli non si sono potuti più trattenere ed hanno immediatamente informato la vice ministro degli esteri di Tel Aviv, Tzipi Hotovely che senza altre formalità ha chiesto in fretta alla struttura le scuse ufficiali per “questo atti di antisemitismo della peggiore specie” ed ha informato l’ambasciatore israeliano in Svizzera di richiedere una condanna formale da parte del governo.

Per la Vice Ministro israeliana “l’antisemitismo in Europa è ancora una realtà e dobbiamo garantire che la punizione per incidenti come questi serva da deterrente per chi ha ancora il germe dell’antisemitismo”.

Anche la reazione Svizzera non si è fatta attendere, il ministro degli Esteri Elvetico ha subito replicato che la Svizzera “condanna il razzismo, l’antisemitismo e ogni tipo di discriminazione”.

Ma non è finita qui, il centro Simon Wiesenthal ha chiesto di “chiudere l’hotel dell’odio e punire la sua direzione”, una richiesta è stata rilanciata a Booking.com per ritirare l’Aparthaus Paradies dalle sue proposte e metterlo su di una “lista nera“ e sulla piattaforma change.org è stata poi lanciata una petizione per chiedere la chiusura dell’hotel Aparthaus Paradies  “se non cambierà atteggiamento in relazione ai clienti ebrei, che devono essere trattati come tutti gli altri ospiti”.

Una tempesta immediata ed un incidente diplomatico sfiorato tra le due nazioni, ma secondo la direttrice della struttura, i cartelli sono stati affissi per ragioni precise e che nulla hanno a che fare con l’antisemitismo, anzi, proprio i clienti ebrei sarebbero i benvenuti e sempre numerosi, sostenendo che gli avvisi si erano resi necessari dopo aver “notato che alcuni fanno il bagno in piscina senza prima fare la doccia. Altri clienti mi hanno chiesto di fare qualcosa e ho scritto un po’ ingenuamente questi cartelli, avrei fatto meglio a rivolgermi a tutti i clienti in generale”.

Niente antisemitismo, quindi, ma ragioni igieniche alle quali anche gli ebrei ortodossi, che si fanno il bagno con la maglietta, si devono attenere per rispetto di tutti.

Il secondo cartello, in cucina, con la scritta “I nostri clienti ebrei hanno accesso al frigorifero solo dalle 10 alle 11 e dalle 16,30 alle 17,30. Speriamo comprendiate che il nostro personale non può essere disturbato senza sosta”, sempre secondo la direttrice serviva a regolamentare l’accesso al frigorifero privato della struttura durante gli orari di servizio del personale dipendente, che non è presente al di fuori di quelli indicati, a causa del fatto che ai clienti ebrei, e solo a loro, in aggiunta al frigorifero a disposizione di tutti gli ospiti viene concesso anche l’uso del frigorifero dello staff per agevolare le loro abitudini alimentari dovute alla scelta religiosa.

Anche questa volta nessuna discriminazione, anzi, un ampliamento degli spazi non concesso ad altri, un beneficio che dimostrerebbe che sebbene, la direzione dell’hotel ha certamente commesso una grande leggerezza nell’apporre quei cartelli così espliciti, qualche volte sarebbe meglio iniziare con il parlare con chi hai vicino e cercare di chiarire la situazione prima di scatenare una guerra internazionale tra governi, razze e religioni.

Così resta oscuro il perché la vice ministro degli esteri di Tel Aviv, l’ambasciatore israeliano in Svizzera, il ministro degli Esteri Elvetico, il centro Simon Wiesenthal, Booking.com e la piattaforma change.org abbiano saputo della cosa prima della direzione dell’hotel.

Ovviamente fin qui le scuse le hanno fatte i presunti antisemiti, i presunti intolleranti sono ancora a piede libero.

Il dialogo è alla base di tutto, pratichiamolo.

BUON FERRAGOSTO, MA NON PER TUTTI

DI PIERLUIGI PENNATI
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Mentre ci accingiamo a trascorrere una delle più antiche festività italiane, istituita nientemeno che 2032 anni fa, nel 18 a.C. dall’imperatore Augusto da cui trae il nome e che significa “Feriae Augusti” (il riposo di Augusto), ci sono migliaia di poveri lavoratori costretti a lavorare per noi.
Non parlo di coloro che servono a garantire servizi pubblici davvero essenziali e senza dei quali ci sarebbero disastri e problemi, ma di quei “poveri” lavoratori, spesso vessati e sottopagati, che sono realmente costretti dai loro datori di lavoro ad essere a nostra disposizione per il nostro piacere, che spesso piacere nemmeno è, ed in particolare quei lavoratori che tengono aperti in questi giorni festivi i centri commerciali, i supermercati e gli outlet, che ormai non chiudono più nemmeno a natale e capodanno.
Due, massimo tre giorni di chiusura all’anno, 48 ore settimanali, spesso anche di più e non sempre pagate, e competizione aperta tra chi riesce ad impiegarsi comunque, a qualunque costo, si deve pur sbarcare il lunario con un costo del lavoro abbassato drasticamente da disoccupazione ed immigrazione.
Nemmeno nell’antica Roma avevano osato tanto: Augusto, oltre all’evidente scopo propagandistico sulla sua persona, aveva aggiunto il Ferragosto ad altre festività già presenti nello stesso mese, in particolare i Consualia, cui fu legato fin dall’inizio, che era un periodo di meritato riposo e festeggiamenti per celebrare la fine dei lavori agricoli, dedicati a Conso che, nella religione romana, era il dio della terra e della fertilità.
L’antico Ferragosto, quindi, era un premio per chi già lavorava duramente tutto l’anno ed originariamente cadeva il 1º agosto congiungendo tra loro le feste del mese e generando gli Augustali, un adeguato periodo di riposo per recuperare le forze dopo le grandi fatiche nei campi.
Fu la Chiesa Cattolica a spostarlo al 15 di agosto, per far coincidere l’importante ed irrinunciabile ricorrenza laica con la festa religiosa dell’Assunzione di Maria, cui anche il Duomo di Milano è dedicato, e da oltre due millenni è una festa intoccabile, nessuno può lavorare a Ferragosto, cattolico o laico che sia.
La tradizione, originata fin dalla sua istituzione, vuole che questo giorno siano di festa e gioia conviviale, persino il “Palio dell’Assunta”, che si svolge a Siena il 16 agosto, è una reminiscenza delle antiche corse di cavalli romani che si tenevano in quella giornata, ma alla fine, dopo quasi due secoli, ce l’abbiamo quasi fatta: in nome di un consumismo che ci sta consumando anche la festa italiana più antica sta per essere cancellata, almeno per i molti che, pur non essendo essenziali per la sopravvivenza del genere umano, sono oggi costretti a lavorare sottomessi e dare la possibilità a chi è ancora libero di fare shopping invece che trascorrere la giornata all’aperto, approfittando del bel tempo.
Di questo passo, prima o poi la festa sarà abolita anche per tutti gli altri, ormai il ferragosto non ha più senso per nessuno, i gremitissimi centri commerciali non vendono comunque a sufficienza per ripagarsi gli straordinari ed i costi festivi ed il sapore finto di questi luoghi sta piano piano sbiadendo anche l’illusorio piacere di una passeggiata e di un gelato nei loro viali.
Il retroscena è spesso terribile, nascosto dalle vetrine luccicanti, i lavoratori degli esercizi sono spesso “stagionali” o precari, sottopagati e senza diritti, sotto il ricatto dell’allontanamento immediato senza tutele del lavoro, tra l’indifferenza di tutti coloro che non vogliono sapere cosa succede agli “altri”, almeno fino a quando gli altri non saranno essi stessi.
Grande o piccolo che sia l’imprenditore oggi vuole sempre di più al minor costo, anzi gratis, spesso infrangendo i diritti dei propri dipendenti che sono sempre più disposti a privarsene per necessità ed affamando sempre più la popolazione di lavoratori in una società dove chi paga le tasse è stupido e debole e chi ricatta i propri dipendenti si sente intelligente e potente.
Oggi è ferragosto, nei paesi più industrializzati d’Europa non si lavora nemmeno nei festivi, tanto meno in giornate come queste, in quelli decadenti invece sì, si lavora spesso anche a Natale e capodanno riducendo le feste a meri eventi commerciali.
Possiamo davvero considerarci fortunati a vivere in un paese di questo tipo?
Personalmente credo che il lavoro vada sempre rispettato, qualunque esso sia, perché è sempre dignitoso quando è svolto dall’uomo, il lavoro di un automa non è né nobile né dignitoso, è solo lavoro, ma quando è un essere umano a svolgerlo acquista un valore differente e non solo economico: oggi siamo così abituati a non rispettare più il lavoro degli altri che a poco a poco anche il nostro lavoro sta perdendo di dignità e nobiltà senza che ce ne rendiamo pienamente conto.
Se il progresso è avere i negozi aperti la domenica, Natale e Ferragosto, allora viva il regresso, se questo serve a recuperare quei valori umani che persino i romani imperiali, quelli con potere di vita e di morte sul popolo, non negavano ai propri sudditi ai quali, invece, riconoscevano la dignità di lavoratori istituiendo per loro nuove feste e non altri turni forzati.
A Natale, quest’anno, chiediamo dignità per chi lavora ed oggi, Ferragosto, andiamo al mare od ai monti, non nei centri commerciali: il recupero della nostra umanità passa anche da questi piccoli gesti.

UOVA CONTANTAMINATE, MA CI SALVA IL MADE IN ITALY

DI PIERLUIGI PENNATI
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Una volta tanto il Made in Italy è una garanzia anche in patria e non soltanto per la qualità dei manufatti o per il loro gusto, ma anche per l’autosufficienza delle risorse, infatti,  il se 2 agosto l’Olanda ha scoperto un lotto contenente Fipronil, vietato dalle leggi europee, nell’azienda olandese Chickfriend ed arrestato due dirigenti, l’Italia è tra i paesi fortunati che praticamente non importano uova potendole produrre quasi interamente sul suolo nazionale.
Secondola Commissione Europea “Anche l’Italia ha ricevuto uova” dalle aziende in esame, ma il ministero della Salute ha assicurato che non risultano distribuzioni contaminate sebbene siano stati comunque confiscati articoli mai messi in commercio per prevenirne la vendita.
Il Fipronil, il cui nome chimico è fluocianobenpirazolo, è un insetticida ad ampio spettro che disturba l’attività del sistema nervoso centrale dell’insetto impedendo il passaggio degli ioni cloruro attraverso il recettore del GABA ed il recettore del Glut-Cl, ciò causa la ipereccitazione dei nervi e dei muscoli degli insetti contaminati.
La sostanza viene usata prevalentemente per la prevenzione contro le pulci ed antiparassitario per gli animali da compagnia, il suo veleno, la cui concentrazione è volutamente blanda nei prodotti in commercio, ha una lenta attività d’azione per evitare che l’insetto avvelenato muoia immediatamente e faccia prima rientro nella sua colonia liberando l’organismo che infestava e diventando un “untori” per tutta la sua colonia.
Pur essendo categoricamente vietato nei trattamenti anti-pulci di animali destinato al consumo umano, perchè secondo l’Oms è pericoloso per fegato, reni e tiroide, per causare problemi all’uomo occorrono alte dosi di prodotto e non dovrebbe essere il caso dell’attuale scandalo alimentare.
Le persone esposte al Fipronil a forti dosi si possono osservare ipereccitabilità, irritabilità, tremori e, ad uno stadio più grave, letargia e convulsioni.
I sintomi sono reversibili, una volta terminata l’esposizione la sostanza si assorbe lentamente attraverso l’intestino e siccome non è noto un antidoto specifico i medici consigliano una lavanda gastrica per ridurre l’assorbimento  ed un purgante salino o carbone attivo.
Secondo la UE i Paesi dell’Unione coinvolti, compreso l’Italia, sono il Belgio, i Paesi Bassi, la Germania, la Francia, la Svezia, il Regno Unito, l’Austria, l’Irlanda, il Lussemburgo, la Polonia, la Romania, la Slovacchia, la Slovenia e la Danimarca, a cui si devono aggiungere Svizzera e Hong Kong.
Una volta tanto, però, l’Italia è libera da questo rischio sia per la possibile limitata concentrazione di prodotto nei nostri alimenti, compreso quelli di pasticceria, sia per la produzione quasi interamente nazionale di uova: quando il Made in Italy ti salva la vita.

STIAMO DIVENTANDO TUTTI MIGRANTI ECONOMICI

DI PIERLUIGI PENNATI
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“Laurea magistrale a pieni voti in ingegneria civile, ottima conoscenza della lingua tedesca e buona della lingua inglese, gradita esperienza Erasmus, disponibilità a trasferte in Italia ed estero, contratto di 6 mesi, 600 euro netti al mese, ticket restaurant per ogni giorno lavorato, zona Grugliasco”.
L’annuncio è di maggio, ma ancora la foto impazza sulla rete come fonte di ilarità tra chi del dramma vede solo l’assurdità ridendone invece di scandalizzarsi o lo strumentalizza contro gli immigrati “mantenuti dallo stato”.
L’indignazione immediatamente seguita all’annuncio ne ha provocato il ritiro e la rettifica ed a seguito degli insulti e delle richieste di chiarimenti piovute nei loro uffici, la società si è affrettata a dichiarare che «L’annuncio non è nostro perché noi non facciamo annunci su cartaceo e stiamo cercando di capire come ci sia finito. Cerchiamo un ingegnere con quelle caratteristiche ma solo per uno stage post-laurea».
Si tratta della società Gruppo Dimensione, multinazionale con sede italiana a Torino, che – è scritto nel loro sito – «svolge attività di consulenza e servizi altamente specializzati nel campo dell’ingegneria civile e degli impianti tecnologici.»
La vice presidente, Marie Chantal Manenc, ha subito precisato che la richiesta riguardava  «solo un tirocinio, serve per qualificare il candidato, insegnandogli quello che all’università non si impara, e per valutare l’opportunità di assumerlo», poi, se il periodo di stage si conclude favorevolmente, l’azienda assume il candidato «Con un contratto di apprendista» e «per quelli che sono all’estero siamo sui 2400-2.500 euro. Netti, eh!»
Nulla di strano, quindi, la legge viene pienamente rispettata e così grazie alle nuove norme sul Jobs Act, le tutele crescenti e gli apprendistati, un laureato super qualificato deve lavorare per quasi quattro anni a condizioni da terzo mondo per riuscire ad avere un contratto che si avvicina al “normale”, dato che vivere in trasferta all’estero per 2.550 euro netti al mese non sembra certo una retribuzione stellare e per le destinazioni italiane, solo probabilmente dato che non viene dichiarato, ancora meno.
Qualcosa deve essere andato storto quando è stata approvata la legge attuale, i giovani, se non cambiano ancora le condizioni e dopo tutto questo peregrinare ed avere difficoltà, dovranno lavorare fino a 70 anni e forse più per poter avere una pensione, la cui “normalità” viene messa costantemente discussione, posizionando le condizioni ed il mercato del lavoro italiano tra quelli “da terzo mondo”.
Pur essendo comparso solo sul sito del Comune di Torino nella sezione InformaLavoro, senza menzionare che i 600 euro fossero da ritenersi compenso per uno stage, e solo una volta in formato cartaceo, l’eco mediatica sembra aver fatto comunque il suo dovere e se l’azienda ha sostenuto ufficialmente che «questa faccenda è un disastro per l’immagine del gruppo», dopo le telefonate di insulti della prima ora sono state da essa ricevute «all’incirca una cinquantina» di candidature con i requisiti richiesti, che ora «andranno valutati in modo più approfondito».
Il bilancio finale è che al di là dell’indignazione istantanea e le risa dei qualunquisti l’annuncio ha attirato l’attenzione e quasi 50 laureati altamente qualificati si sono dichiarati disposti, al di là di tutto, ad entrare in competizione per lavorare quasi gratis solo per riuscire poi a guadagnare quanto un operaio specializzato.
Per completezza di informazione riporto che in un’indagine comparsa il 18/11/2014 sul Sole 24 Ore, la differenza delle retribuzioni tra Italia e Germania portava già differenze dal 40 al 70% in più rispetto all’Italia e, solo per fare un esempio la retribuzione media di un operaio generico italiano stimata in 29.523 Euro l’anno diventava 49.507 Euro sul suolo tedesco e con un welfare state certamente più elevato.
Sembra di capire che qualcosa da noi non sta andando come ci hanno prospettato e se i nostri ragazzi guardano all’estero è perché là, la mano d’opera, è meglio retribuita, considerata e produce più dignità e stabilità del lavoro, trasformando di fatto tutti noi in “migranti economici”.
Non volevamo che le nostre aziende emigrassero all’estero, così costringiamo ad andarci le nostre migliori risorse, mentre da noi ormai solo chi proviene da paesi dove le condizioni sono ancor meno favorevoli accettano le condizioni di vita al limite della dignità che le aziende nostrane oggi offrono “a norma di legge”.
Dite a Renzi e Salvini che senza rispetto nessuno starà mai a casa propria, tutti, prima o poi, cercheranno un posto dove vi sia maggiore “giustizia sociale” rispetto “a casa loro”, per andare avanti, qualche volta bisogna tornare indietro, almeno ai tempi in cui in Italia i diritti e la dignità dei lavoratori erano ancora valori da salvaguardare.

ALITALIA É SANA MA SI (S)VENDE LO STESSO

DI PIERLUIGI PENNATI
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I nodi sono venuti al pettine da tempo e forse i lavoratori che hanno respinto in massa il piano di ristrutturazione con 2.000 licenziamenti, su 12.000 impiegati, sapevano già che i loro ulteriori sacrifici erano inutili: Alitalia è sana ed il problema è solo gestionale, ma viene ceduta ugualmente all’asta.
Che qualcosa non andasse lo si era capito da subito, solo un paio di settimane dopo il voto di fine aprile che cassava l’accordo raggiunto da CGIL CISL e UIL, il docente di gestione delle compagnie aeree alla Luiss, Antonio Bordoni, a seguido di uno studio commissionato da un editore affermava che “Gli stipendi sono più bassi, con più passeggeri per dipendente. Il problema? Contratti di servizio onerosi e poco sviluppo nel lungo raggio”.
L’obiettivo dello studio non era attribuire delle colpe, ma cercare di capire se dopo la bocciatura del piano industriale questo potesse essere riproposto da qualunque possibile nuovo assetto azionario e, quindi, cercare di evitarlo.
Il rifiuto dei tagli aveva immediatamente portato i benpensanti a bollare i dipendenti come “furbetti del cartellino”: privilegiati che non volevano rinunciare a nulla, nullafacenti che avevano portato al collasso la compagnia e volevano continuare a farlo, ma non era così, il costo del lavoro non centrava nulla, dato che Alitalia era “Meglio di Air France, Lufthansa e British” secondo Bordoni.
I lavoratori spesso lo sanno prima degli analisti e del pubblico, chi percepisce uno stipendio sa quanto guadagnano i colleghi di altre compagnie e quante ore di lavoro realizzano, come e con quale sforzo, e nessuno di loro aveva mai detto che, dopo la prima grande ristrutturazione, la situazione Alitalia fosse da lager, ma nemmeno da paese del bengodi, consapevoli di non essere in una situazione di grande privilegio rispetto ad altre compagnie, se non per il maggior rispetto della loro dignità, che in qualche concorrente sembrerebbe a rischio, e della stabilità di impiego, il posto fisso e dignitoso era già un valore sufficiente.
Dopo il piano di ristrutturazione che prevedeva essenzialmente solo tagli al personale, il sindacato USB aveva sostenuto da solo la campagna contro di esso e, contraddicendo ogni pronostico, aveva avuto ragione riuscendo a convincere oltre 5.000 lavoratori il cui posto di lavoro non era toccato dal piano di ristrutturazione ad esprimersi contro di esso per dare prospettive a tutti.
La ragione più profonda del rifiuto, probabilmente, è stata vista nel fatto che a furia di ridurre le risorse si uccide il lavoro, così come il contadino che riduceva il pasto del proprio asino fino a quando trovandolo morto disse “accidenti, proprio adesso che aveva imparato a non magiare e non mi costava più nulla”.
Chi ha votato sapeva bene, e senza essere un economista, che i tagli non sono mai temporanei, si taglia oggi per tagliare ancora domani, senza fine e fino alla perdita del posto di lavoro, un posto che, a quanto pare, era stabile e non minato da problemi di costi, ma solo da politiche sbagliate sulla gestione dei contratti di servizio.
Bordoni, nel suo studio, afferma anche che uno dei grandi problemi riguarda le commissioni da pagare sui biglietti, che per Alitalia sono una volta e mezzo quello che pagano i concorrenti, e che questo potrebbe essere dovuto ad una mancata capacità di negoziazione dei costi delle commissioni a causa di possibili incapacità manageriali, incapacità criticate in maggio senza perifrasi anche dal commissario Luigi Gubitosi e dal ministro Calenda.
Inoltre, sempre secondo Bordoni, nonostante il prezzo medio dei biglietti di Alitalia sia molto concorrenziale sulle rotte fra 800 e 1200 chilometri, il tasso di riempimento degli aerei è deludente, facendo pensare che forse abbassare le tariffe su quelle distanze, dove c’è la concorrenza delle compagnie aeree «low cost» e dei treni superveloci, sia uno sforzo inutile e persino dannoso, aggiungendo alla poca capacità negoziale con i fornitori, errori di strategia globale.
Tra questi, rileva servirebbero più aerei sulle rotte intercontinentali, di cui Alitalia non si è dotata nemmeno quando è entrato il socio forte Etihad «Perché l’Unione europea ha imposto a Etihad di fermarsi al 49% dell’azionariato. Se Etihad avesse acquisito una quota più alta, avrebbe investito molto di più, anche nell’acquisto di aerei a lungo raggio».
Quindi spese eccessive per i servizi, politiche tariffarie discutibili ed investimenti mancati, tutte voci ascrivibili al management e non alle maestranze che però rischiano ancora di essere gli unici a farne le spese.
Ma qui si tratta anche di cultura e di obiettivi, in una società in cui la dignità dei lavoratori non è più un valore da salvaguardare e si pensa solo a se stessi è impensabile anche solo immaginare che un dirigente possa provare vergogna per il suo operato e dimettersi: se sbaglia è sufficiente licenziare un po’ di personale e tutto torna a posto, con i risparmi immediati si paga la sua ricca buonuscita e lo si manda a far danni da un’altra parte.
Questo sembra essere anche quello che sta succedendo ad Alitalia, dopo il caso della “bad company”, a carico dello stato, e della “new company”, semi regalata ai “capitani coraggiosi” o “patrioti”, come furono definiti dall’allora premier Berlusconi per la cordata realizzata per salvare l’italianità della compagnia di bandiera, si pensa oggi non ai dipendenti ed alle loro famiglie, ma solo a fare cassa, vanificando ogni sforzo passato e senza individuare colpevoli, ma solo vittime: i lavoratori.
I ogni caso se il costo del lavoro e il numero di passeggeri per dipendente in Alitalia sono migliori, anzi molto migliori, di quelli delle concorrenti Air France, Lufthansa e British Airways ed il costo medio di ogni dipendente di Alitalia è di neanche 49 mila euro, rispetto a quello compreso fra i 70 mila e gli 81 mila euro delle grandi compagnie concorrenti e dovuto ad anni di tagli ed al ricorso al lavoro precario, il problema resta: cosa fare nel futuro?
Per volontà squisitamente politica la vendita pare oggi inevitabile, rischiando di disperdere altra forza lavoro a vantaggio di investitori stranieri senza troppi scrupoli, anche se la notizia degli ultimi giorni è che la cessione Alitalia, almeno, non dovrebbe vedere spacchettamenti, o quasi: i tre commissari straordinari Laghi, Gubitosi e Paleari hanno pubblicato il primo agosto il bando per la vendita prevedendo solo due opzioni per i possibili acquirenti, la vendita in blocco della compagnia aerea o la cessione separata della parte handling, dividendo la parte volo dalla parte terra.
In Francia il leader considerato più liberista d’Europa tutela il lavoro e statalizza i cantieri navali STX per proteggerli dal rischi speculazione e pensando al loro futuro, in Italia si cercano compratori ad ogni costo senza nemmeno considerare gli eventuali piani strategici, soldi freschi e nessuna previsione per il personale.
Ma qualcuno una soluzione ce l’ha e la grida da tempo con tutta la voce che possiede: Francesco Staccioli, dell’ Esecutivo Nazionale Lavoro Privato dell’Unione Sindacale di Base USB Trasporto Aereo, a proposito della vendita dichiara che pur non mettendo in dubbio le prerogative che la legge assegna ai commissari, “spetta al Governo prendere le decisioni strategiche che riguardano il patrimonio industriale e sociale del nostro Paese in un settore che registra una crescita a due cifre per il 2017 in Italia.”, preludendo ad una statalizzazione della compagnia.
Per USB, unico sindacato che insieme a CUB si era schierato fin dall’inizio contro i tagli del piano industriale ed escluso da tutti i tavoli di trattativa, la soluzione sarebbe quindi statalizzare nuovamente Alitalia promuovendo una gestione più competente e qualcuno nel sindacato arriva persino ad invocarne la “cogestione”, realtà applicata da moltissimi anni in aziende economicamente solide come le tedesche BMW e Mercedes e dove la partnership attiva con i lavoratori nei processi decisionali aziendali e la loro partecipazione ai risultati economici e alla redistribuzione degli utili ne migliora in continuazione competitività ed l’efficienza senza penalizzare troppo i lavoratori.
“Il Governo batta un colpo, senza più nascondersi dietro falsi alibi, tra l’altro smascherati impietosamente in Francia”, continua Staccioli riferendosi all’impossibilità di statalizzare dovuta ad un presunto stop dell’Unione Europea, “Settembre si profila un mese sempre più decisivo.”
Il destino di Alitalia, purtroppo, è nelle mani di un governo che fino ad ora ha salvato le banche con miliardi di euro pubblici per “salvaguardare i risparmiatori”, ma quando si è trattato di salvaguardare il lavoro è sembrato chiudere gli occhi e dimostrare incapacità di guardare lontano, creando precarietà e compressione di diritti in un’ottica miope per le future generazioni, in fondo se i conti dovessero andare bene oggi sarebbe merito di chi governa oggi, ma se il lavoro si svilupperà domani sarà merito di chi sarà al potere domani e nessuno lavora per dare meriti ad altri.
La questione resta la stessa, è meglio realizzare subito od investire per il futuro?
Auguri Alitalia, abbiamo bisogno di pensare a domani.

NON SOLO CERVELLI IN FUGA

DI PIERLUIGI PENNATI
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A quanto pare molti cervelli sono fuggiti da molto tempo, in particolare quelli di chi, pensando di essere il più furbo, supporta la devastazione del nostro paese favorendo lo sfruttamento e le vessazioni nel mondo del lavoro.
Ormai non sono più solo i cosiddetti “cervelli” a scappare dall’Italia, ma anche la mano d’opera, più o meno specializzata, che serve alla nazione per supportare l’economia dello stato ed in particolare una delle nostre industrie più importanti e redditizie: il turismo.
Favorito da un rapporto uno ad uno con gli impiegati e dai contratti a termine per le stagioni, il mercato della mano d’opera hoteliera non è immune allo sfruttamento dilagante, con offerte di lavoro che si trasformano in veri e propri ricatti per sottopagare il personale, approfittando del suo stato di necessità.
Schiavi, più che impiegati, alle dipendenze di molti albergatori e ristoratori senza troppi scrupoli.
È questa la storia di due lavoratrici tra i tanti, Maurizia e Antonella i loro nomi, che dopo un solo mese di superlavoro non pagato hanno avuto il coraggio di lamentarsi con chi le sfruttava e sono state cacciate seduta stante dall’hotel dove lavoravano senza possibilità di scampo, dovendo persino riparare per la notte nei locali di una associazione di volontariato ed ora la loro lamentela è diventata una forte denuncia.
A seguito di situazioni simili, non sempre denunciate e non sempre facili da segnalare, anche nell’industria del turismo gli operatori specializzati preferiscono ormai rivolgersi all’estero, dove un minimo di legalità e dignità dell’uomo sono ancora rispettate e la storia delle due coraggiose è così solo la punta dell’iceberg che sta cominciando ad emergere.
Se in altri settori lo sfruttamento sommerso è di più facile emersione per la complicità di una maggior concentrazione di persone in un’unica impresa che favorisce la solidarietà, nell’industria alberghiera e della manutenzione di stabili ed appartamenti i piccolissimi gruppi di lavoro di singoli operatori lo rendono incontrollabile ed elevatissimo ed è spesso frenato solo dall’etica dei datori di lavoro, che non essendo un requisito obbligatorio è maggiormente presente dove, spesso per ragioni culturali, la pratica dello sfruttamento del lavoro non è solo un divieto legale ma è mal vista nella società civile e pertanto meno praticata.
Così se gli italiani di oggi rifiutano alcuni tipi di lavoro, specie nella mautenzione e pulizia degli immobili, forse non è solo perché, per parafrasare una nota ministra, sono choosy (schizzinosi), ma anche  soprattutto perché i lavori cosiddetti “umili” o meno qualificati sono anche i più sfruttati e sottopagati.
Le lamentele denunciate da Maurizia e Antonella sono ben conosciute agli uffici vertenze sindacali, si tratta generalmente della mancata fruizione giorno libero, delle ore di straordinario non retribuite e che spesso arrivano a pareggiare le ore di lavoro minando la salute e dimezzando di fatto la paga rispetto al pattuito, della mancata assegnazione di un alloggio temporaneo, che aumenta i costi di soggiorno che dovrebbero, invece, essere inclusi nel contratto di servizio, del demansionamento di fatto, con l’assegnazione di compiti “accessori” di pulizia, facchinaggio e quant’altro non dovuti e non inclusi nel contratto, e della frequente nocività dei luoghi di lavoro della quale non si può discutere pena l’immediato licenziamento.
Ma se il lavoro non fosse così sfruttato ed i contratti di lavoro fossero dignitosi, quanti italiani sarebbero oggi contenti anche solo di poter pulire le latrine?
Purtroppo la dignità del lavoro, qualsiasi esso sia, non è più considerata nemmeno un optional e non solo in certe umili professioni, è emblematico il caso del lavoratore costretto ad urinarsi addosso alla FIAT di Chieti e se Maurizia e Antonella, impiegate per la stagione estiva sulla riviera romagnola, hanno avuto il coraggio di denunciare lo sfruttamento affrontando il licenziamento, centinaia di migliaia, e forse ancor più, di lavoratori, non lo fanno per non perdere anche quelle poche risorse che hanno faticosamente raggiunto.
Non c’è nessun Welfare, nessun diritto di cittadinanza che porti un colore della pelle od una nazionalità, quello che oggi subisce uno qualsiasi di noi lo subiremo domani tutti noi: negli anni ’70 andava di moda pensare che fosse normale pagare un lavoratore od una lavoratrice filippina di meno, ancorché, in quegli anni, in regola con le tasse, oggi ci lamentiamo dei cervelli in fuga, questi non sono altro che il risultato del generale disinteresse a quello che “succede agli altri”.
Non sono religioso, ma credo nell’etica della reciprocità come valore morale fondamentale e se il celebre rabbino Hillel, vissuto molto prima di Cristo lo aveva già capito e scriveva «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te: questa è tutta la Torah. Il resto è commento. Va’ e studia.», forse dovremmo interrogarci su quanto più socialismo ci sia nella religione rispetto a quanto oggi è riposto nella democrazia costituzionale degli stati, il nostro compreso.
Platone, ancor prima, sosteneva che «Una delle punizioni che ti spettano per non aver partecipato alla politica è di essere governato da esseri inferiori», se la pensiamo ancora come lui dovremmo riflettere molto attentamente sul continuare a scandalizzarci per quanto succede ad “altri” senza che “noi” si muova un dito.
Se davvero vogliamo che i cervelli, e tutto il resto dei loro corpi, restino a casa nostra dovremmo cominciare a pensare di più in modo sociale, collettivo e lungimirante.
Il nostro futuro è già nel nostro oggi.

ALITALIA È PRONTA PER IL BANCHETTO

DI PIERLUIGI PENNATI
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Lo avevano già annunciato nella riunione con i sindacati del  27 luglio scorso e tre giorni dopo lo hanno reso ufficiale: i tre commissari straordinari incaricati dal governo hanno emesso il bando definitivo per la vendita di Alitalia SAI e Cityliner, confermando il termine per la presentazione delle offerte vincolanti per il prossimo 2 ottobre.
Nel bando, articolato e circostanziato, si evidenzia la previsione di priorità per le offerte che garantiscano l’unicità aziendale, senza, però disdegnare la vendita della compagnia a pezzi che possano essere acquisiti da soggetti diversi e, secondo alcuni sindacati, la sorpresa nello spezzettamento sarebbe la previsione di scorporo del settore dell’handling, unico settore che anche nel corso delle gestioni da essi criticate produceva ricavi interessanti e che in conseguenza di ciò potrebbe ora essere venduto a parte, confermando le preoccupazioni di come la vendita possa diventare la spartizione delle spoglie di Alitalia a tutto vantaggio di competitori che potrebbero strappare alla nazione parti importanti di un mercato ricco come quello del trasporto aereo italiano.
Pur non mettendo in dubbio le prerogative che la legge assegna ai commissari, viene contestato che “spetta al Governo prendere le decisioni strategiche che riguardano il patrimonio industriale e sociale del nostro Paese in un settore che registra una crescita a due cifre per il 2017 in Italia.”.
Francesco Staccioli, Segretario Nazionale del Sindacato di base USB Trasporto Aereo, a proposito dello spacchettamento aziendale dichiara: “Per USB è inaccettabile persino l’ipotesi dello scorporo dell’Handling. Continuiamo a chiedere il blocco della svendita di Alitalia e pretendere che il Governo batta un colpo, senza più nascondersi dietro falsi alibi, tra l’altro smascherati impietosamente in Francia. Settembre si profila un mese sempre più decisivo.”
Al di là di altre possibili considerazioni, è ormai di dominio pubblico che la vicenda Alitalia nascondeva grandi limiti nella gestione della compagnia e che il problema non era il suo costo di gestione, in linea e talvolta inferiore a quello del mercato e dei concorrenti, ma, semmai risiedeva nell’ottimizzazione dell’organizzazione ed nella necessità di una strategia di miglioramento dei ricavi fino ad ora assente, quindi la scelta di vendere, o svendere, a pezzi la compagnia, tradizionalmente di bandiera e fiore all’occhiello dell’immagine italiana nel mondo, si fa davvero incomprensibile se non si pensi a realizzare a tutti i costi il realizzabile, senza tener conto del mercato del lavoro e del possibile impatto futuro sull’economia nazionale.
La pratica degli ultimi decenni ha evidenziato come ad ogni ristrutturazione, cessione, vendita, siano seguiti problemi occupazionali: il nuovo acquirente sistematicamente taglia i costi del personale ed ottimizza le spese anche comprimendone i diritti, producendo un amento della disoccupazione e vessando i lavoratori.
È questo il destino previsto per Alitalia?
Hanno sbagliato i dipendenti che a maggioranza assoluta hanno rifiutato ieri 2000 esuberi su 12000 dipendenti per doverne affrontare forse un numero maggiore in altre compagnie per effetto della vendita all’asta?
Inoltre, che tipo di reale danno sociale può provocare questa operazione?
L’emersione del reale stato di salute economica di Alitalia ha evidenziato come la compagnia fosse sana, come il personale non avesse alcuna colpa del suo dissesto economico e come le sue potenzialità fossero da sempre elevate, sarebbe ora sufficiente continuare a considerarla un “patrimonio nazionale” da difendere per poterla in breve tempo far ripartire.
In altri stati si operano scelte diverse a tutela del mercato interno del lavoro, in Francia, il leader considerato più liberista dell’Unione, pensa a statalizzare dei cantieri navali perché patrimonio indiscusso dello stato e scalzando persino il governo italiano che vuole investire in essi; in Germania è legge l’obbligatorietà della “cogestione” persino nelle aziende private, che realizza una partnership attiva con i lavoratori nei processi decisionali aziendali e la loro partecipazione ai risultati economici e alla redistribuzione degli utili migliorandone la competitività e l’efficienza; in Italia, invece, abbiamo ceduto, e continuiamo a farlo, grandi parti di aziende strategiche nazionali che, in qualche caso producevano, ed ancora producono, risultati importanti, come ENAV che realizza ogni anno oltre 70 milioni di euro netti di utile consolidato, vicini al 10% del suo fatturato e che sono persi per sempre.
Forse dovremmo cominciare a ripensare al mercato interno del lavoro come un bene da tutelare e non come un valore da svendere, forse dovremmo cominciare ad attuare la nostra Costituzione repubblicana, prima di pensare a smantellarla, forse dovremmo riflettere sul valore delle ultime tre parole della prima frase della nostra Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.

STAVOLTA HAI TOPPATO ALLA GRANDE

DI PIERLUIGI PENNATI
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pierluigi-pennati
Enrico Mentana carissimo, di solito mi piaci molto, però stavolta hai toppato alla grande.
Da giornalista ti sarebbe bastato leggere la prima ANSA del mattino per capire che dei lavoratori in procinto di essere licenziati, con la complicità di una legge che impedisce loro di scioperare persino quando perdono il posto, erano così disperati, arrabbiati e stressati da mesi di appelli caduti nel vuoto e nel silenzio stampa, che non hanno trovato di meglio che fare la “guerra tra poveri”, vale a dire impedire in modo estemporaneo a chi era stato assunto con meno diritti e meno stipendio di loro, all’unico scopo di “rubare” il loro posto di lavoro, di sostituirli.
Era il primo agosto?
Che ci vuoi fare, l’azienda ha scelto bene la data per metterli sul lastrico: quando quelli come te devono andare in vacanza e se ne fregano dei portabagagli, troppo umili e lontano dai ricchi vacanzieri…
Qualcuno è partito in ritardo per le vacanze e qualcuno, per quello che ha fatto, verrà sanzionato duramente, perderà il posto di lavoro e si troverà una multa salata per aver cercato di difenderlo.
Caro Enrico Mentana, se sei davvero sensibile ai problemi della gente, se davvero tieni alla repubblica fondata sul lavoro, rettifica, chiedi scusa e licenzia chi ti ha consigliato male, fossi anche tu stesso.
Chi è conosciuto e famoso come te provoca grandi benefici, ma può fare anche gravi danni, a te non costa nulla, anzi, ammettere i propri errori ti rende più grande e forti di tutti quegli stupidi che non sanno farlo.
Io sto con chi difende il proprio posto di lavoro, io sto con chi, per farlo, infrange le “regole” volute da chi non vuole essere disturbato mentre schiaccia i diritti degli altri e rovina le loro vite.
Fallo anche tu, stai con noi.
http://www.rds.it/podcast/100-secondi-con-mentana-01-08-2017-1057-01-08-20171057/