LAVORARE PER VIVERE, NON MORIRE PER LAVORARE

DI PIERLUIGI PENNATI
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L’occasione è la Giornata Mondiale sulla Sicurezza nei luoghi di lavoro, che si commemora il 28 aprile, la notizia è che il numero dei morti sul lavoro non solo non cala, ma se possibile è persino in aumento percentuale rispetto al numero degli occupati.
A denunciarlo sono tutti i sindacati, che nei giorni scorsi hanno anche sfilato in manifestazioni per la sicurezza in tutta Italia, e le cifre sono davvero impietose: secondo l’INAIL, ogni anno ci sono circa 1.200 vittime del lavoro nel nostro paese. Dato approssimativo, poiché il monitoraggio si riferisce esclusivamente agli assicurati dell’ENTE e non alla totalità dei lavoratori, considerato che per chi lavora in nero non avremo mai una statistica certa.
Agricoltori anziani, lavoratori in nero, sfruttati dal caporalato, stagisti, etc, tutti coloro che per qualche ragione sono invisibili all’INAIL, ma che in qualche modo sbarcano il lunario, sfuggono ad ogni controllo ed il più delle volte i loro infortuni vengono coperti con altre ragioni per evitare il peggio, si lavora per vivere, anzi, per sopravvivere e se si può essere scoperti per non perdere il proprio lavoro.
Di tutti questi soggetti, che non sono pochi, non si sa quasi nulla, ma anche degli assicurati si parla poco, le morti sul lavoro non fanno grande notizia da sole, presi come siamo dalla valanga mediatica che privilegia le notizie stupide, ma incredibili, piuttosto che le informazioni utili, ma noiose, così che ci accorgiamo delle morti sul lavoro solo quando gli incidenti assumono il valore di una tragedia collettiva.
Tra ricatti di licenziamento, precariato, taglio dei fondi per la sicurezza e la tutela della salute, intensificazione di ritmi, aumenti di carichi di lavoro e politiche di profitto sempre più spinte, le misure di protezione per la salvaguardia della vita dei lavoratori, così come le tutele del posto di lavoro, diventano un lusso che pochi si possono permettere e le percentuali di incidenti mortali si incrementano ogni anno di cifre con valore delle decine di percentuale in un sistema sociale quasi indifferente ed ormai diventato disumano del quale ci si ricorda solo quando si celebra una ricorrenza.
Siamo stati tutti Charlie Hebdo per un giorno, possiamo essere disgustati dalle morti sul lavoro per un altro, domani si ricomincia, come sempre.
Così la strage è ormai quasi quotidiana, originata all’interno di un sistema sociale ormai non più retto da regole sociali ma solo da politiche di profitto, che considerano le persone numeri e sacrificano le vite alla redditività del capitale trasformando, in quest’ottica, gli incidenti in veri e propri veri e propri omicidi del capitalismo killer.
Le prove stanno nel dato più eclatante dell’intera statistica, cioè che circa il 95% dei soggetti deceduti sul lavoro era persone che operavano in aziende senza la copertura dell’articolo 18, vulnerabili quindi al licenziamento in caso di rifiuto anche parziale di prestazioni per ragioni di sicurezza, e che nel restante 5% delle morti avvenute all’interno di aziende con l’articolo 18, molti erano comunque lavoratori esterni ad esse che eseguivano lavori al loro interno: artigiani o lavoratori di piccole aziende comunque senza articolo 18.
In quest’ottica diminuire le tutele del posto di lavoro, come per esempio con il Jobs Act, diventa un comportamento potenzialmente killer da parte dello stato che dovrebbe, al contrario, tutelare i lavoratori, ed in questo le strutture sindacali hanno una grande responsabilità e dovrebbero mobilitarsi in modo permanente, e non solo per un giorno, trasformando la loro azione di “concertazione”, che ha caratterizzato almeno l’ultimo ventennio, in azione di “lotta” per tornare a quelle tutele e quei diritti abbandonati da troppo tempo in cambio di valori salariali asettici: non si vende e tantomeno svende la sicurezza e la dignità dei lavoratori.
Da sempre si lavora per vivere, ma se si deve morire per lavorare è tempo di cominciare a fare qualche riflessione.

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