LA SARDEGNA E’ UNA MERAVIGLIA, SALVIAMO LE SUE COSTE

DI VIRGINIA MURRU

 

L’iter di approvazione del Piano Paesaggistico regionale in Sardegna non ha mai percorso strade semplici  da superare, a volte è stato un tracciato irto di ostacoli, con autentici ‘massi’ che ne hanno bloccato il transito. Soprattutto quando si è trattato di approvare un Piano  che ha inteso imporre vincoli precisi allo sviluppo edilizio scellerato nelle coste, il cui ecosistema e assetto ambientale ha richiesto interventi che ne preservassero l’equilibrio, evitando la moltiplicazione di cubature edilizie anche oltre i 300 metri dalla battigia.

L’iter più tormentato del Ppr in Sardegna allunga le sue ombre negli anni della Giunta presieduta dall’imprenditore Renato Soru (2004/08), personaggio piuttosto noto perché fondatore di Tiscali.

Ora ad amministrare la Regione Sardegna c’è una giunta di destra, guidata da un esponente della Lega, Christian Solinas, che già in campagna elettorale aveva reso noto il suo programma, nel quale era stato inserito un elemento chiave concernente lo svincolo dei limiti stabiliti sull’edilizia nelle coste dell’isola. In attuazione degli obiettivi programmatici, il 23 dicembre scorso è stato approvato dalla Giunta Solinas un disegno di legge che mira a demolire gli attuali vincoli finalizzati alla tutela delle bellezze paesaggistiche e l’equilibrio ambientale.

Si vuole quindi aprire una ‘breccia’ per altre disposizioni, attraverso concessioni più ampie, al fine di favorire e sbloccare il settore edilizio. Secondo il Presidente Solinas “saranno consentiti miglioramenti ed ampliamenti volumetrici del patrimonio esistente; sulle strutture ricettive ubicate in zone urbanistiche saranno consentiti aumenti di volume anche entro i 300 metri dalla battigia”.

Il disegno di legge che dovrebbe approdare in Consiglio regionale, è così titolato:

“Disposizioni per il riuso, la riqualificazione ed il recupero del patrimonio edilizio esistente e di materia di governo del territorio”.

Ed è  battaglia, una guerra dichiarata già all’indomani dell’approvazione della Giunta del cosiddetto ‘nuovo Piano Casa’, avvenuto, come già accennato, lo scorso dicembre. Ecologisti, associazioni ambientaliste, ma soprattutto le opposizioni in Consiglio regionale, promettono di ostacolare il provvedimento dell’esecutivo regionale con tutti i mezzi possibili.

Lo sdegno è andato oltre l’isola, e ha superato anche i confini della penisola, perché la Sardegna con le sue meraviglie è amata ovunque nel mondo. Chi si è avvicinato a questa terra ne è rimasto certamente affascinato, proprio per le atmosfere che sanno evocare le coste con i litorali liberi dall’assedio del cemento, che ne avrebbe altrimenti deturpato il delicato equilibrio.

Secondo esperti di diritto, in questo ambito non dovrebbe neppure essere possibile l’attuazione del Piano Casa, dato che il disegno di legge volto a riscrivere le norme di tutela dell’ambiente, approvate durante l’amministrazione Soru, non risulta ‘praticabile’. Il fatto è che “i piani paesaggistici regionali sono uno strumento di attuazione di una Legge dello Stato, il cosiddetto Codice Urbani, il quale è poi uno strumento di attuazione dell’articolo 9 della Carta Costituzionale.”

Lo spiega in un’intervista concessa a Il Manifesto il prof. Salvatore Settis, presidente dal 2007 al 2009 del Consiglio superiore dei Beni culturali. Egli parte da lontano circa gli interventi dello Stato volti alla tutela del paesaggio. Il primo organico risale al 1985 – afferma il prof. Settis – quando fu approvata la legge Galasso, con la quale gran parte del territorio nazionale veniva sottoposta a ‘vincolo paesistico’, ma non vi furono sostanziali cambiamenti”.

L’altro intervento, diretto ad attuale l’art. 9 della Carta costituzionale – afferma  Settis – si verificò nel 2004. Fu nel corso della XIV legislatura, l’allora ministro per i Beni Culturali, Giuliano Urbani, elaborò il ‘Codice dei Beni culturali e del paesaggio’, mediante decreto legislativo approvato dall’esecutivo, il quale fissava norme di tutela e valorizzazione, in un contesto di collaborazione tra il potere centrale e le autonomie locali. Ma nemmeno in quella circostanza vi fu piena aderenza e applicazione delle norme. Intanto solo 4 regioni aderirono, seguendo le indicazioni del Codice Urbani, e furono la Toscana, la Puglia, il Piemonte e la Sardegna.

Proprio quest’ultima, nel 2004, in ottemperanza a queste norme, mentre alla guida della Regione c’era una Giunta di sinistra con Renato Soru presidente, si dotò di un Piano paesaggistico regionale che divenne un autentico modello anche per alcuni paesi esteri. I tempi non furono lunghi perché il provvedimento fu attuato tra il 2004-2006.

Ora con l’attuale Giunta questo modello di Piano paesaggistico viene messo in discussione, ma è praticamente un obbligo mantenerne l’integrità, valore che non è solo dei sardi, ma di tutta la nazione. Questi Piani regionali sono uno strumento di attuazione di una legge dello Stato: il Codice Urbani.

Il prof. Settis sottolinea che si tratta di presupposti legislativi i cui fondamenti giuridico-istituzionali non prevedono interventi che escludano le norme di tutela concordate dalle Regioni con lo Stato, pertanto non è praticabile la loro ‘demolizione’ per sostituirla con altre norme.

Non sarà semplice rimuovere questi capisaldi, e non avrà un percorso facile il cosiddetto nuovo Piano Case che intende realizzare la Giunta Solinas in Sardegna. C’è un fronte ostico, con i suoi schieramenti, e sono gli ambientalisti piuttosto agguerriti, ma c’è anche la gente comune, i sardi, che non vogliono insidie all’immenso patrimonio paesaggistico e naturalistico che tutto il mondo riconosce.

E infine ‘last but not least’, direbbero gli inglesi, c’è lo Stato, il quale, nonostante la Sardegna sia una Regione a Statuto Speciale, non permetterà variazioni di questa portata quando i vincoli prima di tutto sono con le leggi emanate dal potere centrale, in quanto non può un Ente locale approvare norme in contrasto.

Il presidente Solinas tuttavia difende il provvedimento della Giunta, e afferma al riguardo:

 

“Con questo testo pensiamo di restituire ai Sardi un sistema di regole certe e uguali per tutti. Sarà così possibile migliorare il sistema edilizio, in una logica di rispetto dell’ambiente. Allo stesso tempo l’obiettivo è anche quello di mantenere gli impegni presi con gli elettori, con il programma  presentato un anno fa. Con l’iniziativa tuteliamo anche i legittimi interessi dei cittadini, dando impulso ad un settore di vitale importanza per l’isola, quello edilizio appunto, che ha perso 30 mila addetti in una decina d’anni.”

 

Gli fa eco l’Assessore all’Urbanistica, Quirico Sanna: “Il provvedimento sarà utile alle famiglie e agli imprenditori sardi, dato che sono state previste ‘premialità’ volumetriche e l’impiego di tecniche costruttive che permetteranno, qualora si tratti di demolizioni o ristrutturazioni, il recupero e reimpiego di componenti costituenti la struttura, uso di materiali locali e fonti di energia rinnovabili. Si mira al recupero di edifici esistenti ubicati in aree ritenute ad alta pericolosità idraulica. In tal modo si potrà coniugare l’esigenza di tutela e la valorizzazione delle caratteristiche paesaggistiche e naturalistiche, culturali e storiche del territorio, in sinergia con i criteri di sviluppo sostenibile.”

 

Sono giustificazioni che non convincono, l’avere fatto quadrato intorno al provvedimento, per difenderne l’opportunità, ha persuaso solo coloro che hanno interessi diretti nel settore, non la gente dell’isola che ha a cuore la difesa dell’ambiente, e che è consapevole dei danni che simili scellerate iniziative potrebbero arrecare al settore turistico. Altro che incentivare le presenze con maggiori ampiezze volumetriche con strutture che offrono spettacolari viste sullo splendido mare  dell’isola..

 

Il settore turistico è trainante in Sardegna proprio perché i viaggiatori sono attratti dagli spettacoli naturali che anche nel terzo millennio l’isola può ancora offrire. Il territorio, sia pure dopo innumerevoli conflitti, spesso a suon di vertenze e sentenze dei Tar, vigilanza e battaglie da parte delle Associazioni ambientaliste e semplici cittadini interessati semplicemente alla tutela dell’ambiente, è stato preservato. Ovunque la Sardegna offre autentici spettacoli paesaggistici e naturalistici che difficilmente si possono trovare altrove nel Mediterraneo. Questa è la ragione per la quale il turismo è in grado di trainare tutte le attività ad esso connesso.

 

La sola ragione che porta i turisti a dimenticare i disagi e i costi dovuti ai mezzi di collegamento – sia se provenienti dalla penisola che dall’estero – è perché poi si è premiati con visioni che incantano. La vacanza diventa rapporto diretto e stretto con una natura integra, in molte aree quasi selvaggia, questo è il senso della pace e del relax a lungo cercatati.

 

Se assaltando le coste con colate di cemento ci conformassimo e omologassimo al ‘regime’ urbanistico in vigore in altre località considerate di pregio ambientale, cesserebbe l’attenzione del turista nei confronti dell’isola, perderebbe il suo fascino, e ci scorderemmo tutti i riconoscimenti delle Associazioni ambientaliste, le innumerevoli ‘bandierine blu’, che sono poi le stelle attribuite alla qualità delle coste e alla limpidezza del mare.

Con questi intenti, e magari successive ‘deroghe’ in barba all’assetto naturalistico del territorio, il degrado delle coste è servito, ma anche l’interesse del mondo verso questa meravigliosa isola, che abbiamo il dovere di consegnare ai nostri figli integra sul piano naturalistico, così come ce l’hanno lasciata in dote le precedenti generazioni.

 

Il nuovo ‘indirizzo’ urbanistico che intende seguire la giunta regionale della Sardegna, rischia fortemente di agevolare la speculazione edilizia, si permetterà, per esempio, la costruzione di fabbricati per fini residenziali in aree agricole adiacenti le coste, anche ai non addetti al settore, ai non imprenditori agricoli o coltivatori diretti.

 

E così possedere anche una piccola proprietà a destinazione agricola, potrebbe favorire la costruzione di immobili e il consumo del suolo, addebitandone alla collettività le spese per la realizzazione delle opere di urbanizzazione, ma soprattutto sconvolgendo la pianificazione urbanistica esistente. A preoccupare sarebbero le grandi strutture ricettive, il loro ampliamento e dunque gli sviluppi volumetrici, con incentivazione di cubature, che congestionerebbe per ovvie ragioni la costa e gli accessi al mare, fino alla linea più prossima ai litorali anche nelle aree di pertinenza agricola. Non è una minaccia di poco conto, e non deve stupire l’allarme che un simile provvedimento ha provocato.

 

Le disposizioni sul Piano casa, prima che ottengano l’approvazione del Consiglio Regionale rischiano d’essere dichiarati incostituzionali. Il dibattito si è già allungato in parlamento, con un’interrogazione del deputato  pentastellato Mario Perantoni, il quale in un suo intervento al riguardo, afferma:

“in Sardegna c’è una Giunta di centro destra guidata dalla Lega, la quale ha fino ad ora dimostrato di non avere una visione innovativa di sviluppo. Ora si vorrebbe introdurre una modifica della Legge urbanistica, che prevede ampie concessioni anche all’interno della fascia costiera dei 300 metri dalla battigia, in deroga ai vincoli di inedificabilità di queste aree sotto tutela.”

Sul piede di guerra ci sono anche gli ecologisti del Gruppo d’intervento giuridico (Grig), che ha promosso la petizione popolare delle ’10 mila firme’ per bloccare il provvedimento della Giunta Solinas, volta alla salvaguardia delle coste dell’isola, rivolta al Ministero per i Beni e Attività Culturali, al Governatore stesso e al presidente del Consiglio regionale sardo, affinché non si sfiorino i vincoli di inedificabilità al di là dei 300 metri dalla linea di costa. Tante le firme di personalità di spicco, non solo in Italia: l’interesse su questi interventi nel settore urbanistico rivolto alle coste, è rilevante anche all’estero.

Dichiara il Grig: “Con la crisi economico-sociale che riguarda l’isola, e le emergenze  in ambito occupazionale, con un dissesto idrogeologico che mette a rischio tante zone della Sardegna, con calamità al seguito, e un contesto nel settore trasporti da terzo mondo, i politici che guidano l’amministrazione dell’isola sanno dare solo queste risposte, che poi sono le stesse da decenni, ossia favorire le opere che incrementano il livello di cemento nelle coste, giustificando il provvedimento come mezzo di stimolo per l’aumento dei flussi turistici.”

Secondo il responsabile del Grig, Stefano Diliperi, si tratta semplicemente di un programma politico ottuso e autolesionista. Bisogna prendere atto che si va ad insidiare la fascia più privilegiata, ossia le coste, favorendo la speculazione immobiliare. Il disegno di legge sul Piano Casa, approvato alla fine dello scorso anno, è soprattutto ‘misterioso’, non si conosce ancora e non è stato presentato al Consiglio regionale.

Gli ecologisti e tutti coloro che avversano il provvedimento, ritengono che sia una follia,  gli effetti in futuro potrebbero essere veramente deleteri, proprio per un certo tipo di turismo, quello che sceglie, nonostante le traversie per raggiungerla, questa meravigliosa isola.

E poi ci sono coloro che ritengono un limite allo sviluppo gli attuali vincoli, che hanno votato la destra nell’isola anche per vedere realizzata questa linea di cambiamenti. Per loro la Sardegna è la regione più tempestata di vincoli in Italia, ‘un’autentica riserva indiana’, ed è quindi il momento propizio per cambiare.

Quando l’ex presidente Renato Soru, nel 2006, con delibera n° 36/7 del 5/09/2006, decise l’adozione del Ppr, che fu poi approvato più avanti dal Consiglio Regionale, ebbe un’ampia cerchia  di approvazione e assenso, anche all’estero, dato che Spagna e Croazia, per esempio, adottarono il Ppr come modello per la tutela del territorio e veicolo di sviluppo turistico ed economico.

Soru fu anche nominato dall’Onu “Ambasciatore della costa”, per via dell’impegno nella difesa delle aree costiere. E tuttavia sappiamo che il Ppr non ebbe vita facile. Perfino il Governo Berlusconi fece ricorso, e all’epoca lo ostacolò, e non poco, anche se poi Soru non è personaggio arrendevole, e riuscì a suon di sentenze del Tar a farlo approvare, respingendo anche i tentativi di referendum indetti proprio con lo scopo di fermare la Legge n° 8 del 2004. Insomma, una traversia dietro l’altra.

I primi interventi di tutela risalgono al 1976, con legge regionale n° 10/1976, che ha sancito il vincolo di inedificabilità in una fascia costiera di 150 metri dal mare, norma che mirava alla tutela delle coste, a preservarle dal dissennato tentativo di trasformazione immobiliare. Dal ’93 il vincolo difende una fascia di 300 metri dalla battigia, sempre con legge regionale n° 23/1993.

Il Ppr approvato dalla Giunta Soru ha meglio definito i limiti e disciplinato il contesto di salvaguardia delle coste, confermando i criteri d’inedificabilità sui 300 metri dalla battigia marina (tramite gli art. 19-20 delle Norme di attuazione del Ppr), interventi riconosciuti dalla giurisprudenza che fa riferimento alla Costituzione.

E da qui non sarà semplice ripartire e cambiare rotta di marcia, quando c’è un ostacolo che si chiama, appunto, Costituzione.

 

 

IL GAP SI ALLARGA

 

Si allarga sempre  più in Italia il divario tra le classi  abbienti e quelle con redditi minimi, al limite della sussistenza. E’ l’Istituto di Statistica dell’Ue, Eurostat, a mettere in rilievo le differenze che segnano  distanze sempre maggiori tra ricchi e poveri.

Secondo i dati diffusi dall’Ufficio statistiche dell’Unione, il reddito percepito dai cittadini benestanti supera di ben sei volte quello dei meno abbienti. I dati fanno parte di una statistica ufficiale europea, che mette in rapporto diversi gruppi di reddito. Da questa relazione risulta che l’Italia è il peggiore tra  i Paesi europei che presentano un’alta densità demografica in ambito Ue.

Un’esigua fascia di popolazione (il 20%) – rispetto a chi percepisce entrate minime –  può contare su redditi elevati, superiori di sei volte, come si è evidenziato, rispetto a quel 20% di cittadini che vive ai margini in termini di risorse disponibili. Dall’analisi dei dati emerge che i giovani sono quelli più penalizzati, le risorse sulle quali possono contare sono anche più basse di quelle percepite dai pensionati. Gli over 65, infatti, grazie  al reddito della propria pensione, presentano un gap tra i due livelli di reddito (il più elevato e il più basso)  di 4,86. Mentre al di sotto di questa fascia d’età il rapporto sale a 6,55, differenza in aumento rispetto agli anni precedenti il 2018, quando si era a 6,34.

Nel 2018 il gap è diventato più marcato, dato che dal 5,92 è passato al 6,09, lievemente migliore rispetto ai dati emersi dagli studi relativi al 2016, quando la differenza di reddito tra ricchi e poveri era pari a 6,27.

Tra i Paesi europei, l’Italia è quindi è tra i più densamente popolati quello che presenta il rapporto peggiore tra le  ‘categorie’ di reddito prese in esame. La Gran Bretagna  ha un rapporto di 5,95 – la Francia  4,23 – la Germania a 5,07 – la Spagna (tra i peggiori) a 6,03.

Nell’ambito delle diverse aree di appartenenza nel Paese, si è rilevato che a Bolzano la differenza è meno incisiva, ossia vi sarebbe una maggiore uguaglianza per quel che concerne la percezione di reddito, non di sei volte superiore, come la media, ma di quattro volte.

Sul piano dell’analisi regionale (con dati però riguardanti il 2017), l’indice nazionale risulta essere al 5,9; con la Regione Friuli Venezia Giulia che presenta il gap più basso tra il 20% della popolazione con redditi elevati, e il 20% di quella con livelli più bassi: siamo a 4,1. Più o meno sullo stesso trend il Veneto e l’Umbria. Tra le Regioni in cui la forbice si allarga tra i due estremi, ci sono la Sicilia e la Campania, nelle quali l’indice supera il 7,4.

Gli studi si riferiscono, come si è precisato, al 2018 (a parte quello sulle regioni, del 2017), quando non era ancora entrato a regime il reddito di cittadinanza, o ‘Reddito d’inclusione, che certamente porterà delle variazioni nell’indice concernente il reddito della popolazioni meno abbienti sul piano di questi parametri.

Tra i tanti che hanno commentato i risultati degli studi Eurostat sui livelli di reddito tra ricchi e poveri in Italia, c’è quello del presidente del Codacons, Carlo Rienzi, che afferma: “Dati vergognosi, indegni di un Paese civile, che invece dovrebbe operare per ridurre le differenze.”

 

 

 

PROTOCOLLO D’INTESA ABI-SINDACATI: MUTUI SOSPESI ALLE VITTIME DELLA VIOLENZA DI GENERE

DI VIRGINIA MURRU

 

Una misura che in qualche modo fa ‘rima’ con la giornata odierna, oggi ricorre infatti “La giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”. L’Abi (Associazione bancari italiani), e le Confederazioni sindacali, hanno firmato un protocollo d’intesa per sostenere le vittime della violenza di genere, attraverso la sospensione di mutui in corso per la durata di 18 mesi.

L’intesa agevolerà le donne vittime di violenza, nel rimborso di eventuali crediti, iniziativa intesa come mezzo di contrasto alla violenza, che dovrebbe rientrare nell’ambito di misure più ampie ed efficaci da parte delle istituzioni, secondo il comunicato unitario delle segreterie nazionali di Fabi, First Cisl, Fisac Cgil, Uilca e Unisin.

Si legge al riguardo nel sito ufficiale della Cisl:

“Per questo  abbiamo unitariamente proposto ad ABI nel mese di ottobre di poter congiuntamente definire un protocollo che fosse un aiuto tangibile alle tante donne che coraggiosamente intraprendono un nuovo percorso di vita, per sé e per i propri figli, allontanandosi finalmente dagli abusi ed entrando nei percorsi di protezione, e che spesso sono in difficoltà economiche”.

In seguito all’istanza presentata dai sindacati l’Abi ha dimostrato sensibilità e volontà di offrire un sostegno attivo nei confronti delle vittime colpite da violenza di genere, anche col preciso intento di lanciare un messaggio forte in occasione della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, che, ripetiamo, ricorre proprio oggi 25 novembre. Dal dialogo con i sindacati è maturato l’accordo per la sigla di un protocollo diretto alla sospensione di mutui e finanziamenti riguardanti le donne vittime di violenza, inserite in percorsi certificati.

I sindacati ritengono che questo impegno sia un importante passo avanti, un altro, dato che, sia i sindacati che l’Abi, non sono nuovi ad iniziative di carattere sociale e culturale di questa rilevanza.

E infatti, proprio all’inizio del 2019, la cooperazione tra sindacati e Abi in temi di carattere sociale ha portato alla sottoscrizione della ‘Dichiarazione congiunta in materia di molestie e violenze di genere sui luoghi di lavoro’, il cui fine è quello di attivare una serie di misure volte al contrasto di ogni forma di violenza contro la donna, e pertanto a segnalare, prevenire e assistere le vittime coinvolte nel fenomeno. Tra le misure destinate alle vittime,  l’elevazione dell’uso del congedo orario o giornaliero.

Il protocollo siglato dai sindacati e Abi, per la data odierna, è un messaggio di presenza nei confronti delle vittime,  una iniziativa posta in essere per farle sentire meno sole e abbandonate dalla società.

Le donne che hanno rapporti di finanziamento con il settore bancario, hanno necessità di supporto “nei loro percorsi di libertà e ritrovata autonomia, e da oggi potranno sospendere la rata capitale dei mutui per il periodo del proprio percorso di protezione, fino a 18 mesi” – dichiara l’Abi.  Il protocollo avrà una validità di 2 anni, e si utilizzeranno tutti i canali idonei alla diffusione dell’informazione circa le iniziative intraprese, al fine di favorire l’adesione da parte delle vittime interessate.

Scrive la Cgil nel sito ufficiale, a commento della ricorrenza: “La violenza maschile contro le donne è un male antico e trasversale che interessa tutto il mondo e deve essere sradicato, garantendo così a tutte le donne il diritto alla libertà e alla dignità.”

DEUTSCHE BANK, IL MALE ACUTO DELLA FINANZA TEDESCA

 

DI VIRGINIA MURRU

 

Ovvero il gigante con i piedi d’argilla, come spesso è stata definita negli ultimi dieci anni. E di ragioni ce ne sono state, l’istituto bancario tedesco si porta dietro un lungo repertorio di cadute e ‘mezze rialzate’, che non hanno mai determinato la sospirata svolta.

Altri incidenti di percorso e valanghe sono seguite, lo sa bene il Governo tedesco, che senza fare tanto rumore è intervenuto per fasciare le ferite, adottando protocolli di cura non proprio ortodossi.

Non per Bruxelles; proprio il presidente uscente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, lo ha sottolineato senza peli sulla lingua durante un’intervista al quotidiano tedesco Handelsblatt, circa due mesi fa. Juncker liquidò con pochi spiccioli in quella circostanza l’arroganza dei tedeschi, i quali non hanno fatto altro che puntare il dito sui conti  pubblici italiani. Così, in poche caustiche parole,  nel corso dell’intervista disse: “I tedeschi amano lamentarsi degli italiani, ma anche loro hanno violato il patto di stabilità 18 volte – le ho contate – e continuano a farlo..”

Il colosso bancario tedesco intanto annuncia una perdita di 3,15 miliardi di euro nel secondo trimestre 2019, nello stesso periodo, lo scorso anno, si registrava un utile pari a oltre 400 milioni di euro. Proprio di recente il gigante teutonico ha annunciato tagli severissimi per l’occupazione, si tratta di 18 mila esuberi che non sarà facile ‘metabolizzare’.

Nel piano di ristrutturazione anche una bad bank, nella quale confluiranno titoli ad alto rischio per un importo di circa 74 miliardi di euro. E molto verosimilmente l’austerity non finirà qui. Tanti sono stati i piani di risanamento seguiti fino ad ora quale trattamento terapeutico di un male ormai cronico.  In realtà Deutsche Bank da una decina d’anni ha davvero dimostrato di avere i  piedi d’argilla, in tante circostanze anzi di non camminare con le proprie gambe, ma con il sostegno di finanziamenti pubblici.

Nella primavera scorsa si parlava di fusione con un altro grande istituto tedesco, il secondo per importanza: Commerzbank, ma poi questa unione a rischio tra un cieco ed uno zoppo non s’aveva da fare, e non si è fatta.

Si è pensato e ripensato ad una nuova impostazione di business, cambiando orientamento e obiettivi, ma in fin dei conti il protocollo di cura su questo colosso infermo non ha mai prodotto i risultati sperati. Secondo gli esperti in parte è dipeso dal fatto che per anni ha strizzato gli occhi verso l’America, attratta dal trading di azioni, mercato dei derivati. Ha insomma tentato di   seguire le orme di altri istituti blasonati a Wall Street. Ed è stato un fallimento, non poteva competere con gli istituti americani, da qui il proposito di tornare all’attività bancaria che comporta meno rischi.

Troppi errori di gestione e governance, che hanno fatto arricciare il naso agli azionisti, ora  di tutte le lotte in trincea per primeggiare a Wall Street resta una reputazione piuttosto compromessa, ferite  tutt’altro che cicatrizzate. Per un ancoraggio più sicuro si pensa intanto di mettere limiti rigorosi alla speculazione finanziaria globale.

Il piano lanciato poche settimane fa dal Cda di Deutsche Bank, comporterà a breve termine oneri per 3 miliardi di euro (nel secondo semestre dell’anno in corso), e una perdita che si aggira sui 3 miliardi.

Considerata la situazione finanziaria tutt’altro che rosea, la perdita già accertata di 3,15 mld di euro, non sarà un trattamento indolore.

Resta peraltro difficile accettare che, nel contesto di un’economia così solida come quella tedesca, s’insinuino ombre tanto insidiose nel comparto bancario, che avrebbe dovuto essere lo specchio di un andamento economico ben saldo ed efficiente. Eppure sia Deutsche Bank che Commerzbank hanno perso circa un terzo del loro valore in borsa. Non semplice da capire.

Sul tema rovente dei cosiddetti ‘aiuti di Stato’, sono stati in tanti ad alzare la voce.

Ma il settore bancario continua a trasgredire,  persuaso che la Germania possa permetterselo, trattandosi della locomotiva che traina l’economia dell’Unione. Ad affermarlo non sono i ‘detrattori’ all’interno dell’Unione europea, con frecciatine velenose, ma alcuni economisti tedeschi. Di recente se ne dava conto proprio in un articolo pubblicato sul Corriere Economia,

L’economista che si esprime in modo chiaro sulla questione ‘aiuti di Stato’ al settore bancario tedesco, è Martin Hellwig, che ha peraltro portato avanti studi “Sulla crisi finanziaria della Germania dal 2007 al 2017”. Un decennio nel quale la crisi di Deutsche Bank è esplosa in tutta la sua drammaticità.

Secondo la ricerca dell’economista tedesco, e le stime sugli interventi pubblici destinati a finanziare salvataggi di istituti di credito, le cifre sarebbero di tutto rispetto: 250 miliardi di euro il costo affrontato dallo Stato per gestire le crisi bancarie. Sui contribuenti tedeschi, di conseguenza, ha gravato per un importo di oltre 70 miliardi di euro.

Deutsche Bank ed altri istituti del comparto, sono stati aiutati indirettamente anche dal contributo dei Governi nei quali queste banche erano pesantemente esposte al rischio (Grecia, Irlanda, Spagna).

Per questo Hellwig scrive: “Senza il sostegno pubblico indiretto, le perdite delle banche sarebbero state maggiori, così come il contributo richiesto ai contribuenti tedeschi, gioco forza coinvolti nella crisi.”

Sottolineando che oltre alla crisi di Deutsche Bank, ci sono stati altri dissesti anche nell’ambito di istituti bancari pubblici, come quelli regionali WestLB, Hsh Nordbank, SachsenLB e altre. La spiegazione sta nei legami tra il mondo finanziario e quello politico: “Al governo servivano nel Bundesrat (Uno dei 5 Organi Costituzionali) i voti dei politici regionali, legati alle banche del loro territorio..”

Ed è proprio il legame quasi simbiotico tra la classe politica e gli istituti di credito locali e regionali, a spingere il Governo centrale, tramite il ministro delle Finanze, a chiedere di mostrare indulgenza verso le banche in dissesto, sull’orlo del default, il che non ha contribuito ad incentivare il senso di responsabilità, dato che poi proprio questi istituti hanno continuato ad operare sulla red line del rischio.

 

 

UE. SE PASSASSE LA PROCEDURA, 6 MESI DI TEMPO ALL’ITALIA PER SISTEMARE IL BILANCIO

DI VIRGINIA MURRU

 

Secondo quanto emerge dai verbali della Commissione europea, all’Italia si potrebbe concedere tempo fino al prossimo gennaio (anziché ottobre), per dare seguito alle modifiche delle politiche di bilancio. Le ragioni dei rilievi mossi dalle Autorità di Bruxelles sono note: il Governo italiano ha violato le regole < dell’Unione con il suo alto debito pubblico.  Secondo la normativa Ue le violazioni sono palesi, e pertanto la procedura d’infrazione è giustificata.

La procedura, secondo le dichiarazioni del presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, potrebbe essere avviata per anni, se Roma non si dà una mossa in termini di disciplina nei conti: “L’Italia rischia di restare intrappolata per anni se non si provvede ad un programma convincente di riduzione del debito, e si vorrebbe evitarlo, ma è necessario un serio impegno in questa direzione”.

Un articolo del Financial Times sostiene che la Commissione europea non procederà con le sanzioni contro l’Italia per deficit eccessivo (e debito), e darà così più tempo a Roma di raggiungere un accordo equilibrato con le autorità di Bruxelles. Secondo il Financial Times non sarà avviata la procedura in quanto il premier Giuseppe Conte, e il ministro dell’Economia Giovanni Tria,  si stanno adoperando in tutti i modi per evitare le sanzioni. Roma intende ridurre il Piano Spesa utilizzando oltre 5 miliardi di euro, a compenso di una posizione finanziaria tra le peggiori dell’Eurozona.

Questa volta il belpaese è stato comunque messo al muro, e non possono più esserci cedimenti in termini di ‘clemenza’ nei confronti dell’esecutivo italiano, i conti devono tornare secondo le regole dei Trattati. C’è anche di più: i direttori del Tesoro dei Paesi membri, ovvero i rappresentanti dei Ministeri del Tesoro, o Comitato economico e finanziario europeo (il cosiddetto Sherpa di Eurogruppo, ed Ecofin) hanno già confermato il parere della Commissione, ovvero ritengono che una procedura per debito eccessivo sia sensata e giustificata dagli accertamenti. Tali decisioni derivano dal rispetto delle norme  relative ai Trattati sul funzionamento Ue (ex articolo 126.4).

L’iter sulla procedura continuerà a seguire il suo corso qualora non si raggiunga un accordo ben definito tra Commissione e Governo italiano. Quest’ultimo dovrà fare ammenda delle raccomandazioni e ripetute richieste circa la riduzione del debito, sul quale si è transatto nel 2018, ma ora l’impegno per l’anno in corso e per il 2020 dovrà risultare chiaro e concreto.

Nei primi giorni di luglio proprio Ecofin potrebbe confermare la procedura, sanzione mai attuata nei confronti dei Paesi  membri in 20 anni di moneta unica.

Adesso la palla torna nelle mani dell’esecutivo europeo, che dovrà decidere se preparare una “raccomandazione di apertura della procedura”; alla fine poi sarà l’Eurogruppo a riunirsi e a pronunciarsi in merito. Tutto questo qualora non intervenga con impegni precisi il Governo italiano, e riesca a convincere la Commissione che ci sono state correzioni di rilievo in termini di riduzione del deficit, e che le risorse disponibili consentiranno una gestione più affine alla ‘compliance’ delle regole Ue sulle politiche di bilancio.

Tuttavia l’Italia, secondo i verbali della Commissione, resi pubblici negli ultimi giorni (ma su decisioni prese il 5 giugno), potrebbe avere ancora sei mesi (anziché 3) di tempo per adeguarsi alle norme Ue, e dunque fino al prossimo gennaio. Tutto questo se scattasse la procedura. Sulla maggiore elasticità dei tempi da concedere all’Italia per l’aggiustamento dei conti, c’è dietro Pierre Moscovici, il Commissario agli Affari economici e monetari dell’Unione.

Com’è noto, al Governo italiano la Commissione contesta la mancanza di sostenibilità dei conti pubblici, con un incremento eccessivo di spesa, senza le dovute coperture, che avrebbe contribuito all’aumento del deficit e del debito, già abnorme, e ben al di là di quel 60% del Pil richiesto dalle norme comunitarie. Mai gradite a Bruxelles le manovre cardine inserite nella Legge di Bilancio, cavalli di battaglia della coalizione di Governo.

Bruxelles si aspetta che Roma vari un “assestamento delle previsioni di bilancio”, il 26 giugno. Ossia domani. Il dialogo tra il premier Conte e la Commissione è continuo, ma sono attesi anche risultati ad Osaka, a margine del prossimo G20, si confida che i colloqui tra Juncker e Conte producano risultati positivi.

 

GLI UTILI DI BANKITALIA POTREBBERO EVITARE LA PROCEDURA D’INFRAZIONE

 

Se non propriamente un asso nella manica, probabilmente la questione degli utili inattesi potrebbe essere una carta importante per scongiurare gli strali di Bruxelles contro l’Italia, certamente il maggior gettito proveniente dalla redistribuzione degli utili di Banca d’italia, sarà un argomento idoneo a convincere la Commissione europea che il Paese merita  fiducia.

Le proveranno tutte il premier Giuseppe Conte e il titolare del Mef Giovanni Tria, presentando un ‘paniere’ di risorse che in questo momento si rivela strategico. Se ne terrà conto nell’assestamento di bilancio, che il Governo si accinge a presentare nel corso della settimana (mercoledì), del maggior introito dovuto dalla cedola che ha superato le attese, grazie alla quota di profitti annuali di Bankitalia, spettanti per Statuto allo Stato. A fine 2018 il Governo, nel bilancio di previsione triennale che ha accompagnato la Legge di Bilancio, aveva valutato con cautela il gettito: nell’ordine di 1,4 miliardi le risorse previste dalla redistribuzione degli utili della Banca Centrale, invece questi importi saranno molto più consistenti.

Lo aveva annunciato già a marzo il Governatore Ignazio Visco nella riunione annuale a Palazzo Koch, che Bankitalia si accingeva a ‘consegnare’ allo Stato un ‘dividendo’ di 5,7 miliardi, oltre il doppio delle risorse rispetto al 2017 (2,3 miliardi). Non si tratta dunque di una novità, anche se nei negoziati con Bruxelles diventerà quasi ‘provvidenziale’.

Nella relazione  davanti all’Assemblea annuale dei partecipanti (incontro svoltosi a marzo), Visco dichiarò che l’utile netto nel 2018 risultava di 6,2 miliardi, sottolineando che si trattava di un risultato che andava molto al di là di quello relativo all’anno precedente, che era stato pari a 3,9 miliardi di euro. In quella circostanza il Governatore spiegò che a contribuire al conseguimento di quel risultato era stato “l’ulteriore aumento delle consistenze dei titoli detenuti per finalità di politica monetaria, e una minore esigenza di accantonamento ai fondi patrimoniali a fronte dei rischi di bilancio”. L’utile netto da trasferire allo Stato doveva essere pari a 5,7 miliardi.

Nell’assestamento di bilancio si recepirà pertanto anche il ‘dividendo’ spettante allo Stato dalla redistribuzione degli utili di Via Nazionale, e si aggiungeranno anche le risorse provenienti da Cdp (circa 1 miliardo), e i maggiori incassi della fatturazione elettronica. A settembre, inoltre, sarà possibile quantificare ‘il risparmio’ derivante da Quota 100 e Reddito di cittadinanza, è già possibile valutare un riscontro di adesioni inferiore a quello indicato in bilancio, che si tradurrà pertanto in minore spesa.

Risorse che potrebbero riuscire ad abbattere il muro di diffidenze tra Roma e Bruxelles. Sarà certamente uno scudo valido nei negoziati, anche se finora il premier Conte ha definito queste trattative piuttosto difficili, con un esito tutt’altro che scontato.

Questa volta il meccanismo innescato sulla procedura d’infrazione si sta rivelando davvero arduo da superare, ma c’è anche un moderato ottimismo sulla possibilità che queste risorse riescano a fermare la valanga sulla procedura.

E’ il Quantitative Easing ad avere fatto la differenza sui profitti di Bankitalia, la politica monetaria espansiva, nonostante si pensi che abbia favorito soprattutto la Germania e la Francia, ha prodotto riflessi positivi importanti anche nei confronti dell’Italia. Basti pensare che nel volgere di tre anni i maggiori dividendi per lo Stato, nonché le maggiori imposte, hanno raggiunto ben 15 miliardi.

E in questo momento piuttosto delicato gli utili che arriveranno allo Stato da Via Nazionale, esercitano un peso notevole sul piano finanziario.

 

 

MEF. 5 MILIARDI PER EVITARE IL SEMAFORO ROSSO UE, MA BASTERANNO?

 

Non è detto che bastino a fare cessare le ostilità tra Roma e Bruxelles.

Per ‘scansare’ la procedura d’infrazione il titolare del Mef, Giovanni Tria, sta mettendo in campo ogni strategia utile a persuadere la Commissione Europea che l’Italia ha i conti in regola, può farcela a saltare il fosso, e riprendere le redini di una crescita più affine ai suoi ‘solidi’ fondamentali economici.

Ma questa volta a Bruxelles la partita è più complicata, gli interlocutori sono più diffidenti e non ci si dovrebbe stupire se hanno esatto garanzie veramente convincenti: c’è tutta la compagine dell’Unione, leader dei singoli Stati membri compresi, che ci osservano con lenti poco indulgenti.

E’ il tempo della concretezza dei numeri, e proprio con l’intento di presentare un quadro di prospettive relative al corrente anno e ai prossimi successivi, il Mef ha cercato in lungo e in largo tra le risorse dell’azienda Italia, al fine di riportare indietro di qualche decimale il deficit contestato (nonché debito) dalla Commissione europea.

Non si tratta di strategie da illusionista, ma il Mef ha cercato di ‘rastrellare’ miliardi ovunque fosse possibile attingere, ne occorrono almeno 5 per riportare la bussola del deficit ad un livello che risulti accettabile per le Autorità di Bruxelles. E’ necessario essere ineccepibili, la procedura d’infrazione è quello spettro che segue ogni passo del Paese, un’ombra incombente che deve essere quanto prima esorcizzata.  ‘Da lassù’ ci ricordano che la procedura ‘è giustificata’.

Bruxelles ha lasciato la porta aperta, c’è disponibilità al dialogo e alla trattativa, ma ogni tanto il Commissario agli Affari Economici e Monetari della Commissione, Pierre Moscovici, e il vice presidente, Valdis Dombrovskis, precisano tuttavia che i margini sono più ridotti: insomma non s’intende perdere tempo in buoni propositi.

Se si ragionasse secondo la logica delle regole e dei numeri, come il Trattato di Maastricht vorrebbe facessero i Governi degli Stati membri, si comprenderebbe che l’italia può solo accettare le strigliate, senza eccessive proteste, dato che il debito pubblico supera di gran lunga quello imposto dai Trattati (limite del 60% del Pil), in quanto risulta essere più del doppio di quello consentito, oltre il 132% del Pil.

Si dimentica poi che la stessa Costituzione italiana sancisce l’’obbligo’ di tenere i conti in ordine, proprio con l’Art. 81, che afferma:

“Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico.

Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali..”

Quanto a debito pubblico siamo proprio i più trasgressivi, peggio di noi solo la Grecia, dunque non sono giustificati gli strali continui contro le Autorità dell’Ue, che hanno solo il sacrosanto diritto d’imporre il rispetto dei Trattati..

A Bruxelles, secondo le notizie delle ultime ore, non si accontenterebbero neppure dei 5 miliardi resi disponibili dal Mef per riportare il deficit a 2,1. Ne occorrerebbero almeno altri 3.. Da qui il ricorso alla Cassa Depositi e Prestiti, che dovrebbe fornire, in misura eccezionale, un miliardo circa di cedola extra (oltre al miliardo e mezzo già incassato), in quanto il Mef è socio di maggioranza di Cdp (con l’88,77%). Misure eccezionali, appunto, quasi da emergenza, perché questa procedura non è la norma (pur se legittima) secondo il Consiglio di Amministrazione di Cassa Depositi e Prestiti.

Il ministro Tria ha in programma di ridurre il deficit di circa 10 miliardi nel corso del biennio. A subirne le conseguenze anche le imprese, ad essere bloccati saranno i 480 milioni dedicati dal Mef alla ‘competitività e sviluppo delle imprese’. Si tratta di incentivi destinati al sostegno tramite il sistema della fiscalità. A questi si sommano, nello stesso ambito, circa 150 milioni provenienti dal Ministero dello Sviluppo economico. Altre risorse saranno recuperate, per le stesse finalità, ossia la riduzione del deficit, da altri Ministeri, tra i quali la Difesa, Istruzione, Esteri (e non solo).

In questa ‘spasmodica’ ricerca di miliardi, dai tagli non si salva praticamente nessun Ministero, è uno sforzo sinergico del Governo volto a scongiurare la mannaia di Bruxelles, a tutti i costi è necessario evitare che il deficit salga quest’anno al 2,4%, e per riportarlo al 2,1% non è propriamente uno scherzo di questi tempi. Dietro ogni decimale ci sono, da parte dello Stato, sforzi non di poco conto, perché ogni decimale ‘funziona’ a suon di miliardi.

Bisogna anche dire che l’Italia non è tra i paesi meno virtuosi in termini di superamento della soglia del deficit, ha superato il 3% solo nel 2006. E tuttavia nel 2012 è stato rivisto il Patto di Stabilità e Crescita, il quale chiede agli Stati membri di portare il rapporto deficit/Pil il più vicino possibile allo 0, il che significa perseguire una politica economica che consenta il pareggio di bilancio.

Il premier Giuseppe Conte è a Bruxelles per rassicurare l’Ue e certificare che il deficit non sarà del 2,5% come previsto dalla Commissione, ma sarà ridotto al 2,1%. Ebbene non basta, dicono senza mezzi termini le Autorità che si occupano della ‘questione’ italiana.

Permangono delle divergenze tra il Governo e le Istituzioni europee, scrive l’Ansa nelle ultime ore. Moscovici dichiara che la Commissione prenderà in considerazione le affermazioni e rassicurazioni di Conte, “ma non si accettano commenti arbitrari sulle regole, si discute in base alle regole, che sono intelligenti e favoriscono la crescita”.

Tutto il lavoro di recupero risorse da parte del Mef, non incontra del tutto la soddisfazione degli interlocutori a Bruxelles,  sembravano sufficienti  4 miliardi di tagli strutturali (ma non c’è proprio certezza su questo punto, potrebbero essere anche 5), ossia 3 miliardi di maggiori entrate e 2 di tagli alla spesa, per riportare indietro il deficit fino al 2,1%.

Come già accennato, i miliardi recuperati non basterebbero, e per non indispettire i rappresentanti della Commissione ecco spiegata la ragione per cui il dipartimento al Tesoro del Mef è ricorso al nuovo maxi dividendo di Cassa Depositi e Prestiti, che si è conformata all’esigenza del momento, ma non ritiene la richiesta propriamente ‘canonica’.

Dietro tutto questo tumulto c’è sempre la voce fuori dal coro, il ribelle ministro dell’Interno, Matteo Salvini, che in un’intervista al Corriere insiste sull’esigenza di portare giù le tasse di almeno 10 miliardi. “Altrimenti lascio il Governo”, minaccia. Un ultimatum, che in queste ore, per la verità, quando il ministro  Tria e il premier Conte stanno facendo il diavolo a quattro per salvare il Paese dalle ire di Bruxelles, non sarebbe un incentivo per superare le ostilità.

Mentre l’Istat prospetta l’ipotesi di un calo del Pil nel secondo semestre, stime che non vanno a favore dell’ottimismo.

Dei 5 miliardi resisi necessari,  3 miliardi dovrebbero arrivare dalle maggiori entrate fiscali, in virtù della fatturazione elettronica, andata a regime a gennaio di quest’anno, che dovrebbe contenere peraltro l’evasione. Una parte dai dividendi versati allo Stato da Bankitalia, e società pubbliche (come  Cdp).

Ci sono ancora 2 miliardi di tagli ‘congelati’ dal 2018 nella Legge di Bilancio, ai quali si è spesso riferito il ministro Tria (si è già fatto menzione di queste risorse), tenuti da parte per eventuali emergenze, e finora ancora disponibili. Sono risorse che costerebbero lacrime e sangue, per dirla con un luogo comune, in quanto sottratti a settori che invece avrebbero necessità di sostegno, ma in questo momento si deve ‘tacere’ per il bene della Nazione.

C’è da precisare che si tratta di risorse che saranno incassate a breve, il problema è che Bruxelles esige dati certi, non si fida più di quelli presunti. Al momento Giovanni Tria esclude ancora una volta il ricorso alla patrimoniale.

Il cosiddetto ‘tesoretto’ di circa 5 miliardi potrebbe quindi non convincere del tutto l’Unione europea, in attesa, come scrive il ‘Sole 24 Ore’,  “che sia tradotto in atto d’intervento vero e proprio, l’intento d’impiegare anche ‘i risparmi’ legati al minore utilizzo dei fondi su Reddito di Cittadinanza e Quota 100, sempre al fine di limitare il disavanzo relativo al corrente anno, e portarlo al 2-2,1% del Pil”.

 

 

DONALD TUSK SULLE NOMINE UE: NON ESISTONO AUTOMATISMI, TUTTI ‘ELEGGIBILI’

DI VIRGINIA MURRU

http://www.europarl.europa.eu/news/it/headlines/priorities/dibattito-presidenza-commissione-europea/20190506STO44351/dibattito-per-la-presidenza-della-commissione-europea-i-candidati-al-confronto

(Link sul video pubblicato nel sito ufficiale del Parlamento europeo)

Il sistema degli Spitzenkandidaten, ossia dei candidati in pole position per il rinnovo dei vertici nelle istituzioni dell’Unione europea, non sarà più il percorso privilegiato per le figure indicate dai partiti politici europei già prima delle ultime consultazioni elettorali. Questo è il sistema adottato nel 2014, che ha poi espresso l’elezione dell’attuale Presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker.

E’ stato il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk a precisare che gli orientamenti per la nomina delle presidenze si baseranno su altri criteri. “Questo non significa – dichiara – che i candidati di punta saranno esclusi a priori, tutto è possibile.”

La Francia ha già fatto sapere che rifiuta per principio l’idea delle nomine su indicazione dei partiti, e dunque la logica degli spitzenkanditaten. Anche se, bisogna dire, questo iter di nomina ha una sua ortodossia, e non è un percorso sibillino per prevalere sugli altri. Per i candidati favoriti dai partiti si tratta in fin dei conti delle indicazioni formulate dagli elettori attraverso il voto, e dunque espressione della volontà popolare.

Convinzioni difese anche dall’attuale presidente del Parlamento europeo,  Antonio Tajani.

La danza delle nomine è appena iniziata, e non si presenta facile, intanto sarà il Consiglio ad avanzare le proposte, ma il Parlamento dovrà nominare. Per l’Italia le chances non sembrano molte, sconteremo certamente il clima di sfiducia che si è creato da un anno a questa parte, e certe ostiche diffidenze che non sarà semplice sbaragliare.

Intanto sul sito ufficiale del Parlamento europeo è stato diffuso un video che riporta i ‘proponimenti’ di alcuni parlamentari in merito agli obiettivi da perseguire, nonché i progetti fondamentali dell’Unione per i prossimi anni. Ieri, 28 maggio, è stato trasmesso su circa 35 canali e una sessantina di pattaforme online, il dibattito per la nomina del presidente della Commissione.

Il dibattito si è tenuto nel Parlamento europeo, moderato da alcuni presentatori televisivi. Per quel che concerne il diritto di parola, si è proceduto con l’estrazione a sorte. Si tratta di un importante confronto preliminare, perché dalle convergenze che ne deriveranno, si stabilirà la linea programmatica dell’Unione.

Il premier italiano Giuseppe Conte, alcuni giorni prima delle elezioni europee, ha cercato di mettere in rilievo il ruolo dell’Italia, proprio durante una visita a Palazzo Chigi del presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk. Conte ha sottolineato  l’importante contributo dell’Italia in ambito Ue, il fatto che, nonostante le attuali difficoltà economiche, resta il secondo Paese manifatturiero in Europa, la terza potenza economica dell’area Euro, nonché Paese fondatore, e pertanto “deve svolgere il ruolo primario che le spetta”.

Di fatto, nella compagine del Vertice informale dei leader europei, che ha avuto luogo ieri a Bruxelles, il presidente del Consiglio italiano non ha avuto incontri bilaterali, né, dopo tre ore di riunione, ha rilasciato dichiarazioni al riguardo. Al momento si avverte un clima di divisione tra gli Stati membri, i Paesi di Visegrad intendono comunque fare valere  le loro posizioni. L’Italia per ora resta ai margini, insieme alla Gran Bretagna, la quale, per ovvie ragioni, ha reso noto che non intende partecipare alle consultazioni sulle nomine.

Il PPE, per quel che concerne la presidenza della Commissione europea, sostiene con forza il candidato Manfred Weber (tedesco), e la Cancelliera Merkel naturalmente ne supporta la nomina. E’ appena cominciata questa prova di forze e di equilibri, per ora di nomi in rilievo non ce ne sono, saranno necessari ancora incontri e mediazioni per arrivare ad un accordo di consensi che soddisfi la maggioranza. Chi sarà investito del ruolo di guida del prossimo esecutivo, sarà un candidato dotato di requisiti e caratteristiche in grado di suscitare la fiducia degli Stati membri.

Angela Merkel ha sottolineato che il prossimo presidente della Commissione dovrà avere competenze ed esperienze ‘poliedriche’ in ambito Ue, oltre che comprovata esperienza e preparazione.

Esigere qualità e competenze adeguate fa parte delle sfide che attendono la prossima legislatura dell’Unione europea, che dovrà confrontarsi con un clima globale sempre più difficile,  la tendenza al protezionismo dell’establishment politico americano, che non riconosce nessuno degno di riguardi allorché si tratta di difendere i propri interessi interni, nemmeno i ‘parenti più prossimi’, ossia gli alleati storici di sempre, che sono poi l’origine del suo Dna di nazione.

L’Unione europea dei prossimi anni dovrà dunque misurarsi con una serie di incognite che richiederanno coesione e capacità di mediazione, e di conseguenza leader che sappiano rappresentare l’Europa, la maggiore potenza economica a livello globale. Il conflitto commerciale in atto tra Cina e Usa, non lascerà l’Europa immune da ingerenze e coinvolgimenti, e sempre più arduo diventa il ruolo di ‘spartiacque’ tra i due colossi.

Le nomine ai vertici Ue sono diverse, tra le altre in scadenza quelle relative a  due italiani in carica, i quali occupano posizioni chiave in ambito comunitario: si tratta di Mario Draghi alla presidenza dell’Eurotower (mandato che scade a fine ottobre), e Federica Mogherini, attuale Alto rappresentante dell’Ue per gli Affari Esteri e la Sicurezza, che ha peraltro reso nota la decisione di non riproporre la sua candidatura.

Donald Tusk ha già ricevuto l’incarico di sondare e negoziare nell’ambito del Parlamento, da queste consultazioni sarà possibile intuire l’aria che tira. Anche se nelle riunioni dei capigruppo, ossia conferenza dei presidenti, si è detto chiaro che è importante tenere conto delle indicazioni dei partiti, in definitiva però, a prevalere saranno i programmi e le figure più qualificate.

I Verdi, socialdemocratici, Sinistra radicale e Popolari  sono propensi ad una valutazione generale, ai candidati senza investitura già definita. “L’importante – hanno detto tutti al termine dell’incontro preliminare del 28 maggio a Bruxelles – è che la nomina avvenga in un clima di trasparenza, con il rispetto assoluto dei princìpi democratici”.

 

 

 

BREXIT. L’INDETERMINAZIONE TIENE IN OSTAGGIO IL POPOLO BRITANNICO

DI VIRGINIA MURRU

 

Nessuno immaginava all’indomani del voto che ha dato ragione alla ‘fazione’ dei ‘Leave’ (23 giugno 2016), e spalancato le porte alla Brexit, che il percorso per l’uscita del Regno Unito dall’Ue sarebbe stato così contorto e travagliato. Un iter che si credeva automatico – secondo le norme previste dai Trattati sull’Unione europea – nello specifico quello di Lisbona, tramite l’art. 50, che è appunto la clausola di recesso.

Tale articolo, che rimanda al meccanismo di recesso volontario e unilaterale, qualora uno Stato membro notifichi al Consiglio europeo l’intento di uscita dall’Unione, prevede modi e tempi opportuni per la definizione di un accordo che soddisfi entrambe le parti.

L’accordo si raggiunge con una serie di incontri, tra i rappresentanti dell’Ue e quelli del governo che intende recedere, e dunque, come si è accennato, dal Consiglio europeo, con deliberazione a maggioranza qualificata e previa approvazione del Parlamento europeo.

Raggiunta l’intesa, i Trattati firmati dal Paese ‘in uscita’, non saranno più applicati a partire dalla data in cui entra in vigore il recesso, o due anni dopo la notifica, anche se discrezionalmente, qualora ne ricorresse il caso, il Consiglio può prolungarne i termini.

L’Unione europea lascia sempre aperte le porte per un eventuale rientro, nel caso vi fosse un ‘ripensamento’ in merito, per esempio, come si sta ipotizzando ultimamente in Gran Bretagna, se il popolo chiedesse di tornare alle urne con l’indizione di un secondo referendum, il quale, di fatto, annullerebbe quello precedente che ne ha sancito l’uscita.

Non è affatto semplice la questione, quando vi è un popolo diviso, che partecipa e fa sentire il proprio dissenso sulle scelte operate dal governo in carica, e anche sulle delibere del Parlamento stesso, quando non riflettono propriamente la volontà popolare.

Di certo nel Regno Unito, se non si è arrivati alla soglia della guerra civile, non si è molto lontani. Gli ultimi due anni, che dopo il referendum del 2016, si ritenevano solo una fase di ‘acclimatamento’, e avrebbero determinato step by step il divorzio dall’Ue, sono stati invece gli anni più conflittuali per la democrazia britannica.

Non si riesce a trovare una via d’uscita; quando gli accordi con l’Ue sembravano finalmente decisivi, il ‘deal’ che ha presentato la premier Theresa May in Parlamento, ha scatenato un’ondata di proteste e di rigetto, che è poi sfociata nella clamorosa sconfitta della proposta, con un esito travolgente di voti contrari.

E così, l’accordo faticosamente raggiunto dalla delegazione del governo britannico e i rappresentanti Ue, è diventato poco meno di carta straccia, perché il volere di Westminster in fatto di democrazia, quando si tratta di temi così importanti, prevale su tutto, com’è naturale che sia in un regime democratico.

Ben pochi accetterebbero un’uscita dall’Ue senza accordi, il cosiddetto ‘no deal’, perché l’Unione europea sarebbe severissima al riguardo, e in questo momento metterebbe a serio repentaglio le finanze della Gran Bretagna, che già ha riportato ingenti danni dall’esito del referendum sul piano economico. Tartassata in primis dai mercati, che non hanno mai accettato la Brexit, né tanto meno è stata benedetta dalla City, cuore pulsante della finanza del Paese, e fortemente penalizzata, ancora prima del divorzio effettivo dall’Ue.

A fare la differenza è l’ostinazione di una leader di ferro: Theresa May non è una che si lascia impressionare dal dissenso, nemmeno da quello che sta imperversando tra i Tory, lei va avanti imperterrita, non si cura nemmeno dell’ironia dei parlamentari, che non le risparmiano la loro ostilità, frecciatine caustiche, quando non risate sarcastiche.

Se non è una copia fedele di Margaret Thatcher, di sicuro le assomiglia parecchio. Solo che la ‘lady di ferro’, aveva davanti a sé uno scenario  ben diverso. Allora l’Europa era un faro, una terra promessa per i britannici, almeno se si argomentava intorno al mercato unico, nella quale la Thatcher credeva fermamente.

Non credeva nella federazione di carattere politico, ossia negli Stati Uniti d’Europa, e dopo alcuni anni dalla firma dell’’Atto Unico’,  ebbe comunque qualche ripensamento, in quanto era persuasa che l’Unione costasse troppo al Regno Unito. Cominciò così a rimbrottare sulle quote versate, fino a dichiarare pubblicamente, rivolgendosi alle autorità di Bruxelles: “I want my money back” (rivoglio indietro i miei soldi). Frase rimasta famosa, che era poi il riflesso degli umori dell’establishment di Londra, emerso infine con il rifiuto di aderire alla moneta unica. E’ sempre stato un rapporto di odio-amore, in definitiva.

Operatori economici e finanziari, il mondo dell’industria e dell’imprenditoria in generale, sono in allarme da anni sulla questione Brexit: abbandonare il mercato unico significa ignorare mezzo miliardo di potenziali consumatori, con i quali la Gran Bretagna ha stabilito nel tempo un rapporto d’interdipendenza commerciale non di poco conto. Entrare in rapporto con i ‘27’ Paesi dell’Unione in qualità di partner “extra europeo”, per quel che concerne le frontiere doganali, non sarà più semplice come lo è stato finora, sarà anzi piuttosto penalizzante. Sono queste le ragioni – senza tuttavia trascurare i forti legami culturali di appartenenza – che hanno indotto tanti cittadini britannici a cambiare opinione sul voto, al punto che, gli ultimi polls, danno i ‘Remain’ avanti rispetto ai ‘Leave’, con al seguito una buona percentuale d’indecisi.

Intanto, anche Airbus e Sony hanno annunciato che, in caso di Brexit no-deal, saranno costretti a fare scelte molto dure per il Regno Unito. Tom Enders, Ceo di Airbus ha fatto sapere che seguirebbe Dyson, multinazionale inglese che produce elettrodomestici in più di 70 paesi, e ha circa 7 mila dipendenti in tutto il mondo, pronta a lasciare la Gran Bretagna se non vi sarà un’intesa commerciale con i partners dell’Ue. Intesa che non penalizzi il libero scambio, naturalmente.

Airbus è una grande azienda che produce le ali dei suoi aerei, con oltre 14 mila dipendenti in RU, ma non ci saranno ripensamenti qualora Theresa May volesse percorrere a tutti i costi la via della Brexit: lasceranno il Paese, come tante altre grandi aziende, alcune delle quali si sono già trasferite in Cina.

Anche  Sony ha deciso di spostare la sede europea in Olanda, affinché siano garantite le relazioni commerciale con i ‘27’ dell’Ue, qualora si prospetti la peggiore ipotesi sulla Brexit, quella che va avanti anche senza accordi con l’Unione. E del resto Sony non è l’unico gruppo giapponese ad avere abbandonato la sede di Londra, anche Panasonic, a fine 2018, ha deciso di trasferirsi in Olanda. Il modo migliore di tutelarsi dal ciclone che si abbatterebbe sul Regno Unito, nel quale regnano il caos e il disorientamento da oltre due anni. In coda, pronte ad emigrare in lidi più accoglient,i ci sono anche Hitachi e Toshiba, cancellati i loro piani d’investimento sul nucleare nel Galles. E altri ricollocamenti (favorita Amsterdam), sarebbero già pronti.

Il fatto è che una scelta di questo tipo, soprattutto per quel che concerne l’assetto politico e territoriale del Paese, non è per nulla facile. Ci sono le frontiere con l’Irlanda, che di certo non vuole saperne di lasciare l’Unione europea, a creare non pochi problemi, e poi c’è la Scozia, che dai tempi di Maria Stuarda non ha mai avuto un rapporto propriamente disteso e in armonia con Londra, ne ha piuttosto subito il potere.

Un’ostilità, quella della Scozia, sfociata in un referendum per la secessione nel 2014, che ha perso per poco. La premier scozzese Nicola Sturgeon, non ha mai gettato la spugna, e sta esercitando pressioni più che mai per favorire un secondo referendum sulla Brexit, consapevole che gran parte del popolo non vorrebbe abbandonare le relazioni con il vecchio continente. Ci sono ostacoli che rendono la strada del divorzio dall’Ue praticamente impercorribile, non si trova un’intesa in Parlamento, ed è  veramente il caos, basti pensare al fatto che l’accordo raggiunto con l’Unione europea a novembre – che la premier May ha poi presentato il 14 gennaio – è stato bocciato con il doppio dei voti che sono stati espressi a favore.

Quando si è posta la questione ‘fiducia’ sulla premier, il Parlamento l’ha fatta passare, sia pure per una manciata di voti. E’ la dimostrazione in definitiva che tra i rappresentanti del popolo vi è ancora molto disorientamento, e di questo ne stanno pagando le spese anche i laburisti, con il leader Jeremy Corbyn, travolti da queste raffiche d’incertezza e indeterminazione. I laburisti, sostenuti dai parlamentari scozzesi e tanti anche dell’Ulster, taglierebbero la testa al toro e andrebbero diritti verso una seconda consultazione referendaria; ma in Parlamento su questa scelta estrema – ma forse la più sensata – sarebbe dubbia la maggioranza dei consensi.

Il fatto è che i politici contrari ad un secondo referendum – Theresa May in primis – stanno ossessionando l’opinione pubblica con la supposta incostituzionalità di un simile provvedimento, come fosse un tradimento della volontà popolare. Ma intanto nella consultazione del 2016 non si sono raggiunti i due terzi dei consensi per i sostenitori della Brexit, e quindi una seconda ‘chiamata’ rientrerebbe pienamente nelle opzioni previste dalla normativa. Una scelta di questa importanza, proprio per il rispetto della volontà popolare, non si potrebbe fare passare con un margine di scarto che non raggiunge neppure il 2% (Il Leave prevalse con il 51,9%).

E si dimentica che la Corte europea di Giustizia, proprio due mesi fa, si è pronunciata in merito, e ha sancito che l’Art. 50 del TUE, o Trattato di Lisbona, il quale prevede l’uscita di uno Stato membro dell’Unione, anche qualora siano state create le condizioni per questa scelta, possa essere revocato (dal Regno Unito in questo caso) unilateralmente,  senza il voto favorevole degli altri Stati membri.

Certamente un ulteriore colpo per la premier May, dato che tale delibera della Corte è arrivata proprio quando si stava presentando in Parlamento il fatidico ‘accordo-compromesso’ con l’Unione, raggiunto a novembre scorso.

Com’è noto il nodo più stretto da sciogliere era Westminster, che ha respinto i negoziati con Bruxelles, perché non va giù la questione delle frontiere in Irlanda del Nord. C’è già un allarmante fermento al riguardo: l’Official Ira (Irish Republican Army), mette in guardia su scintille di tensioni che potrebbero riesplodere, ci sono i dissidenti che non si sono mai rassegnati agli accordi di pace del 1998.

In ogni caso se nell’isola si ripristinasse la frontiera, il rischio sarebbe altissimo, la recente esplosione dell’autobomba a Derry, è già sintomatico di un’atmosfera in cui si respira pesante. I passi successivi saranno determinanti per un assetto che garantisca la pace nell’isola. Eppure la premier non sembra  abbia dato finora grande peso a quella miccia che rischia di scaraventare di nuovo l’Irlanda in un incubo di tensioni (definite anche ‘troubles’), che ha causato in pochi decenni 3.500 vittime.

Una guerra civile terminata vent’anni fa con il cosiddetto “Accordo del Venerdì Santo, o Belfast Agreement”, tra i rappresentanti del Regno Unito e della Repubblica d’Irlanda. Le tensioni in Irlanda, del resto, erano iniziate già un millennio prima, in seguito all’invasione degli inglesi, mai accettata veramente, nonostante la divisione in due dell’isola, stabilito dal “Government of Ireland Act”, siglato nel 1920.

Non c’è mai stata piena accettazione dei confini, quella sfera d’influenza che delimita la giurisdizione dei due Stati.  L’autorità del Regno Unito è stata sempre avvertita come un abuso, un atto di prepotenza. Cattolici e protestanti non sanno convivere serenamente, e lo dimostrano le 150 vittime che si contano anche dopo i negoziati di pace del 1998.

La Gran Bretagna, che dopo Elisabetta I, ha cominciato il suo dominio sui mari e intrapreso una politica di colonialismo sistematico, permettendole di diventare nel corso dei secoli uno dei più grandi Stati imperialistici della storia –  madre patria del Commonwealth – oggi lotta per evitare la disgregazione delle tre ‘nazioni’ che la compongono, ossia Inghilterra, Galles e Scozia.

Quest’ultima insidia l’autorità politica di Londra e continua con forza a chiedere la secessione. Gli avvenimenti storici, che già hanno ridotto ai minimi termini il territorio britannico, ora prospettano ulteriori rivolgimenti, che potrebbero ulteriormente cambiarne le sorti. La Brexit si sta presentando come un vero e proprio ordigno, che deflagra in ogni direzione, destabilizza equilibri conquistati a fatica, e somiglia al lancio potente di un sasso su una superficie di acqua, che provoca cerchi concentrici, ne agita l’immobilità: crea movimenti che non ci si aspettava.

Certo se l’ex premier David Cameron, non avesse indetto la fatidica consultazione referendaria (per ragioni di compliance elettorali), oggi tutto sarebbe stato diverso. Ma certamente non immaginava che, veramente in quel momento, si preparava un ordigno che rischiava di aprire le porte ad una guerra civile: il popolo è sicuramente diviso.

Churchill, con la sua proverbiale calma, e la tendenza a risolvere le questioni con buon senso, acuto nel presentire e abile nelle strategie, avrebbe trovato un modo per spezzare questa sorta d’indeterminismo e disorientamento del  popolo britannico. Vista dall’esterno, la Brexit è un focolaio di confusione: caos, non affine all’ortodossia dell’ordine concepito dall’indole degli inglesi.

Perfino in parlamento le iniziative si concludono in risoluzioni che restano indefinite, non c’è un decisionismo tale da portare, per dirla con un luogo comune, “a tagliare la testa al toro”. Un secondo referendum è ritenuto un abuso contro la volontà del popolo, ma in realtà è sempre un mezzo democratico che permetterebbe di avere oggi una visione più chiara di quello che realmente i britannici vorrebbero su una scelta così importante sul piano politico ed economico.

E invece si temporeggia, si va avanti con rimbalzi di presunte responsabilità, accuse sterili: indecisionismo che sta facendo molto male all’economia del Regno Unito, ma soprattutto non si dovrebbe sottovalutare la tensione che serpeggia ovunque, anche nelle istituzioni. E basterebbe pensare alle dichiarazioni del ministro della Salute Hancock, che ha accennato  alla possibilità d’introdurre la pena capitale, qualora ci fossero individui che si rendessero responsabili di disordini volti a mettere a rischio la stabilità dei ritmi di vita nel Paese. Siamo a questi livelli, e dopo l’esplosione dell’autobomba nell’Irlanda del Nord, il Regno Unito sta affrontando davvero una seria emergenza sul piano politico, civile e sociale.

Se Londra deciderà di non cedere ad un secondo referendum, e optasse per il no-deal, l’Irlanda si presenterà davanti ai rappresentanti degli altri Stati membri dell’Unione, alla fase due dell’iter previsto dalla Brexit, con un veto, se non ci saranno precisi accordi sui confini con l’Ulster. Nel corso dei negoziati di pace di Belfast del 1998, per imporre la pace dopo una sanguinosa guerra civile, si stabilì che non sarebbero state più ripristinate frontiere dure. Ma la storia insegna che nulla è per sempre.

La premier Theresa May è riuscita a concludere l’accordo con i 27 paesi dell’Unione, proprio facendo concessioni sui confini con l’Ulster, per quel che riguarda i traffici commerciali. Accordo che non è stato accettato dalla maggior parte dei parlamentari di Westeminster. Si sta seriamente pensando ad una dilazione dei termini che rendono attivo l’art. 50, il quale doveva scattare a fine marzo. Il Paese non è preparato ai passi successivi, né i 27 Paesi membri dell’Unione europea intendono fare ulteriori concessioni a favore del governo britannico.

In primavera le prospettive saranno sicuramente più chiare, al  momento una soluzione risolutiva sembra interdetta proprio dalla situazione d’indecisionismo e di stallo che si è determinato,  in gran parte dovuto all’ostinazione della premier di non dimettersi, nonostante, in termini di consensi, abbia collezionato una serie di sconfitte.