PERDONO..

Perdono
 
perché io non son sottomessa
una che piega il ginocchio sul male
e, cosa inaudita,
chiama l’arroganza per nome.
 
E son scellerata
giro intorno alla verità
come un’ape intorno al suo favo.
E poi perché son implacabile
con le mie istanze di pace
amo provocare, essere schietta,
proprio per fare “male”.
 
E lucido le scarpe del giusto
ho la strana mania di rovistare cassetti
dentro coscienze tiranne,
che non mi lascian passare.
 
‘Diritto alla privacy’, dicono.
Cos’è la privacy?
Un dogma della libertà?
la mia è stata linciata.
 
Perdono anche perché
io non so profanar soglie altrui
e la mia innocenza non è inganno,
non è scalpo da esibire come trofeo.
 
E poi son guastafeste
insolente
responsabile di piani falliti
di utopie scritte con l’inchiostro dell’abominio.
Perdono anche perché
io non sono perfetta,
Dio basta a se stesso..
 
E poi perdono, perdono
perché i sentimenti per me
non sono affare di Stato,
ma un conto serio, privato.
 
Perdono infine per l’intransigenza,
perché su sacri valori
io non voglio giocare,
sul rispetto voglio esagerare,
e trattandosi di libertà,
meglio approssimare per eccesso.
 
maggio 2003

CGIA. NEL VOLGERE DI 10 ANNI SCOMPARSE 165MILA IMPRESE ARTIGIANE

DI VIRGINIA MURRU
 
‘A conti fatti’ somiglia ad una strage di piccole imprese artigiane, il Centro Studi di Mestre, fa il punto su una situazione che è speculare di un andamento strettamente legato alla crisi economica esplosa nel 2007/8, e della quale, forse, ci si è illusi di avere chiuso i cancelli. Intanto, secondo i dati di Cgia, 165mila piccole imprese si sono spente, senza fare troppo rumore, anche se poi, in questo quadro piuttosto desolante, la realtà viene in superficie.
 
L’ultimo quinquennio sembrava avere imboccato il percorso della ripresa, un ciclo economico che non si pensava potesse esaurire la sua potenza propulsiva nel volgere di un periodo così breve, eppure i ‘motori’ del sistema nel 2018 hanno cominciato a rallentare ancora, e siamo di nuovo in affanno. Tuttavia non è un trend che riguarda solo l’Italia, in ‘regime’ di globalizzazione è difficile che gli urti della crisi siano circoscritti all’interno di uno Stato, troppe sono le variabili che attraversano i confini e portano i riflessi ovunque, sono gli “effetti collaterali” delle strette interconnessioni sul piano globale.
 
Ma per l’Italia, come ha questi giorni sottolineato il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, è anche peggio: “se non si incentiveranno i risultati consistenti di carattere strutturale, intervenendo sulle riforme, il rallentamento di natura congiunturale a livello globale, da noi può davvero trasformarsi in un ristagno o in un calo dell’attività produttiva”.
 
Riassunto in una parola: “recessione”. Che è poi il motivo di fondo delle ultime analisi Istat ed Eurostat. E non solo: a suonare l’allarme nel 2018 sono stati in tanti, e i mercati non potevano mancare in questo concerto di note stonate. L’economia italiana è quella che procede con maggiore lentezza, ogni colpo viene assorbito con effetti peggiori.
 
E certo non si possono ignorare le cause di questo rallentamento dell’economia globale, non si possono escludere le tensioni causate dalle sfide commerciali tra Cina e Usa, quelle geopolitiche, le incertezze che da quasi tre anni sta iniettando la Brexit, conseguenze che non si riflettono solo in Europa, ma, com’è facile intuire, sul sistema globale. E non ultimi gli effetti prodotti dalla politica monetaria della Bce, che il 31 dicembre scorso ha posto fine al programma di acquisto di asset, dopo un anno e mezzo circa di tapering, ossia di graduale riduzione degli interventi (Qe).
 
Tante sono le interdipendenze di carattere economico e finanziario che incidono sui diversi sistemi sul piano globale, e l’Italia che politicamente si è avviata su un percorso di transizione, ne ha subito i colpi e i contraccolpi. Per questo l’economia, a partire dal secondo trimestre del 2018, ha cominciato ad annaspare, i più importanti indicatori economici hanno esaurito l’energia della ripresa lasciando intravedere quel tunnel tanto temuto, ossia la strada che si rastrema e porta verso la recessione.
 
Potrebbe trattarsi del passaggio nel ‘ponte’ di una transizione che ha prodotto effetti a catena, e la ripresa, secondo le dichiarazioni dell’esecutivo in carica, dovrebbe essere dietro la porta. Ma intanto c’è un senso serpeggiante d’incertezza e timore di un nuovo baratro.
 
Secondo il Centro Studi Cgie, la “moria” di piccole imprese artigiane, è un flusso che corre con impeto da ormai una decina d’anni. Se la differenza tra il 2018 e il 2017 è stata pari a -1,2% – in termini di numeri di 16.300 unità d’imprese chiuse – considerando un arco di 10 anni il bilancio è per ovvie ragioni peggiore: -11,3%. Sempre secondo il resoconto del Centro Studi, al 31 dicembre scorso il numero di imprese artigiane “vive”, attive, era poco al di sopra di 1.300.000mila unità. Delle quali, il 37,7% nel settore edilizio, il 33,2% nei servizi, il 22,9% nel settore produttivo e il 6,2% .
 
Tra le cause della chiusura di queste piccole imprese, ce lo ricorda anche l’Istat, è il calo dei consumi delle famiglie, l’aumento della pressione fiscale e il nuovo picco registrato nel costo degli affitti, ragioni che hanno portato alla deriva le imprese artigiane. Da non trascurare – secondo il coordinatore dell’ufficio Studi, Paolo Zabeo, l’influsso delle nuove tecnologie e produzione in serie, che hanno indubbiamente danneggiato le professioni legate all’artigianato,
contraddistinte proprio dalla manualità della loro produzione.
 
E non è difficile concordare con l’analisi di questo risultato, dove la componente sociale e nondimeno culturale, sono dettagli importanti, perché gli artigiani tramandano arte e cultura nel tempo, e quando decidono di chiudere i battenti perché non si riesce a stare a galla nel marasma della concorrenza, soprattutto quella derivante dalle sfide tecnologiche, si perde lentamente tutto un patrimonio di saperi e conoscenze che vengono da lontano. E’, questo, forse, uno degli aspetti più dolorosi: sono le ferite che si lasciano sulle caratteristiche culturali di un territorio, a lasciare il segno più forte nel tessuto sociale.
 
Il mezzogiorno, sempre secondo i riferimenti degli studi portati avanti da Cgie, è la macro area del Paese nella quale ricade il danno maggiore. Ci sono i numeri a raccontarlo. Nell’arco del decennio, in Sardegna (una delle regioni che più ha sofferto la crisi nell’ambito delle imprese artigiane), la contrazione è stata pari al 18%, ossia oltre 7.600 attività in meno. Segue l’Abruzzo con -17,2; l’Umbria con -15,3%; Basilicata con-15,1%; Sicilia con il medesimo risultato. In riferimento, invece all’ultimo anno, il 2018, la regione che ha ceduto di più in questo settore è stata la Basilicata, nella quale risulta una perdita di piccole imprese pari a -1,9%.
 
Puntando l’osservatorio sui settori speciali dell’Artigianato, il 57% delle imprese registrate nel periodo di riferimento di 10 anni, riguarda le attività connesse con il comparto ‘casa’. Dunque edili, lattonieri, posatori, dipintori, elettricisti, idraulici, e altri, i quali, secondo il segretario Cgia Renato Mason, stanno attraversando anni di grande difficoltà, che alla fine poi porta queste piccole imprese alla resa.
 
La crisi del settore edilizio, e il calo dei consumi delle famiglie, sono i fattori che hanno inciso maggiormente, spesso hanno determinato la chiusura. A fronte di questo disastro, c’è invece il mondo delle start up, piccole imprese legate al design, web, comunicazione, che accende una nuova luce su questo pianeta poco felice. E non è scontato, comunque mettere in evidenza che le trasformazioni derivanti dal progresso, dall’avanzamento dell’alta tecnologia, sono la causa diretta o indiretta della scomparsa di professioni e mestieri che fanno parte della storia dell’Artigianato italiano.
 
I settori più colpiti riguardano l’autotrasporto (con -22,2%), le attività manufatturiere (con -16,3%), e l’edilizia (con -16,2%). Nel versante della crescita, troviamo invece attività legate a piccole imprese che svolgono lavori di pulizia, giardinaggio e servizi alle imprese, attività cinematografiche e produzione software, magazzinaggio e corrieri.
Una bilancio che mette in rilievo l’opera di trasformazione che caratterizza il terzo millennio, con il progresso tecnologico protagonista di questi nuovi scenari, talvolta impietosi, dato che, impietosamente, come cingoli, schiacciano un settore importante qual è quello delle piccole imprese artigiane.
 
Come già si è accennato, c’è sicuramente in primo piano la perdita economica, ma anche quella di carattere culturale, la scomparsa di conoscenze portate avanti, generazione dopo generazione, da mondi lontani, a volte remotissimi. Un patrimonio che si rischia di perdere per sempre, considerato che, le nuove generazioni, sono orientate verso il nuovo che viene, e difficilmente amano voltarsi indietro

ISTAT. RECESSIONE TECNICA O ALLARME ECCESSIVO SULLA FLESSIONE DELLA CRESCITA?

DI VIRGINIA MURRU

 

L’Istituto Nazionale di Statistica è il termometro che misura le coordinate della nostra economia, che piaccia o no, e l’ultimo dato conferma il trend assai poco incoraggiante degli ultimi trimestri. Già i dati relativi al terzo del 2018 mettevano in rilievo il fatto che, dopo 14 trimestri consecutivi di crescita, e quattro anni di progressi lenti ma positivi, emergeva una contrazione, una flessione in negativo, peraltro confermata da analisti, Agenzie di rating, Organizzazioni internazionali, che fanno impietosamente i conti in tasca agli Stati del pianeta, con i riflettori puntati in particolar modo sulle economie occidentali e  quelle emergenti.

L’allarme c’è, nonostante il vicepremier Matteo Salvini stia tentando di ridimensionarlo, ipotizzando anche possibili ‘trucchi’ sui dati riguardanti gli ultimi due trimestre del 2018.

Il Sole 24 Ore tuttavia taglia corto, non ignora i dati appena diffusi, e titola così un suo articolo: “La recessione tecnica non esiste, l’Italia è in fase di recessione e basta”.

A dimostrazione di quest’atmosfera d’incertezza e allarme, il differenziale di rendimento tra Btp e Bund è schizzato di 18 punti, l’ennesima conferma che i mercati sono gangli sensibilissimi del sistema, a livello globale. Si respira aria pesante, a dirlo non è solo l’Istat, ma anche Eurostat.

Secondo i rilevamenti dell’Istat, nel quarto trimestre 2018, il Pil è diminuito per un valore pari allo 0,2% rispetto al trimestre precedente, espresso in valori concatenati, e prendendo come riferimento l’anno 2010 (corretto per gli effetti del calendario e destagionalizzato). Nell’ultimo comunicato si precisa che il IV trimestre ha avuto una giornata lavorativa in meno rispetto al precedente, e due in più rispetto allo stesso periodo del 2017.

I rilievi, sempre secondo l’Istat,  tengono conto del fatto che la variazione congiunturale è la risultanza di una diminuzione del valore aggiunto derivante dal settore agricolo, silvicoltura e pesca, nonché nel settore industriale, mentre sono stabili (o meglio in stallo) i dati inerenti i servizi. Secondo le analisi emerge un contributo negativo per quel che concerne la domanda, espressione della componente nazionale e al lordo delle scorte. Mentre è positivo il contributo della componente estera netta.

Considerando il Prodotto interno lordo relativo al 2018 si riscontra una crescita dello 0,8%, dato che, nonostante l’evidente flessione rispetto al 2017, non dovrebbe impressionare, vista la contrazione dei dati nell’Unione europea, e in Germania, la cui economia, rispetto all’andamento di quella italiana, è avanzata di poco (1%). L’Istat fa sapere che i risultati dei conti nazionali annuali riguardanti il 2018, saranno diffusi il 1°giorno del prossimo mese, mentre quelli trimestrali il 5 (sempre di marzo). La variazione acquisita per il corrente anno è negativa, pari a -0,2%.

Un po’ ovunque, ma soprattutto negli ambienti economici e finanziari, si parla di recessione tecnica, spiegata col fatto che i dati evidenziano una variazione congiunturale negativa per due trimestri consecutivi. Com’è noto, si parla di variazione congiunturale quando i dati vengono messi a confronto con quelli del trimestre che precede, mentre la variazione tendenziale, “che pure – fa notare l’Istat – ha un rilievo statisticamente importante per valutare l’andamento economico di un Paese”, si riferisce allo stesso periodo, ovvero trimestre, dell’anno precedente.

E’ evidente che quando si argomenta intorno ad una “recessione tecnica”, le condizioni economiche del Paese sono allarmanti, in primis per ragioni di contrazione dell’attività produttiva, che avrebbe potuto riflettere un andamento diverso qualora si fossero utilizzati in maniera sinergica ed efficiente tutti i fattori produttivi disponibili.

L’indicatore che riflette questa condizione d’instabilità, riconducibile appunto alla recessione tecnica, non esprime tuttavia tutti gli ‘indizi’ per risalire esattamente ai fattori ‘scatenanti’, anche se, da un’analisi profonda, la genesi non è certo oscura, ma soprattutto queste risultanze di carattere congiunturale non esprimono risposte chiare sul trend dei trimestri successivi, né sulle reali implicazioni concernenti il rallentamento.

E’ necessario pertanto, afferma l’Istat, per certificare che siamo di fronte ad una recessione conclamata, e non destinata ad esaurirsi nel volgere di pochi trimestri, puntare su riferimenti precisi, ossia tutti gli altri indicatori economici (al di là del Pil), dunque i dati relativi al tasso di occupazione, reddito di imprese e famiglie, produzione industriale (tra i più indicativi), consumi, e non ultime le considerazioni sui movimenti demografici nella nazione. E’ altresì evidente che un andamento proiettato sulla crescita o per converso sulla recessione, producano effetti di rilievo sulle scelte di politica economica di uno Stato, e per conseguenza diretta sui cittadini.

E’ ovvio che accertare la crescita o la flessione dell’economia di un Paese – perché dall’analisi dei dati riguardanti il Pil, tanto per citare quello più eloquente, si mettono le basi per un intervento sul debito e il deficit – sia fondamentale anche secondo le direttive Ue, che per una valutazione del quadro economico di uno Stato, mette in relazione il rapporto tra debito, o anche deficit, col Pil.

In riferimento al quarto trimestre del 2018, emerge quindi chiaro che l’economia italiana segna il passo e si avvia verso una contrazione della crescita; non è stato un fulmine a ciel sereno, le avvisaglie sono partite già dal secondo trimestre dello scorso anno. Questi riscontri, in ogni caso, allungano il trend negativo che ha interessato quasi tutto l’arco del 2018, determinando un ulteriore diminuzione del tasso di crescita tendenziale del Pil, e lo si appura facilmente confrontando i dati del quarto trimestre (sul Pil): scende infatti dello 0,1% dal trimestre precedente, che era  dello 0,6%.

Si tratta, secondo un commento dei tecnici dell’Istat, di una stima che ha natura provvisoria, e rispecchia, “dal lato dell’offerta un netto peggioramento della congiuntura del settore industriale, al quale si somma il negativo contributo di quello agricolo, e uno stallo delle attività terziarie.”

Senza entrare in merito a considerazioni assai poco ottimistiche, non di rado catastrofiche davanti a questi dati, che pure non contribuiscono a portare in alto gli umori della gente, bisognerebbe orientarsi in percorsi di ragionamento più affini allo status di un’economia che presenta un quadro certamente non incoraggiante, ma neppure di totale emergenza. I fondamentali dell’economia, secondo il tam tam del Governo, sarebbero comunque solidi, e a rassicurare ci pensa anche il ministro dell’Economia Giovanni Tria, che invita alla perseveranza, garantendo che i conti dello Stato non sono in dissesto  come si pensa, e le strategie in atto sarebbero già orientate verso la diminuzione del debito.

Vorremmo credere assolutamente a queste continue ‘infusioni’ di ottimismo, preferendo orientarci, sul fatto che uno Stato può avere un debito pubblico elevato, ma anche ritmi di crescita altrettanto alti, e dunque un florido Pil, come accade negli Stati Uniti, il cui debito è sempre stata la rogna di tutti gli esecutivi che si sono succeduti da decenni ormai. L’economia Usa, nonostante i ‘billions’ di debito in mano ad istituti di credito stranieri (Cina e Giappone in particolare..), gode buona salute, perché il rapporto tra i due valori (o grandezze), ossia Pil e debito, seguono percorsi che non mettono in pericolo realmente l’equilibrio dei conti pubblici, e difficilmente si rischierebbe un default, nonostante l’up and down degli altri indicatori economici.

Questo ragionamento potrebbe essere di conforto per le acque piuttosto agitate in cui naviga l’economia italiana, ma è necessario mettere in rilievo  la constatazione che c’è una bella distanza tra l’economia americana e la nostra, e pertanto questi orientamenti di pensiero hanno una valenza comunque relativa. Il problema è che quando un Paese finisce nei fondali limacciosi della recessione, possono attivarsi una serie di conseguenze che non sostengono la ripresa, ne acuiscono anzi i sintomi.

Ci sono le Agenzie di rating, che come corvi si avventano sulla vulnerabilità dello Stato in evidente difficoltà, e c’è poi il rischio di speculazione dei mercati, altro avvoltoio pronto ad inghiottire senza pietà chi non ha difese abbastanza credibili per tirare fuori le unghie e prevenire possibili attacchi.  Insomma, in queste circostanze, i titoli di Stato sono i bersagli a rischio, e la politica economica deve trovare strumenti idonei per affrontare le insidie.

Si può concludere con alcune considerazioni de Il Sole 24 Ore, che non ama il termine “recessione tecnica”, e scrive riguardo ai dati in flessione sul piano congiunturale:

La recessione tecnica non esiste. La recessione è recessione e basta. Il governo penta-leghista ha trasformato in un progetto politico lo sbeffeggiamento della cultura, considerata strumento di dominio delle élite global-catto-demo. Dunque, bando alle ciance e ai distinguo per economisti con la puzza sotto il naso, non importa che siano laureati in un qualche ateneo di provincia o abbiano preso il master alla London School of Economics o abbiano conseguito il dottorato al Mit di Boston. E, quindi, in coerenza con lo spirito dei tempi ripetiamolo: la recessione è recessione e basta.”

Si protrebbe concludere con un clima di fiducia nei confronti delle parole del premier Giuseppe Conte, il quale aveva già presentito le raffiche dei dati in arrivo dall’Istituto Nazionale di Statistica, e sosteneva, alcuni giorni fa, che il rilancio dell’economia è atteso nella seconda metà del corrente anno, e bisogna pertanto attendere “tempi migliori”. Più moderato dei due vicepremier, che invece, per celare situazioni di fragilità emerse comunque solo dopo la salita al potere del nuovo esecutivo, riversano le responsabilità sul precedente governo, il quale continua ad essere il capro espiatorio favorito, una discarica in cui le proprie responsabilità rotolano come fosse una compiacente scarpata.

Ma un’ultima considerazione in merito è un atto dovuto nei confronti di chi ci ha governato in precedenza, non foss’altro perché si ritrova ancora al centro di continui bersagliamenti. Come mai, sempre e solo secondo i dati Istat, l’economia italiana ha seguito un costante percorso di crescita in termini di Pil, proprio a partire dal 2015, quando la politica economica del governo Dem, era in pieno svolgimento?

Non dimenticando il fatto che  aveva preso le redini di uno Stato già in fase recessiva, e da allora, lentamente, ma costantemente, si è avviato un ciclo economico di crescita, fino agli ultimi riscontri delle Agenzie di Rating, il cui rating, alla fine del 2017 si avviava, in termini di Pil, sul +1,9%. ‘To be honest’, direbbero gli inglesi, il precedente esecutivo non ha consegnato il Paese nelle medesime condizioni in cui lo ha ‘rilevato’.

Purtroppo la questione dello spread, tanto per citarne una, è stata gestita nel modo peggiore, ed è stata la dimostrazione che non paga la polemica aspra nei confronti delle Autorità di Bruxelles, che vengono riconosciute quale legittimo Organismo sovranazionale, ma poi di fatto è stato come scagliare pietre sulla porta di casa.

 

 

CON L’ACQUISIZIONE DI ADNOC REFINING, ENI INCREMENTA LA CAPACITA’ DI RAFFINAZIONE

DI VIRGINIA MURRU

 

Un bel colpo andato a segno per Eni, e così inizia con buoni auspici il nuovo anno, l’attività del gruppo si espande negli Emirati Arabi, attraverso l’acquisizione del 20% di Adnoc Refining, società del gruppo Adnoc,  che è la Compagnia petrolifera di Stato degli Emirati. Le sue raffinerie sono tra le più efficienti nel settore, con una capacità di raffinazione pari a 900 barili al giorno. Eni può veramente festeggiare l’evento, dato che nessun investitore straniero nel campo dell’energia si era spinto fino a questi livelli negli Emirati Arabi Uniti.

L’accordo (Share Purchase Agreement) è stato siglato alla presenza del premier italiano Giuseppe Conte, il Principe della Corona di Abu Dhabi Mohamed Bin Zayed Al Nahyan, ed altre autorità degli Emirati. Così il cane a sei zampe ha accelerato il passo in uno dei centri strategici a livello mondiale nella raffinazione del petrolio, elevando un prestigio che gli deriva da 70 anni di esperienza nel settore degli idrocarburi.

Gli Emirati sono un punto geografico strategico in quanto consente di raggiungere agevolmente i mercati del continente africano, nonché asiatico ed europeo, grazie alle raffinerie di Ruwas East e West, e quelle di Abu Dhabi Refinery. Per importanza e capacità di lavorazione risulta essere il quarto ‘polo’ al mondo.

Il gruppo Adnoc ha poi comunicato la cessione del 15% di Adnoc Refining a Omv (il più grande produttore austriaco nell’ambito della raffinazione), pertanto i tre grandi gruppi, Eni, Adnoc e Omv, formeranno una joint-venture che si occuperà della commercializzazione dei prodotti petroliferi, il cui volume, in termini di produzione complessiva, sarà di circa il 70%.

Dall’operazione appena conclusa, si calcola che per Eni ci saranno 400 mln di cash flow l’anno, che in termini di enterprise value ammonterà a 3,9 mld di dollari, ossia un imponente vantaggio in termini di capacità di raffinazione. L’intesa con Adnoc prevede un piano d’investimenti che oscillerà tra uno/due miliardi l’anno, ma secondo il parere autorevole del mondo della finanza, l’Eni se li può permettere.

Inutile sottolineare l’importanza di questa operazione per l’Eni, che renderà più ampia la sua sfera d’influenza nell’ambito degli idrocarburi, estendendo il suo potenziale di produzione in un’area di enorme interesse in questo ambito. L’accordo porta la firma del Ministro di Stato degli Emirati, Sultan Ahmed Al Jaber, che ricopre anche la carica di Ceo di Adnoc, e per Eni l’Amministratore delegato Claudio Descalzi.

Il Ceo Eni ha affermato che un’operazione di questo livello spalanca le porte del gruppo nel settore downstream degli Emirati, frutto di un piano strategico volto a rendere il portafoglio attivo geograficamente nei migliori centri della raffinazione, e pertanto più resiliente alle sfide sul piano globale, più solido nei confronti della volatilità del mercato.

Soddisfatto anche il premier Conte, il quale dichiara che la maxi operazione “è il frutto naturale derivante dalle specifiche competenze maturate dall’Eni, azienda partecipata, che continua a portare nel mondo l’eccellenza italiana in campo energetico, e il cui impegno è anche orientato alla riduzione delle emissioni per evitare d’incidere sull’equilibrio dell’ecosistema nel pianeta”.

E’ superfluo rimarcare che il gruppo Eni, con questa rilevante operazione, rende più solido il suo business, e incrementa la capacità di raffinazione, passando da 550 mila barili al giorno a 730. Un progresso che lo renderà certamente più competitivo sul piano globale, dove le sfide nel settore energetico sono sempre più difficili.

 

BREXIT. L’INDETERMINAZIONE TIENE IN OSTAGGIO IL POPOLO BRITANNICO

DI VIRGINIA MURRU

 

Nessuno immaginava all’indomani del voto che ha dato ragione alla ‘fazione’ dei ‘Leave’ (23 giugno 2016), e spalancato le porte alla Brexit, che il percorso per l’uscita del Regno Unito dall’Ue sarebbe stato così contorto e travagliato. Un iter che si credeva automatico – secondo le norme previste dai Trattati sull’Unione europea – nello specifico quello di Lisbona, tramite l’art. 50, che è appunto la clausola di recesso.

Tale articolo, che rimanda al meccanismo di recesso volontario e unilaterale, qualora uno Stato membro notifichi al Consiglio europeo l’intento di uscita dall’Unione, prevede modi e tempi opportuni per la definizione di un accordo che soddisfi entrambe le parti.

L’accordo si raggiunge con una serie di incontri, tra i rappresentanti dell’Ue e quelli del governo che intende recedere, e dunque, come si è accennato, dal Consiglio europeo, con deliberazione a maggioranza qualificata e previa approvazione del Parlamento europeo.

Raggiunta l’intesa, i Trattati firmati dal Paese ‘in uscita’, non saranno più applicati a partire dalla data in cui entra in vigore il recesso, o due anni dopo la notifica, anche se discrezionalmente, qualora ne ricorresse il caso, il Consiglio può prolungarne i termini.

L’Unione europea lascia sempre aperte le porte per un eventuale rientro, nel caso vi fosse un ‘ripensamento’ in merito, per esempio, come si sta ipotizzando ultimamente in Gran Bretagna, se il popolo chiedesse di tornare alle urne con l’indizione di un secondo referendum, il quale, di fatto, annullerebbe quello precedente che ne ha sancito l’uscita.

Non è affatto semplice la questione, quando vi è un popolo diviso, che partecipa e fa sentire il proprio dissenso sulle scelte operate dal governo in carica, e anche sulle delibere del Parlamento stesso, quando non riflettono propriamente la volontà popolare.

Di certo nel Regno Unito, se non si è arrivati alla soglia della guerra civile, non si è molto lontani. Gli ultimi due anni, che dopo il referendum del 2016, si ritenevano solo una fase di ‘acclimatamento’, e avrebbero determinato step by step il divorzio dall’Ue, sono stati invece gli anni più conflittuali per la democrazia britannica.

Non si riesce a trovare una via d’uscita; quando gli accordi con l’Ue sembravano finalmente decisivi, il ‘deal’ che ha presentato la premier Theresa May in Parlamento, ha scatenato un’ondata di proteste e di rigetto, che è poi sfociata nella clamorosa sconfitta della proposta, con un esito travolgente di voti contrari.

E così, l’accordo faticosamente raggiunto dalla delegazione del governo britannico e i rappresentanti Ue, è diventato poco meno di carta straccia, perché il volere di Westminster in fatto di democrazia, quando si tratta di temi così importanti, prevale su tutto, com’è naturale che sia in un regime democratico.

Ben pochi accetterebbero un’uscita dall’Ue senza accordi, il cosiddetto ‘no deal’, perché l’Unione europea sarebbe severissima al riguardo, e in questo momento metterebbe a serio repentaglio le finanze della Gran Bretagna, che già ha riportato ingenti danni dall’esito del referendum sul piano economico. Tartassata in primis dai mercati, che non hanno mai accettato la Brexit, né tanto meno è stata benedetta dalla City, cuore pulsante della finanza del Paese, e fortemente penalizzata, ancora prima del divorzio effettivo dall’Ue.

A fare la differenza è l’ostinazione di una leader di ferro: Theresa May non è una che si lascia impressionare dal dissenso, nemmeno da quello che sta imperversando tra i Tory, lei va avanti imperterrita, non si cura nemmeno dell’ironia dei parlamentari, che non le risparmiano la loro ostilità, frecciatine caustiche, quando non risate sarcastiche.

Se non è una copia fedele di Margaret Thatcher, di sicuro le assomiglia parecchio. Solo che la ‘lady di ferro’, aveva davanti a sé uno scenario  ben diverso. Allora l’Europa era un faro, una terra promessa per i britannici, almeno se si argomentava intorno al mercato unico, nella quale la Thatcher credeva fermamente.

Non credeva nella federazione di carattere politico, ossia negli Stati Uniti d’Europa, e dopo alcuni anni dalla firma dell’’Atto Unico’,  ebbe comunque qualche ripensamento, in quanto era persuasa che l’Unione costasse troppo al Regno Unito. Cominciò così a rimbrottare sulle quote versate, fino a dichiarare pubblicamente, rivolgendosi alle autorità di Bruxelles: “I want my money back” (rivoglio indietro i miei soldi). Frase rimasta famosa, che era poi il riflesso degli umori dell’establishment di Londra, emerso infine con il rifiuto di aderire alla moneta unica. E’ sempre stato un rapporto di odio-amore, in definitiva.

Operatori economici e finanziari, il mondo dell’industria e dell’imprenditoria in generale, sono in allarme da anni sulla questione Brexit: abbandonare il mercato unico significa ignorare mezzo miliardo di potenziali consumatori, con i quali la Gran Bretagna ha stabilito nel tempo un rapporto d’interdipendenza commerciale non di poco conto. Entrare in rapporto con i ‘27’ Paesi dell’Unione in qualità di partner “extra europeo”, per quel che concerne le frontiere doganali, non sarà più semplice come lo è stato finora, sarà anzi piuttosto penalizzante. Sono queste le ragioni – senza tuttavia trascurare i forti legami culturali di appartenenza – che hanno indotto tanti cittadini britannici a cambiare opinione sul voto, al punto che, gli ultimi polls, danno i ‘Remain’ avanti rispetto ai ‘Leave’, con al seguito una buona percentuale d’indecisi.

Intanto, anche Airbus e Sony hanno annunciato che, in caso di Brexit no-deal, saranno costretti a fare scelte molto dure per il Regno Unito. Tom Enders, Ceo di Airbus ha fatto sapere che seguirebbe Dyson, multinazionale inglese che produce elettrodomestici in più di 70 paesi, e ha circa 7 mila dipendenti in tutto il mondo, pronta a lasciare la Gran Bretagna se non vi sarà un’intesa commerciale con i partners dell’Ue. Intesa che non penalizzi il libero scambio, naturalmente.

Airbus è una grande azienda che produce le ali dei suoi aerei, con oltre 14 mila dipendenti in RU, ma non ci saranno ripensamenti qualora Theresa May volesse percorrere a tutti i costi la via della Brexit: lasceranno il Paese, come tante altre grandi aziende, alcune delle quali si sono già trasferite in Cina.

Anche  Sony ha deciso di spostare la sede europea in Olanda, affinché siano garantite le relazioni commerciale con i ‘27’ dell’Ue, qualora si prospetti la peggiore ipotesi sulla Brexit, quella che va avanti anche senza accordi con l’Unione. E del resto Sony non è l’unico gruppo giapponese ad avere abbandonato la sede di Londra, anche Panasonic, a fine 2018, ha deciso di trasferirsi in Olanda. Il modo migliore di tutelarsi dal ciclone che si abbatterebbe sul Regno Unito, nel quale regnano il caos e il disorientamento da oltre due anni. In coda, pronte ad emigrare in lidi più accoglient,i ci sono anche Hitachi e Toshiba, cancellati i loro piani d’investimento sul nucleare nel Galles. E altri ricollocamenti (favorita Amsterdam), sarebbero già pronti.

Il fatto è che una scelta di questo tipo, soprattutto per quel che concerne l’assetto politico e territoriale del Paese, non è per nulla facile. Ci sono le frontiere con l’Irlanda, che di certo non vuole saperne di lasciare l’Unione europea, a creare non pochi problemi, e poi c’è la Scozia, che dai tempi di Maria Stuarda non ha mai avuto un rapporto propriamente disteso e in armonia con Londra, ne ha piuttosto subito il potere.

Un’ostilità, quella della Scozia, sfociata in un referendum per la secessione nel 2014, che ha perso per poco. La premier scozzese Nicola Sturgeon, non ha mai gettato la spugna, e sta esercitando pressioni più che mai per favorire un secondo referendum sulla Brexit, consapevole che gran parte del popolo non vorrebbe abbandonare le relazioni con il vecchio continente. Ci sono ostacoli che rendono la strada del divorzio dall’Ue praticamente impercorribile, non si trova un’intesa in Parlamento, ed è  veramente il caos, basti pensare al fatto che l’accordo raggiunto con l’Unione europea a novembre – che la premier May ha poi presentato il 14 gennaio – è stato bocciato con il doppio dei voti che sono stati espressi a favore.

Quando si è posta la questione ‘fiducia’ sulla premier, il Parlamento l’ha fatta passare, sia pure per una manciata di voti. E’ la dimostrazione in definitiva che tra i rappresentanti del popolo vi è ancora molto disorientamento, e di questo ne stanno pagando le spese anche i laburisti, con il leader Jeremy Corbyn, travolti da queste raffiche d’incertezza e indeterminazione. I laburisti, sostenuti dai parlamentari scozzesi e tanti anche dell’Ulster, taglierebbero la testa al toro e andrebbero diritti verso una seconda consultazione referendaria; ma in Parlamento su questa scelta estrema – ma forse la più sensata – sarebbe dubbia la maggioranza dei consensi.

Il fatto è che i politici contrari ad un secondo referendum – Theresa May in primis – stanno ossessionando l’opinione pubblica con la supposta incostituzionalità di un simile provvedimento, come fosse un tradimento della volontà popolare. Ma intanto nella consultazione del 2016 non si sono raggiunti i due terzi dei consensi per i sostenitori della Brexit, e quindi una seconda ‘chiamata’ rientrerebbe pienamente nelle opzioni previste dalla normativa. Una scelta di questa importanza, proprio per il rispetto della volontà popolare, non si potrebbe fare passare con un margine di scarto che non raggiunge neppure il 2% (Il Leave prevalse con il 51,9%).

E si dimentica che la Corte europea di Giustizia, proprio due mesi fa, si è pronunciata in merito, e ha sancito che l’Art. 50 del TUE, o Trattato di Lisbona, il quale prevede l’uscita di uno Stato membro dell’Unione, anche qualora siano state create le condizioni per questa scelta, possa essere revocato (dal Regno Unito in questo caso) unilateralmente,  senza il voto favorevole degli altri Stati membri.

Certamente un ulteriore colpo per la premier May, dato che tale delibera della Corte è arrivata proprio quando si stava presentando in Parlamento il fatidico ‘accordo-compromesso’ con l’Unione, raggiunto a novembre scorso.

Com’è noto il nodo più stretto da sciogliere era Westminster, che ha respinto i negoziati con Bruxelles, perché non va giù la questione delle frontiere in Irlanda del Nord. C’è già un allarmante fermento al riguardo: l’Official Ira (Irish Republican Army), mette in guardia su scintille di tensioni che potrebbero riesplodere, ci sono i dissidenti che non si sono mai rassegnati agli accordi di pace del 1998.

In ogni caso se nell’isola si ripristinasse la frontiera, il rischio sarebbe altissimo, la recente esplosione dell’autobomba a Derry, è già sintomatico di un’atmosfera in cui si respira pesante. I passi successivi saranno determinanti per un assetto che garantisca la pace nell’isola. Eppure la premier non sembra  abbia dato finora grande peso a quella miccia che rischia di scaraventare di nuovo l’Irlanda in un incubo di tensioni (definite anche ‘troubles’), che ha causato in pochi decenni 3.500 vittime.

Una guerra civile terminata vent’anni fa con il cosiddetto “Accordo del Venerdì Santo, o Belfast Agreement”, tra i rappresentanti del Regno Unito e della Repubblica d’Irlanda. Le tensioni in Irlanda, del resto, erano iniziate già un millennio prima, in seguito all’invasione degli inglesi, mai accettata veramente, nonostante la divisione in due dell’isola, stabilito dal “Government of Ireland Act”, siglato nel 1920.

Non c’è mai stata piena accettazione dei confini, quella sfera d’influenza che delimita la giurisdizione dei due Stati.  L’autorità del Regno Unito è stata sempre avvertita come un abuso, un atto di prepotenza. Cattolici e protestanti non sanno convivere serenamente, e lo dimostrano le 150 vittime che si contano anche dopo i negoziati di pace del 1998.

La Gran Bretagna, che dopo Elisabetta I, ha cominciato il suo dominio sui mari e intrapreso una politica di colonialismo sistematico, permettendole di diventare nel corso dei secoli uno dei più grandi Stati imperialistici della storia –  madre patria del Commonwealth – oggi lotta per evitare la disgregazione delle tre ‘nazioni’ che la compongono, ossia Inghilterra, Galles e Scozia.

Quest’ultima insidia l’autorità politica di Londra e continua con forza a chiedere la secessione. Gli avvenimenti storici, che già hanno ridotto ai minimi termini il territorio britannico, ora prospettano ulteriori rivolgimenti, che potrebbero ulteriormente cambiarne le sorti. La Brexit si sta presentando come un vero e proprio ordigno, che deflagra in ogni direzione, destabilizza equilibri conquistati a fatica, e somiglia al lancio potente di un sasso su una superficie di acqua, che provoca cerchi concentrici, ne agita l’immobilità: crea movimenti che non ci si aspettava.

Certo se l’ex premier David Cameron, non avesse indetto la fatidica consultazione referendaria (per ragioni di compliance elettorali), oggi tutto sarebbe stato diverso. Ma certamente non immaginava che, veramente in quel momento, si preparava un ordigno che rischiava di aprire le porte ad una guerra civile: il popolo è sicuramente diviso.

Churchill, con la sua proverbiale calma, e la tendenza a risolvere le questioni con buon senso, acuto nel presentire e abile nelle strategie, avrebbe trovato un modo per spezzare questa sorta d’indeterminismo e disorientamento del  popolo britannico. Vista dall’esterno, la Brexit è un focolaio di confusione: caos, non affine all’ortodossia dell’ordine concepito dall’indole degli inglesi.

Perfino in parlamento le iniziative si concludono in risoluzioni che restano indefinite, non c’è un decisionismo tale da portare, per dirla con un luogo comune, “a tagliare la testa al toro”. Un secondo referendum è ritenuto un abuso contro la volontà del popolo, ma in realtà è sempre un mezzo democratico che permetterebbe di avere oggi una visione più chiara di quello che realmente i britannici vorrebbero su una scelta così importante sul piano politico ed economico.

E invece si temporeggia, si va avanti con rimbalzi di presunte responsabilità, accuse sterili: indecisionismo che sta facendo molto male all’economia del Regno Unito, ma soprattutto non si dovrebbe sottovalutare la tensione che serpeggia ovunque, anche nelle istituzioni. E basterebbe pensare alle dichiarazioni del ministro della Salute Hancock, che ha accennato  alla possibilità d’introdurre la pena capitale, qualora ci fossero individui che si rendessero responsabili di disordini volti a mettere a rischio la stabilità dei ritmi di vita nel Paese. Siamo a questi livelli, e dopo l’esplosione dell’autobomba nell’Irlanda del Nord, il Regno Unito sta affrontando davvero una seria emergenza sul piano politico, civile e sociale.

Se Londra deciderà di non cedere ad un secondo referendum, e optasse per il no-deal, l’Irlanda si presenterà davanti ai rappresentanti degli altri Stati membri dell’Unione, alla fase due dell’iter previsto dalla Brexit, con un veto, se non ci saranno precisi accordi sui confini con l’Ulster. Nel corso dei negoziati di pace di Belfast del 1998, per imporre la pace dopo una sanguinosa guerra civile, si stabilì che non sarebbero state più ripristinate frontiere dure. Ma la storia insegna che nulla è per sempre.

La premier Theresa May è riuscita a concludere l’accordo con i 27 paesi dell’Unione, proprio facendo concessioni sui confini con l’Ulster, per quel che riguarda i traffici commerciali. Accordo che non è stato accettato dalla maggior parte dei parlamentari di Westeminster. Si sta seriamente pensando ad una dilazione dei termini che rendono attivo l’art. 50, il quale doveva scattare a fine marzo. Il Paese non è preparato ai passi successivi, né i 27 Paesi membri dell’Unione europea intendono fare ulteriori concessioni a favore del governo britannico.

In primavera le prospettive saranno sicuramente più chiare, al  momento una soluzione risolutiva sembra interdetta proprio dalla situazione d’indecisionismo e di stallo che si è determinato,  in gran parte dovuto all’ostinazione della premier di non dimettersi, nonostante, in termini di consensi, abbia collezionato una serie di sconfitte.

 

 

 

CDM. APPROVATO IL DECRETONE E ANNUNCIATO IL NUOVO WELFARE STATE

DI VIRGINIA MURRU

 

Entra in azione il programma di politica economica sociale con due provvedimenti che sono stati i vessilli della campagna elettorale dell’attuale coalizione di governo, ossia la cosiddetta ‘quota 100’ e il reddito di cittadinanza.

Secondo le dichiarazioni dello stesso vicepremier Luigi Di Maio, il decreto legge è stato approvato in circa venti minuti, il che presuppone il fatto che le idee fossero già chiare, ma del resto le due misure sono state oggetto di dibattiti politici intensi già all’indomani dell’investitura dell’attuale coalizione politica.

A fine riunione c’è stata una conferenza stampa, nella quale il premier Giuseppe Conte e i due vicepremier hanno rilasciato dichiarazioni che aprono alla fiducia e all’ottimismo. Con la consueta pacatezza, così ha commentato il presidente del Consiglio:

“l’approvazione delle due misure – definite da Luigi Di Maio centrali nel programma di governo – è una tappa fondamentale per il governo, non si tratta semplicemente di realizzare le promesse della campagna elettorale, in modo un po’ improvvido, ma è un preciso progetto del programma di politica economica sociale del quale il governo è fiero.” “I furbi non si facciano illusioni – ha aggiunto poi – verranno puniti.”

Intanto la platea dei beneficiari relativa al reddito di cittadinanza sarà costituita da 1,32 milioni di nuclei familiari, dei quali 164mila stranieri, i dettagli sono nella relazione tecnica dell’ultima bozza del decreto. Tra i 164mila stranieri, tuttavia, 92 mila non potranno accedere al reddito, se non “lungosoggiornanti”, e non residenti da almeno 10 anni nel territorio italiano. Secondo una tabella riportata nella relazione, i nuclei di soli stranieri sarebbero 256mila.

Toni soddisfatti anche da parte del vicepremier Matteo Salvini, il quale, dopo avere riassunto in pochi punti le caratteristiche di ‘quota 100’, ha concluso:

“Quota 100 non prevede nessuna penalizzazione e nessun taglio, saranno tutelati i lavoratori delle forze dell’ordine, del comparto sicurezza; sono orgoglioso dei passi che sono stati fatti, in 7 mesi non si poteva fare di più, sono felice di essere passato dalle parole ai fatti.”

Non meno entusiasta per l’approvazione del decreto legge l’altro vicepremier del M5S, Luigi Di Maio:

“Sono veramente soddisfatto del decreto che è stato approvato, a 32 anni sono felice, da ministro, di avere contribuito a migliorare la condizione di vita di 5 milioni di italiani che sono in difficoltà, tra cui 500mila pensionati minimi; coinvolti anche 255mila diversamente abili.  Dunque contento del fatto che, dopo tanti anni, questo decreto permette di andare in pensione a chi pensava di restare a vita vittima della  legge Fornero.  Con quota 100 mandiamo in pensione in tre anni un milione di persone”.  E prosegue:

“In 7 mesi di governo abbiamo reso disponibili  12 mld di euro all’anno, con i quali finanziamo il reddito di cittadinanza e il superamento della legge Fornero. E’ la risposta  a  quelli che in tutti questi anni hanno detto che non si poteva fare, che non c’erano coperture, ecco che in 7 mesi è stato realizzato il progetto del nuovo Welfare State, approvato in poco più di 20 minuti, un progetto che aiuta le persone in difficoltà, e le mette al centro di una rivoluzione del mondo del lavoro”.

Nel corso della conferenza stampa è stato chiesto se al decreto seguirà una ‘manovra correttiva’,  il premier  Conte ha reagito con prontezza:

“Lasciateci portare avanti le misure predisposte, facciamo avviare l’anno, siamo ai primi di gennaio, poi si vedrà strada facendo.”

Più pacatezza del solito nelle dichiarazioni, ma l’esultanza è evidente nelle parole, e tutti gli italiani in questo momento hanno necessità più che mai di speranze, di fatti da parte di chi governa.

Il presidente Conte rivendica la serietà e il rispetto dell’esecutivo  verso  le istituzioni della Repubblica, in particolare il Parlamento, e riguardo all’ipotesi di ricorrere alla fiducia, sostiene:

“Questo governo non ha mai considerato il voto di fiducia come un gesto di prepotenza nei confronti del Parlamento, vi abbiamo fatto ricorso  quando si è rivelato necessario.”

Il premier e i due vice sono anche fiduciosi sul fatto che non ci sarà ostruzionismo riguardo alle misure appena approvate. Luigi Di Maio dichiara in merito: “Non credo che ci sarà ostruzionismo per provvedimenti che portano nella vita degli italiani lavoro e la possibilità di riscattare in tempi più accettabili la pensione.”

Secondo i criteri stabiliti da ‘quota 100’, un milione di cittadini potranno andare in pensione in anticipo nel triennio.

Il vicepremier Salvini ha poi spiegato che si tratta ‘di soldi veri’, ossia 22 miliardi di euro, questo il valore del decretone. “Un milione di italiani lasceranno in anticipo l’attività lavorativa, mentre le prospettive si aprono per un altro milione di persone che avranno diritto di accesso al mondo del lavoro,  perciò non avranno bisogno di fuggire all’estero”. Salvini ha anche messo l’accento sulla misura riguardante il settore pubblico:

“Si tratta di 30 mila euro ‘cash’ per la liquidazione nel settore pubblico” – ha detto – quota 100 non prevede né penalizzazioni né tagli, ci sarà la libertà di scegliere. Si parla di 62 anni e 38 anni di versamenti senza penalizzazioni, ma è solo una base di partenza, l’obiettivo è quota 41. Siamo ad un passaggio storico.”

Per quel che riguarda il reddito di cittadinanza, le imprese che assumeranno i beneficiari avranno diritto a 18 mesi di sgravi fiscali; ma sono previsti anche 16 mesi di assegno per coloro che intraprenderanno un’attività d’impresa in qualità di beneficiari del reddito di cittadinanza, a titolo di avviamento dell’attività. Un incoraggiamento che dovrebbe fungere da stimolo per i giovani in particolare, e allo stesso tempo favorirà il tasso di occupazione.

La realizzazione di questi punti programmatici sono stati fondamentali per il governo, afferma infatti Luigi Di Maio: “questo decreto è la migliore risposta a coloro che ritenevano fantascientifico un simile risultato. Il reddito di cittadinanza non è stato concepito con la logica dell’assistenzialismo, sono norme “anto-divano”, e a nessuno sarà permesso l’abuso. E’ previsto anche un patto per la formazione, che rientra nelle finalità del ‘patto per l’inclusione sociale’. Il patto per la formazione sarà concordato con Enti di formazione bilaterali, enti interprofessionali o aziende, al fine di favorire la preparazione dei cittadini che intendono entrare nel mondo del lavoro.

La platea che interessa il reddito di cittadinanza, precisa il ministro del Lavoro Di Maio, riguarda per il 50% il Sud e l’altro 50% il Centro-Nord.

 Il ministro del Lavoro ha anche affermato che il prossimo mese andrà online un sito internet nel quale si potranno trovare istruzioni sulla documentazione da presentare, e nel mese di marzo sarà attivo per l’inoltro dei documenti richiesti. Tutto questo per rendere più agevole l’accesso del diritto ai cittadini, senza bisogno di fare code in altri sportelli, come gli uffici postali, che tuttavia potranno essere una via di transito ugualmente valida, così come i Caf.

L’altro step è di pertinenza dell’Inps, che dovrà analizzare la documentazione presentata, e stabilire dopo la verifica, se vi siano i criteri per l’erogazione del reddito a beneficio di chi ne ha fatto richiesta; il tutto è stato semplificato e si potrà percepirlo tramite una carta elettronica emessa da Poste italiane.

Per gli aspiranti alla ‘pensione di cittadinanza’, come misura volta all’inclusione sociale, ci saranno 780 euro se il pensionato è solo, mentre per un nucleo arriverà fino a 1032 euro.

Il premier Conte, già prima della riunione del Consiglio dei Ministri, aveva precisato in un’intervista concessa a La Stampa, che sul reddito di cittadinanza la normativa è severa, e prevede punizioni per i ‘furbi’ che continueranno a lavorare in nero. Le pene inflitte arriveranno fino a 6 anni di reclusione. Sulla Tav il premier ha sottolineato ieri che non c’è sul tavolo un compromesso. Intanto, sempre secondo le sue dichiarazioni, con il via libera al decretone si approvano “le misure più qualificanti sul piano politico e sociale della nostra attività di governo”.

E proprio queste misure saranno la prova del nove dell’efficacia del programma dell’esecutivo nei prossimi anni, è presto per le esultanze, si vedrà anche solo tra un anno, se il reddito di cittadinanza sarà in grado di stimolare i consumi interni, di aumentare realmente l’indice di spesa delle famiglie e il suo aumento potenziale, così come la riduzione del tasso di disooccupazione, soprattutto quello dei giovani, tra i più alti in Europa.

E’ stato avviato questo ‘convoglio’ di misure dirette al popolo, il cui benessere è alla base della crescita economica di ogni Nazione.

 

 

 

DURO INTERVENTO SUGLI NPL IMPOSTO DALLA BCE A MONTEPASCHI

DI VIRGINIA MURRU

 

La terapia d’urto imposta dalla Banca Centrale Europea a Montepaschi, per la riduzione dei crediti deteriorati, potrebbe rivelarsi davvero pesante per l’istituto di credito senese. L’azzeramento degli Npl in sette anni, ossia il tempo previsto dalla Bce per risanare le sofferenze dell’istituto, costeranno oltre 8 miliardi di euro, costi che praticamente graveranno sullo Stato, già abbastanza a rischio con il programma di politica economica dell’asse di governo Movimento 5S-Lega.

E paradossalmente potrebbe essere proprio il forte impatto  dell’intervento della Vigilanza a dare il colpo di grazia a Monte dei Paschi, reduce da altre traversie finanziarie, e dunque piuttosto esposta all’ennesima intemperia. Intanto la decisione della Vigilanza non poteva lasciare indifferenti i mercati, il titolo è andato a fondo ieri a fine seduta: -7,65%.

In buona compagnia con UniCredit, Ubi, Banco Bpm e altri istituti del comparto, ma sicuramente l’epicentro del sisma è da ricercare su Montepaschi. Del resto non si è concluso con un  bilancio incoraggiante il 2018 per il settore bancario, e nemmeno quello precedente, il 2017, e così in prospettiva si presenta il 2019, nonostante i politici negli ultimi anni abbiano sempre rassicurato sulla sua solidità. Secondo un’analisi dei dati relativi al 2018, per le banche italiane è stato quasi un disastro, con decine di miliardi immolati in borsa. Fino al terzo trimestre erano circa 50 i miliardi bruciati nei mercati, caratterizzati, com’è noto da grande instabilità, e dalle pessime performance dello spread, che ha portato danni in tanti settori dell’economia.

Secondo alcuni quotidiani che si occupano di finanza, “MPS potrebbe presto tornare sul mercato obbligazionario, l’istituto senese starebbe organizzando l’emissione di un covered bond da circa 750 milioni di euro”.

Intanto, la ‘profilassi’ della Bce per il gruppo MPS, è come un ciclone di 8 miliardi, che colpirà certamente lo Stato e gli obbligazionisti. Non ci voleva proprio il pungolo della Vigilanza di Francoforte, ma non si è comunque abbattuto solo sull’istituto italiano, la Banca centrale ha imposto interventi di svalutazione degli Npl su tutte le banche europee. Il vicepremier Matteo Salvini, tenta di rivoltarsi, è un momento difficile per lo Stato, ma il settore bancario è un organo ‘vitale’ per l’economia di una nazione, e non si può transigere sulla sua efficienza.

La Bce inoltre deve tutelare l’area euro e l’intero comparto bancario, pertanto gli istituti sono sottoposti a vigilanza continua e tenuti alla compliance delle norme in vigore; per quel che riguarda gli Npl le banche nel rispetto del regolamento, devono garantire le coperture svalutando i crediti deteriorati in portafoglio, considerando un lasso di tempo pluriennale definito, un prospetto di adempienze che arriva fino al 2026, ossia un ‘protocollo di cura’ di 7 anni.

La richiesta, com’è ovvio, non riguarda solo gli istituti italiani, sono ben 120 le banche europee interessate al rispetto delle norme concernenti la svalutazione degli Npl, ma purtroppo quelli italiani presentano la situazione più critica in questo ambito a livello europeo. Un’analisi effettuata alla fine del 2018 metteva in evidenza sofferenze nette per un importo di circa 38 miliardi.

Nei prossimi anni si dovrà pertanto procedere alla graduale svalutazione, ma ci saranno da smaltire anche altri 60 mld di inadempienze probabili nette, un percorso che si presenta accidentato, per nulla semplificato dalla situazione d’incertezza in cui si è inoltrata la politica economica italiana.

Il vice premier Salvini, che ha un rapporto piuttosto conflittuale con le autorità dell’Ue, non intende mandare giù un boccone così amaro, e dichiara che non è accettabile “l’atteggiamento prevaricatore della Bce”.

Per buona parte del 2018 lo spread ha imperversato sui conti pubblici, come una mina vagante, e ora la richiesta della Bce suona come una ‘provocazione’, quando si è appena messo in moto il tanto discusso documento programmatico di bilancio per il 2019. E’ probabile, tuttavia, che la Bce consideri i tempi concernenti la svalutazione degli Npl secondo criteri discrezionali,  concedendo più tempo agli istituti più solidi e stringendo per quelli invece più vulnerabili, che hanno in portafoglio maggiori sofferenze.

Non si tratta di una ‘sortita’ dell’ultima ora, dato che già a luglio scorso la Bce aveva fatto sapere che le analisi sugli istituti di credito sarebbero state di carattere più individuale, ovvero “bank specific”. Le richieste della Banca centrale poi non sarebbero propriamente vincolanti, in quanto le banche potrebbero essere ‘sufficienti’ in termini di margini, e non dare corso a tutti gli accantonamenti. In questo caso ovviamente le scelte devono essere motivate e giustificate.

Nel comparto italiano uno degli istituti meno ‘preoccupati’ dal ‘raid’ della Bce, è Intesa Sanpaolo, la cui solidità patrimoniale è nota, in quanto tra le migliori.

Chi non si rassegna è il vice premier Salvini, che negli ultimi giorni è stato implacabile nelle sue dichiarazioni, in merito alla politica della Bce. “Una simile richiesta – sostiene – potrebbe costare all’Italia 15 miliardi, e un organo indipendente dall’Ue, non politico, non dovrebbe avere autorità così pesanti ed incisive sulla vita economica di un Paese membro”.

 

 

EUROZONA. CALA LA PRODUZIONE INDUSTRIALE A NOVEMBRE: -1,7%

 

DI VIRGINIA MURRU

 

Secondo le ultime stime di Eurostat, a novembre 2018 risulta in calo la produzione industriale, l’output ha registrato una flessione mensile (rispetto ad ottobre) dell’1,7%, un risultato che va anche al di là delle previsioni degli analisti, per i quali il calo doveva essere più contenuto, -1,5%.

Su base annua la produzione industriale mette in evidenza una contrazione del 3,3%, – rilievo anche qui peggiore rispetto alle attese, -2,3%. Nel mese di ottobre il dato riportava una situazione certamente migliore, +1,2%. In Italia il calo è stato pari al 2,6%, in compagnia della Germania, -1,9%. I due paesi  sono i più grandi produttori manifatturieri in Europa. E’ stata una raffica di risultati che ha riportato indietro la bussola della crescita, e gli auspici per i prossimi anni non sono rivolti all’ottimismo.

Questi i rilevamenti riguardanti la flessione della produzione industriale nei paesi dell’area euro; per quel che riguarda l’Ue dei 28, rispetto al mese precedente (che era invece pari a +0,1%), si è registrato una contrazione dell’1,3%. Su base annua si rileva un calo, -2,2%.

Secondo Eurostat, tra gli stati membri dell’Unione europea, il paese nel quale si è rilevato il calo maggiore nella produzione industriale è l’Irlanda, -7,5%.

In Portogallo il calo è stato di -2,5%, Germania e Lituania entrambe del -1,9%. La crescita più consistente è stata registrata in Estonia: con +4,5%, Grecia con il +3,1%, Malta con +2,6%.

Le previsioni per il 2019 non partono con buoni auspici. La Cina, sul piano globale, sta pagando il conto del conflitto commerciale con gli Usa; frena la crescita del colosso asiatico. La situazione non è esaltante neppure negli Usa, secondo Goldman Sachs, “l’Amministrazione Trump sta mettendo il freno a mano all’economia americana, e per il corrente anno il Pil andrebbe addirittura a picco, dimezzando le sue performance rispetto al 2018.”

Venti di recessione spirerebbero anche in Europa, l’Unione europea è a rischio, e l’Italia ovviamente ne seguirebbe il ‘destino’. Tante le ‘influenze’ provenienti dallo scenario globale, non ultima la guerra commerciale tra Usa e Cina,  incide anche la politica monetaria della Bce, che a gennaio ha sospeso del tutto l’acquisto di asset.

Secondo la Banca Mondiale, la crescita a livello globale subirà un calo (-2,9%), e a farne le spese saranno soprattutto le economie avanzate. Secondo la World Bank, “In termini di volumi la view sul commercio mondiale nel 2018, 2019 e 2020, sarà ridotta di circa mezzo punto percentuale rispetto alle previsioni di giugno”.

Eurostat comunicato

 

ISTAT. CALA IL POTERE D’ACQUISTO DELLE FAMIGLIE, AUMENTA LA PRESSIONE FISCALE

DI VIRGINIA MURRU

 

Secondo i rilievi  Istat, presenti nell’ultimo comunicato, nel terzo trimestre 2018 aumenta lievemente in termini nominali il reddito disponibile delle famiglie,  dello 0,1%, rispetto al trimestre precedente, così come anche i consumi risultano in crescita dello 0,3%. L’Istat aggiunge una nota, per evidenziare che, in rapporto alla variazione dello 0,3% del “deflatore implicito dei consumi” – ovvero la  misura dell’andamento dei prezzi – è in calo il potere d’acquisto delle famiglie consumatrici,  -0,2%, in relazione al precedente trimestre.

In questo quadro certo positivo, ma non esaltante, la propensione al risparmio delle famiglie risulta in diminuzione dello 0,2% – pari all’8,3% tra i mesi di luglio e settembre 2018 – sempre in riferimento al trimestre precedente. La dinamica dell’inflazione è stata poco rilevante, secondo l’Istituto di Statistica, determinando così un calo congiunturale del potere d’acquisto (-0,2%). In relazione a questo trend, le famiglie, in virtù della lieve riduzione della propensione al risparmio, hanno mantenuto un livello dei consumi, in termini di volume, pressoché inalterato.

I dati Istat mettono inoltre in evidenza l’impatto dello spread nei tre mesi estivi (luglio-settembre); in termini di spesa per interessi, l’Italia ha pagato un conto piuttosto salato, ossia 1,7 miliardi, rispetto allo stesso trimestre del 2017. Il rapporto percentuale è del 12%.

Risulta essere in flessione invece il rapporto deficit/Pil, da questo dato emerge che, sempre in riferimento al terzo trimestre dell’anno appena trascorso, l’indebitamento netto delle Amministrazioni pubbliche, in rapporto al Pil è stato di -1,7%, nello stesso trimestre 2017 era di -1,8%. L’indebitamento al netto degli interessi passivi delle AP, ossia il saldo primario, registra un dato positivo, l’incidenza sul Pil è pari al 2,0%, era dell’1,6% nello stesso trimestre del 2017.

Il saldo corrente è risultato ugualmente positivo, con un’incidenza sul Pil dell’1,1% – era dell’1,6% nello stesso periodo dell’anno precedente. La pressione fiscale va oltre il 40%, nel trimestre di riferimento, in aumento di 0,1% punti percentuali nei confronti del terzo trimestre 2017. In complesso, nei primi 3 trimestri del 2018, le AP hanno registrato un indebitamento netto di -1,9% del Pil, dato che è migliorato rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, quando era pari a -2,6%.

Per quel che riguarda la quota dei profitti, sul valore aggiunto delle società non finanziarie, che è del 41,4%, si rileva un calo di 0,9 punti. E’ aumentato il tasso d’investimento delle società non finanziarie, di 0,1 punti, pari a 22,2%.

L’andamento dei redditi dei nuclei e quello delle finanze pubbliche, nonché l’impatto dello spread, secondo i dati emersi dai conti trimestrali divulgati dall’Istat, porta in superficie un periodo piuttosto travagliato, con riflessi positivi alquanto marginali, se soltanto si pensa, per quel che concerne la PA, alla crescita della spesa per interessi. In termini di cifre, era pari a 14,373 miliardi nel 2017, ed è cresciuta fino a 16,103 miliardi nello stesso trimestre del 2018.

RECORD STORICO DEL MADE IN ITALY, EXPORT DA 42 MILIARDI

DI VIRGINIA MURRU

 

E’ un risultato davvero lusinghiero, che porta un po’ di ottimismo nell’economia italiana, bersagliata da una situazioni congiunturale non propriamente favorevole, in riferimento all’anno appena trascorso.

L’export del “Made in Italy” ha superato nel 2018 i 42 miliardi, un record storico, secondo Coldiretti, che conferma le forti potenzialità del settore agroalimentare. L’incremento rispetto al 2017 è del 3%, secondo  le proiezioni dei dati diffusi dall’Istat, e dovrebbe dare impulso alla ripresa,  soprattutto all’occupazione.

Secondo il comunicato di Coldiretti, due terzi dell’export agroalimentare è diretto nei paesi Ue, il migliore partner è la Germania, ma si esporta bene anche in Francia e Spagna. L’italian food ha un’ottima ‘reputazione’ all’estero, e non è un caso se le contraffazioni  producono profitti per miliardi di euro. Gli Usa sono il migliore mercato referente al di là dei paesi europei, e sono proprio i prodotti della dieta mediterranea a suscitare maggiore interesse tra i consumatori americani.

Il vino è uno dei prodotti più privilegiati,  in questo settore l’aumento è pari al 3%, l’export è trainato in particolare dagli spumanti italiani, che registrano un record di aumenti del 13%, in termini di valore 1,5 miliardi in un anno.  Buone performance anche per quel che riguarda le vendite dell’ortofrutta, che tuttavia risultano in leggera flessione rispetto al 2017.

L’export del settore agroalimentare ha sempre avuto il favore dei consumatori stranieri, ma non ci si era mai spinti tanto avanti. Il risultato si deve interpretare come un impulso che deve indurre a migliorare sempre di più in termini di qualità, dato che è proprio questo aspetto ad avere finora fatto la differenza nell’export.

A gonfie vele l’export di salumi, formaggi, pasta italiana, le cui vendite aumentano del 2% (la pasta). Le preferenze degli stranieri per i prodotti agroalimentari italiani, si basano su considerazioni di carattere qualitativo e di sicurezza, fiducia che il nostro Paese si è assicurato nel corso degli anni.

Il 2018 si è chiuso con un nutrito ‘listino’ di oltre 5mila prodotti tradizionali censiti dalle Regioni, dei quali quasi 300 risultano essere specialità Dop/Igp, che hanno ottenuto il riconoscimento dall’Ue. I vini Doc/Docg superano i 400, praticamente l’Italia è leader nel settore, con circa 60mila aziende agricole impegnate nella produzione bio.

Migliaia sono le aziende agricole che lavorano costantemente per la custodia di semi e piante a rischio estinzione, siamo presenti sul mercato come Campagna Amica, che è la più vasta rete mondiale. Non meno importante il primato della sicurezza alimentare a livello globale, in virtù del maggior numero in assoluto di prodotti agroalimentari che presentano residui chimici regolari.

Il bilancio è incoraggiante, e tuttavia la situazione geopolitica instabile, i conflitti di carattere commerciale, si spera non costituiscano ostacolo nel futuro.