CGIA MESTRE: SULLE PMI UN CARICO FISCALE DOPPIO RISPETTO ALLE MULTINAZIONALI

DI VIRGINIA MURRU

 

Era già noto che sulle piccole e medie imprese gravasse un carico fiscale rilevante, che non di rado schiaccia soprattutto quelle che hanno un esiguo giro d’affari, blocca iniziative che potrebbero allargare gli orizzonti degli investimenti e dunque favorire il tasso di occupazione.

Nell’altro versante ci sono le multinazionali, le quali, secondo i dati dell’Ufficio studi della CGIA di Mestre, versano all’erario quasi la metà rispetto alle tartassate piccole e medie imprese italiane. Da questi studi è emerso che le Pmi hanno un carico fiscale complessivo pari al 59,1% dei profitti; i colossi del web presenti nel nostro paese (le controllate di questi multinazionali), hanno un tax rate del 33,1%, ossia viene esatto il doppio proprio dalle imprese che hanno stretti margini di utili.

La differenza è stridente, si potrebbe dire. Si tratta di percentuali che fanno riferimento al 2018, ma da allora non ci sono stati miglioramenti di rilievo. Il coordinatore dell’Ufficio Studi CGIA, Paolo Zebeo, precisa che i dati sono stati estrapolati da fonti diverse, e pertanto non sarebbero comparabili sul versante scientifico.

“Tuttavia – sostiene – è verosimile ritenere che sulle piccole imprese il carico fiscale sia quasi doppio rispetto a quello che si impone alle multinazionali.” Il gap sul piano fiscale è quindi di questa portata. “Un’ingiustizia che grida vendetta” – aggiunge – non solo perché sui giganti dell’eCommerce il carico è più agevole, ma anche perché sulle piccole e medie imprese di casa nostra il gravame di tasse e contributi è tra i più elevati in Europa”.

Tra i paesi dell’Eurozona, infatti, secondo i dati rilevati dalla Banca Mondiale, solo la Francia presenta una situazione peggiore di quella italiana, per quel che concerne il carico fiscale subito dalle Pmi (si è accertato il 60,7% sui ricavi). La media dell’area euro (ossia dei 19 Paesi che ne fanno parte) però si attesta al 42,8%, il che significa che c’è una differenza con l’Italia di oltre 16 punti percentuali.

Questi studi hanno tenuto conto di multinazionali come Amazon, Alphbet, Apple, Booking, ADP, Microsoft, Oracle, Otto, e diverse altre che operano in territorio italiano.

Google di recente ha versato al Fisco 306 milioni all’Agenzia delle Entrate per saldare i conti sulle tasse non versate,  riguardanti il periodo 2002/2015. La Guardia di Finanza ha messo al muro con le sue indagini tanti dei colossi del web che operano in Italia, la cui tendenza è stata quella di evadere allegramente il Fisco. Tra il 2009/2014 Amazon risulta che abbia evaso 130 mln di euro, e non è la sola. Tutto questo mentre alcuni di questi giganti dichiarano utili in crescita di oltre il 40%.

Un po’ a ritroso nel tempo, ma non poi tanto, c’è il contenzioso riguardante Apple con l’Agenzia delle Entrate. Nel 2015, Apple ha chiuso il contenzioso con il Fisco, versando 318 milioni di euro, su una base di contestazione che aveva stabilito i mancati versamenti Ires in 880 mln di euro (in 5 anni).

E ci sono anche gli accertamenti dell’Antitrust europeo, che ogni tanto agisce contro i benefici fiscali illegali delle Aziende che le tentano tutte, per dirla con un luogo comune fanno proprio carte false, pur di aggirare gli obblighi fiscali. Solo pochi anni fa, proprio l’Antitrust europeo stabilì che il gruppo Mac aveva beneficiato in Irlanda di ben 13 miliardi di euro in termini di benefici fiscali, ovviamente illegali, e secondo la normativa Ue al riguardo, sono riconducibili ad illeciti aiuti di Stato, e pertanto da restituire.

In quella circostanza Dublino tentò di dribblare sostenendo che le autorità irlandesi avessero firmato accordi fiscali attraverso la cosiddetta procedura del ‘tax ruling’ (considerata legale), ovvero a regola d’arte per sfuggire le eventuali contestazioni dell’Ue. Il tax ruling è una pratica che va a vantaggio delle multinazionali, si tratta infatti di chiarire in anticipo il trattamento relativo alle questioni fiscali internazionali. Sono in definitiva ‘lettere d’intenti’ emesse da un Paese  (che a sua volta tenta di aggirare le norme dell’Autorità sovranazionale..) e volte a rendere nota  a queste grandi aziende la procedura con la quale un’imposta sarà calcolata. Secondo il ‘tax ruling’, la multinazionale, naturalmente, sceglierà la destinazione dell’imponibile che risulti più conveniente. Come dire ‘fatta la legge e trovato l’inganno’.

La Guardia di Finanza, scoprì alcuni anni fa nella sede milanese di Credit Suisse, dopo un’indagine, che la banca aveva evaso 14 miliardi di euro, la vicenda si era chiusa con il pagamento di circa 100 milioni di euro in termini di sanzioni al Fisco italiano. Più o meno quello che è accaduto per UBS, il più grande istituto di credito svizzero. Entrambe hanno patteggiato, e sono cadute su un tappeto alquanto soft.

Ci si chiede, tanto per rientrare nelle affermazioni sacrosante del coordinatore dell’Ufficio Studi CGIE, Paolo Zebeo, per quale ragione l’Agenzia delle Entrate dimostri indulgenza ad oltranza sulle multinazionali operanti in Italia, e l’imposizione risulti quasi il doppio per le piccole e medie imprese del Paese. Inutile dire quanto questo trattamento fiscale sia penalizzante, la maggior parte sono costrette a sopravvivere.

Il Segretario della CGIA, Renato Mason è piuttosto perplesso, e sostiene: “se con la manovra abbiamo scongiurato l’aumento dell’Iva, entro l’anno in corso dovremo trovare le risorse affinché nel 2021 l’Iva e le accise sui carburanti non aumentino.”

Si dovranno reperire risorse importanti, ossia oltre 20 miliardi di euro, slalom non semplice per il Governo, ma di fatto un vincolo al quale sarà difficile sottrarsi, condizione che non risulta essere un buon presupposto per alleggerire la pressione  fiscale, strategia che invece porterebbe le Pmi a respirare meglio e a pianificare in maniera più solida il futuro. Stesso discorso vale per il cuneo fiscale a carico delle famiglie, dalle quali dipendono i consumi, ossia una ruota dell’ingranaggio macroeconomico di rilevante importanza per l’economia del Paese.

 

MEF. MIGLIORA IL FABBISOGNO NEL 2019: -2.800 MLN RISPETTO AL 2018

DI VIRGINIA MURRU

 

Il fabbisogno del settore statale si chiude a dicembre 2019, in via provvisoria, secondo il comunicato stampa del Mef, con un avanzo di 9.700 milioni, ossia in diminuzione rispetto a dicembre 2018, che si chiuse a 12.506 milioni di euro (cala così di 2.800 milioni).

Il fabbisogno del settore statale relativo al 2019 è di 41.780 milioni, dunque in miglioramento rispetto ai 45.218 milioni dello stesso periodo lo scorso anno.

Le ragioni del miglioramento, lo rende noto il Mef, sono dovute al fatto che il saldo ha beneficiato di maggiori incassi fiscali, i cui proventi riguardano la seconda e ultima rata del 2019 della definizione agevolata delle cartelle esattoriali – così come previsto dal D.L. 119 del 2018, la cosiddetta Rottamazione ter – e le entrate derivanti dalle aste delle quote di CO2.  

 Per quel che riguarda la spesa, in rilievo la ricapitalizzazione della società AMCO (ex SGA), spiega il Mef, per mille milioni; il prestito destinato ad Alitalia, 400 milioni, e ulteriori prelievi dagli Enti territoriali.

In diminuzione risulta la spesa per interessi sui titoli di Stato, di circa 250 mln. Nel 2019, il fabbisogno annuale del settore statale nel 2019, in generale ha potuto beneficiare di superiori incassi fiscali e contributivi, maggiori utili e dividendi, rispetto al 2018 versati dalla Banca d’Italia e Cassa Depositi e Prestiti, nonché maggiori accrediti dall’Unione Europea ai Fondi di rotazione.

Sul versante delle spese si rileva nell’anno in corso (2019) un aumento dei prelievi dai conti di tesoreria relativi agli Enti previdenziali ed Enti territoriali, oltre ad un incremento della quota di partecipazione dell’Italia al Bilancio comunitario.

In diminuzione risulta la spesa per interessi sui titoli di Stato, con una diminuzione intorno agli 800 mln, rispetto al 2018.

 

COMINCIA OGGI LA MARATONA DEI SALDI

DI VIRGINIA MURRU

 

Dal 2 gennaio parte il programma dei saldi invernali 2020, non è previsto un vero e proprio assalto ai negozi, specie quelli di abbigliamento, ma un po’ ovunque nella penisola si ripeterà il rito degli acquisti a prezzi scontati, ovvero la caccia alle occasioni di fine stagione.

Secondo il calendario  parte per prima la Sicilia, che ha fissato le vendite con gli sconti a cominciare dalla data odierna; per sabato 4 gennaio il via ai saldi riguarderà Lombardia, Toscana, Liguria e Marche. Il 5 gennaio Emilia Romagna e Umbria, e a seguire le altre regioni.

Secondo Confcommercio, nel 2019 il giro d’affari riguardante le vendite con i saldi è stato intorno ai 5 miliardi di euro, con una spesa pro capite di circa 140 euro. Per l’anno in corso non ci sono previsioni ottimistiche, si stima anzi una contrazione notevole delle vendite, con 4 italiani su dieci interessati agli acquisti di articoli scontati. Sono previsti importi di spesa più elevati (pro capite) rispetto allo scorso anno, ma si valuta che ci sarà anche una flessione del 10% in termini di volume di vendite.

I dati di previsione sulle vendite sono diversi per Federconsumatori, che vede un andamento più positivo, mentre Codacons non è sulla stessa linea di valutazione, e stima una flessione quando la ‘rassegna’ dei saldi terminerà, dopo circa due mesi.

Secondo il parere degli esperti che monitorano queste performance nel commercio, a tirare il freno a mano sui saldi di fine stagione, a partire da gennaio, sarebbero le varie iniziative di eCommerce tra novembre e dicembre, con il lancio dei cosiddetti ‘Black Friday’, volutamente fissati nel periodo precedente il Natale, in modo tale che una quota notevole di spesa destinata agli acquisti  relativi a questa importante ricorrenza sia orientata in tale direzione, con proposte allettanti per gli acquirenti del web.

Le vendite online hanno maggiori probabilità di raggiungere i consumatori, per ovvie ragioni, perché gli acquisti in primis si possono effettuare comodamente viaggiando in rete, è possibile fare confronti con maggiore facilità, e dunque scegliere secondo il criterio della migliore opportunità, semplicemente attraverso una carta di credito.

I commercianti che attendono la stagione dei saldi per un recupero delle vendite, hanno già protestato sulle mani lunghe del ‘Black-Friday’, e vorrebbero posticipare il periodo dei saldi, nonché  ridurne  la durata. Secondo Carlo Rienzi (presidente Codacons), i saldi si dovrebbero addirittura abolire, concedendo ai commercianti iniziative più libere nel praticare sconti sui prodotti nel corso dell’anno.  Intanto, secondo l’Associazione, gli italiani disposti a fare shopping a partire da questo mese con la convenienza dei saldi, saranno il 40%.

Secondo il presidente della Federazione Moda Italia-Confcommercio, la stagione quest’anno partirà con il presupposto dei saldi sostenibili, dato che gli acquisti presso commercianti che operano in prossimità della propria abitazione, e nei pressi dei centri storici, risultano essere ‘più ecologici’: meglio dunque che affidarsi a ciò che offre la rete online. La procedura di reso, infatti, qualora la circostanza ricorresse, è più semplice, e in ogni caso si ha la possibilità di misurare il capo di vestiario che s’intende acquistare, mentre per ovvie ragioni non è possibile per gli acquisti online.

La maratona dei saldi  terminerà tra metà febbraio-primi di marzo, anche se non in tutte le regioni, in alcune potrebbe andare avanti fino alla fine di marzo.

 

 

 

 

ISTAT. IN AUMENTO A DICEMBRE L’INDICE DEL CLIMA DI FIDUCIA DI CONSUMATORI E IMPRESE

DI VIRGINIA MURRU

 

In miglioramento a dicembre 2019, secondo il comunicato Istat, l’indice del clima di fiducia di consumatori e imprese, il primo va da 108,6 a 110,8 – il secondo (indice composito imprese) passa da 99,2 a 100,7. Il riscontro è orientato verso il positivo rispetto al mese precedente, ‘il sentiment’ tra imprese e famiglie, secondo le rilevazioni, segue un trend di crescita.

Per quel che concerne i servizi di mercato, il miglioramento dell’indice tiene conto dell’andamento in positivo di tutte le componenti. Abbiamo infatti un incremento nel commercio al dettaglio, per quel che riguarda i giudizi sulle vendite e le scorte di magazzino, dove figurano in controtendenza invece le attese sulle vendite, ‘viste’ in diminuzione. Nei canali analizzati l’aumento  maggiore riguarda in linea di massima la grande distribuzione. Se si considera il commercio al dettaglio, è il livello massimo raggiunto in due anni.

Sostanzialmente si rileva una crescita dell’ottimismo poiché è il clima economico a presentare un quadro più solido: da 116,5 è passato a 120,7. In dettaglio, il clima personale va da 105,8 a 106,8, il clima corrente da 106,8 a 108,8 e quello futuro da 110,2 passa a 112,2.

Con riferimento alle imprese, l’Istat ha rilevato che l’indice di fiducia migliora in modo lieve nel settore manifatturiero, passando da 99,0 a 99,1, mentre l’incremento è più deciso nel settore delle costruzioni.

 

 

AGENZIA DELLE ENTRATE. NEL 2020 VERIFICHE PER I TITOLARI DI PARTITE IVA

DI VIRGINIA MURRU

 

Sta per chiudersi il 2019 e sono in dirittura d’arrivo, dal primo gennaio 2020, le verifiche per i titolari di partite Iva, circa l’uscita o la permanenza nel regime fiscale agevolato. Si fa il punto, per professionisti ed imprese, sui ricavi, ma sono previsti anche altri dettagli in analisi. La Legge di Bilancio 2019 ha eliminato i vincoli alla tassazione agevolata, per quel che riguarda le partite Iva, ma si deve considerare anche l’introduzione delle cosiddette ‘cause ostative’.

Ma in spiccioli, cos’è il regime fiscale agevolato? In primis è destinato agli operatori economici di dimensioni ridotte. Il Governo con la Legge di bilancio 2019, ha previsto una più ampia platea in termini di applicazione, attraverso l’innalzamento della soglia limite dei ricavi/compensi, cancellando gli ulteriori requisiti di accesso sul costo del personale e beni strumentali.

Al regime forfettario agevolato possono accedere i contribuenti con nuove attività d’impresa, arte o professione, i quali stimano di conseguire ricavi o compensi che non vadano oltre la soglia dei 65mila euro – e i titolari d’impresa già in attività che abbiano realizzato nell’anno precedente all’applicazione del regime forfettario, compensi entro i limiti indicati (65mila).

Con l’esercizio di più attività, distinte da Codice Ateco (ovvero il codice identificativo alfanumerico, composto da lettere e numeri, che identifica le imprese nelle relazioni con la PA. Il codice  viene assegnato allorché si procede all’avvio di una nuova attività, in modo tale che sia possibile la classificazione sul piano contributivo) diversi, è importante considerare la somma dei ricavi e compensi sulle differenti attività.

Vi sono limiti di accesso al regime forfettario,  secondo l’Agenzia delle Entrate da tali criteri sono escluse le persone fisiche che adottano regimi speciali ai fini dell’Iva o regimi forfettari di determinazione del reddito.

Limiti ci sono per i non residenti, ad eccezione di chi risiede in uno degli Stati facenti parte dell’Ue, o Stato aderente agli Accordi sugli Spazi economici europei, così che assicuri un adeguato scambio d’informazioni; altra condizione è che in Italia si produca almeno il 75% del reddito complessivo prodotto.

E ancora per i soggetti che, in modo esclusivo o prevalente, svolgano operazioni relative alla cessione di fabbricati o porzioni di essi, terreni edificabili o mezzi di trasporto nuovi. Non hanno accesso al diritto, inoltre, gli esercenti di attività, arti o professioni che nello stesso tempo facciano parte di società di persone, associazioni professionali o imprese a carattere familiare, e che controllino in modo diretto o indiretto società a responsabilità limitata, o associazioni in partecipazione, che esercitino attività economiche (in modo diretto o indiretto) riconducibili a quelle svolte individualmente.

Non possono accedere nemmeno le persone fisiche la cui attività è esercitata in gran parte nei confronti di datori di lavoro, ai quali sono legati da rapporti di lavoro o vi erano stati nei due precedenti periodi d’imposta, ossia nei confronti di soggetti direttamente o indirettamente riconducibili a questi datori di lavoro, tranne per chi inizia una nuova attività, dopo avere svolto un periodo di pratica obbligatoria per l’esercizio di arti o professioni.

L’Agenzia sottolinea che il regime forfettario termina la sua efficacia a partire dall’anno successivo a quello in cui viene meno il requisito di accesso previsto dalla legge, ovvero si manifesta in una delle cause di esclusione.

Il Governo ha messo in primo piano la lotta all’evasione fiscale, e con l’arrivo del nuovo anno i controlli saranno rigidi su tutti i fronti. I titolari di partita Iva saranno pertanto sottoposti a severi controlli da parte dell’Agenzia, verifiche volte a rilevare l’entità di quanto hanno dichiarato, e soprattutto controllare che vi sia coerenza con i mezzi di cui dispongono sui loro conti.

Già da agosto di quest’anno sono iniziati i controlli sui conti dei contribuenti con ‘sospetta evasione’, in virtù dell’Anagrafe tributaria che ne semplifica la procedura, permettendo una larga ‘vista’ sui movimenti bancari, e quindi consentendo il confronto con i redditi comunicati al Fisco. Per quel che concerne i titolari di partita Iva, i controlli partiranno nel caso si riscontrino  incongruenze tra ciò che è stato dichiarato e la consistenza dei conti correnti dei titolari.

Il fisco, al fine di avviare verifiche attendibili, potrà avvalersi di diversi strumenti di controllo, quali gli Isa (entrati in vigore nel 2019, sostituiscono gli studi di settore), Indici Sintetici di Affidabilità Fiscale. Tra i mezzi d’”indagine” ci sarà quello relativo alle fatture elettroniche, poi il cosiddetto risparmiometro, ovvero l’algoritmo che consente un controllo dei risparmi nel volgere di un anno da parte del contribuente e la verifica sulla sua coerenza con i redditi presentati.

Ma non sono da trascurare, tra i mezzi di accertamento tributario, anche le segnalazioni da parte di Enti locali come i Comuni, dirette all’Agenzia Entrate. I Comuni sono stati anche incoraggiati alle segnalazioni degli illeciti, tramite incentivi, ossia una sorta di ricompensa che permetterà l’incasso  totale delle somme che hanno riscosso. Incentivo che è stato inserito nel Decreto Fiscale, il quale ha fissato la proroga fino al 2021.

E’ previsto, da parte dell’Agenzia, anche una verifica su una selezione di contribuenti, anche quelli titolari di Partite Iva, al quale viene applicato il regime forfettario. Saranno questi ultimi i più inquisiti dal Fisco, proprio in considerazione del fatto che si tratta di contribuenti ai quali si applica l’aliquota unica del 15% o Flat tax, per i ricavi che rientrano nella soglia dei 65mila euro.

L’osservatorio sarà puntato su questa fascia di contribuenti  perché nel corso del corrente anno c’è stata un’adesione rilevante a questo regime fiscale favorevole. Negli intenti dell’Agenzia la verifica è diretta ad accertare che siano in regola con i requisiti stabiliti dalla legge, in termini di diritti, e che i ricavi non abbiano superato la soglia massima stabilita. I controlli terranno conto sia dei contribuenti che aderiranno al nuovo regime forfettario, sia gli altri che hanno presentato l’adesione al precedente.

Ma non sfuggiranno nemmeno gli autonomi, ai quali si applica il regime dei minimi, che ha implicazioni solo sulle partite Iva aperte gli anni precedenti al 2016. I requisiti sono il compimento dei 35 anni di età e avere superato i 5 periodi d’imposta consecutivi. Tramite i controlli incrociati sarà possibile individuare da parte del Fisco, in primis quei lavoratori autonomi che non hanno presentato dichiarazione dei redditi o dichiarazione Iva. Controlli anche sui redditi relativi al 2018, nonché dati sui contenziosi con le Commissioni tributarie ed eventuali aggiornamenti catastali.

Com’è stato più volte sottolineato, i controlli partiranno da ‘sistemi’ incrociati con i dati Isa, sui lavoratori autonomi, a seconda dei casi, l’Agenzia delle Entrate, potrà anche procedere alla revoca dei benefici fiscali per i contribuenti poco affidabili nella trasmissione dei dati. Ma la ‘rivoluzione’ informatica nella rilevazione dei dati andrà avanti per semplificare il lavoro agli uffici fiscali in fase di controllo delle Partite Iva, alle quali si applicano gli Isa, ossia gli Indici Sintetici di Affidabilità Fiscale.

In preparazione da parte dell’Agenzia, l’invio di “lettere di compliance” dirette ad imprese e professionisti, con le quali si segnalano possibili omissioni o dati irregolari nelle dichiarazioni trasmesse, al fine di sensibilizzare questi contribuenti all’adempimento spontaneo, che permette una riduzione delle sanzioni.

 

 

 

ACCORDO FIRMATO TRA FCA E PSA, NUOVO GRUPPO DAI DUE COLOSSI DELL’AUTOMOTIVE

DI VIRGINIA MURRU

 

E’ ufficiale: è stato raggiunto l’accordo tra FCA e PSA per la fusione, il nuovo gruppo avrà la leadrship, e sarà il quarto costruttore automobilistico al mondo per quel che concerne i volumi,  terzo in termini di fatturato. Il “Combination Agreement” vincolante, è stato dunque siglato da Fiat Chryslet Automobiles N.V., NYSE e Peugeot S.A. (Groupe PSA).

Le condizioni di fusione avranno caratteristiche paritetiche (50/50) dei rispettivi business, e permetterà la creazione di un autentico colosso nel settore dell’automotive a livello globale.

Ha votato a favore della fusione, all’unanimità, la famiglia Peugeot, sostenendo Carlos Tavaros (prossimo Ceo del nuovo gruppo e attualmente Presidente del Consiglio di PSA). Ovviamente Peugeot sarà rappresentata nel nuovo Consiglio in quanto svolge un peso non indifferente, trattandosi di uno dei principali azionisti del gruppo automobilistico, insieme ai cinesi Dongfeng e alla Banca di Investimento Pubblica (BPI).

Si stima che le vendite annuali del nuovo gruppo (su base azionaria) saranno di circa 8,7 milioni di veicoli, mentre i ricavi congiunti ammonteranno a circa 170 miliardi di euro.

La firma del memorandum of understanding è stata annunciata da FCA con un comunicato. Il nuovo gruppo sarà ‘diversificato’ e presenterà i margini tra i più alti nei  principali mercati in Europa, America Latina e Nord America. Si stanno intanto creando le basi per una migliore definizione delle strategie in altre regioni.

Dopo il fallimento della fusione tra FCA e Renault, la scorsa primavera, per il venire meno delle favorevoli condizioni politiche – operazione da 35 mld di euro, che avrebbe permesso di creare il terzo gruppo automobilistico sul piano globale, dopo Volkswagen e Toyota – l’accordo con PSA ha presentato un percorso più agevole, così si è arrivati alla firma del cosiddetto ‘memorandum of understanding’.

Il nuovo gruppo sarà dotato di risorse e dimensioni tali da risultare all’avanguardia “nella nuova era della mobilità sostenibile.” Il colosso che ne è derivato metterà insieme le ampie e crescenti competenze acquisite per una sfida nel settore della mobilità che corrisponda sul versante ecologico alle esigenze dei nostri tempi.

FCA sottolinea che sarà prioritario generare sinergie annuali, le quali, a regime, sono stimate intorno ai 3,7 mld di euro. Non sono previste chiusure di stabilimenti, il che rassicura certamente i sindacati e i lavoratori.

I sindacati hanno già annunciato una fase di confronto con l’azienda, in merito alla fusione e agli accordi raggiunti e alle ricadute che avrà il nuovo piano industriale. Chiesta conferma degli obiettivi di piena occupazione e dei 5 miliardi di euro di investimenti annunciati per l’Italia.

Queste sinergie produrranno un flusso di cassa netto che volgerà in positivo fin dal primo anno di gestione, anche perché sia la solida struttura patrimoniale, che l’alto livello di risorse in termini finanziari, forniranno flessibilità in questo ambito: si attende infatti un rating di ‘investiment grade’.

Per quel che riguarda gli investimenti, la nuova società beneficerà di efficienze su una scala più vasta, al fine di sviluppare soluzioni innovative di mobilità e tecnologie all’avanguardia nell’ambito dei veicoli alimentati con energie alternative, più affini ai target ecologici, della guida autonoma e connettività.

Eccellente anche il portafoglio di brand ‘iconici e già consolidati’, ampio e in grado di offrire prodotti alla guida nelle rispettive categorie e nei migliori segmenti di mercato, volti a soddisfare i clienti.

Dalla cooperazione scaturirà un’intesa perfetta sul piano professionale tra i due team di management, poiché, inutile rimarcarlo, entrambi  possono contare su un comprovato successo per quel che concerne ristrutturazioni e aggregazioni aziendali, nonché nella produzione di valore.

Sarà una struttura che garantirà una solida governance, risultato della competenza di entrambe le società e degli alti requisiti di know-how nel settore. Presidente del nuovo Gruppo sarà John Elkann, mentre il Ceo sarà Carlos Tavares, con maggioranza di consiglieri indipendenti. Forte sarà il supporto da parte degli azionisti ‘più datati’, i quali avranno una rappresentanza nel Consiglio.

 

ISTAT. CRESCE AD OTTOBRE L’EXPORT (+3,1%), IN FLESSIONE L’IMPORT (-2,3%)

DI VIRGINIA MURRU

 

Nel comunicato stampa diffuso in data odierna, l’Istat analizza i dati riguardanti il commercio con l’estero e i prezzi all’import dei prodotti industriali. Periodo di riferimento ottobre 2019, per il quale si stima una crescita congiunturale dell’export di +3,1%, e una contrazione delle importazioni pari a -2,3%.

L’aumento congiunturale dell’export – secondo i dati Istat – è da attribuire in gran parte all’aumento delle vendite verso i mercati extra Ue: +6,1%, dovuta soprattutto ai mezzi di navigazione marittima. Il traffico verso l’area dell’Unione risulta meno marcato: +0,7%.

Nel periodo agosto-ottobre del corrente anno, rispetto al precedente, si riscontra un aumento delle esportazioni pari a +1,1%, a cui corrisponde un lieve incremento delle importazioni +0,1%.

Sempre con riferimento ottobre 2019, l’incremento dell’export – su base annua – è di +4,3%, che tuttavia risulta trainata dal rilevante aumento nell’area extra Ue: +8,3%. Le vendite verso i paesi dell’Unione aumentano in modo più contenuto: +1,2%. Sul piano tendenziale le importazioni diminuiscono di -5,8%, e riguarda sia i mercati extra Unione: -9,3%, sia l’area dell’Unione: +3,4%.

All’aumento tendenziale dell’export nel mese di ottobre, contribuiscono in primis i mezzi di trasporto, tranne gli autoveicoli, con +56%, prodotti farmaceutici – chimici e medicinali – botanici, con +8,3%. Non meno rilevante l’apporto dei prodotti alimentari, bevande e tabacco: +6,2%; in rilievo anche gli articoli in pelle, ad eccezione dell’abbigliamento, e simili: +11%. Su base annua risultano in flessione le esportazioni di autoveicoli: -9,2%.

Gli Stati Uniti, Svizzera, Francia e Gran Bretagna sono i paesi che contribuiscono in maniera più incisiva all’incremento delle esportazioni. Riscontrata per contro una flessione delle vendite verso i paesi OPEC: -16,9% e Germania – 2,8%.

Secondo il comunicato Istat, si stima che il surplus commerciale relativo al mese di ottobre, possa aumentare di 4.229 milioni di euro – da 3.828 milioni a ottobre dell’anno precedente a +8.057 mln a ottobre 2019. L’avanzo commerciale relativo ai primi dieci mesi dell’anno in corso ha raggiunto +43.038 mln. Al netto dei prodotti energetici +78.768 mln.

Per ottobre 2019 si stima che l’indice dei prezzi all’importazione aumenti dello 0,1%, in rapporto al mese di settembre, mentre in termini tendenziali si prevede una diminuzione del 3,8%.

 

IL CDM APPROVA IL DECRETO PER IL SALVATAGGIO DELLA BANCA POPOLARE DI BARI

DI VIRGINIA MURRU

 

Il Consiglio dei Ministri, si è riunito ieri sera alle 21:30 su proposta del Presidente Giuseppe Conte e il Ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, con la presenza del sottosegretario Riccardo Fraccaro, per l’approvazione del decreto-legge che introduce urgenti misure a sostegno del sistema creditizio nel Sud, e la realizzazione di una Banca d’investimento. Ne dà comunicazione lo stesso esecutivo con un comunicato.

Il decreto avrà questo titolo (modificato ieri sera): “Misure urgenti per il sostegno al sistema creditizio del Mezzogiorno e per la realizzazione di una Banca di Investimento”.

 Nel decreto il Governo mette in rilievo il potenziamento delle capacità patrimoniali e finanziarie della Banca del Mezzogiorno-Mediocredito Centrale (MCC), per un massimo di 900 mln di euro, al fine di consentire all’istituto di operare con la funzione di Banca d’investimento, e possa così creare le basi per migliorare la crescita e la competitività delle imprese.

In sintonia con questa missione, e secondo le disposizioni del decreto, sarà fissato un aumento di capitale che permetterà a MCC, in coordinamento con il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, e possibili altri investitori, di contribuire al rilancio dell’istituto di credito pugliese in seria difficoltà. Con questo intervento l’esecutivo intende tutelare i risparmiatori in primis, le famiglie e le imprese legate al sistema creditizio della BPB.

Com’è noto, la Banca Popolare è stata sottoposta il 13 dicembre scorso alla procedura di Amministrazione Straordinaria da parte della Banca d’Italia, con relative nomine, tale procedura renderà più agevole il perseguimento degli obiettivi di consolidamento dell’istituto.

Al momento gli Amministratori straordinari della Banca Popolare intendono perseguire le negoziazioni già poste in essere con Il MCC e il FITD, al fine di stipulare un ‘Accordo Quadro’, che delinei un prospetto strategico per il piano industriale e il rilancio della Banca pugliese. Si stanno creando le basi per favorire il recupero del suo equilibrio economico e patrimoniale, e insieme le premesse affinché BPB assuma un ruolo centrale nel finanziamento dell’economia nel Sud.

“Sì, stasera chiuderemo su Banca popolare di Bari” – aveva dichiarato ieri sera il presidente del Consiglio Giuseppe Conte poco prima del vertice a Palazzo Chigi.

Ci ha provato il Governo Conte-bis a mettere le mani avanti, e a precisare che “lo Stato non è il rifugio dei banchieri, e che la tutela va ai risparmiatori”, solitamente vittime della pessima governance quando un istituto di credito si avvicina all’anticamera del default. Ma il Governo doveva intervenire in modo radicale su BPB, a questo punto non si poteva prescindere.

Inutilmente ci si domanda come mai, specie negli ultimi cinque anni, in seguito alle diverse crisi affrontate nel comparto bancario – e tante banche ‘salvate in estremis’, dopo un lungo percorso di errori nella gestione – si aspetti che la crisi esploda con tutta la sua carica di deleterie conseguenze, prima d’intervenire con un risanamento meno drammatico. Ci si chiede come mai gli organi di sorveglianza preposti a questi controlli, non svolgano il ruolo che gli compete.

Inutilmente, appunto, dato che purtroppo si arriva a mettere le mani su queste derive finanziarie quando ormai il malessere è imploso ed esploso.

L’esecutivo ha deciso di entrare in azione nell’unico modo ormai possibile, ossia con il salvataggio della Banca pugliese, considerato il ruoto che svolge nel sistema creditizio del Mezzogiorno.

Il presidente del Consiglio ha infatti affermato: “Tuteleremo i risparmiatori della Banca Popolare di Bari, nulla sarà concesso ai responsabili della gestione che ha causato le criticità. Si auspicano azioni di responsabilità proprio sul management che ha determinato le condizioni di questo disastro.”

Ma poi, a conti fatti, un esecutivo non può permettere che a farne le spese siano i più vulnerabili, ossia i risparmiatori, così il salvataggio è stato deciso, non senza urti nella maggioranza (tra i 5S e Italia Viva).

Cos’altro a questo punto? Non ci sono mezze misure, o prospettive con altri percorsi, e pertanto il varo di un decreto a favore della Banca Popolare pugliese è già in corso.

Il presidente del Consiglio è del parere che l’intervento debba mirare ad una prospettiva più ampia, dove alla base vi sia una strategia che cambi rotta in termini di gestione. Si creeranno le premesse (come si è già accennato) – secondo le dichiarazioni del premier – per un intervento di Mediocredito centrale, nonché, potenzialmente, del Fondo interbancario, al fine di rilanciare un istituto di credito che potrebbe avere un orientamenti di Banca del Sud, ossia un punto di riferimento credibile sul piano finanziario e creditizio per il Mezzogiorno.

Ma intanto risultano in corso diverse inchieste. Almeno due, una aperta dalla Procura di Bari, nella quale al momento non figurano indagati né ipotesi di reato. L’inchiesta è stata aperta in seguito alla denuncia della Consob (tramite il presidente Paolo Savona), la quale ha segnalato l’assenza di documenti sui conti richiesti all’istituto di credito.

Il Procuratore che coordina le indagini sta valutando se la segnalazione della Consob configuri un’ipotesi di reato. Ma non è la sola inchiesta a carico della Banca Popolare di Bari, che ormai è un ordigno con una carica di tossicità al suo interno. Ci sono infatti altre 4 inchieste in corso.

“La Banca Popolare di Bari è strategica per il tessuto produttivo del Sud” – da uno dei pulpiti più autorevoli parte l’allarme di Antonio Decaro, sindaco di Bari (e presidente nazionale Anci):

“L’intervento doveva essere una priorità assoluta del governo, era necessario salvare la Banca Popolare di Bari, così come si è proceduto con altri Istituti italiani ormai alla deriva. Se così non fosse stato si sarebbe  assistito allo sgretolamento dell’intero tessuto economico della città, e soprattutto le 70 mila famiglie di risparmiatori coinvolte in questo crac, avrebbero perso i loro risparmi.

”Si tratta di un male acuto, che richiede interventi urgenti” – afferma il presidente della Regione Michele Emiliano, il quale auspica una soluzione in tempi brevi, ma non nasconde gli effetti collaterali di queste misure, cioè il commissariamento. Entrambi gli amministratori, sia il sindaco che il presidente della Regione, sottolineano che la Banca Popolare di Bari debba restare pugliese. Non vogliono sentire parlare di gestione che fa capo a dirigenti del Nord, i quali, secondo il presidente Emiliano “non possono comprendere in pieno i problemi legati al territorio. Per questo insistiamo che  management e personale siano reclutati tra la nostra gente”.

Ha infatti dichiarato al riguardo:

“L’economia meridionale non può essere interpretata da chi non la capisce, da chi non la conosce. La nostra Regione è pulita, trasparente, e sta facendo sforzi non indifferenti, con  risultati economici di rilievo in termini di esportazione e incremento dell’occupazione. Per questo non accetteremo che vengano qui a commissariarci, come  fossimo una colonia. Devono lasciarci integra la dignità: io son convinto che il Presidente del Consiglio, che è pugliese, e quindi capisce la nostra realtà, farà in modo che i commissari interpretino in modo adeguato il loro ruolo”.

Ma intanto i commissari straordinari nominati dalla Banca d’Italia, ossia Enrico Ajello e Antonio Blandini, sono già all’opera. Il 14 dicembre hanno incontrato i dirigenti dell’istituto di credito. In seguito a  queste riunioni sembra ci siano state rassicurazioni in merito alla decisione di svolgere tutti gli adempimenti necessari alla ricapitalizzazione della banca e quindi ad un suo rilancio.  La più importante garanzia riguarda i conti correnti dei risparmiatori, a loro è stato detto che non incorreranno nel rischio di perdere i propri risparmi.

A Bari ci sono state diverse dimostrazioni organizzate dagli azionisti della Banca pugliese, i quali hanno protestato davanti alla sede centrale, in Corso Cavour, a Bari.

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VERTENZA SAFILO-SINDACATI, PROCLAMATO LO STATO DI AGITAZIONE DEI LAVORATORI

DI VIRGINIA MURRU

 

Non sembra ci siano ripensamenti da parte di Safilo Group, il cui piano industriale ha previsto 700 esuberi, e la chiusura dello stabilimento di Martignacco, in provincia di Udine. Il Ceo ha giustificato i tagli con “le esigenze del nuovo piano industriale, i cui obiettivi sono proiettati verso la ristrutturazione e un passaggio decisivo ad una strategia di trasformazione digitale”.

Un’azienda mira sempre al profitto,  tutto il resto costituisce un ‘corollario’ per il suo raggiungimento, pertanto quando un Consiglio di Amministrazione decide un programma di esuberi, e quindi tagli per l’occupazione, tali misure sono in sintonia con il puro fine degli interessi societari, che devono essere perseguiti anche cinicamente a scapito dei lavoratori.

Rientra purtroppo nelle fasi cicliche delle vicende aziendali, non si prescinde da questo rischio. Il piano industriale prevede intanto vendite nette che si aggirano su 1 miliardo di euro per il 2024, nel quinquennio il tasso medio di crescita sarà tra l’1-2%, e un margine operativo lordo ambizioso: tra il 9% e l’11% delle vendite nel 2024.

Ma non si tratta di esuberi di poco conto, Safilo ne ha dichiarato 700 su 2.600 dipendenti italiani. Le reazioni di lavoratori e sindacati sono altrettanto scontate, con manifestazioni ovunque negli stabilimenti addetti alla produzione di occhiali, e uno stato di agitazione generale previsto per il 13 dicembre. E’ stato inoltre deciso il blocco degli straordinari. I sindacati sono inflessibili, la sopravvivenza dell’azienda non può essere sempre basata sul sacrificio dei lavoratori. E il gruppo non sembra avere un futuro così a rischio secondo le risultanze dei conti.

L’azienda, tramite l’Amministratore delegato Angelo Trocchia, replica che ‘non si tratta di iniziative volte ad  ignorare le conseguenze sul piano occupazionale, e si stanno già  predisponendo tavoli di trattative con i sindacati, per individuare gli ammortizzatori sociali al fine di rendere meno pesante l’impatto sulle scelte decise dal gruppo. A monte di queste scelte dolorose – secondo le affermazioni del Ceo Trocchia – ci sarebbero le sospensioni delle licenze con Dior.

Un gruppo che conta sei stabilimenti produttivi, non tutti in Italia, ed è presente in Borsa, con l’indice FTSE Italia Small Cap (codice SFLMI), non risulta sia sull’orlo del tracollo per giustificare iniziative così dure per i dipendenti. Dopo l’annuncio degli esuberi il titolo è comunque crollato in borsa, sospeso a lungo in asta di volatilità, e nonostante il rientro agli scambi ha chiuso la seduta con un calo del 25%, a 1,19 euro.

Ma su misure di questa portata non si può ragionare con i palliativi, i sindacati non accetteranno la mannaia decisa da Safilo Group S.p.A. società italiana con sede amministrativa a Padova, addetta alla produzione e distribuzione di occhiali, da vista, da sole e sportivi, e tanti altri articoli con brand  di carattere sportivo.

Nel comunicato stampa pubblicato nel sito ufficiale del gruppo, si legge, in merito agli obiettivi che s’intendono perseguire nei prossimi 5 anni:

“Siamo orientati ad una crescita dei margini, attraverso una struttura dei costi che risponda efficacemente alla necessità di riallineare l’attuale capacità industriale del Gruppo alle future esigenze produttive e di conseguire ulteriori efficienze nell’area del costo del venduto e delle spese generali, garantendo al Gruppo solidità economico-finanziaria e il perseguimento, nell’arco temporale del Piano, dei livelli di redditività a cui la Società aspira.”

Progetti ambiziosi che non devono essere realizzati sulla pelle dei lavoratori, secondo le dichiarazioni dei sindacati, e tuttavia difficilmente con la vertenza in corso si riuscirà a indurre i rappresentanti di Safilo Group a rinunce consistenti, che rimettano in discussione il nuovo piano industriale.

Nel comunicato si cita l’uscita di licenze di lusso (LVMH), che porterebbe il gruppo ad avviare un piano di riorganizzazione e ristrutturazione industriale, rispondente, con effetti immediati, al nuovo scenario produttivo che l’azienda si troverà fin dai prossimi anni a gestire, e il conseguente riallineamento delle proprie strutture.

“E’ un  Piano, tracciato per salvaguardare la competitività aziendale a favore dei lavoratori che rimangono in forza, ed ha per questo identificato un totale di circa 700 esuberi nel 2020 in Italia.”

Non è accettabile per i lavoratori e i sindacati; nonostante sia stato aperto un tavolo negoziale, al fine di individuare gli ammortizzatori sociali che dovrebbero sostenere i dipendenti, limitando l’impatto di queste scelte, difficilmente dalla vertenza in corso si giungerà ad un accordo soddisfacente per le parti coinvolte.

 

IMU. GOVERNO CONTRO LA STRETTA SULLE DOPPIE PRIME CASE

DI VIRGINIA MURRU

 

Sulla caccia ai cosiddetti ‘furbetti delle false prime case’, ovvero gli scaltri dell’IMU, è arrivato l’’Alt’ del Governo, il quale ha espresso parere negativo sull’emendamento alla manovra presentato da un relatore della maggioranza.

L’esecutivo, che non ha dunque direttamente proposto il correttivo, non è contrario ad un effettivo accertamento del fenomeno, il problema semmai consiste nel fatto che la norma non è stata strutturata in modo chiaro ed efficace.

E’ il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri a indurre a riflettere sulla casistica relativa alla registrazione della seconda casa quale residenza principale in un nucleo familiare, anche se in realtà l’altro coniuge risulta proprietario di un’altra ‘prima casa’. Da questi accertamenti si potrebbe rilevare che uno dei due ha effettivamente spostato la residenza fittizia in un’abitazione a destinazione turistica (per esempio), ma per motivi di lavoro.

Per questa ragione la norma diretta a stanare i responsabili dell’evasione ha necessità d’essere formulata in maniera più mirata. Al momento il Governo non concorda sull’emendamento volto a contrastare le false prime case, e a imporre una stretta sulla tendenza all’evasione dell’imposta sull’immobile.

L’intervento legislativo è stato solo rimandato, anche se si è accertato che il valore dell’evasione, ossia il mancato rientro nell’erario, sia di circa mezzo miliardo di euro l’anno. Tanto costerebbe alle casse dello Stato, su un riscontro pari a 135 mila false prime case. I conti decisamente non tornano in termini di IMU evasa, ma si dovranno attendere controlli più certi, per stabilire con un margine di sicurezza più affidabile, quali contribuenti hanno effettivamente fornito in merito dichiarazioni false al Fisco.

I furbi certamente sono tanti e spostano la residenza solitamente in case vacanza, lo dimostrano anche i controlli e blitz delle Finanza in luoghi di particolare rinomanza turistica. Ne sanno qualcosa in merito le località della Costiera Amalfitana e Ischia, dove sono state riscontrate più di mille false prime case; ma anche in altre regioni a vocazione turistica il fenomeno è alto.

In aumento le false separazioni che hanno il medesimo fine, ossia quello di aggirare le norme ed evitare di versare l’imposta dovuta sull’immobile. Abitudini che non sfuggono all’Agenzia delle Entrate, che ha calcolato un’evasione dell’IMU pari al 10% (sulle false seconde case) di quella complessiva, che costa in definitiva allo Stato qualcosa come 5 miliardi di euro.

La proposta emendativa prevede che sulla prima casa ogni nucleo familiare debba indicare solo un’abitazione principale, esente dall’imposta, anche se la seconda casa risulta ubicata in una giurisdizione diversa rispetto alla prima, e quindi in diverso territorio comunale.

Secondo il ministro Gualtieri le misure stabilite dall’emendamento alla manovra sarebbero troppo drastiche, e per il momento potrebbe essere ritirato. La Legge di Bilancio 2020 staziona in Senato, e gli emendamenti dal Ddl Bilancio saranno sottoposti al voto dalla Commissione Bilancio di Palazzo Madama, venerdì prossimo (13 dicembre).

L’allarme dell’Agenzia delle Entrate è cominciato da tempo sui furbi dell’IMU, da molto tempo prima che un relatore della maggioranza presentasse l’emendamento per dare la caccia agli evasori.

Per le autorità addette ai controlli non è un accertamento semplice, si tratta di mettere ‘al vaglio’ milioni di abitazioni, quelle registrate come principali intanto sono oltre 30 milioni. Le seconde case sono il 17% circa: 6 milioni e mezzo. E poi c’è il ‘limbo’ in questo spettro di analisi, ossia oltre 2 milioni di case delle quali non si conosce la destinazione, ed è qui che prolifera il fenomeno dell’evasione IMU.

Il primo intervento su questo abuso da parte del contribuente è avvenuto tre anni fa, nel 2016, prima di allora il controllo sul reale cambio di residenza si svolgeva entro 45 giorni dalla dichiarazione, dopo avere fissato un appuntamento.

In seguito alla riforma c’è controllo e vigilanza continua. Secondo ciò che ha stabilito la Corte di Cassazione, i coniugi che vivono in case di residenza diverse, o ricorrono alla separazione ufficiale o viene dichiarato illecito il beneficio.

E infatti sono tanti i coniugi che, per evitare l’onere della tassa, ricorrono alla separazione come ‘ultima ratio’, ma qui siamo in un terreno minato per le autorità, la legge ha il suo filo spinato anche se di fatto si tratta di una condizione falsata dalla circostanza, e comunque ‘off limits’ per l’Agenzia delle Entrate.

Ovviamente, come ha fatto notare il ministro Gualtieri, ci sono le eccezioni riguardanti i coniugi che per ragioni di lavoro sono obbligati ad avere una residenza diversa. Tra le eccezioni ci sono anche i casi riguardanti coloro che  vivono nella medesima casa frutto di ‘accorpamento fisico’ di due unità abitative poste sullo stesso piano, attigue, anche se in catasto sono rimaste distinte.

Bisogna prestare comunque attenzione nelle dichiarazioni all’Agenzia delle Entrate, che ormai si avvale di sistemi incrociati micidiali, nonché banche dati che permettono un facile controllo: ad esempio sulle variazioni dei consumi nelle utenze. Questi ultimi sono una spia piuttosto indicativa, e proprio da qui possono partire gli accertamenti.

Senza dimenticare che dichiarare una falsa residenza all’anagrafe significa incorrere negli estremi del reato, ossia falso in atto pubblico. Il contribuente che ignora le regole dichiarando il falso perde anche i diritti connessi agli sconti fiscali sulla prima casa, oltre che essere tenuto coercitivamente a versare all’Agenzia Entrate l’imposta IMU pregressa relativa agli ultimi 5 anni.

La legge prevede comunque che, per beneficiare degli sconti fiscali, è necessario non solo dimostrare la residenza, ma anche abitare nell’immobile.

Nel fenomeno delle false residenze vi sono anche implicanze di carattere sociale: non è detto che il fine sia quello di eludere cinicamente le tasse. Perché si mente allora in realtà? Ci sono coloro che lo fanno per non essere rintracciabili dai creditori, altri perché per ragioni di lavoro e impegni vari cambiano con una certa frequenza abitazione, e lasciano come riferimento quella dei genitori, quale dimora abituale.

E tuttavia, in generale, vi si ricorre per ragioni fiscali. E i motivi per raccontare ‘bugie’ devono essere ricercate soprattutto nelle agevolazioni fiscali riservate alla prima casa.

La legge garantisce sconti non indifferenti sulle imposte legate all’acquisto della prima casa, con l’Iva che si riduce dal 22% al 4% su acquisti diretti dal costruttore. Ma vi sono anche altri benefici riservati a questa categoria, come il bonus prima casa, il cui concetto è disciplinato in modo diverso dalla legge rispetto all’abitazione principale.

Per venire a capo di una falsa residenza in realtà basta un controllo della Finanza nella casa del contribuente, in fasce orarie in cui è solito trovarvisi, come nelle prime ore del mattino o tardi la sera. Così l’indice di certezza è più alto, e il contribuente infedele difficilmente trova una via d’uscita.