DOPO I PANAMA PAPERS E’ ARRIVATA L’INCHIESTA SUI ‘PARADISE PAPERS’

DI VIRGINIA MURRU

L’ennesima inchiesta da parte del Consorzio Internazionale dei giornalisti investigativi (CIGI), i paradisi fiscali hanno ora accessi ancora più trasparenti. Il 5 novembre scorso, questa rete internazionale di giornalisti – che ha sede a Washington,  e conta sull’attività di 165 giornalisti investigativi, operanti in 65 paesi – con la pubblicazione di un articolo, ha reso noto la diffusione di nuovi files che contengono documenti su conti off-shore di persone fisiche e multinazionali.

Il CIGI (o in inglese ICIJ, International Consortium of Investigative Journalists), si occupa in particolar modo di reati transnazionali e di corruzione, e proprio  quest’anno ha vinto  il Premio Pulitzer (Sezione giornalismo di divulgazione), per avere pubblicato e rivelato, tramite lunghe inchieste, i Panama Papers. Di questo staff di giornalisti – che collaborano in sinergia su tanti temi di carattere internazionale, comuni ai loro paesi di appartenenza, non di rado inerenti traffici illeciti – fa parte anche il settimanale italiano ‘l’Espresso’, che ha condiviso con gli altri il prestigioso riconoscimento. Questa la motivazione del Premio, categoria ‘giornalismo divulgativo, attribuito dalla Columbia University di New York:

“Per aver svelato la struttura nascosta e la scala globale dei paradisi fiscali”.

I  giornalisti del ‘Consorzio’ hanno investigato e pubblicato documenti importanti sui Panama Papers, legati allo studio legale Mossak Fonseca, dimostrando nel contempo che esiste una fitta rete di società offshore, usate purtroppo dagli stessi governi e dai potenti di turno (banchieri finanzieri, politici etc.) per eludere tasse celando al fisco profitti illeciti.

L’inchiesta ha coinvolto in tutto circa 300 giornalisti, che hanno messo in moto, attraverso controlli e indagini incrociate, qualcosa come 10 milioni di files e documenti, portando alla luce i traffici di 200 mila società, e centinaia di capi di stato. Naturalmente l’Italia non è stata esente da questa black-list: sono un migliaio le persone coinvolte.

I nuovi files  mettono in luce altri paradisi fiscali (tax haven), tra i quali le isole Cayman e Bermuda; si tratta di nuove inchieste, che portano più in profondità lo scandaglio sui conti off-shore. L’inchiesta condotta nel 2016, che ha avuto per oggetto i Panama Papers, riguardava un network imponente di oltre 200 mila società off-shore, con sede a Panama.

Una slavina che tutto ha travolto nel suo percorso d’inchiesta, leader politici e personaggi in vista, noti nell’ambito dello sport o dello spettacolo, certamente individui facoltosi, interessati a portare il loro ingombrante portafogli fuori confine. Lo scorso anno, i giornalisti investigativi, avevano un archivio di oltre 11 milioni di files, riguardanti un arco temporale che va dagli anni ’70 al 2016.

Persone fisiche e imprese (non di rado un intrico di società fantasma), avrebbero sottratto al fisco e dunque all’Erario, imposte per un valore che si conta in milioni di dollari, e ha coinvolto studi legali e banche, i quali hanno assistito i propri clienti senza rispettare la normativa antiriciclaggio, e senza svolgere gli opportuni controlli.

E’ stata poi una reazione a catena: in questa deflagrazione sono finiti anche istituti di credito che operano in circuiti internazionali,  risultati responsabili della costituzione di società a Panama e nelle Isole Vergini. Paesi che hanno una normativa ‘compiacente’ e accomodante, dove il denaro (soprattutto se proviene da fonte illecita), segue una rete contorta, non facile da individuare.

Ma i tax haven hanno strade accessibili anche per i finanziamenti al terrorismo, per il traffico di armi, per tutte quelle attività sommerse che non possono servirsi dei circuiti convenzionali. La garanzia del segreto e della massima discrezione è il lasciapassare di queste risorse, e investire diventa veramente un business. E’ in definitiva il segreto la maggiore attrattiva, e proprio la protezione sulla tracciabilità delle transazioni consente questi traffici, che vanno dal riciclaggio di denaro sporco, alle immense risorse derivanti dalla vendita di stupefacenti.

I governi possono agevolare l’elusione fiscale, favorendo per esempio le multinazionali con norme precise,  dopo accordi non propriamente alla luce del sole. Il governo italiano è uno di questi.

L’Unione europea ha di recente contestato la riforma fiscale varata da Renzi nel 2015, che consentiva troppi sconti sulle tasse che avrebbero dovuto versare le multinazionali.  Il premier Paolo Gentiloni ha quindi provveduto ad abolire, o a modificare, nel mese di aprile di quest’anno, le norme riguardanti il ‘patent box’ (ossia tassazione agevolata sui redditi derivanti da opere d’ingegno), le quali, appunto, stabilivano importanti riduzioni d’imposta per le società titolari di brevetti, marchi e licenze. In ambito Ue è stata la Germania, insieme ad alcuni altri paesi membri, a contestare all’Italia tale procedura fiscale in favore delle big del web, anche se, il ‘dossier’ al riguardo, è rimasto piuttosto riservato.

E’ stato comunque il settimanale l’Espresso a pubblicare i verbali riservati che vedono l’Italia sotto accusa. Sono proprio le cosiddette ‘Carte di Bruxelles’  a mettere in rilievo i vantaggi fiscali concessi alle big company, i cui traffici commerciali si svolgono tramite il web.

E’ un’inchiesta giornalistica che ha rivelato le valutazioni dello staff tecnico dell’Ue,  circa il rispetto, in termini di compliance, delle regole europee; quindi sull’applicazione delle norme fiscali da parte degli Stati membri. Regole che sanciscono la trasparenza e la lotta all’elusione già indicate peraltro dall’Ocse.

E’ vero che l’Ocse ha fornito disposizioni ai singoli stati per favorire, con opportuni incentivi fiscali, brevetti e studi volti a migliorare l’innovazione (che rientrano poi nel ‘patent box’), ma ha nondimeno precisato che tali agevolazioni fiscali devono corrispondere a spese effettive sostenute per ragioni di ricerca e sviluppo.

L’Italia, che in ambito Ue, aveva i suoi ‘detrattori’ alle spalle, Germania in testa, è stata in definitiva accusata di avere contravvenuto a queste norme, le quali, come si è accennato, riguardano la riforma fiscale del 2015. Si tratta poi di benefici che davvero l’Italia non si poteva permettere, visto che prevedono un consistente sconto del 50% delle tasse per una durata di 5 anni. Non solo: il beneficio era possibile prorogarlo per altri 5 anni.

L’attuale Governo ha certo provveduto a modificare o a cancellare le norme al riguardo, ma in un certo senso è stato come ‘chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati’. L’Italia non è mai stata chiara nel fornire i nomi delle aziende che hanno beneficiato di queste agevolazioni, e i tecnici tedeschi, i più riottosi verso l’Italia – questa volta veramente a ragione – hanno sottolineato  il fatto che, nonostante il governo Gentiloni abbia cercato di rimediare cancellando le norme sotto accusa, le multinazionali che hanno beneficiato finora delle agevolazioni, dopo avere siglato accordi con il Governo, potranno continuare a goderne fino al 2021..

Inutile perdersi in retorica e piangere ‘sul latte versato’, tanto per dirla con un luogo comune, di certo è stato un grande errore del governo Renzi. Se poi l’Ue ogni tanto ci dà una strigliata, non bisogna sempre atteggiarsi a vittime, perché di errori ce ne sono stati.

Su questo punto c’è da dire, secondo l’inchiesta condotta da l’Espresso, che possiamo consolarci col fatto che non siamo gli unici disobbedienti: discordanza con le norme fiscali sancite dall’Unione europea, ne sono state trovate anche nel ‘patent box’ della Spagna e della Francia.

 

 

 

ALLA RICERCA DELLA DIGNITÀ PERDUTA

DI PIERLUIGI PENNATI

“Forse sta venendo meno il valore della dignità umana. Io e tutti i lavoratori non siamo numeri, siamo persone, con una dignità che dovrebbe essere rispettata”.

È Marica Ricutti a parlare, la mamma licenziata da Ikea perché non poteva iniziare alle 7 del mattino il mercoledì a causa di una terapia per il figlio disabile, licenziata per un paio d’ore di impossibilità a recarsi al lavoro, nonostante non avesse mai chiesto alcun altro privilegio.

Sarebbe pleonastico e stucchevole ripetere la sua situazione, anche perché questo, in Italia, non conta più nulla, il valore dei cittadini in genere è quanto possono produrre in termini di valore economico, vale a dire che più vali se più lavori gratis, senza tutele e facendo debiti.

Da quando, a dicembre 2016, alla “giusta causa” di licenziamento la Cassazione ha aggiunto la motivazione di “mero profitto aziendale” il fondo è stato toccato: l’uomo è scomparso dall’orizzonte del lavoro ed è rimasto solo il suo codice fiscale.

Siamo nella “Repubblica democratica fondata sul lavoro” e non sappiamo difendere e valorizzare i lavoratori.

Ikea in Svezia tutela i lavoratori e costruisce asili per le loro famiglie, in Italia licenzia chi per la famiglia non riesce ad iniziare alle 7 del mattino un giorno solo alla settimana.

Qualcosa non quadra, se il problema non è l’azienda, evidentemente deve essere lo stato nella quale si trova, poi, facciamo sempre in tempo a lamentarci degli immigrati africani, unici che ancora accettano le condizioni di lavoro nel nostro stato, per loro che sono abituati a vedersi negata la dignità di umani è sufficiente un lavoro, per noi che siamo cresciuti nella convinzione di possederla, invece, non basta, per questo i nostri figli cercano lavoro all’estero, non fuggono i nostri cervelli, fuggono le nostre anime in cerca della dignità che meritano.

FINANZIARIA 2018. TROPPE RICHIESTE, LE RISORSE NON SONO UN POZZO SENZA FONDO

DI VIRGINIA MURRU

 

Si è cercato di tendere le braccia in tutte le direzioni, accogliendo più emendamenti possibili ed effettuando correttivi anche al di là forse dei limiti, ma la finanziaria 2018 non è un cappello per illusionisti, né un pozzo senza fondo, oltre non si può andare. Il piano di spesa deve essere contenuto in un ‘portafoglio’ alla portata dell’azienda Italia, impegnata più che mai a fare quadrare i conti secondo le regole imposte dai trattati dell’Unione europea.

Troppi gli emendamenti presentati, non ci poteva essere attenzione per arrivare a tutto; avranno spazio (oltre ai ritocchi riguardanti le materie più dibattute, ad esempio le pensioni, e l’esenzione da ‘quota 67’ delle 15 categorie di lavori gravosi) anche i fondi per rivedere il superticket e il rifinanziamento dei cosiddetti ‘bonus bebé’, un incentivo ‘salva librerie’, che non siano parte di una catena facente capo allo stesso editore. E ancora sostegno per giovani e donne, e perfino un fondo (di 2 milioni) per i festeggiamenti del carnevale.

Ok alla web tax, anche se entrerà in vigore dopo un anno (approvata il 26 novembre), ossia il 1° gennaio 2019. Partirà quindi una flat tax pari al 6%, che sarà applicata a tutte le transazioni on line (ad eccezione di agricoltori e aziende agricole). L’emendamento relativo alla web tax è stato presentato da Massimo Mucchetti, il quale sottolinea che ‘una volta a regime le entrate che ne deriveranno saranno prossime al miliardo di euro, sicuramente ossigeno per l’Erario’.

Secondo la relazione tecnica di Massimo Mucchetti, senatore Pd e presidente della Commissione Industria, una prima stima del gettito però sarà di 114 milioni di euro. L’iniziativa sulla web tax è solo italiana, al momento, ma in ambito europeo se ne discute già da mesi con altri paesi, Germania in primis. Tutti concordano sulla necessità di mettere un argine ai lauti profitti delle multinazionali, le quali, fino ad ora, hanno solo cercato di eludere il fisco dei paesi nei quali avvengono effettivamente le transazioni.

L’iniziativa è solo italiana, si diceva, perché se si aspetta la locomotiva dei paesi Ue interessati a regolamentare i traffici commerciali della rete, si finisce come ‘Godot’, per dirla come il senatore Mucchetti.

E infatti a settembre, nel corso del summit dei Ministri delle Finanze europei a Tallinn, si è parlato dei giganti del web e del loro agire illecito nei confronti del fisco, tanti buoni propositi, convergenza di vedute, sdegno, oltre che da parte del rappresentante italiano, anche di quello francese, tedesco e spagnolo. Ma poi di nuovo silenzio, attese estenuanti per un intervento che dovrebbe avere priorità d’agenda in ambito europeo.

La tassa sul fatturato delle multinazionali che operano nell’ambito della digital economy, non ha trovato concreta applicazione, né un accordo definitivo. Dietro le incertezze i timori delle ‘ritorsioni’ degli stessi giganti che operano con i loro traffici commerciali sul web, i quali potrebbero decidere di fare le valigie e ‘migrare’ in altri lidi più accoglienti.

Importante per la Finanziaria anche il fondo istituito in favore dei caregiver, che sostiene un’ampia platea di familiari impegnati non di rado notte e giorno ad assistere familiari affetti da gravi patologie, e dunque non autosufficienti.

Il senatore Pd Giorgio Tonini, presidente della Commissione Bilancio, è preoccupato, il dibattito non segue una procedura spedita, slitta di qualche giorno il voto finale, è un iter simile ad una corda piena di nodi, probabilmente entro il 29 novembre si dovrebbe avere una visione più chiara degli interventi. Il problema è anche una maggioranza risicata, a svolgere un ruolo di discrimine sono due senatori di Ala (Alleanza Liberalpopolare-autonomie), i loro voti sono stati determinanti per la Commissione Bilancio del Senato.

Si è discusso forse troppo sul sovraprezzo imposto dalle regioni per le prestazioni specialistiche di carattere sanitario, anche perché ognuna ha parametri di applicazione diversi e non è facile districarsi in questa giungla. Il Governo ha arginato gli ostacoli con un fondo di 60 milioni, ma non tutto è stato definito, questo punto si è rivelato uno dei più difficili da superare in termini di accordi.

Un occhio alla spia rossa delle risorse disponibili, e uno alle raccomandazioni della Commissione europea, che ha sospeso il giudizio sui conti italiani fino alla prossima primavera, in attesa di prospettive più certe.
In seguito alla lunga serie di intoppi, di stop and go, la finanziaria arriverà in Aula a Montecitorio quasi sicuramente mercoledì.

MANOVRA 2018. TRA GLI EMENDAMENTI ANCHE L’ISTITUZIONE DI UN FONDO PER I CAREGIVERS

DI VIRGINIA MURRU
In Commissione Bilancio al Senato, c’è stato un bel da fare negli ultimi giorni, tanti gli emendamenti apportati alla Legge di Bilancio 2018, in primis quello riguardante le 15 categorie di lavori usuranti, che saranno esentati dall’adeguamento automatico alle aspettative di vita (‘quota 67’). C’è anche l’istituzione di un Fondo per i cosiddetti ‘caregivers’, ossia quei soggetti che si prendono cura di familiari affetti da patologie fortemente invalidanti.
Al Fondo verrà destinato un finanziamento di 20 milioni l’anno (60 mln in 3 anni), per il triennio 2018/20, e avrà una funzione di copertura per gli interventi a beneficio di questi ‘assistenti familiari’, ma soprattutto se ne riconoscerà l’importante ruolo sociale. Si tratta di interventi e battaglie portati avanti dal Pd negli ultimi anni, anche con specifici disegni di legge volti al riconoscimento di questa particolare ‘figura sociale’, culminati ora con l’accoglimento degli emendamenti da inserire nella manovra, che prevedono, appunto, l’istituzione di un Fondo ad hoc.
Secondo la definizione dell’esponente del Pd in Commissione Lavoro, Annamaria Parente (capogruppo), “i ‘caregiver’ sono coloro che assistono persone con uno stato di salute seriamente compromesso”, nella gran parte dei casi si tratta di donne, che si prendono cura del proprio coniuge, ma riguarda anche le unioni civili tra persone dello stesso sesso, nonché conviventi di fatto o familiari affini entro il terzo grado, soggetti, in ogni caso, che non siano in grado di provvedere a se stessi, a causa di affezioni gravi (ad esempio demenza senile o disabilità).
Tra le tante battaglie di carattere sociale, rivendicate dal Pd, c’è anche quella sul rifinanziamento del Fondo per il ‘Dopo di noi” , (istituito con la legge n.112 del 2016 ), rivolto all’intervento assistenziale permanente di persone con disabilità grave e permanente, che non possono contare sul sostegno familiare.
Per quel che concerne il Fondo destinato ai caregivers, si prevede che la gestione sarà affidata al Ministero del Lavoro; come già accennato, avrà una funzione di copertura per gli interventi di carattere legislativo che porteranno al riconoscimento del ruolo, tramite un adeguato sostegno economico, anche secondo personali situazioni lavorative e di vita.
Tra le altre proposte di correttivo al ddl Bilancio, c’è anche la riserva di una ‘dote’ mirata, da individuare nel Fondo per il contrasto delle povertà con fine d’inclusione, destinata all’assistenza e al supporto dei giovani ‘fuori famiglia’. L’istituzione di questa risorsa finanziaria sarà attribuita per ora in via sperimentale, e avrà una consistenza di 5 milioni l’anno, sempre di competenza del triennio 2018/20.
Nello specifico, tale sostegno sarà riservato ai giovani che, al momento del compimento dei 18 anni di età, vivessero fuori dal contesto familiare di origine, per via di provvedimenti di carattere giudiziario. L’assistenza potrà avere una durata di 3 anni.
Nella pioggia di correttivi vi sono i pensionamenti anticipati riguardanti i direttori sanitari, emendamento promosso da un esponente di Ala (Alleanza Liberalpopolare-Autonomie), Antonio Milo, che è il risultato di un compromesso raggiunto con il Pd, per una questione di maggioranza in Commissione Bilancio. L’intervento è a favore dei dirigenti medici dipendenti da strutture sanitarie che presentassero entro il prossimo anno, domanda di pensionamento anticipato, e che abbiano compiuto i 64 anni e sei mesi di età.
E’ necessaria però, una maturità contributiva di 40 anni e 8 mesi. Ci sono ovviamente delle condizioni per l’anticipo pensionistico: il dirigente medico deve dimostrare di essere parte dell’organico dell’azienda sanitaria nella quale svolge la sua attività, fino al 31 dicembre 2017, e deve essere stato collocato fuori dal reparto o dal servizio medico da almeno due anni.
All’esame anche gli emendamenti relativi ai Premi di produttività in azioni, che rimandano ai lavoratori dipendenti; una proposta che tiene conto del calcolo delle plusvalenze derivanti dalla cessione, e nella fattispecie dalla differenza tra ciò che percepisce il dipendente e il valore delle azioni nel momento in cui queste sono state assegnate. Anche questo ‘ritocco’ deriva da un esponente Pd (Giorgio Santini).
Tanti altri sono i ritocchi, vista la mole non indifferente degli emendamenti sulla manovra (700), c’è anche l’emendamento che trasferisce competenze concernenti il ciclo dei rifiuti all’Autorità per l’energia elettrica, che potrebbe assumere, nell’ambito di questo circuito integrato, il nome di ‘Arera’, ossia Autorità di regolazione per l’energia, reti e ambiente.
I rappresentanti saranno sempre 5, su nomina e proposta del ministero dello Sviluppo economico, in sinergia con quello dell’Ambiente.
E’ ancora Ala a presentare in Commissione l’emendamento che istituirà il Registro Nazionale degli Agenti Sportivi presso il Coni, c’è già stato al riguardo l’ok della Commissione. Riguarderà quei soggetti che, dopo avere redatto in forma scritta un incarico che crea una relazione tra due persone attive nell’ambito di una disciplina sportiva – riconosciuta dal Coni affinché il ‘contratto’ concernente la prestazione sportiva di carattere professionistico risulti valido – possano accedere al tesseramento presso una federazione sportiva professionistica.
La registrazione avviene dopo il versamento di un’imposta di bollo dell’importo di 250 euro, annuale.
Via libera della Commissione Bilancio anche per la detassazione della Previdenza integrativa che interessa i dipendenti pubblici, più o meno in linea di simmetria con ciò che è previsto con i privati; l’intervento dovrebbe moltiplicare le adesioni degli statali alle cosiddette forme complementari. Sono previste Commissioni tecnico-scientifiche.
Il dibattito in materia di pensioni comincia ora a Montecitorio, è già previsto un emendamento da parte del Governo, per allargare la platea dell’Ape Social alle 4 attività considerate usuranti, ed esenti da ‘quota 67’. Si tratta di pescatori, marittimi, siderurgici, e braccianti. E con queste nuove mansioni incluse (oltre le 11 già previste), si arriva alle 15 categorie che saranno esentate dagli scatti automatici in termini di maturità pensionistica.
Particolari agevolazioni sono previste per le donne, punto di forza della trattativa con la Cgil.
Si pensa che proprio nel dibattito alla Camera, si potrebbe trovare un accordo tra maggioranza e opposizione per prorogare l’Ape social, con le agevolazioni anche per le donne, fino al 31 dicembre 2019.

SAPETE COS'È IL BLACK FRIDAY?

DI PIERLUIGI PENNATI

Certamente: quando tutti fanno sconti incredibili e si compra bene…

Sembra assurdo, ma una giornata storica che è anche un monito è diventata una festa del consumismo.

Il black friday è stato il 24 ottobre del 1929 negli USA, fu forse il più grande crack della storia, le banche fecero tutte bancarotta a causa della speculazione e della bolla finanziaria che si era creata, le persone assaltarono gli istituti per tentare di riavere gli spiccioli rimasti in cassa, perché si tempi le banconote avevano una copertura in oro, cosa che oggi non è più.

La crisi generale che ne seguì fece approvare al congresso nel 1933 il Glass Stegal Act, contenente due semplici norme, l’istituzione di un fondo di garanzia per i depositi bancari ed il divieto di speculare col denaro del risparmio, separando nettamente banche d’affari e banche commerciali.

Il sistema ha protetto l’economia mondiale fino al, se ricordo bene, 1993, quando Giuliano Amato, allora ministro delle finanze, introdusse di nuovo in Italia per primo la commistione tra i due tipi di istituti.

A dicembre 1999, Bill Clinton ad un mese dal terminare il suo ultimo mandato, con un atto votato da entrambi i rami del congresso quasi all’unanimità, diede il colpo di grazia cancellando la legge promulgata da Roosevelt nel ’33.

Il resto del mondo seguì, le banche d’affari comprarono le banche commerciali e la borsa diventò l’unico elemento di mercato trasformando il lavoro umano in mero calcolo economico senza dignità.

Per questo oggi siamo numeri, per questo quando le banche falliscono chiedono a noi i soldi, perché controllano il risparmio ed il nostro denaro, anche quando non siamo d’accordo.

Se esistesse ancora la separazione netta tra le banche, l’economia si reggerebbe sul lavoro e non sullla speculazione e la dignità umana avrebbe un valore, invece le banche non producono più nulla, promettono interessi in denaro su investimenti in denaro, vale a dire puro calcolo economico su numeri che producono numeri.

Il venerdì nero è come l’olocausto e noi, da masochisti, invece di temerlo lo celebriamo come fosse una festa.

TRIBUNALE DI FIRENZE: L’IMMAGINE DEL DAVID DI MICHELANGELO NON E’ COMMERCIABILE

DI VIRGINIA MURRU

 

Solo con un’ordinanza si poteva mettere fine al ‘bagarinaggio’, ossia alla vendita di biglietti a prezzo maggiorato (esattamente il doppio di quelli venduti dai canali ufficiali del Mibact) da parte di una società privata, la Visit Today, che agiva dunque fuori dai circuiti della Galleria dell’Accademia. Il divieto di usare l’immagine del David è rivolto non solo al territorio italiano, ma anche a quello europeo. Niente immagine sui biglietti, su volantini o materiale pubblicitario.

E’ stata l’Avvocatura dello Stato a presentare regolare istanza al tribunale di Firenze, il quale l’ha accolta emanando poi l’ordinanza che vieta lo sfruttamento dell’immagine del David in qualsiasi modo, soprattutto per fini di carattere commerciale. Il rigore di questo veto avrà sicuramente impressionato tutti coloro che, proprio per fini commerciali, utilizzano l’immagine del mito scolpito superbamente da Michelangelo, e si pensa dunque a chi vive della vendita di souvenir.

Per la direttrice dell’Accademia di Firenze, Cecilie Hollberg, è una decisione importante da parte della magistratura, finalmente si porrà fine al traffico illecito di biglietti fin troppo maggiorati, e si auspica che altri musei ne seguano l’esempio. Si tratta, secondo la Hollberg, di una misura importante. Della stessa opinione il sindaco di Firenze, Dario Nardella.

LETTERA UE ALL’ITALIA: ATTENZIONE, TRA I 5 PAESI A RISCHIO INADEMPIENZA

DI VIRGINIA MURRU

 

Il pungolo è quello dello scorso anno, sembra anzi un tamburo battente, che per la verità suona un po’ troppo fuori dal coro, considerati gli ottimi giudizi espressi dalle Organizzazioni internazionali che monitorano l’economia globale.

Strigliate continue ad un Governo che ha compiuto ogni sforzo possibile per arrivare a un dignitoso risultato di fine legislatura, senza dimenticare che ha preso le redini quando il Paese, nel 2014, aveva imboccato il sentiero della recessione.

Tutto questo mentre è appena arrivato l’ennesimo risultato positivo da parte dell’istat, con il Pil in crescita all’1,5% (stima rivista da +1%), ossia al top dal 2010 a questa parte. A spingerlo in avanti è la domanda interna, ma a questo dato seguono altre positive performance dei dati macro, come il calo del tasso di disoccupazione, e l’aumento dell’occupazione, sempre provenienti da calcoli statistici.

Basterebbe del resto riflettere al dissesto dei conti pubblici che ha ereditato il Governo, e agli strettissimi margini di manovra che purtroppo hanno permesso, per osservare i fatti su prospettive migliori.

Le raccomandazioni della Commissione europea, tramite il vicepresidente Valdis Dombrovskis e il commissario agli Affari economici Pierre Moscovici, danno una lettura della realtà che non lascia spazio, se non con un trascurabile inciso (‘riconosciamo l’impegno del Governo..’), che fa sentire il Paese sempre sul limite del baratro.

E sempre a rischio procedura d’infrazione, comunque a rischio di ‘non rispetto del Patto di Stabilità e Crescita’ sancito dal Trattato di Mastricht.
Ancora in agguato resta dunque la procedura per il debito pubblico ben oltre il limite, ai sensi dell’art. 126/3 dei Trattati.

Anche se la Commissione si riserva un altro rapporto a febbraio sugli scompensi macroeconomici rilevati, e dunque c’è sempre da vigilare, siamo in buona compagnia, dato che insieme a noi c’è Francia, Irlanda, Germania, Svezia, Bulgaria, Portogallo, Olanda, Cipro, Croazia e Slovenia.
Ma i paesi effettivamente ‘disobbedienti’ in materia di compliance sono 5: Italia, Belgio, Austria, Portogallo e Slovenia. In particolare il Belgio naviga più o meno nelle stesse acque dell’Italia quanto a debito pubblico.

Sulla bozza della legge di Bilancio inviata di recente dal Governo alla Commissione, si sottolinea in chiaro che “The Plan is at risk of non-compliance with the provisions of the Stability and Grouth Pact” (Il Piano è a rischio inadempienza con le disposizioni del Patto di Stabilità e Crescita).

Tutto questo è francamente umiliante, se facciamo parte del G7, qualche ragione pure l’avrà l’economia italiana. Nel mirino il debito pubblico, sempre sul banco degli imputati, e qui purtroppo non si possono fare grandi passi avanti, se quando lo si è preso in mano era già quasi ‘intrattabile’, un mezzo mostro.

Nella lettera inviata dalla Commissione, si legge tra l’altro:
“La persistenza del debito pubblico è motivo di preoccupazione, la Commissione si riserva di effettuare altri controlli sui parametri e il rispetto delle regole nei primi mesi del 2018. E ancora:

“Sappiamo che l’Italia ha compiuto tanti sforzi per favorire la crescita, ma nel 2018 è fondamentale che la manovra presentata sia attuata con rigore in tutte le sue disposizioni, affinché diventi possibile raggiungere in termini strutturali lo 0,3% del Pil. Per questo è importante non ‘annacquare’ le ultime riforme in ambito welfare, non è consentita nessuna retromarcia sulle pensioni, dalle quali dipende la sostenibilità nel lungo periodo”.

Moniti che non suonano come ‘sedativi’ per la recente vertenza tra Governo e sindacati, nella quale è emersa la contrapposizione della Cgil, che non intende accettare la trattativa e ha già dichiarato che la mobilitazione sarà inevitabile. Un Governo che deve mediare tra due fuochi: da un lato i sindacati, dall’altro la Commissione europea, che non lascia scampo.

La Commissione infine si raccomanda in ambito Eurozona sul completamento dell’unione bancaria, invita a favorire quanto più possibile l’inclusione sociale, l’uso di strategie volte a migliorare la produttività e la crescita potenziale, rendendo in tal modo più solida anche l’Eurozona.

a Letter-to-Minister-Padoan

ORIO CENTER APERTO ANCHE A NATALE MA I LAVORATORI PROTESTANO

DI PIERLUIGI PENNATI

Era già accaduto a Serravalle ad inizio anno, quando alla notizia che avrebbero dovuto lavorare anche a pasqua i lavoratori del centro outlet si erano ribellati ottenendo solo un maggiore interesse della insensibile clientela, attirata in maggior numero proprio dalla protesta.

Adesso si replica, a Bergamo si lavora anche a Natale e Capodanno, giornate nelle quali tradizionalmente si dovrebbe stare con famiglia ed amici ed invece sembra ormai diventato più interessante poter andare al centro commerciale a passeggiare.

Il grido populista che richiama le nostre tradizioni e sacralità festive sembra dimenticato, qui non ci sono mussulmani da cacciare o migranti da rimandare a casa, qui ci sono le luci che accendono la fantasia delle persone: “offerta speciale”, “ribassi”, “vendita straordinaria”, “fuori tutto” e, più importante ancora “OUTLET”!

Tutti contenti, quindi, tutti meno loro: i dipendenti dei 280 esercizi che sono costretti dalla proprietà dei centri commerciali a rinunciare alle ferie per aprire i negozi destinati al piacere dei nostri occhi e delle tasche della direzione.

Già, ogni medaglia ha un suo rovescio e questa, come ormai tutte le “medaglie” nella nostra nazione, ha un rovescio davvero amaro per chi ci lavora, se ancora il lavoro nel commercio si può chiamare così.

Mentre l’attenzione generale è ormai da molti anni puntata solo sulle grandi aziende dove si lotta per tentare di salvare posti di lavoro destinati comunque ad essere persi per effetto dell’ampliarsi delle regole volute dai vari governi che hanno finito solo per favorire la precarietà nell’industria, nel dimenticato settore del commercio i risicati numeri di dipendenti medi pro impresa, rendono la precarietà una realtà non nuova, ma endemica e radicata che, piano piano, con la complicità dei dati sulla disoccupazione, si sta però trasformando in reale schiavitù.

Negli outlet, ovvero quei posti dove le grandi case di moda scaricano gli invenduti delle stagioni precedenti per potersi ancora sostenere e continuare a vendere nei negozi di punta senza perdere l’immagine del loro prodotto, la situazione è ancora più evidente, infatti questi enormi centri sono per definizione un luogo dove gli orari devono essere più elastici perché si trovano tipicamente fuori mano si deve dare modo agli acquirenti di poterli raggiungere quando hanno più tempo a disposizione, la sera, domenica ed i festivi.

Così, a poco a poco, gli orari si sono allargati, giorni di apertura ampliati e le chiusure ridotte, tanto che all’inizio del 2017 erano mediamente solo 4 in tutto l’anno: Pasqua, Sant’Angelo, Natale e Capodanno.

Così proprio per la riduzione da 4 giorni di chiusura a soli 2 si era scatenata la protesta a Serravalle ed i dipendenti, già esasperati dagli orari dei turni a loro volta “elastici” e dai ricatti delle proprietà, non ce la facevano più, risultato: uno sciopero proclamato il giorno di Pasqua un tempo festivo.

Ma al suono di “se non vieni a Pasqua puoi anche non tornare più al lavoro” solo 4 esercizi sul totale rimasero allora chiusi, facendo fallire miseramente lo sciopero in un tripudio di clienti curiosi attirati proprio dall’evento e terminato con un successo straordinario di vendite.

Alla fine il grido di aiuto dei dipendenti commerciali, sfruttati con contratti precari a mille euro al mese ed anche meno era diventato un boomerang e si era riversato si di loro stessi, come in un circo dove si torturano animali per il piacere degli astanti.

L’episodio, però, era solo il preludio al cambiamento permanente, con il passare dei mesi, e nell’indifferenza generale dei sindacati tradizionali, i due soli giorni di chiusura all’anno diventano la normalità dappertutto, tranne ad Orio al Serio, dove la proprietà comunica ai negozi che, pena la rescissione dei contratti, dovranno aprire anche a Natale e Capodanno, portando a zero in un anno i giorni di chiusura del centro.

Ovviamente i primi a reagire sono stati i dipendenti, ma la cosa curiosa è che a non starci, questa volta, non sono solo loro, ma addirittura i titolari degli esercizi, a loro volta ricattati dalla proprietà che non farebbe mancare velate minacce di aumenti di canoni di locazione o rescissioni dei contratti.

In una circolare datata 17 novembre la proprietà del centro scrive:

Egregi Signori, alla luce delle notizie che sono apparse in questi giorni su diversi organi di stampa locale e nazionale riteniamo importante intervenire in ordine alle prossime imminenti aperture.

In Oriocenter, come tutti sappiamo, svolgono la propria attività ben 280 operatori. Abbiamo appreso che alcuni vostri dipendenti e collaboratori avrebbero aderito ad una raccolta firme di protesta promossa dal sindacato USB.

Per quanto il malcontento ci risulti molto più circoscritto rispetto alle oltre mille adesioni dichiarate dalle organizzazioni sindacali, ci sembra doveroso richiamare la vostra attenzione affinché, per quanto vi compete, provvediate ad attivarvi tempestivamente per gestire al meglio le criticità che potrebbero emergere”.

Secondo il sindacato di base USB, unico sindacato che si sta occupando attivamente del problema, questa lettera sarebbe la traduzione in parole cortesi di quanto affermato verbalmente, vale a dire che alla direzione non importerebbe come si dovranno organizzare i commercianti che dovrebbero, a questo punto, allontanare i dipendenti che si rifiutano di lavorare a Natale per assumerne altri più “flessibili” negli orari.

Per sensibilizzare la clientela al problema, USB ha avviato da un mese una campagna di informazione con un presidio stabile in prossimità dell’ingresso del centro spiegando ai clienti che anche i dipendenti commerciali hanno una loro vita, una famiglia e delle relazioni personali e non è giusto che siano costretti sotto ricatto a lavorare anche a Natale e Capodanno, da sempre festività intoccabili.

È proprio durante il presidio che sarebbe nata la raccolta di firme quale risposta dei dipendenti alla situazione, più di mille i consensi raccolti spontaneamente e già consegnati al prefetto ed alle autorità cittadine con la richiesta di non concedere l’apertura straordinaria del centro almeno in quei due giorni.

Che la battaglia sia importante lo certifica il fatto che vi sono già stati tentativi ben riusciti di distrazione, il giornale locale, l’Eco di Bergamo, che pubblica stabilmente la pubblicità del centro, ha più volte dichiarato che tutte le iniziative erano in capo ad altri sindacati, citando Fisascat Cisl, Filcams Cgil e Uiltucs Uil come promotori delle proteste, cosicchè si è da subito creata non poca confusione su quali fossero gli interlocutori che non hanno portato ad alcun incontro costruttivo fino ad ora, dato che quei sindacati, a detta degli attivisti USB, non sono ne presenti ne attivi presso il centro e nonostante i trafiletti di precisazione pubblicati a seguito delle loro proteste, nessuno sarebbe ancora riuscito a trovare una interlocuzione effettiva con la proprietà che dallo stesso giornale pubblicizza e conferma le nuove aperture.

Così, un’altra volta, una vicenda triste che affligge i lavoratori si sta trasformando un nuovo affare per la proprietà dello stabile che sfruttando la pubblicità che il caso sta creando e cercando di porre in conflitto tra loro le sigle sindacali, unite alla confusione informativa, si aspetta un grande successo di pubblico a discapito della vita delle persone che ci lavorano e dei titolari di negozi che dovrebbero decidere se tiranneggiare i dipendenti per poter continuare la loro attività in un centro commerciale che, comunque, riceve milioni di visitatori all’anno.

Proprietà che ricatterebbe i negozianti, che sarebbero a loro volta costretti a ricattare i dipendenti per non rinunciare alla posizione all’interno del centro e dipendenti costretti a rinunciare agli ultimi giorni di libertà festiva per mantenere un posto di lavoro precario e spesso mal pagato in un clima generale di disoccupazione, impoverimento e disinteresse generale ai problemi del lavoro.

Certamente non una bella prospettiva, nonostante le dichiarazioni di crescita citate costantemente dal governo.

Ma l’Orio Center, che ha inoltre appena raddoppiato la sua dimensione con un nuovo edificio, non è che un esempio della situazione generale, se consideriamo che ogni “innovazione” in termini di negazione di diritti viene immediatamente mutuata dappertutto, mentre gli esempi di ampliamento, quando ci sono, restano casi isolati, facendo si che anche le apertura, ora effettuate “solo” dalle 8 del mattino all’una di notte, potrebbero ampliarsi per effetto di un nuovo tunnel sotterraneo che collegandolo direttamente all’aeroporto di Bergamo, che si trova proprio di fronte a soli 100 metri, potrebbe persino aprire sulle 24 ore diventando il centro commerciale dell’aerostazione con zero ore di chiusura all’anno.

La soluzione, già ventilata, costringerebbe tutti gli esercizi ad organizzarsi in turni, piccoli o grandi che siano, e persino le catene di supermercati che altrove, invece, effettuano almeno le chiusure notturne dovrebbero adeguarsi sdoganando una volta per sempre l’orario continuato anche nei centri commerciali.

Purtroppo con la lentezza e la leggerezza dell’indifferenza sociale, queste modalità di lavoro stanno piano piano diventando la norma ovunque spostando i centri tradizionali di aggregazione sociale, coincidenti con i centri cittadini, nelle periferie dove i caroselli della domenica negli Outlet Village e nei centri commerciali sempre aperti, stanno facendo chiudere tutti piccoli esercizi uccidendo artigianato, commercio ed attività una volta stabili.

Anche il conteggio dei posti di lavoro non sembra essere favorevole, dato che a migliaia di posti di lavoro nei grandi centri si contrappongono altrettanto perdite di posti negli esercizi cittadini, spostando così solo le condizioni contrattuali che a favore delle nuove modalità vanno riducendo salari e diritti in una sorta di spirale perversa che non è mai stato chiarito se davvero faccia bene all’economia, ma che è certamente chiaro stia danneggiando le persone che lavorano.

Un’analisi che è volutamente superficiale ed approssimativa, è sufficiente uscire di casa ed anche senza essere un economista capace si realizza immediatamente che le lamentele delle persone sono generali e precarietà e vessazioni sembrano senza soluzione di continuità e senza prospettiva futura.

Cambiare, come sempre, è possibile, ma, come sempre, dipende da tutti noi, pubblicità e slogan ubriacano oggi più di ieri come una droga che, terminato l’effetto, ci fa ricadere nei problemi quotidiani irrisolti e persino peggiorati nel frattempo facendoci diventare obiettivo a nostra volta delle vessazioni cui ci eravamo disinteressati.

Dal canto mio darò, come sempre, solidarietà ai lavoratori della domenica e festivi NON andando a fare la spesa in quei giorni, basta un po’ di organizzazione, a Natale trascorrere la giornata con i parenti a casa non è una novità, si fa da migliaia di anni, quando i centri commerciali non esistevano nemmeno e se cominceranno a restare deserti spero non apriranno più in quei giorni.

In Italia ci sono migliaia di associazioni che difendono i diritti degli animali con passione e tenacia, possibile che con i lavoratori non si riesca a fare la stessa cosa?

Non abbandoniamo i lavoratori del commercio, ma nemmeno gli altri, come si fa con i cani sull’autostrada, adottare a distanza un commesso od una commessa si può, basta fare a Natale, Capodanno, Pasqua e tutte le domeniche quello che si è sempre fatto prima, dedicarle alla famiglia, gli amici, a passeggiare al mare, lago, montagna od ovunque si voglia, è più salutare per noi stessi, per la società e persino per le nostre tasche.

Pensare che quello che fanno oggi ad un altro lo faranno domani a certamente a noi è ormai diventato l’unico modo di poter fare ancora del bene a noi stessi, quando politica e mondo sindacale tradizionale sono distratti in altre faccende siamo costretti ad aiutare ad aiutarci.

Al contrario, continuare a voler credere che queste situazioni siano destinate ad “altri”, senza considerare che piano piano toccheranno anche noi, è miope e sbagliato, nel corso degli ultimi venti anni sono stati tolti o ridotti moltissimi dei diritti che avevamo negli anni ’70, ma un diritto è un diritto e non dovrebbe scadere mai in favore del mercato, per evitare che il mercato arricchisca impoverendo le persone.

VERTENZA PENSIONI: LA CGIL PROCLAMA LA MOBILITAZIONE, “INSUFFICIENTI” LE PROPOSTE DEL GOVERNO

DI  VIRGINIA MURRU
La leader della Cgil, Susanna Camusso, ha ritenuto insufficiente la proposta del premier sulle pensioni, proclamando così, come già ventilato (nel caso in cui le istanze del sindacato non fossero state accolte), la mobilitazione generale territoriale per il prossimo 2 dicembre, in alcune grandi città.
Dopo l’incontro col Governo, la Segretaria della Cgil ha dichiarato:
“Per noi vertenza aperta, lo sosterremo con grande forza.” E’ stato chiesto un incontro urgente ad alcuni gruppi parlamentari per trovare una soluzione comune, e a questo punto si spera che sia finalmente la strada giusta.
Respinto dunque il nuovo testo, presentato oggi dal Governo nel corso dell’incontro con i rappresentanti dei sindacati. In sintesi, la Camusso ha confermato, durante la conferenza stampa, le perplessità già espresse nel precedente incontro, ossia ‘l’esiguità delle risorse inserite nella Legge di Bilancio’.
“Si tratta di scelte politiche – ha ripetuto la Segretaria – e pertanto la vertenza resta aperta. Ci sarà una prima mobilitazione generale il 2 dicembre, per affermare i cambiamenti universali del sistema previdenziale, esigiamo attenzione verso i temi del lavoro.”
E ha proseguito:
“Ora le proposte fatte durante il confronto di oggi saranno portate davanti al Parlamento, il quale potrebbe ancora intervenire per rendere efficaci le tante dichiarazioni delle ultime settimane. C’è una notevole differenza tra le proposte formulate durante gli ultimi incontri e quelle espresse nel documento del 2016.
Il divario riguarda le risposte sulla pensione dei giovani, sulle donne e il sistema previdenziale impostato sull’aspettativa di vita. Troppe lacune in termini di attenzione verso i fondamentali temi del lavoro. Per questo la Cgil non ci sta, non possiamo accontentarci.”
Nel documento presentato dal governo c’è l’estensione dei requisiti per l’Ape Social, proposta già messa sul tavolo nella trattativa, ma il Governo ritiene di avere fatto anche sforzi non di poco conto per sostenere i giovani e le donne. Afferma Gentiloni al riguardo: “E’ a tutti gli effetti un pacchetto importante e sostenibile..”
Ora queste nuove ‘aperture’ del Governo saranno inserite nella legge di Bilancio come emendamento, pur senza un’intesa unitaria con le rappresentanze sindacali. C’è un lungo e travagliato percorso dietro il tentativo di un’intesa comune sulle problematiche del lavoro.
Era stato avviato lo scorso febbraio al Ministero del Lavoro, e poi è passato il 2 novembre a Palazzo Chigi. L’epilogo non è certo quello che si sperava. Mentre per la Cisl di Annamaria Furlan le proposte del premier Gentiloni sono accettabili, ‘è stato fatto un buon lavoro’, non lo sono altrettanto per Susanna Camusso. Carmelo Barbagallo, rappresentante della Uil, non si ritiene pienamente soddisfatto, ma in definitiva si è ottenuto almeno gran parte rispetto alle aspettative.
Il premier Paolo Gentiloni ha impiegato ogni strategia possibile per convincere la Camusso che il Governo ha fatto ogni sforzo possibile per rispondere con sensibilità alle istanze presentate, e che le misure previdenziali messe in campo sono ‘alquanto rilevanti’, ma la Camusso ritiene queste proposte ancora insufficienti.
La Segretaria della Cisl, Furlan, forse la più conciliante tra i rappresentanti dei sindacati, sostiene che non si può chiedere altro a questo governo, ‘a Babbo Natale non ci crediamo più’. Nonostante la volontà di non ostacolare la trattativa, sia Annamaria Furlan che Barbagallo, concordano sulla necessità di vigilare affinché i 300 milioni messi a disposizione del governo, non si dissolvano o prendano altre direzioni.
“In fin dei conti – ha affermato Barbagallo – si è aperto un varco importante in quel muro intransigente che la legge Fornero rappresenta.”
Miglioramenti ce ne sono stati dopo le proposte e l’emendamento inserito nella legge di Bilancio:
15 categorie di lavori usuranti e gravosi saranno tutelati con l’esenzione dall’innalzamento dell’età pensionabile, secondo il sistema automatico basato sulle aspettative di vita.
Maggiore attenzione alle pensioni dei giovani e delle donne, garanzia di ampliamento della platea Ape Social alle categorie di lavori gravosi. Le risorse stanziate per onorare questi impegni.
La Cgil ritiene che su tanti punti il Governo abbia offerto dei vantaggi, ma poi in realtà se li sia ripresi con altri ‘espedienti’, procedendo per deroghe, ma senza portare significativi miglioramenti al sistema previdenziale e al mondo del lavoro. Si vedrà nelle prossime settimane se il Parlamento riuscirà a trovare una soluzione accettabile per colmare il divario e portare la Cgil sulla via di un accordo.

OTTO ORE AL GIORNO SONO POCHE, LA GERMANIA VUOLE ABOLIRLE

DI PIERLUIGI PENNATI

Il nuovo mondo digitale incalza dappertutto, email e messaggistica ci seguono sempre e limitare la giornata lavorativa a sole otto ore di lavoro al giorno non è più attuale.

È il presidente del consiglio consultivo del governo federale, Christoph Schmidt, ad affermarlo al “Welt am Sonntag”, letteralmente “il mondo di domenica”, il più diffuso giornale tedesco del fine settimana, secondo il quale le aziende che vogliono continuare ad esistere nel nuovo mondo digitale dovrebbero essere agili e poter contattare il loro personale in fretta: “L’idea che una giornata inizi alla mattina in ufficio e finisca quando si lasciare l’azienda non è attuale” e suggerisce un allentamento allentamento delle ore di lavoro.

“Orari di lavoro più flessibili sono importanti per la competitività delle aziende tedesche”, continua, “Che ne dite se il tempo massimo di lavoro fosse determinato in futuro solo in una settimana invece che di un giorno?”

Le tutele dei lavoratori in Germania hanno dimostrato di essere efficaci, ma non sono più adatte per alcune aree del mondo digitale, “Quindi,”, secondo Schmidt, “le aziende hanno bisogno di avere la sicurezza di non aver agito illegalmente quando alla sera i dipendenti prendono ancora parte alle chiamate in teleconferenza e la mattina leggono la posta a colazione.”, questo non solo aiuta l’azienda, ma anche il personale, che con la tecnologia digitale potrebbe lavorare in modo più flessibile, anche se una maggiore flessibilità non significa necessariamente un prolungamento occulto delle ore di lavoro.

Una riforma delle legge sull’orario di lavoro è anche uno dei temi dei colloqui esplorativi della coalizione “Giamaica” tra CDU, FDP e Verdi a Berlino, i datori di lavoro hanno evidenziato già da tempo che limitare la giornata lavorativa ad otto ore non è più attuale, proponendo di lasciare solo il limite delle ore settimanali massime esistenti, nelle attuali 48, e riducendo il periodo di riposo tra due giorni lavorativi da undici a nove ore.

Questo favorirebbe la produttività a parità di impegno, ma i sindacati non sono d’accordo, ritengono che questo sia un primo passo verso un prolungamento nascosto delle ore di lavoro complessive: come contabilizzare l’attività che non si svolge in ufficio?

La flessibilità finirebbe per rendere disponibili le persone ad ogni ora del giorno e della notte, mentre in Germania ancora resiste il principio del Feierabend e Feiertag, vale a dire della “sera festiva” e “giornata festiva”, quasi in modo sacrale alla sera ed alla domenica non si lavora, tanto meno durante i giorni festivi repubblicani e religiosi.

Questo tempo è dedicato alla famiglia, agli amici, al divertimento, al riposo, al punto che da alcuni anni grandi aziende, come la Daimler, avevano persino introdotto il divieto di leggere le mail aziendali nel fine settimana, ora, nel nome del progresso e della connettività, si vuole cambiare abitudini, finendo per stravolgere la vita delle persone.

Visto da noi sembra assurdo e ridicolo, tanto siamo abituati ad andare al centro commerciale la domenica ed a rispondere alle email la sera ed persino a Natale, in Germania, invece, sanno che le consuetudini sbagliate sono dannose, alla fine le aziende ottengono la disponibilità 24 ore su 24 del proprio personale senza costi aggiuntivi e, in alcuni casi, persino riducendone i costi, come nei casi di produzioni senza interruzione o distribuite su turni di lavoro, che ottengono la disponibilità dei lavoratori senza corresponsione di indennità di reperibilità, per esempio, costringendo le persone a nascondersi dall’azienda per non essere richiamati, dovendo persino inventare scuse se non sono stati disponibili gratuitamente durante il loro tempo libero.

La globalizzazione ha consegnato nelle mani degli analisti i dati sulle abitudini delle persone, questi stessi dati sono mutuati di nazione in nazione, non per rispettare la libertà e la dignità umana, ma per carpirla a favore di un progresso che finirà per distruggere l’uomo a favore dell’economia.

Quando l’attenzione per la persona non è più al centro del processo di lavoro, ma ne diventa solo un elemento da sfruttare il più possibile, l’uomo perde la sua dignità e non ha più alcun valore, riducendo la propria esistenza al nulla.

Seguendo questo principio in Svezia stanno già da tempo praticando le 6 ore di lavoro al giorno in moltissime aziende, perché, secondo i datori di lavoro che applicano questa riduzione, lavorando di meno si produce di più e meglio, si hanno impiegati ed operai più motivati, meno stressati e che commettono meno errori produttivi, dato che le persone sono prima “esseri umani” che semplici “lavoratori”.

Il limite di otto ore al giorno fu una delle grandi conquiste seguite agli anni bui della rivoluzione industriale, quando gli orari di lavoro degli operai erano mediamente da 13 a 15 ore giornaliere, giungendo alla prima convenzione approvata dall’International Labour Organization nel 1919.

La convenzione, sottoscritta nel 1921 e mai emendata, è tuttora vigente e prevede che ad eccezione delle posizioni manageriali e di supervisione, sia nel settore pubblico che in quello privato vi sia un doppio limite massimo alle ore lavorate, tassativo e inderogabile, di 8 ore giornaliere e 48 ore settimanali.

Accordi sindacali, possono però derogare ai limiti con un massimo di un’ora giornaliera “a recupero” e, in ogni caso, la media di ore rilevata nell’arco di 3 settimane consecutive di lavoro deve essere pari a 8 ore/giorno e 48 ore/settimana, con il vincolo di un massimo di 9 ore/giorno.

Distratti dalla tecnologia, l’informazione spazzatura e le continue emergenze in tutti i campi sociali siamo oggi così abituati a deridere quello che ci succede di male da non ricordare il nostro passato, il perché esistono alcuni limiti e diritti e non riusciamo più a vedere il nostro futuro con la mente libera.

Speriamo che almeno in Germania il riposo, sia esso della sera che dei giorni festivi, possa restare sacro, come lo è sempre stato, per molto tempo ancora: non sempre il “progresso”, specie quello tecnologico, fa bene alla salute, alla libertà ed alla dignità dell’uomo.

WELFARE. CONFRONTO TRA CGIL E GOVERNO RINVIATO

DI VIRGINIA MURRU

 

La Cgil aspetta con cautela l’incontro di domani, 21 novembre, ma la Segretaria, Susanna Camusso, avverte che, in considerazione dei risultati insoddisfacenti, scaturiti dai confronti avvenuti nelle ultime settimane, esiste uno stato di fibrillazione che potrebbe condurre alla mobilitazione, qualora non si accettassero le proposte del sindacato sulle pensioni.
Dichiara al riguardo Susanna Camusso:

“non siamo di fronte ad un quadro che risponde alle nostre richieste e agli impegni che erano stati assunti, e confermiamo pertanto la necessità che si risponda a questa indisponibilità ad affrontare l’ingiustizia esistente nel sistema, e soprattutto l’assenza di prospettiva per i giovani”.

E per le donne, un tema più volte messo in campo nel corso degli ultimi incontri, che il sindacato mette in primo piano per giungere ad un accordo più equilibrato.

Il Governo sostiene di avere compiuto ogni sforzo possibile, considerato ‘il sentiero stretto’ della finanza pubblica (più volte ribadito dal ministro dell’Economia, Padoan), per giungere ad un’intesa con la Cgil. Si tratta di estendere l’esenzione dall’aumento dell’età lavorativa, oltre che alle 15 categorie di lavori ritenuti usuranti, anche alle pensioni di anzianità, nonché a quelle di vecchiaia. A queste proposte il Governo aggiunge la disponibilità a rendere attivo un Fondo per stabilizzare l’Ape Social.

Tuttavia, secondo la Camusso, si può andare oltre, la posta in gioco riguarda i giovani e le donne, ‘categorie’ sociali sensibili, che hanno necessità di una maggiore tutela; non ritiene che su questi temi si possa transigere e di conseguenza l’ultima istanza resta la mobilitazione generale, come prova di forza per spingere il Governo a riaprire la trattativa.

Secondo le dichiarazioni del premier non sembra ci sia spazio per ulteriori compromessi, l’incontro di domani, ha già precisato Gentiloni, non porterà sul tavolo altre concessioni, ci si aspetta semmai una riflessione da parte della Cgil, eloquente.

Ma sul welfare, il sindacato non ha alcuna intenzione di arrivare ad un compromesso.
Eloquente il tweet appena pubblicato:

CGIL Nazionale @cgilnazionale
#Pensioni Età, giovani, donne: i conti non tornano. L’intervista del segr.gen. Cgil Susanna Camusso a RadioArticolo1

La Segretaria, Susanna Camusso, tornerà domani davanti ai rappresentanti del Governo, per un chiarimento sulle proposte che gli stessi hanno avanzato, e sui mezzi che s’intendono impiegare. Il sindacato si accinge a valutare la portata di questi mezzi, ed eventualmente decidere se siano sufficientemente consistenti, a garanzia degli impegni presi.

In realtà è già chiaro che il Governo metterebbe a disposizione 300 milioni di euro, che tuttavia garantirebbero, secondo la leader Camusso, una platea di lavoratori pari al 2%, nell’arco di dieci anni, ‘quota’ inferiore agli impegni presi nell’autunno del 2016. A questo si aggiungono lacune di attenzione nei confronti di giovani e donne, manca a questo riguardo, per esempio, una proposta di ‘pensione garanzia’ per i giovani.

“Oggi – sostiene Susanna Camusso – coloro che hanno la fortuna di avere un lavoro che garantisce carriera e buon trattamento economico, possono andare in pensione 3 anni prima, perché nel contributivo si matura un assegno che è maggiore di 2,8 volte il minimo. Cosa che invece non avviene per le categorie meno ‘remunerative’ in termini di salario, soprattutto se il lavoro è discontinuo, pertanto noi esigiamo maggiore equità sul contributivo.”

Sulle aspettative dei giovani nel corso dei colloqui non si è dunque transatto: è necessario, secondo la Camusso, garantire il loro avvenire, anche perché le nostre richieste oggi non aggiungerebbero oneri ai conti dello Stato, se ne riparlerebbe in questo senso tra 15 anni.

In una trasmissione televisiva, ieri, ha dichiarato che il governo dimentica gli impegni presi, dato che durante un incontro al Ministero del Lavoro di qualche mese fa, aveva proposto interventi importanti sui giovani, dei quali poi non si è più parlato.

Meglio sarebbe, secondo la Cgil, rimandare a giugno la decisione di far scattare i cinque mesi di lavoro; sulla base dei nuovi ‘target’ di aspettativa di vita, si avrebbe più tempo per una discussione più obiettiva e una definizione più equa su questi temi delicati.

Non ci si può ‘accontentare’ della volontà che ha dimostrato il Governo, secondo la Confederazione sindacale rappresentata dalla Camusso, perché lo stop dei cinque mesi in favore delle categorie di lavori gravosi, non è in realtà né utile né incisiva per la tutela, in quanto è difficile raggiungere per questi lavoratori i 42 anni e 10 mesi di contributi. Mentre per quel che attiene alle pensioni di vecchiaia, non basta l’intento di esentarle dallo scatto degli ulteriori cinque mesi, se si fissa un limite di contributi di 30 anni, invece di lasciare invariati i 20 anni.

La Cgil considera queste proposte un po’ farlocche, espresse senza tenere conto delle reali ripercussioni e dell’efficacia.

“Così – afferma Camusso in un’intervista al Corriere della Sera – si riduce la platea ai minimi termini.”

Lo sciopero è pertanto sospeso, vincolato agli esiti dell’incontro di domani, martedì 21 novembre. Qualora il Governo non tornasse indietro e si mostrasse intransigente, lo sciopero generale previsto per il 2 dicembre, sarebbe inevitabile.

NELLA POLITICA TEDESCA IL POSSIBILE FUTURO DI QUELLA ITALIANA

DI PIERLUIGI PENNATI

Il fallimento delle trattative in Germania per la formazione del nuovo governo spaventa la nazione, la possibilità di nuove elezioni e dell’ingovernabilità del paese non è mai stata sperimentata e certamente non è una modalità che piace ai tedeschi, sempre previdenti e sobri nelle loro scelte.

I negoziati tra la CDU, CSU, FDP e Verdi avevano come traguardo le 18:00 di ieri 19 novembre 2017, i liberali, però, a seguito delle difficili trattative per mediare tutte le differenti posizioni politiche, hanno deciso di ritirarsi dai colloqui: “È meglio non governare, che governare in modo sbagliato”, ha detto il leader FDP Christian Lindner.

Il blocco delle trattative allontana così per il momento il quarto mandato per Angela Merkel che si trova incastrata nella crisi politica più grave dei suoi ultimi dodici anni e che ha mandato in confusione la situazione politica tedesca dopo solo otto settimane dalle elezioni generali.

Gli analisti tedeschi sostengono che Angela Merkel potrebbe anche formare un governo di minoranza, ad esempio con FDP e Verdi, ma anche la cancelliera ammette che sarebbe difficilmente governabile.

Una situazione che nella nostra nazione non poteva essere generata quando le forze di destra e sinistra si tenevano tradizionalmente a distanza tra loro, in Germania, invece, la separazione non è mai stata così netta consentendo alle Grossekoalition del passato di godere di un clima di relativa collaborazione dove solo i forti estremismi restavano davvero all’opposizione, mentre il resto della politica pensava al progresso della nazione.

Ora, in uno scenario internazionale sempre più confuso nel quale le differenti anime sociali un po’ dappertutto non sono più così nettamente suddivise tra loro e l’incalzare generale di reazioni populiste dell’elettorato, esasperato anche dalle scelte economiche dei governi che fanno sembrare il rischio impoverimento generale sempre più vicino, le differenze di opinione si sono accentuate e non è più sufficiente una politica generalizzata, servono interventi mirati e riforme strutturali precise, per le quali i partiti politici sempre meno disposti alla mediazione, così anche nella ultra-stabile Germania la crisi della politica si fa sentire.

In Italia, dopo l’approvazione del Rosatellum sul quale pendono già due ricorsi alla Corte Costituzionale e che potrebbe fare anch’esso la fine del Porcellum, è già altrettanto chiaro che il dopo elezioni potrebbe essere altrettanto confuso, infatti nel misto maggioritario-proporzionale, ma più proporzionale che maggioritario, previsto dalla legge, sarà possibile per gli eletti muoversi in modo indipendente dai presupposti pre-elettorali, se necessario, tradendo persino le promesse della campagna e permettendo, per assurdo, la formazione di un governo di bugiardi pinocchi.

Alla fine la legge elettorale italiana finisce solo per favorire le coalizioni, cosicché i partiti che si riuniscono in coalizioni sanno già che dopo il voto, se eletti, dovranno comunque ridiscutere gli eventuali programmi ed accordi di governo pre-elettorali perché nessuno di loro otterrà la maggioranza assoluta in parlamento e quindi quando discusso e detto in campagna elettorale dovrà comunque essere rivisto alla luce dei nuovi possibili partner.

Tanto valeva ritornare al proporzionale secco previsto dalla prima versione della nostra Costituzione.

Quindi, il risultato elettorale sarà probabilmente che, come in Germania, per governare si dovranno trovare mediazioni che concedano ad ogni partecipante al governo di perseguire il proprio programma, almeno in parte, in altre parole potrebbe aprirsi una stagione di ricatti e forzature come mai prima.

Mentre da noi sembra che si continui a gestire il solo presente con la memoria del pesciolino rosso che si resetta ad ogni giravolta, il tradizionalmente pragmatico popolo tedesco è spaventato da elezioni anticipate che potrebbero gettare la nazione nel caos ancora maggiore.

Siamo stati abituati al “governare a qualunque prezzo”, facendone pagare i costi alle classi sociali più deboli, ora nella grande Germania c’è un problema serio e non così distante da noi, sarà interessante vedere come sarà risolto, se sarà risolto, perché quello potrebbe essere anche il nostro destino, sempre che i parlamentari italiani sappiano essere altrettanto pragmatici.

PARADISI FISCALI. NON C’E’ TREGUA PER I COLOSSI DEL WEB, ORA NEL MIRINO DELL’UE

DI VIRGINIA MURRU

 

Sono proprio le multinazionali più in vista a fare la parte del leone e a defilarsi, come mani lunghe che rubano con la luce accesa, ma tant’è: finora non se ne sono curate più di tanto, forti delle protezioni e della legislazione dei paesi che hanno una pressione fiscale davvero minima.

Sta di fatto che nel giro di 5 anni, i cosiddetti giganti del web, senza fare tanto rumore, hanno eluso 46 miliardi di euro. ma vanno anche oltre, fino a 69, se al vasto repertorio dei ‘fedifraghi’ si aggiunge Apple, il gigante dell’hardware che presenta il fatturato più consistente (e che non è però una internet company).

Sono le risultanze delle recenti indagini condotte da ‘Ricerche e Studi di Mediobanca’.
Inutile domandarsi in che modo si può essere volpi, se la consuetudine di spostare grandi capitali off-shore non è nata nel terzo millennio, ma viene da lontano, e le autostrade dell’evasione sono quelle che portano ancora verso i paradisi fiscali, dove lo Stato, sul versante delle tasse, mangia a piccoli morsi.

Per questo il denaro qui soffre molto meno che nei luoghi dai quali proviene. E non è un mistero che in Europa, il Lussemburgo, l’Irlanda e l’Olanda, abbiano tetti più sicuri per multinazionali come Facebook, Amazon, Google, Microsoft ed Apple, tanto per citare le più note.

I loro utili vengono portati sistematicamente fuori dai paesi in cui si sono generati, per una semplice questione di pressione fiscale, certamente più forte rispetto ai paesi in cui questi capitali vengono ‘traslati’.

In Cina le multinazionali non fanno eccezione, e non sono meno scaltre di quelle citate, operanti tra Stati Uniti ed Europa: Tencent ed Alibaba, tanto per non scomodare il fisco ed eventuali strali della giustizia, hanno stabilito la sede proprio nelle isole Cayman, notoriamente meno aggressive in materia fiscale.

Le web company hanno versato all’Agenzia delle Entrate veramente inezie rispetto ai ricavi generati nel nostro paese: 12 milioni (si tratta di Amazon, Apple, Tripadvisor, Twitter, Facebook e Airbnb), esponendosi così all’indignazione delle grandi e medie aziende che operano offline, e che in termini di compliance con il fisco sono sicuramente più virtuose. Il Governo in Italia sta prendendo atto finalmente delle grandi perdite per l’Erario, e chiede con forza l’introduzione di una tassa Ue. Troppi utili sottratti alle imposte, dato che, come si è visto, al fisco lasciano solo ‘bruscolini’.

Non è servito a molto fino ad ora ricorrere al patteggiamento, perché poi questi giganti riprendono il vecchio sentiero con la segnaletica più conveniente, che porta nei paesi compiacenti in termini di aliquote fiscali, così i ricavi delle transazioni digitali mettono le ali senza alcuno scrupolo.

La Procura di Milano era riuscita pochi mesi fa a indurre Apple e Google al patteggiamento, chiedendo 600 milioni (in due), come saldo di pendenze arretrate col fisco, ma poi la lezione è evidentemente troppo difficile per essere assimilata, quando gli interessi in gioco sono alti.

Le residenze legali restano laddove si campa meglio, senza eccessiva ‘oppressione’ fiscale. E così continua ad agire Facebook, per esempio.
Inutile che in Italia le autorità competenti abbiano accertato un utile per la vendita di servizi (pubblicità), pari a 225 mln, perché questi ricavi si sono subito messi in viaggio alla volta dell’Irlanda, luogo più ‘salutare’ per gli utili, e l’Agenzia delle Entrate in Italia non ha visto che briciole. Si capisce che sono situazioni ormai inammissibili, come si è visto non si tratta solo di Facebook, anche le altre big fanno saltare i soldi dal cilindro altrove.

Per anni e anni di evasione, Google Italia ha registrato in bilancio tasse che incidono per 42 mln, ma la quota di competenza relativa al 2016 è solo una piccola parte, il resto riguarda anni e anni di inadempienze. Per forza poi i conti non tornano, e a questo punto, obbligare le potenti multinazionali a versare tutte le imposte sui profitti generati in Italia, è il minimo.
L’evasione riscontrata nelle web companies non riguarda solo l’Italia, ma anche altri paesi europei, fortemente danneggiati dal loro operato. Si cercano strategie normative per mettere con le spalle al muro le multinazionali, finora ci sono stati solo ultimatum di cause legali (la Procura di Miano ha aperto un fascicolo su Amazon, accusata di avere evaso 130 mln), ma il problema, nonostante qualche riflessione, non è stato risolto.

L’Ue ha perseguito l’Irlanda (deferita alla Corte di Giustizia), uno dei paesi più ‘accoglienti’ per i profitti, obbligandola a versare 13 miliardi di euro, per avere concesso agevolazioni fiscali non dovute, ma non è certo che questo Paese membro dimostrerà fedeltà alla normativa Ue. Diffidata anche Amazon, ha forti pendenze fiscali con il Lussemburgo.

Intanto, da qualche mese, si avverte aria di grande insofferenza, e così Italia, Germania, Francia e Spagna, che poi corrispondono alle economie più solide dell’Ue, hanno deciso di reagire e di chiedere un regime fiscale comune, con tassazione digitale, per obbligare le multinazionali a non portare altrove i ricavi originati nei paesi di competenza (fiscale), dove il valore si crea. Neanche a dirlo, i paesi di appartenenza delle multinazionali (le più grandi sono degli States), fanno scudo e tentano di difenderle in tutti i modi dai possibili fulmini in arrivo dall’Ue.

La sfida ha tutta l’aria di non essere a portata di mano.
Secondo gli studi portati avanti da Mediobanca, le grandi del web hanno eluso imposte per oltre 11 mld di euro, tra queste c’è Microsoft che ha messo in salvo 3,6 mld, e Apple 5,3 mld, a seguire le altre, che pure hanno ‘risparmiato’ parecchio.

Ossia circa due terzi degli utili (prima d’essere stato tassato), è finito nei paesi dei quali si è detto, perché molto più soft in termini di pressione fiscale, rispetto alla sede delle web companies. La pressione fiscale negli Usa è pari al 35%..
Ormai questi colossi sono sorvegliati dall’Ue, e Google, bontà sua, ha dichiarato che resterà in Europa, a condizione che le imposte siano ‘semplificate’.

Pretendono davvero troppo, dato che, a giudicare dai profitti, non rischiano certo il tracollo. E’ Amazon la numero uno dell’e-commerce – già per 3 anni di seguito – con un ricavo, nel 2016, di 129 miliardi di euro.

Alle grandi dell’e-commerce cinese va anche meglio, ma del resto c’è dietro un grande mercato, solo la Cina ha quasi un terzo degli abitanti del pianeta. I loro guadagni sono enormi.
Della web tax, in Italia, che mira a regolamentare, nell’era della digital economy la tassazione sugli utili delle multinazionali, si è fatto promotore il deputato Pd Francesco Boccia, il quale ha di recente ribadito che si tratta “di una battaglia di equità”.

Aggiungendo che “parlare di web tax non significa tassare il mondo, ma trattare in termini di tassazione il mondo online come quello offline, non consentendo ai grandi gruppi del web di farla franca, cosa che nemmeno i piccoli commercianti possono fare. Pertanto le multinazionali devono pagare le imposte indirette nei Paesi in cui i profitti si originano”.

Il 17 novembre, dopo l’approvazione alla Camera della fiducia sul decreto fiscale collegato alla manovra, (nell’ambito della discussione sulla legge di Bilancio in Senato), dal Pd è arrivato l’emendamento già annunciato, sulla web tax. L’emendamento è frutto dell’attività di un anno nelle Commissioni di Industria e Finanza del Senato.

Il Governo non aveva introdotto la tassa nel testo base, lasciando al Parlamento la libertà d’intervenire. L’emendamento rafforzerà la regolamentazione transitoria (sulla digital tax), inserita nella manovrina di aprile. Secondo il primo firmatario, Massimo Mucchetti, senatore Pd bresciano, nonché presidente Commissione Industria:

“ai soggetti non residenti, che comunque avessero stabile organizzazione nel nostro paese, sarà tassata, al pari di tutte le società, la base imponibile dichiarata e verificata dall’Agenzia delle Entrate. L’emendamento introdotto sulla legge di Bilancio, ha il fine di regolare la tassazione dei profitti o ricavi originati in Italia da queste grandi aziende che operano nel web. Auspichiamo che la nuova norma sia approvata, poiché prevede una tassazione del 6% dei ricavi (o transazioni digitali) per la cessioni di servizi provenienti da soggetti non residenti a soggetti residenti in Italia.”

La preoccupazione, semmai, secondo il promotore della digital tax, Boccia, è che la nuova tassa possa colpire le aziende italiane in regola, poiché essa è rivolta esclusivamente alle multinazionali del web, che fino ad ora hanno evaso somme ingenti sfuggendo al fisco.

PADOAN: INSOPPORTABILI ILLAZIONI SUI CONTI PUBBLICI, NULLA NASCONDIAMO ALLA GENTE

DI VIRGINIA MURRU
Così pieno di sdegno, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, non lo si era mai visto, altre volte ha mostrato i denti verso allusioni tendenziose, ma in questa circostanza ha ritenuto che il veleno in circolo fosse veramente troppo.
Le illazioni, così come egli le ha definite, riguardano la finanza pubblica, la quale non avrebbe affatto abbandonato il girone infernale in cui da decenni ‘brucia’. Padoan non accetta queste considerazioni, e dichiara:
“Sta diventando insopportabile la confusioni tra fatti e allusioni, che serve solo a disorientare la gente, alla quale nulla abbiamo nascosto circa i conti pubblici, che sono migliorati, e il riflesso nell’economia, al di là dei numeri, è ben evidente”.
Così si è espresso nel corso dell’Assemblea degli industriali che si è tenuta a Salerno, e ha aggiunto:
“sta per chiudersi una legislatura che metterà nelle mani della successiva un quadro oggettivamente migliore, non vogliamo nascondere nulla, è un dato di fatto che la situazione congiunturale sia nettamente migliore.”
I venti contrari, per la verità, sono giunti nei giorni scorsi dagli ambienti più scettici dell’Unione europea, che  esprimono riserve nei confronti delle finanze dello stato italiano, che non sarebbero ancora ‘a norma’, secondo i requisiti del Patto di Stabilità e Crescita di Maastricht, stipulato e sottoscritto nel 1997 dai paesi membri dell’Ue.

Nel corso del meeting di Strasburgo di alcuni giorni fa, infatti, la Commissione ha deciso di chiedere al Governo ulteriori chiarimenti sulla manovra 2018 (bozza di legge di Bilancio) e sulle risultanze dei conti relativi al 2017.

La lettera sarà quasi certamente formalizzata e trasmessa il 22 novembre prossimo, secondo alcune Agenzie di stampa, allorché diventerà ufficiale il parere sulla legge di Bilancio 2018- E tuttavia, secondo la Commissione, è opportuno attendere le verifiche di Eurostat ad aprile, con numeri più chiari, per accertare se ci sia effettivamente stato uno scostamento dai parametri europei nel 2017. Si dovrà attendere dunque fino a maggio prossimo, mese in cui, solitamente, la Commissione, rende note le proprie previsioni.

Il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, ha già risposto alla missiva di fine ottobre (prima della pubblicazione delle previsioni autunnali), circa le perplessità espresse sullo scostamento dei conti italiani rispetto a quelli redatti dai tecnici dell’Ue. Il riferimento è evidentemente alla riduzione programmata del deficit, rivisto secondo gli effetti del ciclo economico, e al ‘netto’ delle una tantum.

Padoan aveva concordato tre decimi di punto di Pil con il Commissario Pierre Moscovici (accordo politico), ma si sarebbe andati tuttavia anche oltre, secondo la Commissione, rispetto a quelli concordati. In termini numerici,  la deviazione sarebbe pari a 3,5 mld di euro, e pertanto il Governo dovrà provvedere con una manovra correttiva, così come è già accaduto per la precedente Legge di Bilancio presentata dall’ex premier Matteo Renzi.

Il più riottoso sembra essere Jyrki Katainen, nel suo ruolo di vicepresidente della Commissione, il quale sostiene che l’Italia non stia migliorando in termini di finanza pubblica. E queste sarebbero ‘le illazioni’ che hanno poi suscitato lo sdegno di Padoan.

Ricordiamo che la Commissione europea ha il potere di respingere la Legge di Bilancio dei Paesi che non risultassero virtuosi in termini di compliance, rispetto alla normativa fiscale dell’Unione. All’Italia comunque, si è chiesto un ‘aggiustamento’ strutturale che slitterà al 2018. A ottobre, il Governo ha preso un impegno per un aggiustamento dello 0,3%, un braccio di ferro che dura da più di un anno, e che Padoan ha più volte motivato con la lunga serie di emergenze che l’Italia ha dovuto affrontare, come gli eventi sismici e la gestione dei flussi di migranti.

Il ministro dell’Economia rimanda indietro le frecciate, i suoi bersagli (alla Commissione europea) hanno sicuramente raccolto il messaggio, nonostante le loro obiezioni sulla presunta mancata correzione del deficit strutturale.
All’assemblea degli industriali tenutasi ieri a Palermo, era presente anche il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, il quale ha interpretato in modo meno aggressivo le ‘illazioni’ della Commissione europea. E infatti dichiara:
“Per quel che riguarda gli impegni presi dal Governo sul controllo e riduzione del deficit, il riferimento che proviene dall’Ue è rivolto più verosimilmente ai partiti politici, che sono già scesi in campo nella campagna elettorale per le prossime elezioni politiche”.
E ha proseguito con un monito:
“Bisogna fare davvero attenzione alle politiche economiche che favoriscono l’aumento del deficit, e di conseguenza anche il debito”.
Boccia concorda poi con il ministro Padoan, sul fatto che negli ultimi anni sono stati compiuti sforzi notevoli per contenere il dramma del debito pubblico, che ha pesato come piombo nelle scelte concernenti la politica economica. Un limite che non è mai stato sottovalutato, Padoan del resto ha sempre messo le mani avanti su questo vortice che inghiotte e macina risorse, sostenendo che purtroppo ‘il sentiero è stretto’.
Prendere atto dei limiti, di cinquant’anni di errori, non significa, secondo gli intendimenti di Padoan, che la situazione sia irreversibile e che non si possano fare dei passi avanti, così come ritiene si sia fatto nel corso della presente legislatura. Egli si definisce peraltro un ministro atipico in termini di ottimismo: ‘sono stranamente ottimista’.
“Si può guardare avanti, facendo tutto ciò che è possibile in termini di strategie per migliorare, allo stesso tempo restando con i piedi per terra, senza ‘compiacersi’ eccessivamente dei risultati, che pure sono arrivati, e sono sotto gli occhi di tutti”.
Conclusioni che il ministro ha ribadito in tante occasioni, mette in rilievo i risultati ottenuti, nonostante il ‘sentiero stretto’, che ‘tuttavia si sta allargando’, i miracoli, del resto, non sono il target di un governo serio, si opera secondo scelte adeguate, e i frutti arrivano, gradualmente, ma la crescita apre nuovi orizzonti, così com’è accaduto in Italia negli ultimi anni.
Il problema è che la gente si aspetta forse l’uso di una bacchetta magica che nessun governo può adottare.
E sottolinea infatti Padoan:
“Il Paese può fare ulteriori progressi, noi abbiamo creato delle buone fondamenta per aprire la strada alla speranza di un futuro più solido, dipenderà dalla prossima legislatura, dalla capacità di proseguire su un percorso già tracciato. Noi abbiamo compiuto ogni sforzo per migliorare la finanza pubblica e nel contempo favorire la crescita.”

GLI SCIOPERI PORTANO PROGRESSO SOCIALE. VIETATO VIETARLI

DI PIERLUIGI PENNATI

Lo sciopero è la più antica forma di lotta dei poveri conosciuta al mondo: chi non ha nulla può solo smettere di lavorare.

Lo sciopero non è divertente, chi sciopera ci rimette dei soldi, quindi fa una rinuncia certa che, unita allo stato di necessità, inquadra precisamente il problema.

Negli ultimi anni, invece, i poteri forti, quelli dei cosiddetti “padroni”, gli industriali e le banche, ci hanno abituato a pensare che chi sciopera si diverte a torturare i cittadini, soprattutto nei trasporti, dove ricchi lavoratori scioperano per ottenere benefici ancora più grandi ed ingiusti.

Beh, non è così: chi sciopera fa un sacrificio per uno scopo sociale preciso.

Il primo sciopero della storia di cui si abbia notizia si verificò intorno al 1150 a.C., alcune fonti dicono 1165, altre 1152, comunque oltre tremila anni fa, quando, nell’antico Egitto durante il regno di Ramses III, gli operai del villaggio di Deir el-Medinet, addetti alla costruzione dei templi di Tebe, incrociarono le braccia, al grido di “Siamo già al 18 del mese e abbiamo fame!”, a causa del ritardo nel pagamento della paga, ai tempi effettuata in derrate alimentari, grano, pesci, legumi e per la mancata consegna di unguenti necessari a proteggersi dal sole e dal clima secco del deserto.

Lo sciopero durò alcuni giorni, terminando solo quando il dovuto fu interamente consegnato ed ottenendo la creazione di organi di controllo per assicurare la paga in futuro.

Un grande successo, dunque, a costo di sacrifici che hanno portato ad un beneficio collettivo.

Oggi le cose non sono cambiate e lo sciopero continua ad essere l’unica arma disponibile in possesso dei disperati, che hanno solo l’alternativa della rivoluzione armata, come avvenne in Russia nel 1917 a seguito  dei primi scioperi a febbraio nelle Officine Putilov che portarono in qualche mese alla rivoluzione di ottobre, esattamente 100 anni fa.

Combattere o limitare lo sciopero, quindi, significa togliere l’unica arma nelle mani dei poveri, lo sanno bene i potenti ed governi, per questo fanno di tutto per evitarlo o renderlo inefficace.

Il primo sciopero generale in Italia è stato nel settembre 1904, ed anche in epoca fascista, dopo la salita al potere nell’ottobre del 1922 di Benito Mussolini, il più giovane caso di governo dopo Matteo Renzi nella storia dell’Italia unita, ci sono stati degli scioperi così importanti che il Duce sentì la necessità, il 3 aprile 1926, di promulgare una legge, la numero 563, per impedire una nuova insorgenza di fenomeni di ribellione sociale al suo regime.

Questa legge, contenente in modo più ampio la “Disciplina Giuridica Dei Rapporti Collettivi Del Lavoro”, proibì lo sciopero e la serrata commerciale e stabilì che soltanto i sindacati “legalmente riconosciuti”, vale a dire quelli fascisti che già detenevano praticamente il monopolio della rappresentanza sindacale dopo la conclusione del Patto di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925 fra la Confindustria e le corporazioni fasciste, potevano stipulare contratti collettivi ed indire controversie collettive, non senza, però aver cercato prima un tentativo di conciliazione, riducendo i conflitti ad un fatto meramente amministrativo e giuridico.

Situazione non tanto distante da quanto si sta tentando di ristabilire progressivamente oggi a suon di leggi restrittive, tanto è vero che il giornalismo disinformato parla spesso di “sindacatini non rappresentativi” e la giurisprudenza, nonostante la Costituzione Italiana citi all’articolo 39 “L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge”,   ha ormai consolidato la condizione che per poter operare il sindacato deve avere iscritti pari ad almeno il 5% dei lavoratori del comparto o dell’azienda cui si riferisce. La legge voluta da Mussolini prevedeva il 10%.

Inoltre, nonostante lo sciopero fosse vietato, Mussolini aveva previsto che anche eventuali azioni sindacali alternative dovessero prima aver visto un tentativo di “risoluzione amichevole della controversia, e che il tentativo non sia riuscito”, vale a dire esattamente la “procedura di raffreddamento dei conflitti” che oggi viene imposta obbligatoriamente ed in ben due distinte fasi che fanno perdere a chi protesta almeno un mese dall’apertura formale della vertenza, rendendo comunque inefficace almeno la sua tempestività.

Quindi: riconoscimento giuridico, conciliazione preventiva e limitazione, o persino divieto, di sciopero, sono da sempre il fondamento della repressione sui lavoratori, specie i meno abbienti che non altro altri strumenti.

Evidentemente deve essere questa la ragione per cui ci si accanisce ancora oggi contro chi sciopera, spiegando tramite i media disinformati, come avvenuto il 10 novembre per lo sciopero generale del sindacato USB, che chi sciopera è sempre “qualcuno dei trasporti” che infastidisce chi “lavora onestamente”, che chi proclama sono sindacati “non rappresentativi” dal nome impronunciabile e con “motivazioni non comprensibili”, futili o marginali creando disagio strumentalmente.

La verità, invece, era che lo sciopero era generale, gli scioperanti non erano disonesti, che la rappresentatività sindacale è un parametro oggettivo che proprio i sindacati considerati “rappresentativi” non vogliono svelare per non sfigurare, che i nomi dei sindacati non devono necessariamente seguire slogan o regole accattivanti di mercato e che le erano il dannoso Jobs Act, la manovra economica che chiede altri sacrifici, gli interventi di ulteriore riduzione sulle pensioni e la continua precarizzazione dei contratti di lavoro.

Propaganda e/o disinformazione che vanno a braccetto e/o si coalizzano in una sorta di moderno Istituto per l’Unione Cinematografica Educativa, detto anche LUCE in epoca fascista, che dice solo quello che piace al regime o al popolo.

Ma in anni in cui le code agli Apple Store per i nuovi modelli sono interminabili mentre ai seggi elettorali si registra il deserto degli elettori non ci si può aspettare di meno: la storia ci dice che proprio miseria, rabbia e frustrazione, unite all’assenteismo al voto, hanno favorito l’ascesa al potere di Adolf Hitler in Germania dopo la Prima Guerra Mondiale, non siamo in quelle condizioni, spero, ma certamente non possiamo trascurare lo stato sociale in favore di un’economia che ci sta schiacciando e se oggi togliamo ai poveri l’unico strumento di lotta che possiedono, stiamo facendo male non solo a noi stessi ma anche ai nostri figli, condannandoli ad una vita futura di schiavitù sociale, come quella prevista con un realismo sorprendente da Orwell nel 1948.

La stampa dovrebbe informare correttamente e se non lo fa possiamo difenderci solo cercando altre notizie e verificarne le fonti, costa fatica, ma è necessario: gli scioperi hanno portato progresso e benessere negli anni della crisi del dopoguerra, istituendo diritti dove non ve n’erano ed introducendo benefici sociali e welfare state, oggi il processo innescato è esattamente l’opposto, si comprime il diritto di sciopero per poter mantenere i tagli ai diritti ed allo stato sociale.

Non cadiamo in questa trappola, non lasciamoci influenzare da poteri economici che non considerano più la dignità e le persone, diamo forza al diritto di sciopero e diamo solidarietà a chi, in tempi di crisi e precarietà, rinuncia ad una parte del già sempre più magro salario e rischia il posto di lavoro per poter sopravvivere ancora e dare un futuro ai propri figli.

“Ribaltiamo il tavolo”, “riprendiamoci tutto”, erano i temi dei due ultimi congressi del criticato sindacato USB passati in totale silenzio stampa, ma sono, purtroppo, parole d’ordine sempre più attuali e necessarie.

SALARIO MINIMO IN SVIZZERA CONTRO GLI IMPRENDITORI SENZA SCRUPOLI

DI PIERLUIGI PENNATI

Imprenditoria senza scrupoli e continua compressione dei salari che rende difficile e poco dignitosa la vita ai lavoratori ed alle loro famiglie, sembra di parlare della nostra nazione, invece siamo in Svizzera dove per combattere la situazione di “dumping salariale” i cittadini hanno deciso di affidarsi alla legge e fissare un salario minimo.

Il problema esiste in tutte le nazioni: si tratta della soglia di reddito al di sotto della quale non si riesce a vivere dignitosamente o, addirittura, si può essere considerati poveri.

Per risolvere il problema, normalmente, non si fa nulla, la soglia di povertà ed il valore del lavoro sono quasi sempre semplici dati statistici, se non guadagni abbastanza sei in una o nell’altra fascia, in Svizzera, invece, per combattere la svalutazione del mercato del lavoro umano si sono posti il problema per tempo ed i Verdi, con un’iniziativa appoggiata dai Socialisti e dalla Lega, nel 2015 hanno ottenuto il 54% dei consensi dell’elettorato ticinese in un referendum popolare da loro promosso ed ora il governo si è mosso di conseguenza.

L’obiettivo dichiarato dai promotori era “salvare il lavoro in Ticino e lottare contro il dumping salariale” e per questo avevano lanciato il referendum propositivo, impossibile in Italia dove le leggi le fa solo il Parlamento e con i referendum si possono solo abrogare norme esistenti, immediatamente capito dalla popolazione e vinto con un margine positivo ritenuto ampiamente soddisfacente.

Il leader dei Verdi, Sergio Savoia, aveva esultato affermando “Per la prima volta inseriamo, nella Costituzione, il diritto al salario dignitoso”, raggiungendo lo scopo sociale di porre un limite minimo al mercato del lavoro ticinese nei settori in cui mancano i contratti collettivi o questi non sono applicati.

Il fenomeno originava dalla disponibilità di mano d’opera, frontalieri italiani per lo più, approfittando della quale imprenditori con meno scrupoli proponevano salari inaccettabili, per il costo della vita dei residenti, tra questi un caso limite portato in campagna referendaria quello di un’azienda di trasporti di Stabio, cittadina sul confine con la nostra nazione, che pagava gli autisti frontalieri be 500 euro in meno di quelli residenti in Svizzera.

Forse, da noi si sarebbe accolto il fenomeno come concorrenza che fa bene al mercato, in Svizzera, invece, si sono chiesti come le persone possano sopravvivere dignitosamente con salari inadeguati e sono corsi ai ripari, così oggi è stato stabilito dal governo ticinese che per una vita dignitosa pagando le tasse, in Svizzera occorre possedere un salario minimo di poco superiore ai 19 franchi all’ora, che su base mensile fanno all’incirca 3.000 euro.

In effetti il problema è molto serio, il continuo accettare salari sempre più bassi, da parte di lavoratori in competizione per la propria sopravvivenza, ha già portato molte famiglie in Italia sotto la cosiddetta “soglia di povertà”, rendendo quasi impossibile mantenersi con una sola entrata e sempre più spesso nemmeno lavorando in due.

Il salario minimo diventa quindi un parametro di civiltà, che rende inaccettabile per uno stato tollerare offerte di lavoro a valori inferiori alla soglia che trasforma il lavoro in sfruttamento.

In Ticino, però, anche il salario minimo per legge scontenta comunque molte categorie, dato che la contrattazione collettiva già si attesta intorno ai valori oggi fissati per legge ed in quella nazione 3000 franchi non sono poi così tanti per vivere, con il risultato di non spostare di molto il problema nell’immediato, in Italia, invece, la discesa dei salari ha già superato in molti settori la soglia minima di dignità, incentivando datori di lavoro con sempre meno scrupoli ad assumere a personale a prezzi sempre più bassi e costringendo i nostri figli ad emigrare in nazioni dove il lavoro garantisce ancora una propria vita dignitosa.

Secondo i rappresentanti del mondo economico svizzero, il salario minimo riguarderà solo 9100 persone, di cui 6500 frontalieri, mentre metterà in difficoltà “aziende, commerci, piccole attività artigianali che hanno margini di guadagno sensibilmente inferiori e che sono sottoposte a forte competitività”, Verdi e Socialisti, promotori dell’iniziativa, ritengono invece che la cifra decisa dell’esecutivo sia ancora troppo bassa sottolineando che il Ticino è “il Cantone con il più alto tasso di povertà della Svizzera”.

Il salario minimo sarebbe quindi un baluardo contro la povertà che forse, se istituito anche da noi, potrebbe evitare il costoso ed improduttivo “reddito di cittadinanza”, chiesto dai cinque stelle, e gli altri fino ad ora infruttuosi provvedimenti per contrastare povertà e disoccupazione, riavviando e riqualificando quello che ormai sembra somigliare sempre più ad un mercato degli schiavi che al quello del lavoro.

UE. L’ECONOMIA ITALIANA HA ESPRESSO OTTIME PERFORMANCE, MA E’ ANCORA IN CODA

DI VIRGINIA MURRU
La Commissione Europea riconosce il movimento in positivo dell’economia italiana, sottolinea i progressi compiuti in termini di finanze pubbliche, in particolare del deficit, che nell’anno in corso si è sostanzialmente contratto, sia pure di poco (2,1%), ma nel contesto degli altri paesi membri è ancora tra gli ultimi ‘della classe’.
Un giudizio che conta quello della Commissione, un outlook sull’Italia che certamente suona come un riscatto, dopo gli anni di buio pesto, durati dal 2008 al 2014. Ma sono anche ‘istantanee ad alta risoluzione’ che non trascurano il ‘contesto’, ossia il panorama economico dell’Unione nel suo insieme, e dell’Eurozona – della quale facciamo parte – in particolare.
In questa prospettiva il passo diventa breve, l’espansione in termini macroeconomici contenuta, poiché si confronta con una crescita media europea del Pil pari al 2,3% nel 2017, a fronte di quello italiano, che ha raggiunto l’1,5% (sempre nell’anno in corso).
Certamente si tratta di progressi riconosciuti sul piano internazionale, anche al di là dei cancelli dell’Ue: dalle Agenzie di rating, all’Ocse, al Fmi, un po’ ovunque dalle Organizzazioni che monitorano l’economia sul piano globale. Promossi, dunque, ma con gli opportuni distinguo, e con la riserva dell’inevitabile, impietoso confronto con i paesi, la maggior parte, che hanno compiuto passi più lunghi.
La Spagna è un esempio davvero eloquente. Il suo Pil nel 2017 si è rivelato quasi dirompente, con +3,1%.
Il paese che ha espresso la crescita più consistente è Malta: +5,6% nel 2017 (quasi al ritmo del dragone cinese), certamente mette in rilievo un’espansione veramente eccezionale, destinata, secondo i forecast dell’esecutivo europeo, a contrarsi negli anni a venire, con un calo già a partire dal 2018, il Pil assumerà infatti un valore pari al 4,9%, e 4,1% nel 2019.
Ma siamo in un gap di valori che superano in ogni caso la crescita media Ue, che è attualmente al 2,3%.
L’Italia potrebbe trarre ‘conforto’ dall’andamento dell’economia del Regno Unito, che soffre già da più di un anno del sintomo Brexit, ma sono tuttavia, proprio per questa ragione, stime estrapolate del contesto dei 27, essendo in corso la trattativa per l’uscita dall’Ue.
Secondo le analisi della Commissione europea, la ripresa economica in Italia è da attribuire al positivo riscontro nell’export e alla domanda interna; le previsioni restano stabili nel breve periodo, ma nel medio e nel lungo sono destinate a subire un rallentamento, fino al 2019. Per l’anno di pertinenza, ossia il 2017, la Commissione ha dovuto rivedere le previsioni di crescita del Pil espresse a maggio (0,9%), adeguandole agli ultimi riscontri, che hanno rivelato un’accelerazione dell’ordine dell’1,5%. La fase di contrazione del Pil in Italia raggiungerà l’1% nel 2019.
Dal ministero dell’Economia sottolineano che “la Commissione conferma la ripresa sostenuta e il miglioramento dello stato della finanza pubblica, deficit compreso, dati già comunicati dal Governo italiano, anche con il documento relativo alla legge di Bilancio 2018. Il ministro Pier Carlo Padoan non concorda con le previsioni del Pil relative al 2018, secondo il Governo, le stime sul Pil il prossimo anno, confermeranno quelle del 2017, ossia l’1,5%.
Una ‘sfida’ in termini percentuali che ha visto prevalere, negli ultimi anni, i dati espressi dal Governo italiano, in opposizione a quelli più prudenti della Commissione europea.
Contrasto, se vogliamo, sostanziale, anche per quel che attiene alle finanze pubbliche. Il ministro mette in rilievo il fatto che la Commissione riconosce il calo del deficit per il corrente anno, a 2,1%, ma non concorda sulle previsioni relative al 2018, il cui calo arriverebbe all’1,8%, mentre secondo le prospettive del Governo il calo del deficit sarebbe più marcato, ossia l’1,6%. Vi sono poi discordanze sulle stime del debito. Secondo il ministero dell’Economia è dovuto alla differenza nella valutazione della crescita del Pil reale e dalle divergenze di stima dell’inflazione.
L’Ue riconosce anche la riduzione della disoccupazione, che nel 2017 si attesta all’11,3%, rivisti anche in questo caso i valori definiti a maggio (era attesa all’11,5%), si prevede poi che nei prossimi anni sarà ulteriormente ridotta, nel 2018 e 2019, rispettivamente andranno al 10,9% e 10,5%.
I dati sull’occupazione invece, dopo gli effetti positivi degli sgravi sulle assunzioni, subiranno una contrazione dell’ordine dell’1% nell’anno in corso, con una fase intermedia (di rallentamento) nel prossimo, fino ad attestarsi allo 0,5% nel 2019. Certamente, l’andamento dei dati macro, risente dell’ interdipendenza dei valori, che, per quel che riguarda l’Italia, sono destinati a contrarsi nel breve periodo, secondo le stime attuali.
La Commissione Ue riconosce gli interventi incisivi volti a ridurre i rischi di default degli istituti bancari più vulnerabili, interventi che contribuiranno a controllare i rischi e a sbloccare il credito. L’accento cade anche sulle riforme strutturali, importantissime, secondo il parere della Commissione, per incentivare la crescita potenziale.
Per quel che riguarda la zona euro, la disoccupazione ha assunto i valori più bassi dal 2009, con ‘picchi record’ di occupati, e un rilievo in positivo di crescita pari all’1,5%. Dati che miglioreranno nei prossimi due anni, fino ad attestarsi, nel 2019, al 7%.
Il Commissario agli Affari Economici, Pierre Moscovici, dichiara nelle ‘previsioni d’autunno’:
“Ci sono buone prospettive, molto positivi i rilievi sull’occupazione, indubbiamente l’economia europea è in grado di creare più occasioni di lavoro, buoni i dati sugli investimenti, i parametri relativi alle finanze pubbliche migliorano. Ma a fronte di queste ottime premesse, resta ancora da fare sul piano dei conti pubblici, sul grado d’indebitamento in particolare, e sull’aumento dei salari, che stenta a decollare.
Aggiunge Moscovici:
“Rafforzare la zona euro è fondamentale, in sintonia con la convergenza strutturale, affinché l’area dimostri maggiore resilienza verso i possibili shock futuri. L’Ue deve essere un autentico centro propulsore di prosperità condivisa. C’è stata una forte riscossa nel volgere di un anno nell’Eurozona, si tratta del più alto tasso di crescita riscontrato da 10 anni a questa parte”.
E non si tratta di inezie.

PENSIONI. PER 15 CATEGORIE DI LAVORI GRAVOSI STOP AUMENTO ETA’ PENSIONABILE

DI VIRGINIA MURRU
Il confronto sulla previdenza che si è svolto a Palazzo Chigi il 6/7 novembre, è stato relativamente soddisfacente, secondo i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil. Intorno al tavolo tecnico, in rappresentanza del Governo, erano presenti il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, i ministri Poletti, Madia e Padoan.
Per ora si è stabilito che per 15 categorie di lavori cosiddetti ‘gravosi’, scatterà il blocco sull’aumento dell’età pensionabile. L’iter dell’accordo passa su strade piene di chiodi, l’intesa è stata piuttosto travagliata, e i sindacati dichiarano che non c’è da esultare.
All’ordine del giorno i temi più scottanti concernenti le rigide norme sull’innalzamento della soglia relativa all’età pensionabile a 67 anni, a partire dal 2019, in adeguamento automatico (previsto dalla riforma previdenziale, legge Fornero) all’aspettativa di vita, pertanto non più a 66 anni e 7 mesi, com’è attualmente. Secondo gli ultimi dati Istat, l’aspettativa di vita, a 67 anni, si allunga di 5 mesi, arrivando a 20,7 anni.
Già a luglio scorso, Cesare Damiano e Maurizio Sacconi, rispettivamente presidenti della Commissione Lavoro di Camera e Senato, avevano indetto una conferenza stampa congiunta dichiarando che innalzare la soglia dell’età pensionabile sarebbe stato a dir poco iniquo. Ovviamente avevano immediatamente fatto coro i sindacati. Ne è scaturita una vertenza non semplice da affrontare:
da una parte ci sono le ragioni del Governo che si trova continuamente a fare i conti con un debito pubblico che crea urti come cortocircuiti con le esigenze delle riforme strutturali, del quale lo Stato ha un gran bisogno, e poi con un piano di spesa legato a doppio filo proprio allo stato dei conti pubblici.
E dall’altra ci sono le rappresentanze sindacali che difendono i lavoratori, stanchi di aspettare il meritato riposo dopo una vita durissima di lavoro.
Non è facile rassegnarsi, e vedersi spostare l’asticella sempre più in alto non può che creare disappunto. La vita non cambia di molto, e i sacrifici richiesti sono ritenuti davvero eccessivi. L’alternativa è l’uscita anticipata, ma c’è dietro un tale ginepraio di ostacoli, disorientamento e costi non indifferenti per l’accesso all’anticipo pensionistico, da scoraggiare seriamente chi si accinge a inoltrare richiesta.
Intanto, per ora, si è ottenuto il blocco dell’aumento dell’età di pensione, che sarebbe dovuto partire dal 2019, per 15 categorie di lavori ritenuti ‘gravosi’: 11 già individuate da Ape social, nelle quali rientrano, infermieri turnisti, macchinisti, edili e maestre; le altre 4 che interessano lavoratori siderurgici, agricoli, pescatori e marittimi.
E’ la proposta del Governo presentata al tavolo tecnico, nell’incontro con i sindacati a Palazzo Chigi. Il numero di lavoratori che rientrano in queste categorie dovrebbero essere 20 mila, e rappresenterebbero il 10% circa dei pensionamenti previsti per il 2019.
Il tema scottante dell’adeguamento automatico alle aspettative di vita, è stato anche oggetto di discussione in sede di Commissione Bilancio (di Camera e Senato sulla legge di Bilancio). Sia la Corte dei Conti che la Banca d’Italia, si sono espresse a favore dell’esigenza di non modificare le riforme al riguardo, è un momento delicato, sostengono, e non si possono fare passi indietro. Ha fatto eco Tito Boeri, Presidente Inps, che non concorda sullo stop dell’aumento relativo all’età pensionabile.
“Al massimo – ha dichiarato – meglio procedere con ‘adeguamenti annuali’.”
Il Governo indica requisiti precisi, tra i quali sono fondamentali il raggiungimento dei 36 anni di contributi, e avere svolto attività considerate ‘gravose’ per almeno 6 anni, in modo continuativo nel volgere degli ultimi 7.
E tuttavia, nel corso dell’incontro a Palazzo Chigi, il Governo si è reso disponibile ad aprire un confronto più ampio e aperto. In termini di blocco dell’età pensionabile, secondo gli intendimenti del Governo, si può cedere sull’adeguamento dell’età di vecchiaia, non per quel che concerne gli scatti sull’anzianità contributiva.
Nella proposta del Governo c’è anche una Commissione formata da Istat, Inps e Inail, oltre ai ministeri della Salute, del Lavoro e dell’Economia, e rappresentanze sindacali, affinché un adeguato studio scientifico porti il migliore risultato, secondo le differenze legate alle aspettative di vita, e sulla base dell’attività lavorativa svolta.
I sindacati, tuttavia, non si ritengono soddisfatti e non esultano. “Non è sufficiente – dichiara Domenico Proietti della Uil – la proposta del governo di bloccare l’età pensionabile.”
Gli altri rappresentanti sono sulla stessa linea, si spera che, finché il tavolo della trattativa è aperto, ci siano ragioni per arrivare ad un accordo più vicino alle esigenze dei lavoratori.
Nel tavolo tecnico in cui si sono confrontati Governo e sindacati, lunedì e martedì, c’erano appunto le questioni irrisolte riguardanti l’aspettativa di vita, la previdenza complementare e il Fis (Fondi d’integrazione salariale).
Questi fondi di solidarietà rimandano al decreto lgs del 14 settembre 2015, n.148, sono disciplinati dagli articoli 26 e seguenti, e sono mezzi di sostegno al reddito qualora si verifichino casi di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa. Interessano lavoratori dipendenti di imprese facenti parte di settori non tutelati dalla normativa in materia d’integrazione salariale.
Vi sono fondi addetti all’erogazione di prestazioni integrative, complementari a quelle pubbliche, nel caso in cui si verifichi la conclusione di un rapporto di lavoro, e per questo sono anche definite ‘prestazioni emergenziali’. I fondi svolgono anche altre funzioni di assistenza in questo ambito.
Nel corso dell’incontro col Governo, i sindacati hanno chiesto d’inserire nella vertenza i punti principali della cosiddetta ‘Fase due’, soprattutto quelli concernenti la pensione dei giovani e delle donne, ma non c’è ancora un’intesa su questi aspetti della trattativa, ci sono state anzi delle riserve al riguardo.
Oggi, 9 novembre, si discuterà ancora tra sindacati e Governo, che ha lanciato la sua proposta in merito, e molti nodi saranno comunque sciolti il 13 novembre prossimo, allorché si terrà il vertice decisivo, al quale parteciperanno il Segretario della Cgil, Cisl e Uil, e rappresentanti dell’esecutivo.
Sarà l’ultima occasione per conoscere i reali intenti del Governo, intanto, per ora, c’è stata un’intesa sullo stop all’aumento a 67 anni dell’età pensionabile a partire dal 2019, per 15 categorie di lavori gravosi, ed è già una conquista, si prende atto che le scelte del governo (sulla base di riforme già approvate), non sono rigide ma flessibili, a fare la differenza, come sempre, è il confronto e il dialogo.

DOMANI INAUGURAZIONE DEL LOUVRE DI ABU DHABI, PRESENTE EMMANUEL MACRON

DI VIRGINIA MURRU
 Immaginare un altro Louvre non è semplicissimo, anche per chi sa viaggiare con il pensiero ad alta velocità, ma constatare che un museo ‘gemello’ della grande parata parigina, è sorto ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi, lascia veramente poco spazio alle parole, figuriamoci alla retorica.
E’ stato realizzato davvero, però, se ne parla ormai da anni. L’enorme edificio si apre a perdita d’occhio sull’isola di Saadyat, già definita l’isola della Cultura, poiché si ergono altre strutture espositive, edifici dedicati esclusivamente all’Arte e alla Cultura.
Il “Louvre di Abu Dhabi”, prima di essere progettato e realizzato, ha percorso vie diplomatiche e politiche, che hanno portato, nel 2007, alla firma di un accordo tra Francia ed Emirati. L’accordo avrà la durata di 30 anni, e non è a titolo di concessione, vale un miliardo di euro. Vi sono poi clausole vincolanti per gli Emirati: la Francia ha chiesto che siano le autorità museali francesi a gestire il nuovo museo, a controllare le competenze del personale che sarà impiegato, l’assistenza e soprattutto le opere in prestito provenienti da 13 strutture espositive francesi.
Sono state già spedite, alla volta della nuova ‘succursale’ del Louvre, 300 opere (in prestito), mentre circa 600 faranno parte della collezione permanente. Intanto alcune centinaia sono già pronte per l’inaugurazione ufficiale, che si terrà l’11 novembre prossimo, ma sono previsti eventi già a partire dall’8, ossia domani, con presenze di primo piano del panorama politico dei due paesi.
Ci sarà il presidente Emmanuel Macron, in rappresentanza della Francia, e Mohammed Ben Zayed, principe ereditario degli Emirati e ministro della Difesa. Gli eventi di carattere artistico, musicale e culturale andranno avanti fino al 14 novembre.
Il Louvre di Abu Dhabi sorprende per la struttura imponente, spettacolare, e viene dall’estro di un architetto francese, Jean Nouvel, che ha inteso coniugare Arte con Arte, anche attraverso la bellezza esterna del faraonico edificio, la cui cupola ha una dimensione di 180 metri, e dall’alto si presenta come un’isola fluttuante, che emana luce propria e diventa un richiamo irresistibile.
Non un miraggio, ma un complesso architettonico che viene da un design esclusivo, studiato per erigere un ponte tra culture diverse, tra atmosfere surreali che rendono l’Arte Universale. Il rimando è anche alla cultura araba, oltre a quella Occidentale, e il Mediterraneo diventa pertanto un semplice spartiacque, qual è sempre stato del resto, tra culture lontane. Nella grande cupola sono state incastonate 8 mila stelle in metallo, e non a caso, perché riflettono naturalmente la luce e creano effetti policromi veramente suggestivi.
Il Louvre d’Oriente non viene dalla lampada magica di Aladino, ha un costo vicino ad 1 miliardo di euro, ed è frutto della lungimiranza dei paesi arabi, ai quali tanto dobbiamo in termini di Scienza e Cultura. La vocazione all’Arte di questi paesi non si è smarrita nei secoli, forse per ragioni storiche e sociali ha subito una stasi, dovuta in gran parte alla mancanza di mezzi finanziari, ma a partire dal novecento la riscossa del petrolio ha rimesso in moto il desiderio di rivolgere alla Cultura le dovute attenzioni.
Il Museo esporrà, anche con il contributo del Louvre di Parigi (300 opere), importanti opere d’arte e reperti, si andrà dai prestigiosi ‘pezzi’ preistorici alle opere d’arte contemporanea, che abbracciano la Cultura e la Civiltà Umana nelle sue fasi più essenziali di progresso e di crescita.
Nel perimetro espositivo del Museo, che sembra galleggiare sull’acqua, ci sono 23 gallerie permanenti, dove, come si è accennato, il percorso artistico delle opere rifletterà l’evoluzione della civiltà umana, dalle sue origini a quella contemporanea, anche se lo spazio che occuperà quest’ultima sarà solo il 5% del totale.
Troveranno posto pezzi di grande pregio nell’esposizione, come un Corano risalente al VI secolo, un Testo della Torah (ebraica), giunto dallo Yemen, e una Bibbia gotica. E tantissimi altri; saranno in tutto 600 quelli provenienti dalla cultura dei paesi arabi.
L’assetto architettonico esterno è di ispirazione araba, richiama le medine, e comprende 55 edifici e una promenade sul mare.
L’isola di Saadiyat accoglie anche altre strutture destinate all’Arte e alla Cultura, alcune già inaugurate e altre da ultimare. Il Guggnheim, per esempio, è un progetto firmato da Frank Gehry, mentre lo Zayed National Museum porta quella di Norman Foster.
La lungimiranza e il desiderio di spezzare le barriere culturali, che non di rado creano urti nei rapporti tra i popoli, viene dal ministro del Turismo e della Cultura di Abu Dhabi, Mohamed Khalifa Al Moubarak, aperto alle diversità e al rispetto di ogni cultura, nella stessa linea di vedute del principe ereditario dell’Arabia Saudita, Mohammed Bin Salman.
Potrebbe essere considerato normale per noi dell’Occidente, non lo è per queste civiltà chiuse, che stentano a trovare la chiave di un’alleanza basata sulla tolleranza, soprattutto in ambito religioso.
Un vecchio adagio dice che ‘la Cultura è l’unico bene dell’Umanità che diviso tra tutti, anziché diminuire aumenta sempre di più’: è forse questa consapevolezza che manca in piena epoca di globalizzazione. Ci sono tuttavia queste persone illuminate nei regni dell’Islam a fare la differenza, le quali stanno portando avanti riforme e iniziative che cambieranno i ‘connotati’ del nostro tempo. Non si torna indietro: si tratta delle prime pietre miliari di un cambiamento storico già in atto.
E’ il miracolo del dio petrolio e del dio denaro? Certamente stanno dando una buona mano. Le grandi, colossali opere sorte in Arabia e negli Emirati, e non solo, vengono dalla miniera di risorse che il petrolio ha contribuito a creare. Non sarebbero state altrimenti possibili. Inutile negarlo.
Come sostiene l’ex ministro della Cultura francese, Jack Lang, in primo piano nella supervisione del Louvre di Abu Dhabi:
“il Museo degli Emirati è più Universale di quello di Parigi, paradossalmente, perché è il simbolo, il trait-d’union di culture diverse”.
Nel complesso della struttura sono previste mostre anche per il mondo dell’infanzia, vi sono sale per ogni esigenza, per meeting di carattere culturale, convegni; e poi ristoranti e ogni locale commerciale utile ai visitatori.
L’atrio del Louvre di Abu Dhabi è una direzione di segnali che indicano ai visitatori del museo i temi delle gallerie, le quali sono sia tematiche che cronologiche, quanto a datazione. Si prevedono infatti opere risalenti alla civiltà dei primi imperi del Mediterraneo, e non solo. Ci sarà un’esposizione a tema religioso di carattere universale, per mantenere vivo l’impegno verso il rispetto di ogni cultura e religione.
Trattandosi di una grande struttura a stretto contatto con il mare, l’acqua è protagonista del progetto, e la si scorge alla base di questa città museo, dove è stata sfruttata per la realizzazione di piscine e altri parchi acquatici che hanno lo scopo d’intrattenere i visitatori.
L’architettura si porta dietro anni di studi, anche sul versante dei consumi, in primo piano nella stesura del progetto. Alla fine si è riusciti ad adeguare l’esigenza dei più bassi consumi energetici alle prerogative estetiche degli edifici, che sono stati resi luminosissimi attraverso la naturale infiltrazione di luce, che arriva ovunque, consentendo l’energy free per lunghe ore durante le visite.
La cupola è stata studiata e realizzata secondo le tecniche più moderne, con l’uso di materiali idonei a mantenere costanti le temperature, evitando le radiazioni solari e dunque proteggendo gli interni. Ma anche i materiali di rivestimento utilizzati per i volumi dell’edificio sono frutto di ricerche avanzate, che consentono la creazione di un microclima controllato, non dannoso per i visitatori e tanto meno per le opere esposte.

ALITALIA. I CONTATTI CON IL FONDO CERBERUS SI FANNO PIU’ STRETTI

DI VIRGINIA MURRU

L’interesse dei tre Commissari straordinari di Alitalia nei confronti del fondo di private equity Cerberus, va al di là delle offerte vincolanti presentate entro il 16 ottobre scorso. Del resto non hanno mai fatto mistero dell’inclinazione a favorire le proposte che implicassero la vendita integrale dell’ex compagnia di bandiera italiana, e non quella separata degli asset aviation e handling. Com’è noto, gli acquirenti extra europei, non potranno superare la quota del 49%, secondo una legge dell’Ue.

Luigi Gubitosi, nel ruolo di coordinatore dei commissari, è in partenza alla volta di New York con l’obiettivo d’incontrare il management del fondo Cerberus; prima però sarà presente ad Atlanta per il meeting annuale con Sky Team, dell’alleanza aerea. Rinegoziare la joint venture transatlantica, della quale fanno parte Delta e Air France-Klm, è importante, in quanto l’accordo stabilisce dei limiti per le rotte che dall’Europa raggiungono il Nord Atlantico.

Alitalia mira ad incrementare i voli verso gli Stati Uniti per la prossima stagione estiva, ma prima occorre trovare un accordo con i partner.
L’incontro a New York tra il Fondo Usa Cerberus Capital Management e Luigi Gubitosi, servirà ad approfondire i termini di un’eventuale trattativa. La volontà del fondo di rilevare l’intera compagnia sta facendo passare in secondo piano l’offerta, pure allettante, di Lufthansa, interessata all’aviation, che intenderebbe imporre comunque delle precise condizioni, in primis gli esuberi, e la ‘subalternità’ degli aeroporti di Milano. Interessata allo stesso asset ‘aviation’, c’è anche Easyjet. Di certo c’è che Cerberus conferma l’interesse verso Alitalia, e mira alla cloche di comando.

Come si sa, Cerberus figura tra i più rilevanti investitori speculativi di Wall Street. Attualmente, il Fondo americano, gestisce un patrimonio intorno ai 30 mld di dollari, dietro ai quali ci sono 150 manager espertissimi (nonché scaltri). Sono specializzati in cure drastiche di imprese che rischiano il default, si occupano del settore immobiliare, e di Npl, ossia di sofferenze bancarie. Si sono occupati anche della ristrutturazione di Air Canada. Cerberus, come il cane della mitologia, ha un fiuto infallibile, e Alitalia si presenta un buon boccone in questo momento.

In Italia è interessato ai prestiti in sofferenza, come si è accennato, attività in cui certamente è un’eccellenza. Ambisce, sempre in Italia, a rilevare i 10,3 mld di mutui e rate non riscosse delle Rev, le 4 banche italiane in default (Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Cariferrara), finite in amministrazione straordinaria. Ma avendo vista acuta ha già puntato la mira verso le sofferenze di Intesa Sanpaolo, Carige e Bpm.

Dopo la manifestazione d’interesse presentata nei confronti della compagnia italiana, Cerberus è rimasta a osservare ‘da lontano’, in una sorta di stand by, dato che, secondo le dichiarazioni dei vertici, ‘le condizioni erano troppo restrittive’.
L’interesse dei Commissari verso il fondo americano, potrebbe celare l’intento strategico di rilanciare il tavolo negoziale anche nei confronti delle compagnie che hanno presentato un’offerta vincolante, come le due maggiori interessate al lotto aviation, ossia Lufthansa e Easy-Jet.

Tirando di più la corda si potrebbero strappare condizioni più vantaggiose qualora il confronto riprendesse con entrambe. Intanto non c’è tanta fretta, fino al 30 aprile tante cose potrebbero cambiare in questi scenari che si stanno delineando sul versante della cessione di Alitalia, i negoziati sono aperti comunque, il governo ha autorizzato ancora diversi mesi per le trattative, affinché non si decida senza valutare al meglio le condizioni di vendita, questa volta.

Gli interventi volti a ridurre al minimo i costi hanno espresso buoni risultati, e infatti in cassa ci sono ancora 850 milioni, ben poco si è attinto dal prestito di 600 milioni + 300 (prestito ponte), concesso dal governo, da restituire entro settembre del prossimo anno.

Intanto, il Chief Communications Officer di Cerberus, Jason Ghassemi, ha confidato al Sole 24 Ore:

“Noi puntiamo a svolgere un ruolo costruttivo, collaborando col governo italiano e i sindacati, affinché si creino le premesse per un’intesa a lungo termine, affinché Alitalia resti integra, più competitiva e indipendente. Noi siamo convinti che debba restare la compagnia aerea nazionale italiana.
L’obiettivo di Cerberus è il controllo della compagnia italiana, non mira a partecipazioni di minoranza.”

IL SINDACALISTA È UN CRIMINALE DA ARRESTARE

DI PIERLUIGI PENNATI

Perlomeno questa sembra la tesi che ha portato l’azienda GLS di Piacenza a denunciare tre sindacalisti del sindacato di base USB per i reati di cui agli artt. 56, 110, 629 del Codice Penale, vale a dire tentativo di estorsione in concorso tra di loro, come si legge nell’invito ad apparire per un interrogatorio della Procura delle Repubblica, “al fine di conseguire un ingiusto profitto patrimoniale, quali rappresentanti della sigla sindacale USB, nonostante fossero in corso trattative con funzionari della società General Logistic System Entrerprise S.r.l. aventi oggetto richieste di assunzione di personale precedentemente dipendente della Cooperativa Falco, mettevano in atto azioni di sciopero incidenti sulla regolare attività lavorativa non riuscendo comunque nel loro intento per la resistenza della società”.

L’azienda ed il luogo sono gli stessi dove un anno fa veniva ucciso, schiacciato da un TIR, durante un picchetto l’attivista sindacale Abd El Salam, la vertenza ancora una volta per la stabilizzazione di lavoratori precari che attraverso il sistema dei subappalti vengono vessati, sfruttati e sottopagati per contenere i costi senza la minima considerazione per la sicurezza e la dignità dei lavoratori, costretti ad accettare condizioni sempre più difficili per poter continuare a lavorare.

Una vertenza come ormai ce ne sono tante in Italia e tutte con le stesse ragioni di fondo: la lotta alla precarietà ed alla negazione dei diritti della persona sul posto di lavoro, situazione ormai diventata insopportabile in molti ambienti, soprattutto quelli della logistica e dei lavori dove la componente umana è la parte principale, come quelli di fatica e manutenzione.

Per contrastare la situazione e sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema della dignità e dei diritti del  lavoro negati, il sindacato USB ha proclamato da tempo uno sciopero generale per venerdì 10 novembre ed una manifestazione nazionale per sabato 11 novembre, ma questo atto di denuncia di un’azienda nei confronti di sindacalisti scesi in campo non per interesse personale, ma per difendere i diritti degli iscritti è davvero sconcertante ed inaudito.

In una nazione moderna e civile, un simile atto dovrebbe essere deriso ed abbandonato tramite archiviazione, al contrario una magistratura sempre zelante in queste occasioni prende molto sul serio una denuncia di estorsione per aver organizzato uno sciopero ed un picchetto che avrebbero inciso “sulla regolare attività lavorativa” dell’azienda, elemento che pare oggi più importante e considerato persino della vita umana.

Contro l’azienda che vessa e sfrutta i lavoratori nulla.

Già, nulla si può fare legalmente contro chi, per il profitto, comprime diritti e libertà delle persone abusando dello stato di necessità ormai generale, mentre, al contrario, chi tenta di difendere i diritti negati della persona e del lavoro è oggi diventato un criminale da perseguire.

I tre sindacalisti, M.R., R.Z. e I.A., saranno quindi sentiti il 15 novembre da un magistrato che spero voglia non solo archiviare il procedimento nei confronti dei funzionari, ma avviare una procedura di verifica per il comportamento di una azienda che, facendo perdere tempo e denaro all’apparato dello stato, denuncia senza ragione e fondamento apparente tre persone la cui grave colpa è solo quella di cercare di ripristinare un equilibrio di civiltà nel nostro paese.

Se lo sciopero non incidesse “sulla regolare attività lavorativa” delle aziende non sarebbe uno sciopero e se oggi scioperare non è più nemmeno un diritto, come indicato nell’articolo 40 della nostra costituzione, perché “le leggi che lo regolamentano” sono diventate così restrittive da impedirne l’esercizio, dovremmo almeno combattere affinché perlomeno non diventi un reato, come sembra essere nelle intenzioni della GLS di Piacenza ed al vaglio delle indagini dei magistrati.

Forza M.R., R.Z. e I.A., una vostra incriminazione sarebbe davvero uno scandalo e spero sarete scagionati in fretta: confido nella giustizia quando sa essere umana, di una giustizia disumana non so che farmene.

UNA SCELTA DI PRUDENZA LA NOMINA DI JEROME POWELL AL TIMONE DELLA FED

DI VIRGINIA MURRU
La Federal Reserve System ha un nuovo Governatore, Jerome Powell, fresco di nomina (2 novembre), in seguito all’investitura da parte di del Presidente Donald Trump, ora si attende la conferma del Senato.
Era nell’aria che Janet Yellen sarebbe finita fuori scacchiera, l’ha spuntata Powell, che ha sostenuto la sua politica monetaria e la prudenza nella gestione dei tassi, contrariamente ai criteri dinamici dell’altro candidato, John Taylor, che ha sempre ritenuto troppo ‘legata’ la monetary policy della Fed.
Taylor è un accademico molto noto negli ambienti finanziari di tutto il mondo, ma non ha offerto garanzie e idoneità che corrispondessero alle esigenze del momento.
Il nuovo Presidente, già nominato alla Banca Centrale Americana da Obama nel 2012, sostituirà dunque Janet Yellen il prossimo febbraio, data di scadenza del mandato. Trump gli ha dato la fiducia perché lo ritiene ‘intelligente e talentuoso’, in grado di guidare la Fed e le sfide che attendono l’economia Usa nei prossimi anni.
Vicino alle scelte della Yellen, certamente, ma Powell non concorda  sulla questione della ‘deregulation’ finanziaria. Janet Yellen ha sempre messo le mani avanti, sostenendo che la regolamentazione imposta da Barak Obama, tramite le riforme di Wall Street nel 2010, è una garanzia per la stabilità.
L’abolizione delle riforme era però uno dei bersagli di Donald Trump, e infatti alcuni mesi fa, molte delle restrizioni volute dall’ex presidente Usa, sono state eliminate. Ne consegue che soprattutto i grandi istituti di credito saranno meno sottoposti a controlli, avranno così meno pastoie ai piedi. Bank of America, infatti, insieme a Goldman Sachs, a giugno scorso avevano esultato, e non erano le sole. Era in atto una grande crociata dell’alta finanza per agire più liberamente nei loro circuiti.
Yellen ha espresso in più circostanze il dissenso sulla deregulation – che ritiene poco meno di una deriva – anche nel corso del meeting dei banchieri centrali che si è svolto alcuni mesi fa a Jackson Hole, in Wyoming:
“non c’è abbastanza solidità per andare incontro al rischio, non si può essere certi, né escludere altre crisi, in ogni caso le emergenze alle quali ci ha obbligati l’ultima, quella del 2008, dovrebbe essere sufficiente per indurci alla prudenza e alla riflessione, la regolamentazione non si dovrebbe sfiorare..”
Ma negli intendimenti del presidente Usa c’è una Wall Street con poche regole.
Il contrario della politica di regolamentazione in atto in Cina, dove invece, memori delle pessime esperienze nei mercati lo scorso anno, l’establishment sta mettendo in atto una serie di riforme proprio per regolamentarli, insieme al comparto bancario. Anche Mario Draghi, in sintonia con la Yellen, ha messo in guardia Donald Trump dalla deregulation.
Powell è più aperto su alcune misure di controllo, ritiene inoltre che sia venuto il momento di esercitare meno pressioni sugli stress test ai quali la Fed sottopone le banche regolarmente.
Tra le dichiarazioni di Donald Trump, in merito al cambio di guardia alla Banca Centrale, ci sono anche i dovuti riconoscimenti per l’attività svolta dal Presidente uscente:
“Janet Yellen ha svolto un fantastico ruolo all’interno della Fed, i risultati le danno ragione, dato che gli Usa hanno superato la crisi finanziaria, e fatto notevoli passi avanti. C’è più solidità, anche rispetto agli anni che hanno preceduto la grande crisi del 2008.”
Powell è considerato un emblema della continuità, un investimento sul futuro, una sorta di ‘colomba’, in contrapposizione a John Taylor, visto come un falco, per via delle sue strategie finanziarie, non propriamente rivolte alla ponderazione.
Il nuovo inquilino della Fed, originario di Washington, con laurea in Scienze Politiche e in Giurisprudenza, milita nelle fila dei repubblicani moderati, ha 64 anni, e, come si è detto, è già nel board della Fed.
Non ha un dottorato di ricerca in Economia, e questo è forse il solo punto a suo sfavore, visto che gli altri che lo hanno preceduto avevano questo percorso di studi nel loro background. Il nuovo Governatore ha comunque ottime credenziali alle spalle, oltre all’attività di legale, ha fatto parte del gruppo Carlyle (dal 1997 al 2005), uno dei più importanti Fondi d’investimento a livello mondiale. Ha svolto funzioni di sottosegretario al Tesoro durante il mandato di Bush (padre).
E’ in fin dei conti un moderato, e di questi tempi sembra ce ne sia un gran bisogno, i mercati ieri hanno apprezzato la nomina, e ‘ringraziato’ con indici positivi un po’ ovunque.
La riconferma di Powell da parte del Senato non sarà un’incognita, dato che la candidatura era piuttosto gradita ai suoi membri.
Powell rappresenta la continuità della politica monetaria della Federal Reserve, con lui al timone si proseguirà con gli interventi di rialzo (graduale) dei tassi, senza trascurare la riduzione del bilancio, già in corso dal mese di ottobre.

FRATELLI D’ITALIA IN AFFITTO A 13 EURO AL MESE

DI PIERLUIGI PENNATI

«La concessione è scaduta dal 1972, non pagavano l’affitto», questo quanto annunciato su Facebook da Virginia Raggi dopo che, qualche ora prima, verso le 5 del mattino di sabato scorso, i vigili urbani avevano cambiato la serratura e messo i sigilli alla storica sede del Movimento sociale di Colle Oppio.

Il locale, secondo il comune occupato oggi abusivamente da Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, sarebbe angusto e poco più di un magazzino senza finestre, più un luogo simbolico per il movimento che una vera sede e per il quale, nonostante il contratto scaduto da 45 anni, veniva comunque autonomamente versato nelle casse comunali un canone mensile di 13 euro al mese.

In una corrispondenza di qualche tempo fa con il comune di Roma, si stimava in 990 euro la cifra idonea per la sottoscrizione di un nuovo contratto, ma Fratelli d’Italia, facendo notare la situazione di degrado dell’immobile, l’aveva contestata proponendo al suo posto un massimo di 250 euro.

I dirigenti di Fratelli d’Italia Federico Mollicone, Marco Marsilio, Andrea De Priamo e Massimo Milani, che si erano riuniti in protesta davanti alla storica sede del Movimento Sociale dopo la scoperta dei sigilli, hanno esibito i bollettini dei canoni versati e lamentato la mancata risposta del Comune, per loro non sarebbe un caso se la Raggi «tra tutte le occupazioni presenti a Roma, proprio qualche giorno prima delle elezioni di Ostia, dove la sua candidata sta perdendo, manda i vigili urbani nella sede di Fratelli d’Italia. Avrebbe potuto farlo tre mesi prima o tre mesi dopo, invece ha scelto il periodo elettorale».

«Denunciamo Virginia Raggi per diffamazione e abuso di ufficio. Se abbiamo resistito alle bombe e alle Brigate rosse, resisteremo anche a questi cialtroni», hanno affermato, ma, su Facebook, Rosalba Castiglione, assessore al Bilancio M5S, difende il provvedimento: «Siamo determinati ad andare avanti per porre fine allo scempio gestionale di cui il patrimonio immobiliare romano è stato vittima. Una situazione incancrenita che, come questo caso testimonia, affonda le sue radici anche in  tempi altro che recenti. La strada è lunga, ma siamo decisi ad andare fino in fondo per ridare dignità e trasparenza all’utilizzo della proprietà pubblica dei cittadini romani».

Anche Giorgia Meloni usa Facebook per rispondere e pensando ad una manovra di propaganda della sindaca di Roma, scrive: «Chi, a differenza di Virginia Raggi, conosce Roma e il parco del Colle Oppio sa bene che quei locali sono dei semplici ruderi, senza alcuna possibilità di utilizzo a uso commerciale o abitativo e che la presenza della sezione è l’unico argine a un desolante degrado fatto di sporcizia, violenza e criminalità che affligge tutta la zona. Problemi seri e reali come quelli che vive gran parte di Roma e che il Movimento 5 Stelle non è in grado di affrontare».

Anche Fabio Rampelli, capogruppo FdI alla Camera, scende in campo, affermando che questa particolare sede avrebbe una valenza storica cittadina e non solo per la destra, dato che proprio qui si svolse una importante iniziativa anti razzista alla quale partecipò anche monsignor Di Liegro e che a questi luoghi sono legati alcuni dei giovani di destra uccisi negli anni di piombo, come Paolo Di Nella e Stefano Recchioni.

Contro la Raggi parole durissime: «ora gli uomini liberi scendano in campo per fermare il sindaco più cialtrone che abbia mai avuto Roma. Colpire la sede simbolo della destra italiana, a quattro giorni dal voto, è un atto di violenza inqualificabile che meriterebbe l’interdizione per incapacità e malafede. Nessuno lo avrebbe mai fatto, segno evidente che sta alla canna del gas».

Quindi per il comune FdI occuperebbe praticamente in modo clandestino la storica sede da ben 45 anni, mentre per Federico Mollicone, presidente del circolo di FdI-AN Istria e Dalmazia di Colle Oppio, «La sindaca Raggi non sa neppure comunicare con i suoi uffici. La morosità per la locazione dei locali di via Terme di Traiano, una sede strappata all’incuria da un manipolo di esuli giuliano dalmati nel 1946 quando era solo un rudere e sempre rimasta una bandiera per tutta la destra italiana, non esiste e siamo anzi nella fase di sottoscrizione di un nuovo contratto, come richiesto ufficialmente con lettera senza risposta mesi fa».

«Si colpisce la storica sede di Colle oppio», continua, «luogo di aggregazione sociale e culturale che ha visto la presenza di tanti avversari rispettosi e personalità di altissimo profilo, su tutti il compianto direttore della Caritas Monsignor Lui Di Liegro, per colpire FDI AN e Giorgia Meloni, facendo un uso vergognoso e delinquenziale del potere. Si tollerano centinaia di occupazioni illegali da parte dei centri sociali, centinaia di moschee abusive e si colpisce Colle Oppio, la prima sede del MSI in Italia».

Una guerra senza esclusione di colpi, tra clandestini o pseudo tali, dove ad ogni provvedimento si trova una ragione per combattere senza per questo trovare soluzioni comuni e condivise e che valgano per tutti, se non volgiamo avere clandestini è nostro dovere uscire a nostra volta dalla clandestinità, è quindi auspicabile che la vicenda possa concludersi con un provvedimento generale e non con una soluzione “Ad hoc” come spesso accade.

NEOM, PROGETTO FARAONICO, CITTA’ DELLA SFIDA, IL FUTURO DIETRO LA PORTA

DI VIRGINIA MURRU

 

L’Arabia Saudita intende stupire il mondo accingendosi a costruire ‘la città del futuro’, impiegando avanzatissimi livelli di tecnologia, e ovviamente investendo miliardi e miliardi in questo faraonico progetto.

Ma l’aspetto finanziario per gli arabi, si sa, non costituisce un problema, le risorse sono abbondanti, del resto è il paese leader dell’Opec, e produce un terzo dell’oro nero del pianeta, esattamente 7,5 milioni di barili al giorno, dunque primo paese esportatore al mondo.

Per questo non baderanno a spese, pur di realizzare questa autentica meraviglia, che sarà alimentata con energie rinnovabili, sfruttando fonti naturali ed inesauribili: quella solare ed eolica, senza trascurare nulla, neppure la filiera alimentare, per la quale è previsto il meglio nel campo della ricerca. Ma anche uno stile di vita basato sul lusso.

Si direbbe che la ricchezza aguzzi l’ingegno, già si sapeva che muove la creatività, in questo caso è proprio così: solo uno Stato che dispone di mezzi garantiti da fonte sicura, con alti margini di profitto, come il petrolio, può fare simili azzardi. Diventa pertanto più semplice investire in prestigio internazionale e affermare il proprio spazio di potere economico e finanziario.

Gli arabi hanno dimostrato di saper sognare, e lo fanno in grande stile, anche attraverso l’ambizione e l’intraprendenza del principe saudita Mohammed Bin Salman, figlio eletto del re Salman, già designato erede al trono, e attualmente titolare del Ministero della Difesa, considerato per la verità un po’ spregiudicato, soprattutto all’estero.

L’annuncio, da parte del principe Mohammed, dell’ immenso progetto ‘Neom’, ha avuto luogo una settimana fa, il 24 ottobre, nel corso del Forum ‘Future investment initiative’, al quale hanno partecipato politici e uomini d’affari provenienti da 88 paesi del mondo. Una grande risonanza, ma tant’è: doveva fare rumore. Presente anche il ministro dell’Economia italiano, Pier Carlo Padoan.

Gli investimenti previsti per la costruzione di questo modernissimo polo industriale, saranno di circa 500 mld di euro, individuato anche il sito, tra il deserto e il Mar Rosso, in una località vicina al Golfo di Aqaba. Tanto per dare l’idea della vastità del territorio che sarà impiegato per questa gigantesca start-up, si può immaginare la più estesa regione italiana, dove ci sarà spazio per l’utilizzo delle più moderne tecniche di costruzione.

I migliori architetti, ingegneri e tecnici, avranno il compito di seguire i più innovativi e avanzati processi in ogni ambito, che prevedono peraltro l’impiego di bio-tecnologie e ogni sorta di servizio automatizzato. Standard di vita irrealizzabili nelle metropoli più moderne, anche a Ryhad, dove i magnati arabi hanno introdotto automazione e robotica ai massimi livelli. Il progetto Neom, è stato ovviamente lanciato dai media arabi ed è rimbalzato ovunque nel mondo, tramite meeting televisivi che hanno riunito i massimi esperti mondiali in campo scientifico-tecnologico-digitale. Sembra roba da fantascienza, ma è un disegno che, nel volgere di pochi anni, si concretizzerà in una città animata, viva, immensa.

Gli arabi, del resto, non amano perdersi in chiacchiere o in retorica, realizzano gli obiettivi non trascurando il fattore tempo. L’area destinata a Neom è sterminata, ossia circa 26mila km quadrati, con sistemi di collegamenti via terra ‘high speed rail’, e non da meno saranno quelli aerei, tutto insomma sarà ai limiti dell’avanguardia.

Il principe saudita mira ad attirare investitori internazionali con ingenti capitali al seguito, perché sta spalancando le porte al futuro, sta precorrendo i tempi: Neom diventerà un cantiere di proporzioni mai viste, un’arena nella quale si misurerà il meglio dell’innovazione. Ma soprattutto la libertà circolerà senza veti sulle sue strade, avrà un volto aperto alla tolleranza religiosa: si realizzeranno strutture per ogni credo.
Un’autentica sfida, un Islam in versione avveniristica che nessuno avrebbe mai creduto possibile. Il miracolo del dio denaro? Forse, anzi quasi certamente sì.

Ma Mohammed Bin Salman ha solo 31 anni, già di per sé rappresenta la staffetta generazionale che non potrà ignorare le istanze di un mondo globalizzato, non solo nel versante commerciale, ma anche in quello culturale.

Neom sarà una città all’avanguardia in ogni aspetto della vita sociale, il principe Mohammed sottolinea che il progetto è davvero proiettato nel futuro, dove il progresso che rifletterà non sarà solamente tecnologico, ma anche sociale, perché è rivolto ad una società ‘emancipata’, in grado di gestire se stessa, e dunque pronta a confrontarsi con le più avanzate dell’Occidente.

Il principe, infatti, ha già rivolto la sua attenzione alla società dell’Arabia Saudita, alle donne in particolare, dimostrando che è possibile andare oltre il radicalismo dell’Islam, e cominciare ad allontanarsi dal rigore che impone in termini di diritti umani. Un segnale eloquente, un chiaro tentativo di modernizzare proprio sul piano sociale la nazione araba. E dopo la concessione della libertà di guida alle donne, ora arriva il permesso di frequentare i luoghi dello sport, come gli stadi, la libertà di organizzare concerti.. Una rivoluzione silenziosa?

Cose dell’altro mondo per gli arabi.. Domanda: ‘come mai gli ‘Imam’ (Sunniti) non si rivoltano alle ‘follie’ del principe saudita?’ – Risposta: perché la società è pronta per il cambiamento, e non si possono mettere in eterno le catene al denaro.. Solo pochi anni fa, riforme di questo tipo, sarebbero state comunque inconcepibili.

E’ un importantissimo, epocale, processo di cambiamento in atto che il principe intende portare avanti, una rivoluzione quasi silenziosa, che paradossalmente non viene dal popolo, ma per iniziativa di chi lo governa. Una sorta di governo ‘illuminato’, che trasformerà radicalmente l’assetto interno dell’Arabia Saudita, tra i più conservatori Paesi islamici.

Una seconda ‘primavera’ araba, che cambierà volto e immagine della nazione, soprattutto sul piano internazionale. Il giovane principe ha già intuito che, senza rivolgimenti interni, senza il coraggio di voltare pagina, non si può essere veramente credibili. Per questo vuole emancipare la società ed eliminare in modo graduale, i veti che impediscono alle donne l’integrazione: solo con un grado di evoluzione sociale veramente significativa ci si può confrontare.

Neom, la città del futuro, secondo gli intendimenti del principe, avrà una società ‘modello’, dove al progresso più avanzato corrisponderà una società in grado di gestire tutto questo, e l’impiego delle donne in ogni settore, è fondamentale perché si possa definire città moderna. Sarà una zona franca, con l’adozione di particolari franchigie fiscali, crocevia di tre Paesi, tramite un grande ponte che collegherà Neom all’Egitto, e quindi alla Giordania. E non solo, perché diventerà un hub all’avanguardia sul versante economico e finanziario per tre continenti, Africa, Asia, Europa.

Il principe Mohammed Bin Salman potrebbe diventare l’Ataturk dell’Arabia, certamente si preserveranno i principi religiosi più cari all’Islam, ma il cambiamento in atto non si potrà più fermare.

Il principe ereditario è anche al timone di Vision 2030, altro progetto ambizioso a lungo termine, dietro il quale c’è una serie di riforme strutturali, tra gli obiettivi anche lo svincolo per affrancarsi dalla dipendenza dal petrolio.

Si vuole non solo riformare, ma anche rendere più dinamica l’amministrazione statale e l’economia del Paese, passando attraverso la privatizzazione di tanti settori dell’economia, e non solo. Si punta all’inclusione sociale delle donne, ‘allargando’ il mercato del lavoro; l’attenzione ai giovani sarà massima. S’intende incoraggiare gli investimenti e l’iniziativa privata, puntare ad aprire nuovi fronti nell’ambito delle scienze tecnologiche e digitali, della produzione industriale, diversificandola, innovandola anche sul piano digitale: una sorta di Industria A 4 pronta a qualunque sfida.

Il principe ha anche un altro obiettivo colossale, una vera ‘challenge’: ossia quotare in Borsa una parte di Saudi Aramco, ora a capitale pubblico, una società simile alla nostra ‘Eni’ di alcuni decenni fa, che riunisce nella sua gestione i giacimenti più produttivi al mondo. Mohammed Bin Salman conta di realizzare questo obiettivo nel 2018, creando le premesse per l’Ipo più importante mai transitato nei mercati finanziari.
Il principe pensa di quotare il 5% di Aramco, e di realizzare così 100 mld di dollari da investire tramite un fondo sovrano nel faraonico progetto ‘Vision 2030’.

Ci sarà posto solo per gli investitori e società che hanno il meglio da proporre in termini d’innovazione, in tutti i settori. Nel versante italiano, ci sono alcune grandi imprese favorite, come il gruppo Salini Impregilo, che gode già della fiducia di Ryadh da decenni, per avere realizzato importanti impianti idraulici in alcuni centri, e la Linea 3 della Metro.

Il gruppo Salini opererà nei cantieri di Neom in collaborazione con Ansaldo, ma ci sarà anche il prestigioso gruppo Italferr-Ferrovie dello Stato Italiane, società d’ingegneria, che si occuperà della supervisione tecnica della metro. Molti aspetti tuttavia sono ancora da definire, le opportunità non mancheranno, è necessario essere competitivi e pronti a coglierle.