INPS: REDDITO DI CITTADINANZA, AL SUD I PERCETTORI SONO IL 56%

DI VIRGINIA MURRU

 

Secondo gli ultimi dati diffusi dall’Osservatorio Inps, appena pubblicati nel portale dell’Ente previdenziale (con aggiornamento al 7 gennaio), le domande di Reddito e Pensione di Cittadinanza pervenute sono state 1.641.969, di cui 1.097.684, ossia il 67%, sono state accolte – 87.649 risultano ancora in lavorazione, e infine 456.636 sono state respinte o cancellate.  Solo il 6% dei percettori sono extracomunitari.

 Degli 1.097.684 nuclei familiari, la cui richiesta è stata accolta, 56.222 sono decaduti dal diritto per il venire meno dei requisiti, i restanti, ossia 1041.462, sono formati dai percettori di Reddito di Cittadinanza (915.600), con 2.370.938 di persone coinvolte nel diritto; e per 125.862 dai percettori di Pensione di Cittadinanza, al cui seguito le persone coinvolte sono 142.987.

Per quel che concerne l’incidenza nel Sud e isole, il numero dei percettori risulta elevato, in termini percentuali il 56%, da qui rispetto al resto della penisola è pervenuto un boom di richieste, in termini numerici pari a 910.884. Segue il Nord, con 492.945 nuclei che beneficiano della prestazione (pari al 28%), e infine il Centro con 268.140 nuclei, pari al 16%.

L’Inps invita i beneficiari a tenere in regola la documentazione necessaria al fine di garantirsi la prestazione dal prossimo mese di febbraio, provvedendo ad aggiornare l’Isee entro la fine del corrente mese. Per gli interessati che dovessero contravvenire a queste disposizioni, la rata del sussidio dal mese di febbraio potrebbe essere sospesa. Occorre pertanto aggiornarlo entro gennaio, ripresentando la Dichiarazione Sostitutiva Unica (DSU).

Il documento Isee è scaduto al termine dell’anno 2019, è necessario dunque recarsi presso gli uffici dei Caf per i  dovuti aggiornamenti. Da gennaio 2020, per i richiedenti il sussidio (all’Inps), ci saranno gli immancabili controlli nei conti correnti.

Il RdC, come si sa, ha come fine l’inclusione per le fasce di reddito più basso, è stato promosso e portato avanti con decisione dal M5S quale misura di contrasto alla povertà. Introdotto con decreto legge 28 gennaio 2019, ha suscitato contrasti e polemiche in ambito politico, dato che, secondo i più critici, contribuirebbe a disincentivare il mercato del lavoro.

Lo ha sostenuto un recente anche uno studio Svimez (Associazione che si occupa di Studi sulle condizioni economiche del Mezzogiorno). Secondo l’ultimo Rapporto – presentato alla Camera dei deputati a fine 2029 – la misura “disincentiva il beneficiario ad accettare soluzioni di occupazione precarie, occasionali a tempo parziale”. L’analisi Svimez mette in rilievo che, per un’efficace lotta di contrasto alla povertà, è semplicemente necessario potenziare il Reddito d’inclusione.

In definitiva, secondo queste ricerche, il RdC allontanerebbe le persone dal mercato del lavoro, e queste difficoltà risultano più marcate nel Mezzoglorno, dove la mancanza di stimoli per la crescita dell’economia e l’elevato tasso di disoccupazione, nonostante coinvolgano l’intero Paese, qui diventano mali endemici.

GUALTIERI: TAGLIO CUNEO FISCALE SU UN’AMPIA PLATEA DI LAVORATORI DIPENDENTI

DI VIRGINIA MURRU

 

“Meno tasse e più soldi in  busta paga”, questo è lo slogan con il quale il Governo ha iniziato l’attività politica nel nuovo anno, insieme alle misure di contrasto per la lotta all’evasione fiscale costituiranno il binario sul quale scorrerà la politica economica dell’esecutivo, secondo le indicazioni della Legge di Bilancio 2020.

Un punto di partenza ambizioso, che si concretizzerà già a partire dal prossimo luglio, con il Bonus Irpef che salirà fino ad un massimo di 100 euro netti al mese, ed è previsto che andrà a beneficio dei redditi annui complessivi fino ad un tetto di 40mila euro. Si allarga anche la platea dei percettori, che passa da 11,7 milioni di lavoratori a 16.

La Legge di Bilancio 2020 ha stanziato 3 miliardi di euro per la riduzione del cuneo fiscale sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti  “si tratta di risorse – spiega il Ministero dell’Economia – destinate a rideterminare l’attuale Bonus Irpef, ampliandone pertanto l’ammontare e la platea.

L’integrazione dell’attuale Bonus Irpef, con importo di 100 euro mensili, sarà corrisposto totalmente su un reddito inferiore ai 28mila euro; sopra questa soglia decrescerà fino a raggiungere il valore di 80 euro mensili (per i redditi corrispondenti a 35.000 euro).

Oltre questo livello di reddito l’importo relativo al beneficio decresce ancora fino ad azzerarsi allorché si raggiungono i 40mila euro.

Il ministro Roberto Gualtieri è soddisfatto dei risultati raggiunti, anche perché le misure sul taglio del cuneo sono frutto di un’intesa con i sindacati, la cui vertenza si è conclusa in modo positivo.

Così si è espresso al riguardo il ministro dell’Economia:

“E’ stato positivo l’incontro con i sindacati circa l’accordo sul taglio del cuneo fiscale, con il quale migliorare il salario netto che interessa 16 milioni di lavoratori, ossia coloro che percepiscono redditi medio-bassi. Aumentano quindi a 100 euro gli attuali 80 euro netti (il cosiddetto ‘Bonus Renzi’) in busta paga per tutti gli attuali percettori del bonus fiscale.

Tale beneficio sarà esteso ad altri 4,3 milioni di lavoratori dipendenti, che fino ad ora ne erano esclusi. Queste misure fanno parte di una riforma fiscale più ampia, alla quale il Governo sta già lavorando col fine di sostenere lavoro e crescita, in una logica di equità.”

La riduzione del cuneo è quindi solo una premessa per una più generale riforma dell’Irpef. Lo affermano con soddisfazione gli esponenti del Movimento 5S, i quali precisano che, la riforma oggetto di studio da diversi mesi, porterà ad un risparmio ancora più consistente per il cosiddetto ceto medio, e prima ancora per i pensionati e coloro che percepiscono redditi talmente bassi da non essere in grado di versare le imposte.

Viene definita “riforma epocale” dal Movimento, e prenderà avvio nel 2021;  avrà tra i suoi obiettivi la riduzione delle aliquote Irpef da 5 a 3, oltre che ad introdurre il ‘quoziente familiare’, affinché si possa rendere più moderno e snello l’intero sistema fiscale italiano.

Il vero obiettivo da perseguire, secondo il Governo, è quello di migliorare la condizione dei lavoratori in generale, dei pensionati, precari e disoccupati, ossia coloro che sono stati danneggiati dalle politiche di austerità dei precedenti governi.

Dopo l’incontro a Palazzo Chigi,  Maurizio Landini, Segretario della Cgil,  osserva: “per quanto la classe dei lavoratori con queste misure non stia certo per ‘diventare ricca’, la strada da percorrere in definitiva è quella giusta, dato che interessa una platea piuttosto ampia di lavoratori, circa 15/16 milioni, e pertanto sono misure di carattere popolare.” E aggiunge:

“L’incontro con il Governo è stato positivo, è un giorno importante perché dopo tanti anni si vede un provvedimento che va ad aumentare il salario netto di una parte debole di lavoratori dipendenti. E’ per ora un primo buon risultato.”

Più o meno sulla stessa linea di considerazioni la rappresentante della Cisl, Annamaria Furlan:

“Al momento non è una risposta che soddisferà tutti, ma almeno è un passo in avanti importante. Ed è anche frutto delle lotte di milioni di uomini e donne, che abbiamo portato nelle piazze per arrivare a questo risultato, dopo un anno di mobilitazione. Posso dire quindi che si tratta di rivendicazioni parziali, ma positive.”

 

 

 

 

 

 

FIRMATO LO STORICO ACCORDO COMMERCIALE USA-CINA, ORA E’ UFFICIALE

DI VIRGINIA MURRU

 

L’intesa è stata siglata da entrambe le parti, ma ad esultare resta sempre il presidente Trump, il quale ha manifestato il suo entusiasmo affermando che si recherà appena possibile in visita ufficiale in Cina.

C’è poi stata una cerimonia alla Casa Bianca per brindare all’intesa raggiunta sulla cosiddetta fase 1 dei negoziati, con la firma in calce all’accordo, ma i mercati, che hanno fiuto finissimo, non esultano, la seduta si è chiusa oggi con cautela un po’ ovunque, tranne a Wall Street, la piazza finanziaria newyorkese che nei giorni precedenti la firma si è dimostrata circospetta sugli esiti dell’intesa, ha infine reagito con un notevole balzo, segnando nuovi record con Dow Jones e Nasdaq in rialzo. Le principali Borse europee hanno chiuso la seduta in perdita, tranne Londra, in lieve rialzo.

La verità è che nessuno è pronto a fare grandi scommesse su questo accordo, le due super potenze si sorvegliano ‘a vista’, la diffidenza è praticamente palese, al punto che proprio il Segretario al Tesoro americano, Steven Mnuchin, ha dichiarato che le tariffe attuali resteranno in vigore e valide fino al voto che si terrà alla fine dell’anno in corso, e gli Usa sono pronti ad aumentarle qualora non siano rispettati gli impegni dalla controparte cinese.

Eppure è in effetti un accordo storico, che non era mai stato raggiunto in questi termini fino ad oggi,  tuttavia è evidente che i due colossi dell’economia globale non hanno interesse a pungolarsi l’uno con l’altro, considerato che, fino ad ora, le ritorsioni sono state regolari.

E’ in sostanza più di un accordo, perché quella firma significa anche distensione nelle relazioni tra i due Paesi, non un semplice armistizio dopo due anni pieni di guerra a suon di tariffe, ma una pace che al momento sembra si possa realizzare anche su altri fronti, tenendo presente soprattutto che Xi Jinping non ha affatto natura bellicosa, ed è interessato solo alla crescita economica del dragone.

Trump ne fa una questione di propaganda, anticipando la campagna elettorale; considera il traguardo un merito personale, e come tale lo presenterà agli elettori a fine anno. Sul fatto che sia a tutti gli effetti un successo strategico e di diplomazia, che porterà vantaggi economici alle due super potenze, non ci sono dubbi.

EURONICS-GALIMBERTI. IL TRIBUNALE DICHIARA L’INSOLVENZA, A RISCHIO 250 DIPENDENTI

DI VIRGINIA MURRU

 

Il malessere nella catena di punti vendita del gruppo Euronics-Galimberti in Italia non si è rivelato all’improvviso, ovviamente, la crisi è diventata acuta la scorsa estate, diversi quotidiani ne hanno dato ampio resoconto, e il pessimismo continua ad aleggiare, soprattutto tra i 250 dipendenti che ormai manifestano tutto il loro allarme.

Non è stato nemmeno il 2019 l’anno nero che ha prodotto la crisi, in realtà si è trattato di un lento avvio, cominciato nel 2013, con il volume delle vendite che si è ridotto sempre più per lo storico brand Euronics-Galimberti.  I dipendenti ne hanno poi pagato le spese, riducendosi a 250, da 600 che erano fino ad allora. Si fa riferimento ai punti vendita delle regioni Veneto e Lombardia.

A febbraio scorso era scomparso il fondatore della società Galimberti S.p.A –  poi confluita su Euronics International, gruppo che si occupa prevalentemente di elettronca di consumo e grande distribuzione in questo ambito –  Ilario Galimberti (94 anni), ma  l’attività era per ovvie ragioni da tempo sotto il controllo dei figli.

Il gruppo Euronics,  del quale fa parte la società Galimberti, conta 11.500 negozi in una trentina di nazioni, ed ha sede ad Amsterdam. Tutte le società sono indipendenti. Euronics Italia è uno dei maggiori gruppi per quel che concerne la distribuzione, specializzato nella vendita al dettaglio, ha sempre operato principalmente nel mercato degli elettrodomestici e sistemi hi-fi. Ne fanno parte 11 soci, rivenditori presenti un po’ ovunque nel territorio nazionale, con oltre 400 punti vendita.

La situazione è precipitata nella seconda metà dello scorso anno, tanto che in Lombardia e Veneto si pensava che i punti vendita Euronics-Galimberti avrebbero abbassato le serrande. Lo slancio che aveva caratterizzato gli anni ‘80/’90, non c’era più da tempo, certamente il totale accesso al mercato globale e l’eCommerce non hanno contribuito ad incrementare il giro d’affari.

Il tribunale fallimentare di Milano si stava occupando già dalla scorsa estate della storica catena di rivenditori Galimberti (che operano con il marchio Euronics), nelle due regioni del nord, e sui quali gravava ormai una crisi che appariva irreversibile, con un debito di oltre 82 milioni di euro. Sono entrati in campo i sindacati a tutela dei 250 dipendenti, e alla fine della stagione estiva era stato proclamato un presidio davanti al Palazzo di Giustizia di Milano. C’era aria di amministrazione controllata – l’ipotesi meno drammatica – e qualora non vi fossero state le condizioni per gli opportuni risanamenti, si sarebbe dichiarato il fallimento.

Euronics-Galimberti  è ancora in questo limbo, ma le speranze di riportare linfa nel gruppo si affievoliscono sempre più.

Il tribunale fallimentare di Milano ha dichiarato infine l’insolvenza, ma sembra a questo punto solo l’anticamera della bancarotta, non s’intravedono prospettive autentiche per ripartire con determinazione. A rischio  i punti vendita delle due regioni che negli anni migliori erano la locomotiva della Galimberti: Veneto e Lombardia. Ora la questione diventata scottante passa al Mise, sarà il Ministero a decidere se è opportuno andare avanti con l’Amministrazione controllata o chiudere definitivamente lasciando sulla strada 250 lavoratori.

Intanto il giudice Sergio Rossetti ha nominato un Commissario, il quale ha a disposizione 30 giorni per redigere una relazione e spiegare se esistono le condizioni affinché la catena prosegua l’attività, oppure se i presupposti mancano per restare sul mercato.

Secondo Danilo D’Agostino ( Filcams Cgil), qualora si decidesse per il fallimento negli undici punti vendita di Veneto e Lombardia, c’è il rischio che tutti i dipendenti perdano il lavoro. Se invece si optasse per l’esercizio provvisorio, si potrebbe presentare istanza di accesso agli ammortizzatori sociali, dei quali Euronics ha già comunque beneficiato in passato. Per i lavoratori potrebbe esserci ancora una speranza, allorché si mettesse in campo ogni tentativo per risolvere la crisi e trovare soluzioni in grado di rientrare in modo competitivo sul mercato.

 

SI ATTENUA IL CONFLITTO COMMERCIALE SUI DAZI, TREGUA TRA USA E CINA

DI VIRGINIA MURRU

 

Per il momento il clima sembra più disteso tra i due colossi economici globali, Usa e Cina, anche se non tutta la nebbia sembra essersi dissolta, restano ancora incertezze sugli accordi, che la stessa Wall Street con le reazioni tiepide degli ultimi giorni ha voluto rimarcare.

Ma intanto Trump esulta alla sua maniera, la fase 1 degli accordi si ritiene superata in modo soddisfacente nel tavolo dei negoziati, ora si dovrebbe passare alla ‘fase 2’. Per il presidente Usa è un risultato storico, che in qualche modo legittima la sua politica protezionistica sui dazi.

E’ stato decisivo l’accordo sulla tutela del copyright, e proprio dopo aver bypassato questo arido scoglio si dovrebbe passare alla fase due.

E’ stato il vice primo ministro al Commercio cinese, Wang Showen a darne l’annuncio con un comunicato, affermando che il punto di convergenza sul tavolo delle trattative, per quel che riguarda la fase uno c’è stata. Affinità di veduta dunque sulla tutela della proprietà intellettuale, salvaguardia dei diritti delle compagnie estere in territorio cinese, ed espansione in termini di accesso al mercato interno da parte dei prodotti “made in Usa”. Passaggi fondamentali degli accordi sui quali era necessario stabilire una linea comune d’intesa.

Nell’annuncio del vice ministro cinese si menzionano nove punti in realtà, tra i quali la proprietà intellettuale, il trasferimento di prodotti agricoli, alimentari, servizi finanziari e tecnologia – i tassi di cambio, procedura per risoluzione delle controversie, espansione del commercio e clausole finali. Un bel pacchetto che apre una migliore prospettiva nei rapporti tra le due potenze economiche e contribuisce a migliorare l’assetto degli scambi.

Questo ‘pacchetto’ di accordi, dove non sono mancati i compromessi, ha una sua corrispondenza in cifre, da parte della Cina si traduce in impegni di spesa pari a 50 miliardi in termini di beni agricoli Usa e ulteriori iniziative in questo ambito, quali la manifattura e i prodotti energetici Usa.

Da sottolineare che c’è un’imposizione da parte degli Usa sulla Cina  (in questi accordi), ossia le riforme strutturali e cambi nel suo regime nei confronti della proprietà intellettuale, nonché trasferimento di tecnologia, agricoltura, servizi finanziari (ai quali si è fatto cenno sopra) e tassi di cambio.

L’accettazione da parte della Cina comporta la cancellazione nel versante dell’amministrazione Usa dei dazi addizionali, che erano già previsti dalla  metà di dicembre scorso.

La Cina a sua volta dovrà cancellare la linea rossa delle contromisure previste in risposta alle misure Usa sull’import, riguardante una serie di prodotti che erano già finiti nella sua lista nera. Attraverso gli accordi di questi negoziati è stato inoltre prevista la rimozione di dazi entrati a regime negli scambi, che si avvierà gradualmente, ossia del 25% su 250 mld di dollari del Made in Cina, e del 7,5% su 120 mld di import cinese.

L’intesa di massima della prima fase in materia di scambi, è stata raggiunta aggirando l’escalation del conflitto commerciale che ha  condizionato i mercati globali, tenendoli in certo qual modo in stand by, tra minacce di ritorsione e cenni d’intesa, da quando sono cominciate le incursioni sui dazi da parte dell’Amministrazione Trump, ossia circa due anni fa.

Il Governo americano e quello cinese hanno fornito garanzie sul blocco di ulteriori sanzioni, sollevando non poco i mercati e tutte le dinamiche economiche ad essi legati. Restano incertezze, come si è accennato, perché le due super potenze hanno omesso di precisare dettagli importanti su alcuni punti chiave dei negoziati.

Sono previsti ancora degli sviluppi, sulla base degli accordi, ma soprattutto ci sono ancora passaggi da completare sul piano formale, quali la traduzione del testo in entrambe le lingue, la revisione legale.

Tra i dettagli che ancora tengono Wall Street sulle spine, ma in genere tutti i mercati globali, c’è una migliore definizione di ogni dettaglio concernente gli accordi e la relativa rettifica delle parti, che dovrebbe poi portare a siglarli, con firma formale, in fase finale. Così potrà dirsi conclusa davvero la cosiddetta ‘fase uno’, per il momento si tratta veramente di un accordo di massima, dove si è preso atto delle buone intenzioni di entrambe le potenze di convergere su una linea comune.

Trump ha comunque espresso tutto il suo entusiasmo, definendo l’intesa come ‘fenomenale, il migliore accordo che ci sia stato tra i due Paesi’, in quanto Usa e Cina si siano ritrovati in un fronte comune che è comunque ancora poco più che preliminare. Il clima è positiva, rivolto al dialogo, e dunque i negoziati starebbero per passare alla ‘fase due’, un importante successo, anche personale, che lo stesso Trump sottolinea nei suoi Tweet con la consueta enfasi.

 

 

 

IL GAP SI ALLARGA

 

Si allarga sempre  più in Italia il divario tra le classi  abbienti e quelle con redditi minimi, al limite della sussistenza. E’ l’Istituto di Statistica dell’Ue, Eurostat, a mettere in rilievo le differenze che segnano  distanze sempre maggiori tra ricchi e poveri.

Secondo i dati diffusi dall’Ufficio statistiche dell’Unione, il reddito percepito dai cittadini benestanti supera di ben sei volte quello dei meno abbienti. I dati fanno parte di una statistica ufficiale europea, che mette in rapporto diversi gruppi di reddito. Da questa relazione risulta che l’Italia è il peggiore tra  i Paesi europei che presentano un’alta densità demografica in ambito Ue.

Un’esigua fascia di popolazione (il 20%) – rispetto a chi percepisce entrate minime –  può contare su redditi elevati, superiori di sei volte, come si è evidenziato, rispetto a quel 20% di cittadini che vive ai margini in termini di risorse disponibili. Dall’analisi dei dati emerge che i giovani sono quelli più penalizzati, le risorse sulle quali possono contare sono anche più basse di quelle percepite dai pensionati. Gli over 65, infatti, grazie  al reddito della propria pensione, presentano un gap tra i due livelli di reddito (il più elevato e il più basso)  di 4,86. Mentre al di sotto di questa fascia d’età il rapporto sale a 6,55, differenza in aumento rispetto agli anni precedenti il 2018, quando si era a 6,34.

Nel 2018 il gap è diventato più marcato, dato che dal 5,92 è passato al 6,09, lievemente migliore rispetto ai dati emersi dagli studi relativi al 2016, quando la differenza di reddito tra ricchi e poveri era pari a 6,27.

Tra i Paesi europei, l’Italia è quindi è tra i più densamente popolati quello che presenta il rapporto peggiore tra le  ‘categorie’ di reddito prese in esame. La Gran Bretagna  ha un rapporto di 5,95 – la Francia  4,23 – la Germania a 5,07 – la Spagna (tra i peggiori) a 6,03.

Nell’ambito delle diverse aree di appartenenza nel Paese, si è rilevato che a Bolzano la differenza è meno incisiva, ossia vi sarebbe una maggiore uguaglianza per quel che concerne la percezione di reddito, non di sei volte superiore, come la media, ma di quattro volte.

Sul piano dell’analisi regionale (con dati però riguardanti il 2017), l’indice nazionale risulta essere al 5,9; con la Regione Friuli Venezia Giulia che presenta il gap più basso tra il 20% della popolazione con redditi elevati, e il 20% di quella con livelli più bassi: siamo a 4,1. Più o meno sullo stesso trend il Veneto e l’Umbria. Tra le Regioni in cui la forbice si allarga tra i due estremi, ci sono la Sicilia e la Campania, nelle quali l’indice supera il 7,4.

Gli studi si riferiscono, come si è precisato, al 2018 (a parte quello sulle regioni, del 2017), quando non era ancora entrato a regime il reddito di cittadinanza, o ‘Reddito d’inclusione, che certamente porterà delle variazioni nell’indice concernente il reddito della popolazioni meno abbienti sul piano di questi parametri.

Tra i tanti che hanno commentato i risultati degli studi Eurostat sui livelli di reddito tra ricchi e poveri in Italia, c’è quello del presidente del Codacons, Carlo Rienzi, che afferma: “Dati vergognosi, indegni di un Paese civile, che invece dovrebbe operare per ridurre le differenze.”

 

 

 

EUROSTAT. IN ITALIA PIU’ AMPIO IL GAP TRA RICCHI E POVERI

DI VIRGINIA MURRU

 

Si allarga sempre  più in Italia il divario tra le classi  abbienti e quelle con redditi minimi, al limite della sussistenza. E’ l’Istituto di Statistica dell’Ue, Eurostat, a mettere in rilievo le differenze che segnano  distanze sempre maggiori tra ricchi e poveri.

Secondo i dati diffusi dall’Ufficio statistiche dell’Unione, il reddito percepito dai cittadini benestanti supera di ben sei volte quello dei meno abbienti. I dati fanno parte di una statistica ufficiale europea, che mette in rapporto diversi gruppi di reddito. Da questa relazione risulta che l’Italia è il peggiore tra  i Paesi europei che presentano un’alta densità demografica in ambito Ue.

Un’esigua fascia di popolazione (il 20%) – rispetto a chi percepisce entrate minime –  può contare su redditi elevati, superiori di sei volte, come si è evidenziato, rispetto a quel 20% di cittadini che vive ai margini in termini di risorse disponibili. Dall’analisi dei dati emerge che i giovani sono quelli più penalizzati, le risorse sulle quali possono contare sono anche più basse di quelle percepite dai pensionati. Gli over 65, infatti, grazie  al reddito della propria pensione, presentano un gap tra i due livelli di reddito (il più elevato e il più basso)  di 4,86. Mentre al di sotto di questa fascia d’età il rapporto sale a 6,55, differenza in aumento rispetto agli anni precedenti il 2018, quando si era a 6,34.

Nel 2018 il gap è diventato più marcato, dato che dal 5,92 è passato al 6,09, lievemente migliore rispetto ai dati emersi dagli studi relativi al 2016, quando la differenza di reddito tra ricchi e poveri era pari a 6,27.

Tra i Paesi europei, l’Italia è quindi è tra i più densamente popolati quello che presenta il rapporto peggiore tra le  ‘categorie’ di reddito prese in esame. La Gran Bretagna  ha un rapporto di 5,95 – la Francia  4,23 – la Germania a 5,07 – la Spagna (tra i peggiori) a 6,03.

Nell’ambito delle diverse aree di appartenenza nel Paese, si è rilevato che a Bolzano la differenza è meno incisiva, ossia vi sarebbe una maggiore uguaglianza per quel che concerne la percezione di reddito, non di sei volte superiore, come la media, ma di quattro volte.

Sul piano dell’analisi regionale (con dati però riguardanti il 2017), l’indice nazionale risulta essere al 5,9; con la Regione Friuli Venezia Giulia che presenta il gap più basso tra il 20% della popolazione con redditi elevati, e il 20% di quella con livelli più bassi: siamo a 4,1. Più o meno sullo stesso trend il Veneto e l’Umbria. Tra le Regioni in cui la forbice si allarga tra i due estremi, ci sono la Sicilia e la Campania, nelle quali l’indice supera il 7,4.

Gli studi si riferiscono, come si è precisato, al 2018 (a parte quello sulle regioni, del 2017), quando non era ancora entrato a regime il reddito di cittadinanza, o ‘Reddito d’inclusione, che certamente porterà delle variazioni nell’indice concernente il reddito della popolazioni meno abbienti sul piano di questi parametri.

Tra i tanti che hanno commentato i risultati degli studi Eurostat sui livelli di reddito tra ricchi e poveri in Italia, c’è quello del presidente del Codacons, Carlo Rienzi, che afferma: “Dati vergognosi, indegni di un Paese civile, che invece dovrebbe operare per ridurre le differenze.”

 

 

 

MOODY’S PORTA IN POSITIVO IL RATING DI MONTE PASCHI: VOLO IN BORSA

DI VIRGINIA MURRU

 

L’Agenzia ha alzato il rating standalone, rivedendo il giudizio e le prospettive sull’Istituto di credito, portandolo a b3 da ‘caa1’. Si è così inteso sottolineare, secondo le valutazioni di Moody’s, il miglioramento reale nella qualità degli attivi della banca.

Secondo il comunicato pubblicato nel sito di MPS, i rating a lungo termine del debito senior unsecured e dei depositi risultano confermati, il primo a ‘Caa1’, il secondo a B1. Migliorato l’outlook da negativo a positivo.

Il titolo vola in Borsa: in chiusura ha realizzato quasi il 20%.

Il rating del debito subordinato passa a ‘Caa1’ (da Caa2).
Moody’s ha fatto sapere che il passaggio a b3 da caa1 è avvenuto per merito dei progressi riscontrati negli attivi della banca. MPS ha reso noto alla fine del 2019 un loan ratio pro-forma di circa 12,5%, alla fine dell’anno 2019, in calo del 18% rispetto all’anno precedente, dovuto alla cessione di 3,8 mld di sofferenze lorde.

Moody’s precisa che rispetto alla media italiana il rapporto è ancora piuttosto superiore (8%), e anche a quella Ue (3%). E tuttavia i risultati ci sono e il miglioramento è evidente, l’Istituto ha superato l’obiettivo del 12,9% del ratio npl (non performing loan, ossia crediti non esigibili) concordati con la Commissione europea, con 2 anni di anticipo rispetto agli impegni.

Al 30 settembre scorso, spiega l’Agenzia, Monte Paschi ha conseguito un Common Equity Tier 1 (CET1) transitorio, del 14,8%. Un Total Capital ratio transitorio del 16,7%. Coefficienti che risultano superiori ai criteri Srep della vigilanza bancaria per il corrente anno, anche se di fatto la banca ha un margine di capitale limitato, considerata l’esigenza di ridurre ancora il volume dei crediti deteriorati, nonché l’accesso limitato a nuove risorse.
La banca può contare su un’ampia liquidità, che tuttavia sarà impiegata in parte per il rimborso delle sue obbligazioni garantite dallo Stato, e per ridurre nel contempo i finanziamenti BCE.

Moody’s conclude affermando che la corporate governance è fondamentale per MPS, in quanto una governance debole in passato ha già portato a definire strategie inadeguate. Il primo azionista della Banca attualmente è il Mef, che possiede una quota pari al 68%, il che significa che è un istituto nazionalizzato.

Dettaglio importante per gli accordi con l’Unione europea, la quale impone al governo di cedere la propria partecipazione entro il prossimo anno, al fine di dimostrare che gli aiuti che Mps ha ricevuto sono da ritenere temporanei e precauzionali.

Per questa ragione la Banca dovrà proseguire con la riduzione dei prestiti problematici, oltre che migliorare nel versante “del ripristino della redditività a lungo termine della sua rete”. E’ implicito che in seguito alla cessione della partecipazione del governo, ci sarà un cambio anche nella governance, in relazione all’ingresso dei nuovi azionisti.

L’OCCUPAZIONE A NOVEMBRE 2019 REGISTRA UN RECORD STORICO: TASSO A 59,4%

DI VIRGINIA MURRU

 

Un record sicuramente storico, se si fa riferimento allo start delle rilevazioni nel 1977,  gli occupati hanno raggiunto quasi il 60%, esattamente siamo a 59,4% (+0,1 punti percentuali), si rileva un aumento consistente soprattutto nella fascia compresa tra i 25 e i 34 anni, secondo gli ultimi dati diffusi dall’Istat.

Se un dato macro, pure così importante, autorizzasse a sperare in un’inversione di rotta dell’economia italiana, e fosse il segno davvero eloquente di una buona ripartenza, il nuovo anno inizierebbe con i migliori  auspici.

Ma resta comunque una buona premessa per nuovi sviluppi; intanto, in termini di tasso di occupazione risulta il più alto di sempre (dal ’77), un record storico, appunto. Il mese di riferimento di questo record è novembre 2019, i primi positivi riscontri si sono avuti già nel primo semestre dell’anno che si è appena concluso, e ad ottobre il trend ha confermato l’andamento della crescita, al quale è seguito il rilevamento di novembre, con 41 mila occupati in più rispetto al mese precedente (+0,2%).

Secondo l’Istituto Italiano di Statistica questi risultati sono legati ad un aumento della componente femminile (+0,3%), che in termini di numeri corrisponde a +35 mila unità, e allo stabile assetto di quella maschile. Oltre che all’aumento riscontrato nella fascia dei più giovani (tra i 25 e i 34 anni); si rileva un buon movimento anche tra gli ultra cinquantenni, mentre risulta in calo nelle altre fasce d’età.

Sempre secondo i dati Istat, aumentano i dipendenti permanenti, con +67 mila unità; in diminuzione invece i dipendenti a termine (-4 mila) e i lavoratori indipendenti, -22 mila.

Cresce anche la fila delle persone alla ricerca di lavoro, circa 12 mila unità in più nell’ultimo mese. Il trend della disoccupazione deriva da un aumento per gli uomini, con +15 mila unità (+1,2%) – e di una lieve diminuzione per quel che riguarda le donne: -3 mila unità (0,2%). In crescita i disoccupati sotto i 35 anni di età, in lieve diminuzione nella fascia dei 35-49enni, stabili gli ultracinquantenni.

E’ pertanto ancora la disoccupazione giovanile a preoccupare, è ancora il substrato più fragile della popolazione in questo ambito. Secondo le rilevazioni Istat, si registra un’esigua crescita del numero di disoccupati e un calo dell’inattività, la quale si attesta ai minimi storici. Resta in ogni caso stabile il tasso di disoccupazione al 9,7%.

Complessivamente, la stima degli inattivi tra i 15 e i 64 anni, sempre a novembre come mese di riferimento, risulta in calo rispetto al mese precedente (-0,6%), ossia a -72 mila unità, calo che coinvolge entrambe le componenti di genere.

Nel confronto tra il trimestre settembre/novembre e il precedente, si rileva lo stesso trend di crescita per quel che concerne l’occupazione, sia pure più lieve (+0,1%), pari a +18 mila unità. L’aumento riguarda entrambi i sessi.

Aumentano anche i dipendenti a termine e i permanenti, per 62 mila unità complessive. Un calo si registra tra i lavoratori indipendenti (-0,8%). L’andamento mensile, spiega l’Istat, si conferma anche nel trimestre per i soggetti alla ricerca di un lavoro, i quali aumentano dello 0,3%; per gli inattivi tra i 15 e i 64 anni si riscontra una diminuzione dello 0,4%.

In crescita l’occupazione su base annua: +1,2%, ossia +285 mila unità, e riguarda entrambi i generi di tutte le fasce di età, ad eccezione dei 35-49enni. Al netto della componente demografica, precisa l’Istat, la variazione è positiva per tutte le classi di età. Trainano la crescita i dipendenti, con +325 mila nel complesso, soprattutto permanenti, mentre diminuiscono gli indipendenti, con -41 mila unità.

Considerando l’arco dei 12  mesi, alla crescita degli occupati si accompagna un calo dei disoccupati (-7,1%), e gli inattivi tra i 15 e i 64 anni (-1,5%)

 

MOODY’S: RISCHIO SHOCK ECONOMICO E FINANZIARIO GLOBALE DA TENSIONE USA-IRAN

DI VIRGINIA MURRU

 

E’ l’allarme lanciato dall’Agenzia di rating, tra le più accreditate al mondo. L’economia globale, che già nel 2019 ha registrato sintomi di possibile recessione – dato che gli indicatori nell’ultimo trimestre avevano segnalato proprio questo trend, dopo un decennio di crescita – rischia un grave shock in seguito alla situazione di fortissima tensione internazionale che si è creata tra Usa e Iran.

il dialogo tra i governi delle più grandi potenze viaggia in queste ore su fili di alta tensione, l’Iran è un ordigno che esplode d’ira, sete di vendetta e ritorsioni. Preoccupanti le dichiarazioni del Governo circa l’intento di annullare gli accordi sul nucleare, e riprendere la produzione di uranio arricchito. Non c’è spazio né per la mediazione né per una linea di ragione che riporti sotto controllo il clima di forte ostilità che si è instaurato negli ultimi giorni.

Il rischio è fortissimo, l’Iran si sente colpito al cuore, l’uccisione di uno degli uomini più carismatici e rappresentativi del Paese è diventata una questione di Stato, da risolvere con misure di carattere militare al fine di rivendicare l’azione di guerra degli Usa.

L’Iran ha recepito in questi termini il raid che ha colpito il generale Soleimani, come un attacco di guerra, e continua a manifestare lo sdegno incontenibile in piazza, a lanciare fuoco e fiamme contro la politica estera del presidente americano Trump, e la sua ostilità dichiarata nei confronti del Paese islamico sciita. Le minacce provengono da entrambi i ‘fronti’: l’Iran ha già fatto sapere che gli Usa devono prepararsi ad un nuovo ‘Vietnam’, e chiaramente non c’è da dormirci sopra, perché non è viatico che prelude alla pace.

Moody’s, tramite un analista senior, esprime il suo pessimismo riguardo all’escalation di tensioni geopolitiche in Medio Oriente,  affermando che il conflitto che potrebbe derivarne difficilmente sarebbe di breve durata, e da ciò deriverebbe giocoforza una catena d’implicazioni tali da innescare uno shock economico e finanziario su scala globale.

L’analista di Moody’s ha messo poi l’accento sui seri rischi a cui è esposta l’economia del pianeta. In primis c’è in gioco il settore energetico, con il petrolio che diventerebbe un target praticamente certo nell’escalation del conflitto, bersaglio per colpire ancora una volta l’Iran, che già di quarantene se ne intende. Il prezzo del petrolio è dunque tra gli eventi aleatori più temuti, e per la logica degli schemi globali, l’importanza che riveste negli scambi sarà il detonatore più temuto in quest’atmosfera che già sa di emergenza.

Gli esperti di Moody’s mettono in primo piano il settore energetico con il rischio petrolio, al quale inevitabilmente seguirebbe quello bancario, i movimenti turistici e altri settori a questi strettamente legati. Il che, nel volgere del breve periodo, metterebbe a repentaglio i dati macro dell’intera economia globale, con i mercati finanziari che ne registrerebbero le scosse. Il clima d’incertezza  pesa sulle scelte degli investitori, il caos che potrebbe scatenarsi non è certo ideale per l’ottimismo nel sentiment dei mercati, i quali già fibrillano registrando pesanti perdite. Proprio loro, è ben noto, sono i bersagli più vulnerabili.

Un sintomo di queste logiche è la cosiddetta ‘corsa all’oro’, accade sempre quando nel settore finanziario ed economico incombe un’insidia dall’esito incerto, e infatti il prezzo dell’oro è salito ai massimi da sette anni a questa parte, a 1.580 dollari l’oncia (ai massimi da aprile 2013).

Non è del resto l’unico bene rifugio ad essere oggetto di attenzione, i bond sono saliti (il T bond Usa a 10 anni sta viaggiando a 1,770%) e il prezzo del greggio ha raggiunto valori altissimi (70 dollari al barile). C’è la sensazione che queste raffiche di tensione stiano creando la premessa per veri e propri sconvolgimenti, sicuramente assetti pilotati dalla paura di un nuovo, devastante conflitto in Medio Oriente.