STORICO ACCORDO IN GERMANIA: RIDUZIONE DELL’ORARIO DI LAVORO A 28 ORE SETTIMANALI

DI VIRGINIA MURRU
Le perplessità sull’orario di lavoro settimanale sono aumentate in Italia dopo le conquiste dei lavoratori metalmeccanici tedeschi, i quali hanno deciso di portare avanti azioni di mobilitazione sindacale, tramite la IG Metall, per obbligare le industrie del settore metalmeccanico ed elettrico a negoziare sulla riduzione dell’orario di lavoro.
Lo sciopero nel Land tedesco Baden-Wurttemberg ha ottenuto i risultati sperati, pochi giorni fa la IG Metall ha firmato l’accordo per il rinnovo del contratto collettivo. Ma non è un negoziato che riguarderà un solo Land, sarà esteso alla Germania intera, e riguarderà quasi 4 milioni di lavoratori metalmeccanici ed elettrici.
L’organizzazione del lavoro è diversa rispetto a quello italiano, non è previsto un autentico contratto nazionale, ma è certo che i metalmeccanici tedeschi che si sono astenuti dal lavoro le scorse settimane, hanno portato l’orario di lavoro settimanale a 28 ore, senza penalizzazioni salariali.
L’accordo che è stato appena siglato fissa un aumento dei minimi retribuivi del 4,3%, a partire dai prossimi mesi. Fino a marzo ci sarà la copertura garantita da una tantum di 100 euro. Il nuovo trattamento economico prevede invece per il 2019 l’erogazione di due aumenti annui, il primo sarà pari ad un importo di 400 euro per tutti, e un altro sarà del 27% del salario mensile percepito dal lavoratore. L’accordo stabilisce infine che nel 2020 tali concessioni siano integrate nei minimi retributivi.
Ai miglioramenti di carattere salariale si aggiunge l’autodeterminazione dell’orario di lavoro, che entro certi limiti, su base volontaria, verrà incontro alle esigenze della vita personale e familiare del lavoratore, interventi applicati a partire dal prossimo anno. Pertanto, ogni lavoratore, con parziale diminuzione del salario, avrà diritto di ridurre l’orario settimanale fino a 28 ore, per un minimo di 6 mesi e un massimo di 24.
La compensazione in termini di salario (perso) sarà dunque parziale. I lavoratori che usufruiranno dell’autodeterminazione dell’orario di lavoro, per esigenze di carattere familiare, come l’assistenza di persone affette da particolari patologie o anziani, cura dei figli fino ai 14 anni di età, potranno scegliere di rientrare poi nei ritmi dell’orario a tempo pieno. Il sindacato IG Metall, con accordi così importanti, svolte quasi storiche, ha voluto mettere in rilievo, al di sopra di tutto, il miglioramento della qualità della vita.
Le categorie di lavoratori che rientrano nelle attività usuranti, dal 2019 potranno anche scegliere di rifiutare il sussidio supplementare, e optare per 8 giorni di pausa, parzialmente retribuiti (2 pagati dall’azienda).
I lavoratori in Germania sapevano che potevano esigere di più, per ragioni quasi ovvie: l’economia tedesca continua ad andare avanti a vele spiegate, in passato, per favorire la produttività, si è cercato di contenere le concessioni, contribuendo in tal modo alla crescita della produzione industriale, e in generale al benessere dell’intero paese. Sono arrivati i tempi, secondo le battaglie dei sindacati, di chiedere un congruo riscatto. E i vantaggi li hanno ottenuti.
Le lotte per diritti di carattere civile mettono la Germania ai primi posti in Europa nell’organizzazione del lavoro e nella qualità della vita dei lavoratori, condizione che è peraltro un buon indicatore dell’andamento economico di un Paese.
In Italia, con la L.104/92, l’orario di lavoro si è abbassato fino alle 35 ore settimanali (32 ore se si considerano i permessi retribuiti annui, allorché sia provata con documentazione medica l’infermità del familiare). La Germania ha ampliato lo ‘spettro’ in termini di tempo, per favorire l’assistenza di familiari anziani o infermi e bambini, con i controlli e il senso di responsabilità tipico della disciplina tedesca.
Da ricordare che in Germania, da alcuni anni, è in vigore il salario minimo legale, che è di 8,5 euro per un’ora di lavoro, applicata in settori e lavori a basso reddito.
Gli italiani di certo totalizzano un numero di ore lavorative annue superiore a quella dei tedeschi, danesi, olandesi e scandinavi, lo mette in rilievo anche una ricerca del World Economic Forum. Lavorare meno dunque non inciderebbe sulla congiuntura economica, sarebbe retaggio della cultura del passato tale convinzione. Lo afferma il dott. Daniele Archibugi, dell’Istituto di Ricerche sulle Politiche Sociali del Cur:
“In futuro l’economia non sarà basata su questi parametri, a parte le categorie di lavori con bassi livelli salariali, in primo piano sarà il risultato di quello che si realizza.”
Grecia e Messico sarebbero gli Stati più penalizzati in termini di orario e qualità del lavoro, ma sempre secondo le considerazioni di Archibugi, proprio queste economie poco solide devono compensare la scarsa produttività, la mancanza di mezzi finanziari e infrastrutture, con orari ben più pesanti.
Che tra i paesi europei, l’Italia sia il paese in cui si lavora di più e si percepiscano salari più bassi, non è purtroppo un’opinione.
I lavoratori italiani si collocano in posizioni poco lusinghiere, in una delle tante ricerche portate avanti da Istituti specializzati: si trovano nella 14° posizione del ranking, e si va ancora più in fondo alla classifica (17°), allorché si consideri l’effettivo potere d’acquisto del salario.
Sono realtà che sfuggono anche alla logica, dato che, secondo studi portati avanti dall’Office for National Statistics, aumentare il livello dei salari significherebbe incentivare i consumi, e dunque creare un movimento positivo per l’economia, il contrario invece la renderebbe asfittica, fragile e vulnerabile.
E allora ha ragione Briatore, quando si chiede: “ma come si può vivere con 1.300 euro al mese? Inconcepibile!” Inconcepibile per un miliardario, ma non per tutti quei lavoratori che ogni mattina allungano la fila disciplinata dietro i cancelli delle industrie, o delle piccole e medie imprese; per loro è una trincea quotidiana la lotta per fare quadrare i conti. Ed è normale invidiare “vicini di casa” come gli svizzeri, che invece percepiscono gli stipendi più alti in Europa.
La riduzione dell’orario di lavoro non è una conquista ottenuta all’improvviso dai metalmeccanici tedeschi, è un trend che ha registrato miglioramenti notevoli già da decenni, la graduale riduzione dell’orario ha interessato praticamente tutti i paesi europei.
In Germania si è passati da 1.528 ore medie annue (settore privato), a meno di 1.400. In Francia da 1.600 si è passati a 1.480, in Spagna da 1.755 a 1.690. In Italia da un tetto di 1.856 ore medie annue (nel 1995) a 1.725. Dati che confermano la tendenza, e mettono in evidenza che l’Italia, tra i paesi più avanzati del Continente, è quello in cui si lavora di più. Tranne il settore della Pubblica Amministrazione, qui i dati sarebbero in controtendenza, anche se, in termini di produttività, sarebbe discutibile, e suscettibile di considerazioni diverse.
I paesi del nord Europa sono quelli che hanno un tenore di vita migliore in termini di orario lavorativo (e non solo..). In Norvegia e Danimarca si lavora 33 ore a settimana, e già si sta pensando ad una riduzione fino a 30. L’Olanda sembra ancora più privilegiata in questo ambito, dato che si lavora 4 giorni la settimana.
I più stakanovisti sarebbero gli inglesi, con orari che superano anche i nostri: siamo ad un tetto massimo di 48 ore, con una media di 42,3 ore settimanali.
Potremmo consolarci con questi dati, ma il fatto è che l’economia del Regno Unito procede con una marcia ben più solida della nostra.
Una società fiduciaria, in Nuova Zelanda, la “Perpetual Guardian”, si appresta a imitare le conquiste degli Stati più progrediti in termini di riduzione dell’orario di lavoro. E’ in via di sperimentazione per i 200 dipendenti la settimana di 4 giorni, retribuiti però come fossero 5. Il fine è dei più lungimiranti in termini di diritto del lavoro, ossia creare le premesse per un lavoro a misura d’uomo nel XXI secolo.
Nessuno, quando ne ha annunciato la realizzazione, gli prestava molta attenzione, ma Andrew Barnes è un britannico ostinato, che ha fondato la società e intende portare all’avanguardia la qualità del lavoro.
Al momento la nuova ‘piattaforma’ lavorativa sarà avviata come test per un mese e mezzo circa, qualora i risultati fossero quelli sperati, da luglio di quest’anno sarà applicata a tutti gli effetti.

ITALO-NTV. L’ALTA VELOCITA’ PASSA AL FONDO AMERICANO GIP PER 2,5 MLD

DI VIRGINIA MURRU

 

Nei giorni scorsi il fermento si avvertiva forte intorno al Cda di Ntv-Italo, l’offerta del Fondo Usa GIP‘ (Global Infrastructure Partners) era allettante, ma bisognava alzare il tiro e ‘giocare’ al rialzo, così è finita che Italo-Ntv l’ha spuntata con 1.940 miliardi di euro, che in termini di contropartita equivalgono al 100% del capitale sociale. Gli azionisti di Italo hanno approvato all’unanimità l’offerta, dopo sei ore di Consiglio di Amministrazione.

Il Fondo Gip provvederà anche ai 440 milioni di euro di debito della società italiana. L’alta velocità passa quindi agli americani, che in questo campo non sono dei novellini, dato che gestiscono circa 40 miliardi di dollari, ovvero il 3% del Pil del nostro Paese.
All’accordo pattuito sono stati aggiunti 30 milioni per i dividendi degli attuali azionisti, peraltro deciso con delibera dell’Assemblea, ai quali si sommeranno ancora 10 milioni a titolo di spese per l’interruzione del processo di quotazione, visto che è stata ritirata la domanda per l’ingresso in Borsa.
Il tutto ammonta quindi a circa 2 miliardi e mezzo di euro.

Gli attuali azionisti possono reinvestire fino al 25% dei proventi derivanti dalla vendita, alle medesime condizioni di acquisto di Gip. Nella mattinata di oggi c’è stata la riunione del Cda.
La sottoscrizione del contratto di compravendita dipende dall’approvazione dell’Antitrust, ma una clausola prevede che si dia luogo all’esecuzione entro l’11 febbraio.

Dopo il ritiro della domanda di autorizzazione e ammissione alla quotazioni delle azioni di Italo, inoltrata alla Consob, ci si avvia alla conclusione delle trattative e al transito definitivo della società al Fondo americano. Certo sarebbe stato meglio concludere tutto ‘in famiglia’, come hanno fatto Anas e Ferrovie dello Stato Italiane, ma in epoca di globalizzazione non deve proprio lasciare perplessità.

La società non sarà più italiana, anche se ai passeggeri non importerà gran che del passaggio di mano. Ai dipendenti certamente di più visto che sono in lotta per il rinnovo del contratto.

Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, rassicura:
“Si tratta di un ottimo investimento per il Paese, non ci si può sottrarre all’integrazione tra imprese che ‘viaggiano’ ad alta tecnologia”. Anche per il ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, l’operazione conclusa con il Fondo americano è positiva, “significa che la tecnologia italiana anche nell’ambito dei trasporti sa suscitare interesse all’estero.”

ISTAT. CAUTELA NELLA NOTA MENSILE, MINORE INTENSITA’ DI CRESCITA

DI VIRGINIA MURRU

 

La prima nota mensile Istat del 2018 inizia all’insegna della cautela per l’economia italiana:

“In un quadro di forte espansione del commercio mondiale, prosegue l’andamento positivo delle esportazioni Italiane. La produzione del settore manifatturiero registra invece qualche segnale di rallentamento.”

L’Istituto Nazionale di Statistica sottolinea il persistere dell’aumento del potere d’acquisto delle famiglie, ma allo stesso tempo anche la propensione al risparmio, già messa in rilievo negli ultimi comunicati del 2017.

Conclude la nota mensile: “La lieve riduzione dell’indicatore anticipatore, che si mantiene comunque su livelli elevati, delinea uno scenario di minore intensità della crescita economica.”

Si prende atto pertanto del fatto che la crescita rallenta il ritmo, mentre il tasso d’inflazione è stabile. Non si riscontrano flessioni negative, ma è venuto a mancare il regolare ‘sprint’ che ha accompagnato gli ultimi anni. Mentre l’”outlook” dell’Istat si mantiene su livelli di cautela, per quel che concerne i livelli di crescita dell’economia italiana, l’Unione Europea rivede invece al rialzo le stime sul Pil (+1,5%).

Previsioni più ottimistiche rispetto a un anno fa, anche se da Bruxelles non mancano mai di sottolineare che è necessario proseguire sulla strada delle riforme strutturali, poiché proprio da questi interventi è scaturita la crescita riscontrata negli ultimi anni.
Da un’analisi congiunturale delle ‘macro’ aree, emerge in primis il rallentamento del settore manifatturiero, che già alla fine del 2017 aveva presentato qualche segno di arresa, sia pure lieve.

A novembre, infatti, l’indice destagionalizzato della produzione industriale non ha evidenziato variazioni di rilievo. Se si considera la media degli ultimi trimestri 2017, l’ultimo ha rivelato valori in flessione rispetto a quello precedente, -0,2%.
Restano positivi fino a dicembre i dati relativi all’export con i paesi dell’area extra europea, vi sono stati ritmi sostenuti e rilevanti: +8,2% . Per quel che concerne le importazioni il dato è anche migliore +10,8%. Con un saldo complessivo di oltre 39 miliardi di euro. In ripresa in questo scenario anche il settore edilizio, buoni movimenti nell’ambito dei fabbricati residenziali. In diminuzione i prezzi delle abitazioni.

Nell’ultimo trimestre 2017 aumenta, sia pure lievemente, la spesa per consumi delle famiglie, e si conferma la propensione al risparmio, insieme al reddito disponibile, che si presenta con un tasso migliore rispetto al precedente trimestre: +0,7%. Il mercato del lavoro prosegue con la riduzione del tasso di disoccupazione (a dicembre 10,8%), da sottolineare che questi progressi avvengono nell’ambito di una moderazione salariale, lo scorso anno le retribuzioni contrattuali (orarie) sono aumentate dello 0,6% rispetto all’anno precedente.

In questo orizzonte di moderata ripresa, da sottolineare la lieve flessione riguardante la fiducia di consumatori e imprese.
Si distingue invece l’analisi dell’Ocse, che ieri a Parigi ha espresso giudizi lusinghieri:

“Tra i dati delle sette grandi economie, la crescita del reddito reale per individuo è rallentato in modo consistente, in tutti i paesi, tranne che in Italia.”

L’Organismo per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, ha diffuso gli ultimi rilevamenti statistici sulla crescita e il benessere nei paesi facenti parte dell’Organizzazione (che raggruppa i paesi più sviluppati del pianeta ad economia di mercato).

L’Ocse poi conclude: “Il reddito reale per famiglia in Italia (per abitante), è considerevolmente aumentato, in termini percentuali dello 0,8% nel terzo trimestre del 2017, e va a collocarsi più avanti della crescita del Pil reale (sempre per abitante), che è stabile, con +0,4%.

In ambito Ue, sia la Commissione Europea che la BCE, hanno confermato, sulla base dei dati raccolti, la “ripresa ampia e robusta”, che addirittura andrebbe al di là del suo potenziale economico (la previsione per il 2018 in termini di crescita è del 2,3%). Si resta pertanto in un clima di crescita generale, confermato anche dalla tendenza positiva riscontrato nel Pil globale, con stime in rialzo per l’anno in corso, verso un trend prossimo a +4%. Riflesso dell’attività economica globale che prosegue sulla via del consolidamento.

Draghi comunque, a fronte di un clima d’inflazione ancora fragile, ha dichiarato che la politica sui tassi si manterrà su una linea prudenziale stabile, per ampi margini di tempo.
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CRASH A WALL STREET: A TRADIRE ANCHE I TRADER AUTOMATICI

 

DI VIRGINIA MURRU

 

Andava tutto a gonfie vele in ‘quel’ di Wall Street, ma qualcosa nel sistema globale è andato di traverso, e così la norma si ripete: i mercati finanziari implodono facilmente, sono simili a Colossei con tutte le porte aperte, e nell’aria rimbalzano, vicino e lontano, gli esiti di scambi e contrattazioni, le buone performance e i crolli.

La Borsa dunque trema a Wall street, che ieri arriva a perdere oltre il 6% (intorno a 1.600 punti, e chiude poi la seduta con un calo di 1.175 punti); per trovare il segno di un ‘drop’ così collassante bisogna andare indietro di 7 anni. Ma in una sola giornata le perdite sono da record: bruciati in brevissimo tempo i guadagni di oltre un mese. E l’incubo è di nuovo dietro la porta dei mercati finanziari.

Perché è implicito: se Wall Street ha il mal di pancia, qualcosa probabilmente non va nelle piazze europee, e il malessere è più contagioso di una malattia esantematica. E infatti in Europa la sintomatologia si era già rivelata, gli operatori non hanno perso tempo a riflettere sull’eziologia, la diagnosi era evidente.

Poi il ‘contagio’ è arrivato anche in Asia, visto che oggi vanno a picco le Borse di Hong Kong e Tokyo.
Piazza Affari, insieme a tante altre piazze europee (tedesche e svizzere comprese), fa le spese della speculazione al ribasso dei Fondi Hedge, oggi all’avvio c’è stato un crollo, peraltro previsto. Comunque si è verificata una corsa all’acquisto sul Fitse Mib, la forte ventata di vendite sta creando serie difficoltà al paniere di riferimento della Borsa milanese.

L’intervento ieri di Mario Draghi all’Europarlamento è stato rassicurante, perché ha in definitiva promesso stabilità nella politica dei tassi, eppure sembra che i mercati non si sentano abbastanza protetti dalle autorità finanziarie, e schizzano un po’ ovunque.

Secondo il parere di tanti analisti, la resilienza e il benessere generale dei mercati negli ultimi anni di lotta e ripresa dalla grave crisi del 2008, potrebbe essere al termine del ciclo. E’ possibile che la fase rialzista, durata diversi anni, sia in procinto di cedere. Spaventa l’incalzare dell’inflazione e la crescita dei rendimenti dei tassi obbligazionari.

La fine di questa fase la racconta a Bloomberg il Chief Investment Officer di American Century Investiments:

“E’ in atto la conclusione di una fase rialzista, che era in corso da ormai 8 anni, il sell off che si è scatenato potrebbe non essere un evento che si esaurisce nello spazio di pochi giorni.”

Ma a causare il cortocircuito nel mercato americano è stato paradossalmente il timore di un rialzo dei salari e dei prezzi, e di conseguenza un’impennata del tasso d’inflazione. E a seguire la più ovvia profilassi della Fed: la stretta monetaria, già peraltro nell’aria con il nuovo inquilino, Jerome Powell. Il crollo del Dow Jones e Nasdaq non è stato uno scherzo, ma si pensava anche di peggio ieri sera.

Ora mister ‘America first’, dovrà riflettere prima di esibire al mondo intero le credenziali di Wall Street, quale prova del nove della sua efficienza, in termini di interventi di politica economica.
Intanto, la poltrona di Jerome Powell, appena insediatosi alla guida della Federal Reserve, già lampeggia in rosso. Non è un buon inizio, decisamente. Si legge al riguardo nel quotidiano inglese ‘The Guardian’:

“But on the day that new Federal Reserve chair, Jerome Powell, took office, replacing Janet Yellen, that quiet period seemed to be over. (Ma nel giorno in cui Jerome Powell assume l’incarico di nuovo presidente alla Fed, sostituendo Janet Yellen, i tempi della quiete sembra si siano dissolti.”)

Il crollo della Borsa americana è arrivato in seguito ad un altro giorno pesante nei mercati globali, gli investitori hanno reagito alle forti perdite, e traspare la preoccupazione che la Banca Centrale aumenti i tassi d’interesse, in risposta alla pressione inflazionistica che avanza, e che paradossalmente è stata tanto sospirata.

Gli orizzonti dell’economia americana aprono nuove viste, non sono propriamente quelli che si sono presentati a Janet Yellen, il nuovo presidente dovrà fare i conti con gli interventi del Governo, Trump tiene alla riduzione della pressione fiscale, ed è prossimo il varo della riforma che alleggerirà i cittadini di 1.500 miliardi di dollari.

La riforma ha i suoi punti fermi sui fondamentali dell’economia americana, la stabilità dei dati macro che hanno presentato indici in crescita, come quello dell’occupazione, l’accelerazione della produzione industriale, che insieme alle performance di Wall Street fino ad una settimana fa, hanno permesso un’ottima sinergia di risultati che non facevano certo presagire una simile tempesta.

Mai vaccinati al fatto che per i mercati la volatilità è imprevedibile, e che nel volgere di un giorno, mette a soqquadro una serie di elementi disciplinati come soldatini.
Nella Borsa americana lo S&P perde oltre il 4%, anche qui bisogna andare indietro di 7 anni per trovare sprofondamenti di questa portata. Il Nasdaq perde un po’ meno: qui siamo a 3,75%. Per il DJ e S&P si ripiomba nell’aria plumbea della crisi del 2008, ora non ci sono i mutui subprime a fare da detonatore, ma la mina è sempre vagante, toglie la sicurezza conquistata negli ultimi anni sul piano globale con tanta fatica, e ogni sorta di strategia da parte delle Banche Centrali.

Al momento, negli States, non sono sufficienti le garanzie e le promesse solenni del nuovo Governatore, che ha dichiarato d’essere prudente e procederà ad un aumento graduale dei tassi qualora ne ricorresse la circostanza. Escludendo pertanto una politica monetaria che implichi azzardi o strategie che possano mettere al rischio gli equilibri che la Yellen ha tenuto ben saldi.

Ma intanto si dà quasi per certo un rialzo dei tassi a marzo prossimo, in occasione del primo rendiconto di Powell alla guida della Fed. Ma potrebbero essercene 4 di rialzi ‘graduali’, se i dati macro continueranno ad esprimere la tendenza alla crescita. Da qui partono anche i timori e le diffidenze dei mercati azionari, il cui ossigeno è la stabilità.

E tuttavia, nella radice del problema, secondo gli analisti, c’è anche il “flash crash” derivante dai sistemi super tecnologici dei mercati, ovvero i trading automatici. Del resto qualcosa di simile è accaduto all’euro il giorno di Natale, si è parlato di automatismi del trading, di flash crash. Dietro il crollo ci sarebbe un ‘eccesso’ di tecniche digitali, che mettono a rischio l’intero sistema in certe circostanze.

E sembra sia proprio la causa vera del crollo avvenuto ieri. Tali guide automatiche si avvalgono non di rado della volatilità quale parametro per la valutazione del rischio. Quando l’indice è basso il trading automatico corre all’acquisto di titoli, quando è alto avviene il contrario, ossia si vende. Il meccanismo però è contorto, poiché più si vende più aumenta la volatilità, come il cane che si morde la coda.

Chi sa fiutare i mercati e ne conosce profondamente gli umori, può permettersi, ‘scommettendo’ contro la volatilità, affari d’oro.

Intanto le macchine ragionano da macchine, secondo gli input, e siccome si tratta di ‘prodotti’ derivanti dall’ingegno della mente umana, possono compiere disastri. La dimostrazione, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che l’automatismo nella tecnologia deve stare sotto il controllo e la stretta vigilanza della ‘ragione’ umana.

BANCA POPOLARE DI VICENZA, SEQUESTRO PREVENTIVO DI 106 MILIONI DI EURO

DI VIRGINIA MURRU

 

E’ stato il nucleo di polizia economico-finanziaria di Vicenza a disporre ed eseguire il provvedimento di sequestro preventivo del profitto illecito, equivalente all’importo di oltre 106 milioni di euro, a carico della Banca Popolare di Vicenza, che si trova attualmente in stato di liquidazione coatta amministrativa.

L’operazione è avvenuta stamattina, nell’ambito dell’indagine portata avanti dalla Guardia di Finanza, ed è riconducibile, nello specifico, al “reato di ostacolo all’esercizio delle funzioni di vigilanza della Consob” al quale si sarebbe dato corso dopo l’operazione di aumento di capitale deciso dalla Popolare di Vicenza nel 2014.

Le fiamme gialle, agli ordini del comandante provinciale, Col. Crescenzo Sciaraffa, hanno agito in mattinata su autorizzazione della Procura della Repubblica, effettuando quindi il sequestro preventivo, quale confisca diretta per un valore che supera i cento milioni di euro, nel contesto degli accertamenti sulle responsabilità dei vertici della Banca Popolare di Vicenza S.p.A., inchiesta che allo stato attuale è in fase di udienza preliminare.

Le risorse finanziarie disponibili poste sotto sequestro si trovavano su un conto aperto nella filiale di Milano di una banca nazionale, intestato alla BpVi; si tratta di proventi ricollegabili alla pregressa liquidazione di asset facenti parte del patrimonio dell’istituto di credito.

L’ordine di sequestro disposto dal gip del Tribunale di Vicenza, è quello originario che fa riferimento agli articoli 19 e 53 del DL 231 del 2001, e riguarda, come si è accennato, il profitto del reato che ha ostacolato le funzioni di vigilanza svolte dalla Consob (posto in essere in seguito alle operazioni di aumento di capitale dell’istituto nel 2014).

Il provvedimento finora non era andato avanti per ragioni di conflitto di competenza; il primo infatti era stato ordinato dal gip di Vicenza nel maggio dello scorso anno, sempre su richiesta della Procura. In seguito, tuttavia, la Procura stessa legittimò la competenza dell’azione giudiziaria a Milano. Per questo l’operazione delle fiamme gialle è slittata. Il conflitto è poi passato su altro ordine di giudizio alla Cassazione, la quale, in un primo tempo, ad ottobre scorso, sancì che il sequestro non dovesse considerarsi ‘eccessivo’ così come aveva obiettato la Procura.

In ogni caso il provvedimento era stato bloccato, fino al nuovo verdetto della Cassazione, emanato a dicembre 2017, che ha definitivamente sancito la competenza dell’azione giudiziaria a Vicenza, non a Milano.

Non era ipotizzabile che, nell’ambito dell’inchiesta, la BpVi la facesse franca, si è trattato di indebito arricchimento, dovuto all’ostacolo che il management della banca ha esercitato sulle funzioni di vigilanza della Consob, e infatti il colpo puntuale è arrivato. Gli amministratori, dopo il rinvio a giudizio disposto dalla Procura, ora dovranno difendersi davanti al giudice delle indagini preliminari.

RECORD DI PROFITTI PER IL GIGANTE SAMSUNG NEL QUARTO TRIMESTRE 2017

DI VIRGINIA MURRU

 

Il colosso sudcoreano, secondo la pubblicazione dei resoconti finanziari del quarto trimestre 2017, continua a presentare performance da record, i profitti volano al 64,3% su base annua, ossia a 15,2 trilioni di won, che ‘convertiti’ in dollari ammontano a 14,15 miliardi. I risultati sono in linea con le previsioni degli analisti, del resto un “forecast” positivo per il gigante asiatico non era poi così azzardato.

Intanto, secondo una notizia riportata su ‘Finanza on line’, c’è da considerare anche il balzo da tigre nelle quotazioni Samsung Electronics, che spiccano un salto di oltre il 5% a Seul, in seguito all’annuncio della Samsung di uno split azionario 50:1.

Lo split è un frazionamento azionario che non crea alterazioni nella capitalizzazioni in borsa di una società, e pertanto del suo valore nel mercato. Ciò che varia invece, in presenza di uno stock split, è il numero delle azioni disponibili sul mercato e il loro valore unitario.
La Samsung ha spiegato in un comunicato, che la scelta deriva da una ragione ben precisa: ossia l’ostacolo rappresentato per i potenziali investitori, dal prezzo elevato del titolo.

Il 23 marzo prossimo il frazionamento delle azioni sarà sottoposto all’Assemblea dei soci, il valore nominale passerà da 5mila a 100 won, secondo il rapporto indicato. E’ implicito quindi l’aumento del numero di azioni ordinarie, che passeranno da 128 milioni a oltre 6,50 miliardi, e questo, come precisa il comunicato della Samsung, avrà il fine di diffondere con più semplicità il titolo tra gli investitori retail, favorito anche dalla destinazione dei dividendi, che mira a utilizzare il 50% del free cash flow.

Samsung Electronics ha aumentato i suoi profitti netti a 42.180 miliardi di won, a ben +85,6%. Sui semiconduttori i profitti operativi vanno a oltre 35 miliardi nel quarto trimestre. Per quel che concerne i semiconduttori le altissime performance raggiunte dipendono anche dall’alta domanda di chips per server, dispositivi mobili e pc. Invece risultano meno cospicui gli utili derivanti dalla “mobile division”, difficoltà individuate nella promozione della linea ‘smartphone Galaxy’.

Sembra non ci siano riflessi negativi sulle traversie giudiziarie che hanno riguardato Lee Jae-Jong, che fa parte della famiglia dei fondatori del colosso Samsung, e ricopre la carica di Vice presidente (ma di fatto ne è il leader). Un anno fa era stato coinvolto in uno scandalo di corruzione, che ha colpito anche la presidente della Repubblica sudcoreana, Park Geun hye, determinandone l’impeachment. Per tanti l’arresto di Lee Jae-Jong è stata un’occasione per cambiare la corporate governance dei grandi gruppi, permettendo alla legge di applicare il principio che “la Giustizia deve essere uguale per tutti”, anche quando nel mirino finiscono importanti personaggi.

Lee Jae-Jong è stato accusato di avere versato ‘mazzette’ all’amica sciamana dell’ex presidente, Choi Soon-sil, la quale si sarebbe poi prestata a intervenire per indurla a portare avanti una compiacente politica economica che avrebbe favorito la Samsung.

La Corte costituzionale sudcoreana l’aveva infatti deposta il 10 marzo del 2017, in un’atmosfera rovente di scontri politici e agitazioni nella stessa Seul. L’accusa è di corruzione, per avere favorito una certa clientela, sottraendo in modo illecito risorse in termini di milioni di dollari, alle aziende nazionali. Park Geun-hye, che è stata poi arrestata lo scorso anno e tradotta in carcere, è il quarto presidente indagato.

L’ex presidente era rappresentante di una grande dinastia, figlia di Park Chung-hee, che aveva a sua volta ricoperto la carica di presidente per circa 15 anni tra gli anni ’60 e la fine degli anni ’70. Fu poi assassinato dai servizi segreti.

E’ giusto anche ricordare che, sebbene il padre dell’ex presidente sudcoreana, fosse un corrotto dittatore, era stato anche il protagonista del cosiddetto “miracolo” Han, perché aprì nella Corea del Sud le porte al progresso e la trasformò in un Paese avanzato e moderno.

Oggi, alcune multinazionali, come la Samsung, sono il fiore all’occhiello della tecnologia a livello mondiale.

WOLKSVAGEN. TEST SU ESSERI UMANI E ANIMALI, ED E’ DI NUOVO TEMPESTA

 
DI VIRGINIA MURRU
Il settore automobilistico tedesco ancora bersaglio della gogna mediatica, dopo una faticosa ripresa dalle indagini sulle emissioni diesel della Wolksvagen. Il software truffaldino individuato dall’Epa (Environmental Protection Agency) negli Usa alcuni anni fa, è costato parecchio alla Casa automobilistica tedesca, sia in termini di sanzioni che di immagine.
 
I riflettori sulla ‘dieselgate’ si stavano appena spegnendo ma l’allarme a quanto pare si è riacceso , siamo sempre nell’ambito degli esperimenti sulle emissioni tossiche dei diesel, implicati gli stabilimenti di Wolfsburg, ma anche BMW e Daimler. E’ stato il New York Times ad aprire la “ribalta” al nuovo scandalo; l’accusa è di avere effettuato test relativi ai gas di scarico su scimmie ed esseri umani. Sarebbero in tutto 35 ad essere stati sottoposti a questi esperimenti che comportano un elevato grado di rischio sulla salute: 10 scimmie per la precisione e 25 esseri umani.
 
Nemmeno i quotidiani tedeschi si tengono fuori dalla bufera, Il Sueddeutsche Zeitung e il Stuttgarter Zeitung, hanno rivelato il dietro le quinte di questo nuovo tornado sull’immagine della multinazionale tedesca, la Wolksvagen. Implicata anche una società, l’Eugt (chiusa in seguito alle indagini sul dieselgate, nel 2017), che ha guidato il gruppo di ricerca.
 
Condanne unanimi espresse ovunque, in primis dalle stesse autorità politiche tedesche, Angela Merkel in toni durissimi ha dichiarato il suo totale disappunto in merito:
 
“Non si possono giustificare eticamente simili iniziative, non si possono coinvolgere nei test animali e persone, pertanto non ci si deve stupire dello sdegno che tali esperimenti hanno provocato”.
 
I test si sarebbero svolti nei laboratori del New Mexico, una decina di scimmie sarebbero state chiuse in una camera e forzate a respirare per ore i gas tossici di scarico prodotti da un’auto “Wolksvagen Beetle”. Per non indurle all’insofferenza e all’agitazione, sarebbero perfino state distratte attirando la loro attenzione su immagini interessanti, in modo tale da placare il loro eventuale nervosismo.
 
Gli esperimenti in questione non sono recentissimi, risalgono al 2014, ma evidentemente le indiscrezioni sono trapelate ugualmente, sia pure in ritardo. La Casa automobilistica tedesca, tramite un comunicato, ha espresso parole di condanna, e sembra abbia preso le distanze da questi discutibili test scientifici:
 
“Ci scusiamo per quanto è accaduto, si tratta di individui che in modo autonomo hanno portato avanti test che noi da Wolfsburg non abbiamo autorizzato, e che certamente condanniamo.”
 
Smentite da parte di BMW, mentre è in corso alla Daimler una procedura di accertamento interno, che mira a portare alla luce i fatti che hanno destato un giustificato clamore; i vertici della Casa automobilistica fanno sapere che “tali esperimenti sono ripugnanti, nonché inutili”.
 
I test sono stati messi in pratica da piccoli gruppi, secondo quanto è trapelato, ma hanno seguito un percorso illecito attraverso l’Università di Acquisgrana. A finanziare gli esperimenti erano comunque Wolksvagen, BMW e Daimler.
Degli esperimenti avrebbero fatto parte anche 25 persone, nel 2014, presso la clinica dell’Università di Achen, queste cavie umane sarebbero state esposte alle insidie del diossido di azoto per alcune settimane e diverse ore di esposizione al giorno.
 
Non si capisce perché un simile putiferio sia emerso dopo anni di ritardo, dato che la ‘ricerca’ era stata pubblicata nel maggio del 2016 sulla rivista “International Archives”, che si occupa di salute e ambiente, presso l’Università di Acquisgrana, dove risulta coinvolta perfino la Bosch.
 
L’establishment politico tedesco, ha affrontato con il settore automobilistico altri attriti. Il Land della Sassonia è legato a doppio filo con la più importante multinazionale dell’auto tedesca (Wolksvagen), ed è stato coinvolto nel corso dello scandalo sul dieselgate per via dei diritti di voto che possiede sulla Casa automobilistica; per la Merkel non è stato semplice disimpegnarsi dalle responsabilità che ne sono scaturite.
 
Ora si condannano apertamente simili procedure, la Cancelliera ha affermato che i test non erano affatto necessari, bastava prevenire riducendo il livello di emissioni. Le tre case automobilistiche promettono indagini interne e provvedimenti; lo scandalo ha comunque riempito le pagine di cronaca dei giornali, una raffica che ha soffiato ovunque. La più ovvia conseguenza è il danno all’immagine, cosa non trascurabile, dopo il veleno degli anni scorsi sui dispositivi truccati nei motori diesel.
 
Una caduta di stile dell rigore tedesco e le sue credenziali internazionali? Non propriamente, dato che negli ultimi anni i dubbi sollevati sono tanti, e la tendenza alle pratiche illegali ha imperversato, nemmeno Deutsche Bank, sia pure in altri versanti, ne è stata immune.
 

WORLD ECONOMIC FORUM. ANGELA MERKEL: IL PROTEZIONISMO NON E’ LA RISPOSTA CHE CERCHIAMO

DI VIRGINIA MURRU

 

E aggiunge la Cancelliera: “si vede che la lezione della Storia non è servita..” Da leader moderato qual è, seguire la linea degli equilibri e dei contrappesi in ambito internazionale è la norma, ma non perde neppure occasione di condannare i nazionalismi e il pericolo che rappresentano per l’Europa.
Per quel che riguarda la politica del presidente Trump, nel suo intervento è anche più precisa, sia pure, per ragioni di opportunità, non diretta:
“Se siamo del parere che le cose non sono semplicemente giuste, che non vi è “reciprocità” d’intenti, allora dobbiamo cercare risposte ‘multilateriali’, non perseguire una linea di protezionismo unilaterale, che porta prima di tutto all’isolamento di noi stessi..”
Un’osservazione della Cancelliera che aveva un bersaglio preciso, viste le polemiche suscitate ultimamente dalla decisione dell’establishment politico americano, di applicare dazi all’importazione di alcuni importanti prodotti del settore manufatturiero.
Ovvio che i partecipanti all’”World Economic Forum”, abbiano compreso all’istante e intercettato la freccia della Merkel, così come il suo naturale destinatario, ossia Donald Trump (che interverrà al Forum venerdì), solo che il presidente americano non sembra curarsene più di tanto. ‘America, first’.
E non ha risparmiato l’ironia neppure Ian Bremmer, noto politologo statunitense, fondatore del Think-tank Eurasia Group, che si occupa principalmente di geopolitica. In un tweet, infatti, Bremmer scrive:
“Are you listening, Donald?”. Dopo avere riportato uno stralcio del discorso della Merkel, poi conclude il tweet, in ironia: “Mi chiedo a chi stia alludendo Angela Merkel..”.
Lo stesso Ian Brummer, proprio un anno fa, in riferimento ai rapporti Trump-Putin, commentò: “la relazione tra questi due non mi quadra..”
Una dimostrazione, qualora ce ne fosse ancora bisogno, di quanto la politica di Donald Trump sia messa continuamente in discussione prima di tutto in patria.
Tutti i leader dimostrano avversione verso le politiche protezionistiche, in special modo quelli europei, ma anche in Asia il dissenso e le contrarietà imperversano. Il premier italiano, Paolo Gentiloni, intanto, non ha nascosto le preoccupazioni al riguardo. E infatti afferma:
“Bisogna stare attenti che non si scateni una rincorsa alle misure protezionistiche, che in apparenza sembrerebbero strategie di tutela legittime, ma in sostanza le ripercussioni sono di ben altra natura sul piano economico.”
E poi punzecchia: “Potrei dire “Italy, first”, ma chiudersi dentro i propri recinti non favorisce la crescita, l’occupazione e tutto ciò che contribuisce al benessere di un Paese”.
Dunque, per favorire il dinamismo e la crescita globale, è necessario aprire le porte al mondo, non trincerarsi dietro barriere doganali, abbiamo ben visto che il regime di autarchia adottato nel ventennio fascista, avevano portato solo isolamento e vulnerabilità.
E’ poi oltremodo anacronistico parlare di protezionismo in piena epoca di globalizzazione, significa inserire la chiave in macchina per tornare indietro, difendere i propri privilegi a scapito altrui: significa usare un’arma subdola e niente affatto rivolta alla concordia e all’intesa tra i popoli.
Gentiloni aggiunge anche nel suo intervento al WTF, che sarebbe opportuno chiudere quanto prima il Trattato di Mercosur (Mercado Comun del Sur), firmato da Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay e Venezuela (ma di recente quest’ultima è stato espulsa). Sono in corso trattative tra i paesi di Mercosur e l’Ue, per accordi di libero scambio, con un potenziale mercato di 700 milioni di persone, vi gravitano intorno interessi enormi.
Dallo scorso anno gli incontri tra Ue e Mercosur si sono intensificati, anche perché Donald Trump, quando si è insediato al potere, ha iniziato a mettere in atto politiche protezionistiche, lasciando in un angolo il TPP (Trans-Pacific-Partnership, che non voleva neppure il Congresso, per cui la scelta di Trump è stata un atto formale). Le reazioni dei paesi dell’America Latina non sono state di entusiasmo, privilegiare l’espansione del mercato verso l’Europa, attraverso accordi con l’Ue, poteva essere la migliore risposta.
Secondo il discorso di Gentiloni all’Wtf, non si possono tuttavia stigmatizzare le iniziative volte a creare divisioni, verso l’Amministrazione Trump sarebbe necessario favorire un clima di distensione. Da qui le riserve sui possibili accordi tra i Paesi aderenti a Mercosur e l’Ue.
Nel corso del meeting, ha espresso dissenso verso il protezionismo, anche il premier indiano Narendra Modi, e altri invece, in circostanze concrete, hanno preferito dare qualche lezione agli Usa, come il primo Ministro canadese, dimostrando che si possono portare avanti accordi di carattere commerciale con alcuni paesi dell’area Trans-Pacifica, anche senza gli States.
Per il presidente francese, Emmanuel Macron, non ci sono dubbi che la globalizzazione debba essere difesa e rafforzata, e questo non esclude, secondo il premier francese, che le multinazionali paghino regolarmente le tasse ai paesi coinvolti nei loro traffici commerciali.
C’è chi è poi preoccupato delle iniziative dell’establishment di Trump, e anche spaventato da una possibile guerra commerciale. E’ il fondatore di Alibaba, Jack Ma, il quale, secondo una nota di Cnbc, ha invitato i policymakers a non ignorare i pericoli di ciò che sta accadendo. Afferma Jack Ma al riguardo:
“La globalizzazione sta portando fermenti negativi. E’ molto facile accendere la scintilla di una guerra commerciale, ma è alquanto difficile fermarla. Per questo sono preoccupato.”
Che il mondo stia pericolosamente svoltando a destra, suona quasi come un eufemismo, perché in realtà si avverte un sentore di deragliamento, e non solo in Occidente. Viene fuori dalle urne questa smania di autoritarismo, quando non xenofobia, e Trump con la sua politica, sta proprio interpretando la tendenza dei nostri tempi: l’Europa e i leader europei non devono farsene una ragione, ma ostacolarne il corso.

USA. PESANTI DAZI SULL’IMPORT DI LAVATRICI E PANNELLI SOLARI

DI VIRGINIA MURRU

 

La questione dei dazi non dovrebbe stupire, Donald Trump ne aveva fatto quasi un proclama durante la sua campagna elettorale, sta dunque cercando di realizzare uno dei suoi punti fermi: il protezionismo. Sul piano internazionale è ovviamente un tentativo quasi autoritario d’imporre limiti all’import, perché nei suoi intendimenti vengono sempre prima gli Usa, ossia l’intercalare fisso del suo programma di politica economica e commerciale: “America first”.

La decisione di fissare dazi all’importazione di pannelli solari e lavatrici, ha scatenato una tempesta di proteste e polemiche, e non solo all’estero, ma anche negli Usa.

Il Governo americano si accinge dunque a varare e ad applicare dazi nella misura del 20% ai primi 1,2 milioni di lavatrici importate nell’anno; le tariffe raggiungeranno il 50% per quelle importate oltre il limite indicato. A partire dal terzo anno i dazi diminuiranno, rispettivamente al 16% e 40%.
I dazi sui pannelli solari avranno tariffe del 30% per quelli oltre i 2,5 gigawatt nel primo anno, la tariffa scenderà al 15% nel quarto anno. Quelli a gigawatt inferiori saranno esentati. In poche parole sono le scintille di una guerra commerciale con la Cina, che era già nell’aria da tempo, fin dagli anni dell’Amministrazione Obama.

Nel 2011, infatti, si intrapresero misure protezionistiche contro i pannelli solari, e nel 2015 contro l’acciao (la Cina è il primo produttore al mondo).
Se si tiene conto dell’origine vera di queste strategie “anti-dumping”, Trump non ha l’esclusiva in materia. Il problema è che in questo braccio di ferro vi sono ricatti che potrebbero fare tremare gli Usa. Ai cinesi basta ricordare agli yankee la dipendenza dalle loro banche.

Sono bastati dei rumors su Bloomberg, la notizia di un possibile sell-off di Treasuries in Cina, che intenderebbe ridurre l’esposizione verso il mercato del debito americano (debito sovrano), e si sa, i mercati sono sensibilissimi: nel giro di 48 ore i rendimenti decennali dei Treasuries sono saliti da 2,48% a 2,65%, raggiungendo i massimi da quasi un anno a questa parte. La notizia è stata poi tacciata come ‘fake news’ dalle autorità cinesi e i valori dei rendimenti si sono normalizzati.

Questo per dire che i due grandi colossi economici mondiali, Cina e Usa, non hanno necessità di usare ordigni nucleari per farsi del male a vicenda, possiedono armi commerciali in grado di intimorire fortemente l’avversario.
La Cina detiene comunque ingenti riserve valutarie, e può permettersi qualche finissimo ricatto. Il valore è intorno ai 3.200 miliardi di dollari, dei quali 1.189 in Treasuries, ed è pertanto il primo creditore degli Stati Uniti. Ha aumentato le sue riserve da quando Trump ha preso il potere (38 miliardi in più).

Sono stati diffusi anche i dati sui rapporti commerciali tra Usa e Cina, e nessuno ormai si sorprende della supremazia cinese anche in questo ambito, l’export verso gli States è aumentato del 15% nel 2017. Di pari passo il surplus commerciale (sempre della Cina) nei confronti degli Usa, è andato a circa 280 miliardi, quasi 20 miliardi in più rispetto al 2015.

Intanto, il gigante degli elettrodomestici americani Whirlpool ringrazia, come se l’Amministrazione americana gli avesse piazzato dei molossi davanti ai cancelli, visto che da anni l’industria si lamentava della concorrenza sleale operata dalla Cina, con importazioni a costi nettamente inferiori. Per dimostrare quanto la manovra del Governo sia stata opportuna, Whirlpool ha promesso l’assunzione di 200 lavoratori.

E’ chiaro che la Cina, essendo il primo produttore al mondo di pannelli solari, e avendo enormi interessi nell’export verso gli Usa (nel 2017 ha esportato 21 milioni di lavatrici..), non rientra nelle simpatie del settore manifatturiero americano. E i cinesi sanno anche tramare bene per i propri interessi, dato che in più circostanze il Ministero per il Commercio ha dichiarato che il prezzo più alto dei pannelli solari americani finirà per distogliere la gente dall’investire in energie pulite, e tutto questo non farà che favorire l’inquinamento nel pianeta, il quale, francamente, non sembra essere il primo pensiero del presidente Trump. Anche se gli ambientalisti americani non gli danno tregua.

La Corea del Sud deve difendere a sua volta, gli interessi delle sue due multinazionali: Samsung ed LG e in questi giorni si studiano le strategie per obbligare Trump a tornare indietro, in primis si studia un procedimento da presentare al Wto.
Il presidente Trump ha deciso di ricorrere a queste misure protezionistiche in seguito alle raccomdandazioni della Commissione Internazionale per il Commercio degli States, la quale ha dichiarato che le importazioni dei due prodotti, pannelli solari e lavatrici, danneggiano la produzione di quelli nazionali. La scelta di applicare i dazi è tuttavia in contrasto con le disposizioni emanate dal Wto, che gli Usa dovrebbero rispettare.

Lo afferma senza tentennamenti il capo dell’ufficio indagini commerciali del ministero del Commercio cinese, Wang Hejun, e gli fa eco il ministro del Commercio della Corea del Sud, Kim-Hyun-chong. Per entrambe le autorità politiche si tratta di eccessi e abusi ai danni dei paesi esportatori. Proprio il ministro coreano, che ha lavorato al Wto in qualità di avvocato – Divisione “Appellate Body Secretariat and Legal Affairs” – ha affermato di essere ottimista circa la possibilità di far valere il ricorso contro il protezionismo.

Ma neppure le autorità americane del settore stanno a guardare, le critiche verso le misure intraprese sono aspre, e lo esprime in modo chiaro l’Associazione dell’Industria per l’Energia Solare degli States:
“si tratta di strategie che finiranno per danneggiare gli Stati Uniti, ci sono in ballo 23 mila posti di lavoro, che saranno cancellati se verranno applicate i dazi, insieme a miliardi di dollari in termini di investimenti.”

Il paese ‘del sol levante’ è tutt’altro che arrendevole, e c’è da giurare che le ritorsioni non tarderanno a farsi sentire, e non saranno da meno i coreani del Sud, già inviperiti per l’insidia che sta per affrontare LG e Samsung. Come restare indifferenti? Il mercato americano ha enormi potenzialità per le multinazionali.

E così se i due colossi sud coreani saranno danneggiati, oltre a quelli cinesi dei pannelli solari e lavatrici, c’è da aspettarsi che, per esempio, Apple e Boeing, potrebbero finire nella lista nera. Già, perché neppure il mercato cinese è uno scherzo, soprattutto da una trentina d’anni a questa parte, e gli americani lo sanno bene. Si sta profilando in definitiva un orizzonte di conflitti, visto che ad affrontarsi sono le più grandi potenze economiche e commerciali del mondo.

SECONDO UNA RICERCA DELL’UNIVERSITA’ CA’ FOSCARI, L’EVASIONE FISCALE E’ IN AUMENTO

DI VIRGINIA MURRU

 

L’evasione fiscale, nonostante tutte le misure in atto per prevenirla, è in aumento di circa 5 miliardi, secondo una ricerca dell’Università ‘Ca Foscari’ di Venezia. Le cause deriverebbero dagli effetti del fenomeno definito ‘under reporting’ nelle dichiarazioni dei redditi, che in spiccioli è una ‘sotto stima’ dei propri redditi, volutamente ridotti rispetto a quelli effettivi con il fine truffaldino di aggirare, eludere la scure dello Stato, ovvero il fisco. . I dettagli della ricerca sono stati pubblicati nel sito del Senato.

Il gettito mancato, secondo questa ricerca, è tra i 124 e 132 miliardi di euro. Una perdita notevole, dato che si tratta di 38 miliardi l’anno. Nell’ultimo Def  i dati relativi alle entrate mancate per l’Erario,  riguardanti i redditi da lavoro autonomo, dipendente e da locazione, erano circa 33 miliardi, dunque 5 miliardi in più, secondo gli studi portati avanti dall’Università di Venezia

Il dipartimento di Economina, infatti, ha integrato i due principali ‘metodi’ di stima in merito all’evasione: il ‘discrepancy method’ e il ‘consumption based method’. I risultati non stupiscono più di tanto, ma comunque impressionano, dato che un quarto degli intervistati mente senza pudore, e la percentuale sale quasi al 50% quando si tratta di under reporting legato alla dichiarazione dei proventi derivanti dagli affitti.

Mentire è un riparo che non garantisce molto, ma tant’è: si mente pur sapendo che le bugie solitamente hanno le gambe corte, mentre il Fisco, con i suoi ‘droni’ e gli strumenti  sopraffini di cui è dotato, ha lo sguardo sempre più lungo e acuto.

 I contribuenti italiani mentono anche nelle rilevazioni demoscopiche: si stima che uno su quattro non dichiari la verità, e così le risorse non riscosse per l’erario aumentano, anziché essere più contenute. A tramare ai danni del fisco sono le partite Iva e i contribuenti con ingenti proprietà immobiliari, ma anche i piccoli non disdegnano i rifugi del mentire allorché si tratta di versare imposte ritenute inique.  

Lo Stato infatti esige, dal comune affitto di una casa vacanza (per esempio), il 23% degli introiti. Anche quando si tratta di una sola casa vacanza, che è magari frutto dei risparmi di una vita, e non di rado dietro l’investimento è stato acceso un mutuo. In questo ambito occorrerebbe una migliore perequazione, che colpisca i redditi più alti, non quelli minimi con la medesima aliquota.

Si evadono, secondo la ricerca di Ca’ Foscari,  sistematicamente informazioni concernenti il reddito, si dichiara meno di ciò che si dovrebbe, secondo la normativa in vigore, e si spera di farla franca. I più truffaldini sarebbero coloro che dichiarano i redditi derivanti da contribuenti soggetti ad autotassazione (quelli che riguardano le classi di reddito più elevate, ossia dai 40 ai 60 mila euro in su), lavoro autonomo e impresa, in questo ambito le lacune nella dichiarazione dei redditi effettivi e spendibili, è del 23%. Sale invece al 44% quando si tratta di cespiti inerenti redditi da locazione e rendite da capitale.

Non è sempre semplice per le autorità del fisco colpire con sanzioni e accertare le evasioni dei soggetti contribuenti che dichiarano un reddito inferiore ai 30 mila euro, mentre ne nascondono dai 10 ai 15. Così come coloro che  dichiarano 75 mila euro e in realtà ne nascondono dai 25 ai 30 mila.

Per quel che riguarda la distribuzione geografica dei mentitori incalliti, non vi sono aree particolarmente inclini a non dichiarare l’entità effettiva del reddito, anche se, tendenzialmente, il Meridione ha una ‘propensione’ un po’ più marcata.

Ma vediamo di capire quale relazione c’è tra under reporting ed evasione vera e propria. Semplice: in definitiva sono gli stessi soggetti che nelle interviste hanno la tendenza a non dichiarare il vero, e pertanto sottostimano il loro reddito; tale ‘attitudine’ si conferma nell’inclinazione a occultare i propri proventi ai rappresentanti del fisco. Gli effetti sono evidenti, come già si è constatato:  la perdita di entrate per l’Erario, ovvero per lo Stato, quindi la perdita di risorse che avrebbero potuto essere impiegate proficuamente  in ambito economico.

In questa bolgia di mentitori (in questo caso verso il fisco ), ai quali Dante nel XXX Canto dell’Inferno riserva un trattamento piuttosto rigoroso, si distingue una categoria: si tratta dei pensionati, secondo gli studi e le ricerche, sembrerebbero i più virtuosi e diligenti. Anche perché, diciamola tutta,  il loro reddito, solitamente, viene tassato alla fonte, e aggirare l’ostacolo è praticamente impossibile.

Le cifre concernenti l’evasione sono, per la natura stessa del fenomeno, comunque approssimative, dato che non è semplice quantificare la portata reale dell’evasione, nonostante una base  di calcolo derivante dalle indagini campionarie.

 

 

VENTI CONTRARI PER LE CRIPTOVALUTE, CROLLO DEL BITCOIN

DI VIRGINIA MURRU

 

La diffidenza verso le ‘criptovalute’ dilaga, la Cina ne sta vietando il trading centralizzato, ma il muro alzato sugli scambi arriva anche dalla Corea del Sud, e in Europa, da Germania e Francia. Il bitcoin è sotto i 12 mila dollari, secondo l’Agenzia Reuters, c’è un affondo pari al 18% (martedì 16 gennaio, valore minimo del 2018, dopo un anno al galoppo che sembrava inarrestabile).

E’ stato quindi il bando sentenziato sugli scambi che ha innescato panico e timore “di un più ampio giro di vite regolatorio”. Il 16 gennaio scorso è già stato definito il ‘martedì nero del bitcoin’.

L’impetuosa corsa alle vendite turbina nel mercato di tutte le criptovalute, delle quali, Ethereum è in calo del 23%, e Ripple del 33%. Il sito sudcoreano “Yonhap”, riporta le dichiarazioni rilasciate ad una radio locale dal ministro delle Finanze Kim Dong-yeon, il quale sostiene in sintesi che verranno adottate una serie di misure per arginare la corsa irrazionale e sfrenata agli investimenti in criptovalute.

Ma anche la Cina ha contribuito ad assestare colpi pesanti al bitcoin. Sempre secondo la nota di Reuters, ai vertici della Banca Centrale (su direttiva del vice Governatore Pan Gongsheng), avrebbero deciso di vietare il trading centralizzato delle criptovalute. Ossia quello che passa attraverso le piattaforme “Coinbase o Kraken” canali privilegiati per lo scambio. Anche se per gli irriducibili gli scambi avvengono su canali alternativi.

Intanto, la Corea del Sud, intende bandire gli scambi di valuta virtuale, almeno per ora quelli che non sono stati ancora finalizzati, ma è in programma una disciplina di carattere giuridico per la regolamentazione del mercato. Tutte notizie che corrono sul web e che non contribuiscono ad un rialzo della fiducia, e infatti il bitcoin sta rilevando un crollo di notevoli proporzioni, dato che sulla piattaforma Bitstamp (Lussemburgo), è andato giù fino a 11.200 dollari. Di questo passo la sopravvivenza diventa critica.

Ma la criptovaluta, in termini razionali, che cos’è in realtà?
E’ certamente un’espressione dell’era digitale, in primis.
Dunque una moneta “paritaria”, decentralizzata (e digitale), queste le caratteristiche più singolari, il cui “volume” d’implementazione è basato sulla crittografia, quando si tratta di rendere valide le transazioni e per la generazione.

Ma una vera e propria definizione sfugge e tutte le leggi della finanza in questo ambito, dato che, in ogni caso, è difficile legittimarla al pari di una moneta con corso legale. Trasponendo in un’asse di confronto le due “unità di conto” – la moneta reale e quella virtuale – si può arrivare a qualche stentata conclusione, per ovvie ragioni.

La moneta reale è certamente il mezzo di scambio per eccellenza, e “riserva di valore”, poiché è intrinseca la capacità di mantenere nel tempo il valore e quindi d’essere utilizzata nel futuro senza rischi di deterioramento. La moneta reale porta in sé un “potere liberatorio” in quanto mezzo di pagamento, dato che, nel momento in cui l’acquirente versa il corrispettivo del bene acquistato mediante il controvalore (in moneta appunto), viene meno ogni onere che grava su di lui, dato che si estingue così il debito.

La moneta reale è un’unità di conto, per via delle caratteristiche che storicamente le sono state attribuite, ossia rappresenta un metro comune per misurarne il valore, cosa che si verifica regolarmente con le transazioni commerciali. Ed è la prerogativa storicamente più datata nel tempo, basta pensare agli scambi delle Civiltà più evolute nel Mediterraneo di ormai 5 mila anni or sono, che incidevano su tavolette di argilla il valore relativo allo scambio dei beni, il più elementare negozio giuridico nel quale i protagonisti erano l’acquirente e il venditore.

E’ implicito che, a garanzia del legittimo uso della moneta reale, vi siano organismi di carattere economico-giuridico-finanziario (di espressione politica) che investano la moneta stessa di potere liberatorio nella conclusione di una transazione.

Alla criptovaluta (bitcoin o altre con funzioni simili), non vengono riconosciute le stesse prerogative della moneta reale. Secondo gli esperti, il bitcoin finisce per essere volatile in quanto (secondo un’analisi de Il Sole 24 ore), l’offerta finale del numero di bitcoin è definita, ossia il valore varia a seconda degli umori della domanda. La conclusione alla quale si perviene è che in un simile contesto, la criptovaluta non si può definire “unità di conto”, poiché si comporta come un metro la cui capacità di misura si dilata o si restringe nel tempo. Pertanto non è un mezzo idoneo virtuoso che può essere usato nella contabilizzazione.

Nel panorama poco edificante delle criptovalute, negli ultimi giorni, troviamo anche paesi europei che mettono le mani avanti e prendono misure adeguate a difendere i risparmiatori dai rischi di perdite ingenti, come sta accadendo in Francia e in Germania.

E’ stato infatti Macron a mettere in discussione il bitcoin, decidendo di portare all’attenzione del G20 questo tema attuale e ormai scottante, sempre con l’obiettivo di tutelare i risparmiatori. Ma non solo. Sempre in Francia è di prossima istituzione un “Osservatorio Nazionale sulle Criptovalute”, considerate ormai una potente insidia per la società.

Le Maire, ministro dell’Economia, ha recentemente dichiarato che è in via di definizione la nomina di una Commissione, guidata da Jean Pierre Landau (ex Governatore della Banca di Francia), che avrà la funzione di argine sui rischi derivanti dalle speculazioni nell’ambito delle criptovalute in generale e del bitcoin in particolare. Landau è sempre stato un nemico dichiarato del bitcoin, e non ne ha mai fatto mistero, pare li abbia definiti ‘i tulipani del XXI secolo’, rimando alla speculazione del 2014.

L’avversione sta diventando un tam tam generale, e anche dal versante tedesco della Bundesbank le riserve sono tante. Secondo i vertici della Banca Centrale, sarà inutile lottare all’interno dei propri confini nazionali se non si realizzerà una disciplina di coordinamento giuridico internazionale in grado di ostacolare le speculazioni e tutelare i risparmiatori.

Si annunciano insomma tempi duri per le criptovalute; le sue regole quasi imponderabili sui mercati virtuali, dovranno passare ora attraverso i cingoli delle ferme opposizioni politiche, quasi un morso del cobra per chi fino ad ora ha lucrato in questo ambito. Certamente imprevisto, non in modo così severo, dopo un anno di boom esplosivo, in un mercato in cui vere e proprie regole non ne esistono, forse anche questa è stata la ragione del successo, basato sull’azzardo e il brivido del rischio.

Quando in questi panorami virtuali s’insinua la disciplina della Legge, si è obbligati a procedere su strade ferrate, non su quelle fissate nei transiti irrazionali, dove c’è spazio per illeciti e trasgressioni.

QUANTI ALTRI DOVRANNO MORIRE?

DI PIERLUIGI PENNATI

La storia è sempre quella, ormai ci siamo abituati: operai che lavorano in ambiente tossico e restano intossicati, come mai?

L’evidenza dovrebbe essere che nessuno di loro indossava presidi adatti a proteggerli dalle esalazioni tossiche, altrimenti almeno uno si sarebbe salvato, invece sei operai che lavoravano per operazioni di pulizia di un forno all’interno di una ditta di materiali ferrosi in via Rho, a Milano sono stati soccorsi dopo essersi intossicati, quattro di loro sono stati trovati dal 118 in condizioni disperate, tanto che due di loro sono sono morti poco dopo per arresto cardiaco durante il trasporto all’ospedale di Monza e al Sacco di Milano ed altri due sono giunti gravissimi.

Il bilancio finale della giornata sarà poi di tre morti e tre intossicati.

Quando si lavora per vivere non si dovrebbe morire per lavorare, eppure la totale deregulation voluta dai governi degli ultimi venti anni, di destra o sinistra che siano stati, ha ormai portato a dover operare in condizioni disperate: la sicurezza costa e per abbassare il costo del lavoro si deve solo fingere di farla.

Se fossero le prime vittime dovremmo pensare ad un caso sporadico, invece, da qualche tempo gli incidenti sul lavoro sono in aumento, in particolare nel settore dei servizi alle imprese che registra un +6%, guarda caso proprio il settore più soggetto alla deregulation degli appalti e dei subappalti, dove, per risparmiare anche pochi centesimi, si contravviene palesemente a qualsiasi norma di sicurezza: non si comprano scale, cinture di sicurezza, maschere antipolvere e persino antigas, dato che ogni presidio è un costo aggiuntivo che rende la propria offerta meno concorrenziale e quindi si dichiara sulla carta di acquistare e poi non lo si fa veramente o, al massimo, si riusa quello che già si ha anche quando non lo si può fare.

Sfuggire ai controlli e prendere quei pochi maledetti euro che ti offrono per lavorare è la parola d’ordine.

Quando si muore per lavorare, invece che lavorare per vivere ci si dovrebbe fare delle domande serie e quando si governa non si dovrebbe derogare alle più basilari norme degli stati liberi: la vita e la salute dei cittadini devono essere poste davanti a tutto.

“L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro” (art. 1 della Costituzione), non mi stancherò mai di ripeterlo: si deve lavorare per vivere il meglio possibile, non si può vivere solo per lavorare e, per giunta, rischiando la pelle.

Chi non fa nulla per ovviare a tutto ciò è complice allo stesso modo di chi ha istituito questo sbagliato stato di cose per la nazione e, per la proprietà associativa, chi vota anche uno solo di questi è a sua volta complice dei primi.

Siamo in campagna elettorale, sentiamo le solite promesse e viviamo il momento peggiore degli ultimi decenni per le condizioni economiche ed ambientali di lavoro, dimentichiamo l’economia internazionale e pensiamo un po’ di più a noi stessi: quello che capita ad uno può capitare a tutti, quegli operai morti ed intossicati sono nostri parenti stretti, sono quelli che ci stanno dicendo che lavorare oggi non è più dignitoso ed è diventato persino pericoloso al punto da perdere la vita con facilità.

Siamo tanti, possiamo cambiare, dobbiamo cambiare, serve solo uscire dagli stereotipi e dagli egoismi e cambiare cacciando tutti coloro che non hanno mantenuto fede al loro mandato.

ALITALIA. ANCORA STALLO NELLA VALUTAZIONE DELLE OFFERTE

DI VIRGINIA MURRU

 

Si è concluso l’incontro interlocutorio al Mise tra i ministri Carlo Calenda, Graziano Delrio e i Commissari straordinari Alitalia, Luigi Gubitosi, Enrico Laghi e Stefano Paleari . Al momento non ci sono novità di rilievo, c’è stata solo un’analisi e uno scambio d’impressioni sulla procedura di amministrazione e il processo di vendita della Compagnia.

Si è in definitiva concordato sull’esigenza di ulteriori approfondimenti prima dell’avvio di una negoziazione in esclusiva. Si dovranno valutare con attenzione le tre manifestazioni d’interesse più importanti per il rilevamento dell’ex compagnia di bandiera, e dunque le proposte di Lufthansa, Easy Jet e il Fondo Cerberus.

I tre Commissari hanno puntualizzato che nel primo trimestre Alitalia presenterà una situazione di ricavi in crescita rispetto allo stesso periodo del 2017, e che il prestito ottenuto dallo Stato (900 milioni), non è stato utilizzato. I ministri hanno poi fornito indicazioni ai Commissari per giungere alla conclusione rapida della trattativa allorché si presentasse un’offerta solida e congrua.

Lufthansa, per ora, nonostante le aspettative fossero quelle di un orizzonte più certo, con intese vincolanti, resta in sala d’attesa. Del resto, in più occasioni, il ministro Delrio ha precisato che Alitalia non può essere svenduta con la logica ‘del miglior realizzo’, seguendo ciecamente le condizioni di chi vorrebbe rilevarla. E la Cgil ha a sua volta messo in evidenza la contrarietà verso un possibile piano di esuberi , una delle clausole di Lufthansa per l’acquisto.

Il ministro dei Trasporti Delrio ha anche più volto messo in chiaro l’intento di rendere più veloci le procedure per gli accordi “affinché non si sprechino i soldi degli italiani, e il prestito ponte concesso dal Governo Gentiloni, 900 milioni in tutto, ancora intonso, si eviti di intaccarlo.”

Si deve poi ricordare che nelle travagliate vicende che hanno riguardato Alitalia, è intervenuta anche la Regione Lazio, con 3 milioni e mezzo di euro, a sostegno dei dipendenti della compagnia, che coinvolgono peraltro fortemente la regione, dato che tra aziende operanti sul territorio e 12 mila dipendenti, c’è un evidente interesse alla tutela.

I Commissari, prima della delicata decisione finale, hanno seguito un iter a ritroso, analizzando ancora una volta, le 32 manifestazioni d’interesse che erano pervenute alla sede dell’ex compagnia di bandiera a giugno del 2017. I relativi soggetti interessati sono stati riascoltati, l’intesa, a questo punto, potrebbe essere raggiunta in modo anche imprevedibile, con possibili modifiche ai precedenti accordi e nuovi scenari.

Delle tre proposte più vicine al traguardo ‘acquisto’, Easy Jet e Lufthansa hanno presentato offerte vincolanti, mentre il Fondo Cerberus ha presentato solo una manifestazione di interesse, non offerte formali.
Intanto ci sono in gioco anche Delta e Air France, quest’ultima ha avuto accesso alla data room, segno di interesse prima di elaborare un’offerta. La partita in campo è pertanto ancora aperta, gli interlocutori sono aumentati, e il clima di ‘concorrenza’ non potrà che giovare alle trattative in corso; a favore di Alitalia, ci si augura.

Difficilmente si prenderà una decisione prima delle prossime elezioni politiche, ormai prossime, per ragioni di opportunità è possibile che il tutto slitti alle soglie dell’estate, anche perché, qualora si procedesse ad un taglio sul piano dell’occupazione, i sindacati si rivolterebbero.

Se si optasse per Lufthansa, si deve essere consapevoli che gli esuberi sfiorerebbero le 2 mila unità, oltre ad un processo di riduzione della flotta, e conseguenti cancellazioni di tratte a medio e lungo raggio che determinano solo costi. E’ una strategia della Compagnia tedesca, la quale si è dimostrata inflessibile su questi punti, fondamentali per il risanamento dell’azienda.

E’ altrettanto evidente che ogni soggetto proponente, tende a ‘portare l’acqua al proprio mulino’, e non certo a compiacere gli interessi della controparte. In gioco ci sono gli hub, le più grandi compagnie che si sono avvicinate alla data room di Alitalia, mirano a incrementare il traffico attraverso nuovi flussi, è in definitiva la logica del puro profitto, che va oltre ogni scrupolo di ripercussione sul piano occupazionale.

Ma forse più di ogni altro rischio c’è da valutare la perdita di autonomia, questi colossi del traffico aereo, considerano Alitalia semplicemente un mezzo per rendere più solidi e stabili i loro bilanci. Sul piano decisionale, l’ex compagnia di bandiera potrebbe perdere veramente autonomia, e anche quel prestigio internazionale che, malgrado tutte le battaglie perse in retrovia, l’ha contraddistinta.

Considerazioni sulle quali non si dovrebbe sorvolare a prescindere, nonostante la criticità del momento.

FCA IN 5 ANNI PUO’ RADDOPPIARE GLI UTILI, ANCHE GRAZIE AL BRAND JEEP

DI VIRGINIA MURRU

 

“La Fiat Chrysler Automobiles raddoppierà gli utili nel volgere di cinque anni, grazie anche all’impulso del marchio Jeep”. Lo ha dichiarato Sergio Marchionne, Ad del gruppo, in un’intervista a Bloomberg.

Nell’articolo si sottolinea che Marchionne è “one of the longest-serving bosses in the auto industry” (uno dei ‘capi’ che più a lungo ha ricoperto il ruolo nell’industria automobilistica), e infatti è al vertice da ben 15 anni.

Sarà anche Trump e il suo establishment, attraverso la riforma fiscale, a favorire l’incremento degli utili di Fca per circa un miliardo di dollari l’anno. E’ ovvio che poi il gruppo abbia deciso di aumentare la produzione negli Usa. Il Ceo Marchionne, ( sempre nell’intervista a Bloomberg) ha quindi confermato le voci sul possibile cambio di guardia alla guida di Fca: nel 2019 dovrebbe lasciare il gruppo.

Secondo le sue dichiarazioni, la causa sarebbe la stanchezza e il desiderio di dedicarsi ad altre attività, ‘perché gestire un’importante industria automobilistica ti consuma’. Dopo Fca potrebbe occuparsi di Exor, holding di controllo della famiglia Agnelli.

Esiste già una lista di candidati per sostituirlo, le loro competenze sono al vaglio dei vertici del gruppo.
“His growth strategy is focused on a global expansion of Jeep” (la sua strategia di crescita è diretta all’espansione sul piano globale del marchio Jeep), si legge nell’articolo pubblicato questo pomeriggio dall’Agenzia di Stampa internazionale. Tra gli obiettivi di Marchionne c’è però anche quello di riportare la Ferrari a vincere il Campionato del mondo.

Quest’anno, intanto, il gruppo porterà a compimento il Piano industriale presentato a Detroit quattro anni fa (aprile 2014). Gli obiettivi ‘indebitamento zero e 5 miliardi di euro in cassa’, sono stati raggiunti, ci sono però ancora incertezze a livello produttivo.

La Fca non è stata immune dalla crisi economica globale esplosa nel 2008, e pertanto sono stati rinviati alcuni target in termini di sviluppo, in particolare quelli concernenti il marchio Alfa Romeo. Rinviato il lancio di tre modelli dell’Alfa.

In ogni caso, e in più occasioni, Marchionne ha puntualizzato che la situazione internazionale è ancora complessa, e prima di lasciare il gruppo definirà le linee guida per gli anni successivi al 2019.

Secondo Bloomberg ‘Chief Financial Officer Richard Palmer is seen by investors as the leading candidate for the job’. Il prossimo candidato, potrebbe dunque essere Riccardo Palmer, manager responsabile della gestione generale delle attività finanziarie (Direttore finanziario).

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QUELLA CONCORRENZA EUROPEA CHE FA SCAPPARE WHIRPOOL

DI PIERLUIGI PENNATI

Il lungo corteo che ieri ha percorso i cinque chilometri che separano lo stabilimento dal centro cittadino di Riva di Chieri, in provincia di Torino, è passato anche davanti all’oratorio dove da qualche mese campeggia uno striscione: «Noi stiamo con i lavoratori della Embraco».

Questa l’ennesima azienda che delocalizza andandosene dall’Italia, questo il paese dove tra pochi giorni ci saranno quasi 500 nuovi poveri senza un lavoro vero, non un lavoretto od un impiego temporaneo, un lavoro vero e che si pensava stabile che di colpo, quasi senza preavviso, viene a mancare.

È Whirlpool Usa, quotata a New York, che lo chiede, l’azienda Embraco, che per lei produce motori per frigoriferi, deve chiudere la produzione in Italia per spostarla, si dice, nello stabilimento di Spisska Nova Ves in Slovacchia, dove i lavoratori sarebbero già in allerta nonostante lo scontento per le condizioni lavorative poco dignitose.

La ragione?

Né la controllante Whirpool, che si limita a dare ordini, né Embraco la specificano, diramando solo una nota nella quale si conferma “l’intenzione di procedere alla cessazione della produzione nello stabilimento di Riva Presso Chieri, mantenendo comunque una presenza in Italia”.

Tutto arriva dopo anni di aiuti elargiti da Finpiemonte, e non solo, alla Embraco per continuare a produrre nello stabilimento di Riva: nel 2004 la giunta guidata da Enzo Ghigo, Forza Italia, sovvenzionò con 7,7 milioni di euro, il governo Berlusconi fornì 5 milioni e la provincia poco più di mezzo milione, mentre al governo della regione sotto Roberto Cota si devono le ultime risorse, non meno di due milioni sulla carta, assegnati solo per un terzo, mentre, nella trattativa che era già in corso dopo l’annuncio nelle ultime settimane di una riduzione della produzione, la giunta regionale in carica aveva offerto il restante milione e mezzo di euro, rifiutato però dalla proprietà che ora chiude e se ne va, anche se non completamente, nella nota diramata, l’azienda sostiene che “l’Italia rimane un Paese importante per Embraco che manterrà qui una presenza con un ufficio commerciale al fine di continuare ad assistere la propria clientela”, ben 40 unità che sopravvivranno ai 537 occupati, con un bilancio di 497 lavoratori licenziati.

Nella stessa nota si legge anche che “prima di giungere a questa decisione sono stati attentamente valutati diversi scenari alternativi ma nessuno di questi ha rappresentato una soluzione appropriata per continuare la produzione nello stabilimento” e l’azienda si dice anche “pienamente consapevole delle sue responsabilità nei confronti dei propri dipendenti”, per i quali “lavorerà in stretta collaborazione con i rappresentanti sindacali, le autorità pubbliche e i funzionari locali per cercare soluzioni perseguibili e su misura per il personale coinvolto”.

Ma la realtà è che, come sempre, le decisioni sembrano essere già state prese e ora si vorrebbero probabilmente usare gli strumenti di legge per evitare problemi e se possibile persino guadagnarci, anche perché se in Italia i dati ufficiali dicono che il costo del lavoro è di 27,5 Euro l’ora, in Slovacchia, dove sembra essere destinata la produzione, è di soli 10,2, con un più che dimezzamento del costo della mano d’opera per l’azienda.

Proprio la mano d’opera, è evidente, è l’unico elemento della produzione che sfugge alle leggi generali dei mercati, infatti se per una materia prima il valore dipende da fattori quasi incomprimibili e la trasformazione rientra negli investimenti, il lavoro umano dipende solo da quanto la persona è in grado di accettare e sopportare in termini economici e di tempo, quindi, almeno teoricamente, può essere portato agli estremi fisici attraverso la competizione tra i soggetti.

Così, senza regole che impediscano almeno ai paesi membri della comunità europea di “rubarsi” le imprese, attirandole con condizioni migliori per loro, e senza limiti generali che tengano conto del valore anche della dignità umana, in Europa si passa da un costo del lavoro di 42 Euro in Danimarca a 4,4 in Bulgaria e, senza cercare in nazioni lontane, nella sola Comunità Europea ci sono ben sedici nazioni dove il lavoro costa meno che in Italia, persino in Inghilterra, e, tra queste, dieci sono sotto la metà del nostro valore nazionale.

Così, in uno scenario nazionale dove si scoprono esistere realtà che già pagano i dipendenti pochi euro l’ora, a quasi nulla serviranno le promesse elettorali di fissare il salario minimo ad almeno dieci euro l’ora, servono invece riforme che tengano conto della dignità delle persone in modo globale o che ci possano sottrarre a questo perverso sistema di concorrenza tra stati, che dovrebbero essere “fratelli” e che invece si accaparrano attività piantandosi “coltelli” alle spalle, vale a dire uscire dall’Europa.

La politica dei favori alle imprese ha fallito, anche questo sembra essere evidente, serve ora un ritorno ad una politica della nazione, curiosamente quella stessa politica attuata a partire dalla fondazione della repubblica che, salvaguardando ed aumentando diritti e dignità dei lavoratori, è stata capace di portare l’Italia fuori dalla crisi del dopoguerra, ma che è durata solo fino agli anni ’80, quando, in nome di un’economia globale sconosciuta al popolo, si sono cominciati a erodere, fino ad annullarli, diritti e tutele, non solo del singolo ma anche della società, arrivando alla cancellazione della divisione tra affari e commercio che prima proteggeva il mercato del lavoro e che oggi sta portandolo alla distruzione.

Embraco non sarà l’ultima azienda che se ne va, le aziende, se i governi non fermano questi processi, si spostano dove conviene a loro e non dove conviene ai dipendenti: Adriano Olivetti, inascoltato, pensava ad una “fabbrica per l’uomo” e non ad un ”uomo per la fabbrica”, dopo tanti anni oggi rischiamo di non avere nemmeno più le fabbriche.

PREZZO DEL PETROLIO. INARRESTABILE CORSA AL RIALZO

DI VIRGINIA MURRU

 

Il prezzo del petrolio  non sfiorava vertici così alti dal 2015, un’autentica corsa al rialzo, impennata favorita anche dalla recente esplosione di un oleodotto in Libia. Già gli ultimi giorni del 2017 la Cnn scriveva che il prezzo del greggio superava i 60 dollari al barile. Ora i contratti sul greggio Wti (con scadenza febbraio, sul mercato ‘after hour’ di New York), ha raggiunto quota 63,43 dollari al barile. Salite anche le quotazioni dei titoli petroliferi.

Mentre il Brent va ancora più su: siamo a 69,26 dollari al barile, mai così in alto da 3 anni a questa parte. L’incremento della domanda, secondo gli esperti, ha incentivato le quotazioni, dietro ci sono anche le stime derivanti dal ‘Rapporto mensile dell’Energy Information Administration’, Agenzia degli States, che prevede un aumento della domanda per quest’anno, intorno al 2,4%, e nel 2019 del 2%.

Lontano il 2016, quando invece i prezzi seguivano una ‘corsa al ribasso’, l’oro nero sfiorò infatti un minimo di 26 dollari al barile, il rialzo riprese solo quando all’Opec si accordarono per ridurre la produzione, con tagli che si sarebbero dovuti portare avanti fino al 2018. Accordi rinnovati di recente anche col benestare della Russia.

L’esplosione in Libia, secondo la National Oil Corporation, costerà una perdita tra i 70 e i 90 barili di greggio in termini di export al giorno. All’origine dell’esplosione, come ormai è noto, ci sarebbe un commando di terroristi Isis, i quali avrebbero minato gli impianti con esplosivi.

 

ISTAT. IN CALO IL TASSO DI DISOCCUPAZIONE GIOVANILE, SIAMO A 32,7%

DI VIRGINIA MURRU

 

Ancora buone notizie sul fronte dell’occupazione, l’Istituto Italiano di Statistica ha divulgato i dati riguardanti novembre 2017, dai quali emerge che la stima degli occupati è in crescita, con + 0,3% rispetto al mese precedente, in termini di numeri si tratta di 65 mila occupati in più.

Il tasso di occupazione va quindi al 58,4%, ossia +0,2 punti percentuali. Un dato che comunque incoraggia, segno di un sistema che si muove in modo positivo, se è in grado di generare occupazione, quand’anche si trattasse di contratti a termine.

Nel periodo di riferimento, secondo gli ultimi i dati Istat si riscontra una crescita che riguarda le due componenti di genere, e tutte le classi di età, tranne quelle comprese tra i 35-49 anni. In salita il numero dei dipendenti, sia dei permanenti che di quelli assunti a tempo determinato. Risultano in calo gli indipendenti.

Mentre i dati sull’occupazione sono una buona ‘spia’ per il Governo, lo sono meno per la leader della Cgil, Susanna Camusso, la quale, in un’intervista all’Ansa, dà una lettura più disincantata. A suo avviso i dati relativi al tasso di occupazione devono essere interpretati con maggiore realismo, così infatti dichiara in merito:

“Non c’è proprio da esultare, si tratta dell’ennesimo boom di contratti a termine, c’è ancora immobilismo nel versante dell’occupazione, soprattutto di quella giovanile. Noi continueremo a proporre per i giovani una riforma che ne preveda la tutela con una pensione di garanzia, una risposta efficace alla prospettiva previdenziale, che vada oltre la riforma Fornero. Finora il sistema non ha tenuto conto delle nostre proposte, ma noi insisteremo in questa direzione.”

Nessun facile entusiasmo da parte dei sindacati, anche se i numeri dell’Istat fanno sperare in un’inversione di tendenza, anzi qualcosa di più, dato che in termini percentuali, il tasso di disoccupazione risulta essere quello più basso dal 2012. Nei giovani tra i 15 e i 24 anni (sempre a novembre 2017), il tasso scende al 32,7%, in calo non di poco: 1,3 punti rispetto al mese precedente.

E su base annua, il rapporto di questi dati è ancora più positivo: il calo dei disoccupati è pari a 7,2 punti percentuali. A livello generale, il tasso va all’11% a novembre scorso, lo 0,1 punti in meno rispetto ad ottobre. Ma l’asse si sposta in positivo anche sul terreno degli occupati, che crescono di 65 mila unità, e pertanto, sempre nel periodo di riferimento, siamo a 23,18 milioni, per trovare un tasso simile si deve andare a ritroso nell’archivio storico dei dati fino al 1977.

Nel trimestre settembre-novembre, si evidenzia una crescita in termini di occupati, rispetto al trimestre precedente, di +0,4%, tradotto in numeri si tratta di 83 mila occupati in più, per entrambi i generi, e la crescita si concentra in particolare tra gli ‘over’ 50, in misura più lieve interessa anche i 15-24enni, considerando comunque il calo degli occupati nella fascia tra i 25 e i 49 anni.

Come ha fatto rilevare la leader della Cgil, l’incremento degli occupati deriva dai contratti a termine, dato che si riscontra un calo tra quelli permanenti, mentre restano stabili gli indipendenti.

Diminuiscono a novembre i lavoratori alla ricerca di occupazione, un calo in rilievo per quattro mesi consecutivi, sarebbero 18 mila in meno. Il tasso di occupazione secondo gli ‘effetti’ demografici, resta ancora sotto i livelli rilevati nel 2008: -0,5 punti percentuali. Per le donne il tasso di occupazione è in crescita, e va al 49,2%, il dato più positivo di sempre.

Su base annua, secondo i dati Istat, risulta in crescita il numero degli occupati, ossia di +1,5%, che corrisponde a 345 mila per entrambi le componenti di genere.
Tra i 15-64 anni il tasso di occupazione sale al 58,4% (novembre 2017), con un incremento di 0,2 punti percentuali su ottobre, e 0,9 punti su base annua rispetto allo stesso periodo del 2016.

Sottolinea l’Istat: “Al netto dell’effetto della componente demografica tuttavia, su base annua cresce l’incidenza degli occupati sulla popolazione in tutte le classi di età.”
Il premier Gentiloni commenta con cautela i dati diffusi dall’Istat, ma non nasconde in un tweet nemmeno la soddisfazione:

«A novembre il numero di occupati ha raggiunto il livello più alto da 40 anni. E scende anche la disoccupazione giovanile. Si può e si deve fare ancora
meglio. Servono più che mai impegno e serietà, non certo una girandola di illusioni».

Più entusiasmo e orgoglio nel commento dell’ex premier Matteo Renzi:

“Da questi dati emerge un risultato storico, da quando abbiamo preso le redini del Governo, nel 2014, l’Italia ha registrato un milione di posti di lavoro in più.”

Secondo Vincenzo Boccia, leader degli industriali, i dati confermano semplicemente quello che Confindustria ha da tempo messo in rilievo, ossia che si tratta di risultati conseguenti alle buone misure di politica economica. Le riforme hanno dato un nuovo slancio al paese, secondo Boccia, Jobs Act in primis.

Opinione che certamente non condividerebbe con Susanna Camusso e una buona parte dei lavoratori del Paese.

SONO GLI NPL LA VERA SPINA NEL FIANCO DELLE BANCHE ITALIANE

DI VIRGINIA MURRU

E’ First Cisl a fare il punto sulle reali criticità delle banche. Il sindacato, nel portare avanti un’analisi sui bilanci delle principali 5 banche nei primi 9 mesi del 2017, mette in rilievo il fatto che sugli 8 mld di utili realizzati dai cinque grandi istituti bancari italiani, hanno contribuito in modo notevole i 14 miliardi di commissioni nette direttamente connesse al fattore lavoro.

Sostiene a questo proposito il Segretario Generale di First Cisl, Giulio Romano:
“Il peso vero che grava sul sistema bancario non è il costo del lavoro, ma le grandi svalutazioni esatte dai regolatori europei, e i riflessi non sono di poco conto, dato che si continuano a ‘svendere’ Npl con esigui recuperi, mentre il loro valore potrebbe rientrare in maniera più rilevante attraverso una gestione oculata e paziente, producendo così un reddito ben più consistente.”

Le svalutazioni, secondo le analisi del sindacato, hanno raggiunto un valore di 10 miliardi di euro nei primi nove mesi del 2017, mentre il loro recupero qualora fosse stato risolto “in house dai dipendenti, avrebbe generato reddito”. E infatti, precisa ancora First Cisl, “agli 8 mld di utili realizzati dalle 5 maggiori banche italiane (nei primi 9 mesi dello scorso anno), hanno dato un grande contributo gli oltre 14 miliardi di commissioni nette.

Dichiara il responsabile dell’Ufficio Studi del sindacato, Riccardo Colombani : “l’utile al quale si fa riferimento beneficia inoltre dei 527 milioni registrati in termini di calo dei costi del personale, per via di un taglio di quasi 8 mila addetti negli istituti analizzati, non tenendo conto però delle riduzioni di personale nelle banche acquisite da Intesa Sanpaolo e Ubi.”

Questi interventi hanno un valore, sommati alle commissioni nette, di quasi 16 miliardi complessivi nel versante dei risultati lordi della gestione. Il costo del lavoro, nello specifico (e per i 5 grandi gruppi bancari analizzati), ha inciso per 12,6 miliardi.

Sempre secondo gli studi compiuti da First Cisl, a schiacciare la redditività sono gli oltre 10 miliardi di rettifiche sui crediti, e in questo versante non è cambiato quasi nulla rispetto ai riscontri dello stesso periodo del 2016.

La parte più incisiva è rappresentata pertanto dagli accantonamenti su crediti che divorano una somma più alta dell’utile netto, equivalente al 70% delle commissioni, mentre sugli interessi netti raccolti dalle banche, siamo al 59% di 17 miliardi.

Se gli Npl non fossero sistematicamente venduti con la logica più o meno ‘del realizzo’ – e gestiti in house da personale competente, e gli accantonamenti si effettuassero tenendo in considerazione i recuperi realizzati – gli utili, secondo gli studi di Riccardo Colombani, riprenderebbero a generare reddito, quindi sviluppo ed occupazione.

ISTAT. 3° TRIMESTRE 2017: IN RILIEVO LA PROPENSIONE AL RISPARMIO DELLE FAMIGLIE

DI VIRGINIA MURRU

 

Tutte in positivo le stime preliminari diffuse dall’Istat, relative al terzo trimestre 2017. L’inflazione, a dicembre scorso, ha messo in evidenza un aumento dello 0,4% su base mensile, mentre su quella annuale (rispetto al 2016), è dello 0,9%; non siamo ancora alla soglia del target (2%), ma non c’è neppure la preoccupante immobilità degli anni scorsi: era in agguato la deflazione.

Buone anche le performance dei prezzi al consumo, i quali registrano un incremento pari all’1,2%, seguito alla flessione del 2016. Se si tiene conto dell’inflazione di fondo, ossia al netto di beni energetici e alimentari freschi, si è a +0,7%; non è tanto, ma l’Istat mette in rilievo il cambio di tendenza, che riporta i dati sul livello dei prezzi al 2013. E’ già un buon risultato.

I prezzi dei carburanti, benzina e diesel e altri prodotti, avevano subito ribassi notevoli nel 2016 (-6%), mentre lo scorso anno si è registrato un trend positivo, ossia +6,2%. Più o meno le stesse considerazioni per gli energetici regolamentati, quelli che ci ritroviamo nelle fatture delle utenze: erano a -5,0% nel 2016, e sono andati poi a fine 2017 a +2,9%.

L’Istat, nel suo comunicato, precisa che i Conti relativi alle Amministrazioni Pubbliche (AP), famiglie e Società, sono elaborati in milioni di euro, a prezzi correnti, e rientrano tra i Conti trimestrali dei vari settori istituzionali.
I dati sulle AP sono espressi in forma non destagionalizzata, mentre quelli concernenti le Famiglie e le Società sono destagionalizzati.

In rapporto al Pil, l’indebitamento netto delle AP (sempre terzo trimestre 2017, come riferimento), è stato del 2,1%, dato lievemente in miglioramento rispetto allo stesso periodo del 2016 (era stato allora pari al 2,4%). Per quel che riguarda il saldo primario delle AP, ovvero l’indebitamento al netto degli interessi passivi, il dato è positivo: l’incidenza sul Pil è dell’1,2%. Era dell’1,4% nello stesso trimestre del 2016.
Secondo il comunicato Istat anche il saldo corrente delle AP è stato positivo: pari all’1,3% l’incidenza sul Pil. Nel 2016 era dello 0,6%.

In riduzione i dati concernenti la pressione fiscale, che risulta del 40,3%, in calo di 0,4 punti percentuali in rapporto ad un anno prima. Si riscontra un trend positivo anche sul reddito disponibile delle ‘famiglie consumatrici’, che aumenta dello 0,7% rispetto al trimestre precedente (2017), i consumi invece sono aumentati dello 0,2%. Ne consegue che migliora anche la propensione al risparmio delle famiglie, e infatti risulta in aumento di 0,5 punti percentuali, arrivando all’8,2%.
Si legge infine nel comunicato Istat:

“A fronte di una diminuzione dello 0,1% del deflatore implicito dei consumi, il potere d’acquisto delle famiglie è cresciuto rispetto al trimestre precedente dello 0,8%.
La quota di profitto delle società non finanziarie è risultata pari al 41,3%, diminuendo di 0,4 punti percentuali rispetto al trimestre precedente. Il tasso di investimento, pari al 20,7%, è aumentato di 0,5 punti percentuali rispetto al trimestre precedente.”

Il commento sui dati Istat del premier Paolo Gentiloni su Twitter:

“Dati incoraggianti sui conti pubblici, comincia a scendere la pressione fiscale, cresce finalmente il potere d’acquisto delle famiglie italiane. Risultati da migliorare, non da sprecare.”

COME IN TUTTA LA VITA DAVANTI: L'INFERNO DEL LAVORO PRECARIO

DI PIERLUIGI PENNATI

Qualche volta si dice di mettere tutto se stessi nel lavoro e di portarselo persino a casa, a Roma, invece, i dirigenti di un call center andavano proprio a casa, o quasi con i dipendenti.

Era forse per ottenere maggior efficienza, o solamente per soddisfazione personale, che Rosa Fiorini e Cesare Porrà, dirigenti di un call center, avrebbero imposto ai dipendenti regole non scritte ed oggi classificate come atti persecutori dalla procura della repubblica di Roma.

L’azienda Euro Contatc srl, operativa insieme alla consorella Fenice srl tra i cui clienti c’è anche l’Eni, è stata chiamata a giudizio da una ex dipendente, per ora sola, che ha raccontato di essere stata cacciata dal posto di lavoro per aver intrecciato nel giugno 2016 una relazione con uno dei team leader, a propria volta licenziato.

Quanto succedeva sul posto di lavoro è ora sotto inchiesta e secondo l’accusa esisterebbe un vero e proprio «metodo della Fenice», dal nome del secondo call center dove avverrebbero i soprusi, tra questi, il divieto di relazioni sentimentali tra colleghi, alla base della prima accusa contro i dirigenti, ma anche la proibizione di aiutare i compagni di lavoro in difficoltà, anzi lasciarli sbagliare e persino “soffiare” le lacune del vicino di scrivania sarebbero richieste previste per permettere di farli umiliare dai superiori, inoltre mai prestare denaro a qualsiasi titolo ad altri dipendenti, il divieto assoluto di tenere nella propria rubrica personale i numeri di telefono del personale licenziato e persino il divieto categorico di frequentare i colleghi in gruppo fuori dal lavoro senza la presenza dei capi.

Negli atti di inquisizione la PM Antonella Nespola scrive addirittura che «le comunicazioni possono avvenire soltanto nel gruppo di Whatsapp aziendale» per poterne probabilmente controllare le opinioni.

Un altro ex dipendente, sentito dalla PM circa le relazioni personali tra dipendenti, ha dichiarato che «Secondo la Fiorini, portano alla creazione di un nucleo troppo compatto», ovvero che il personale si può coalizzare contro di lei e smettere di sottostare ai suoi soprusi, la punizione: il licenziamento in tronco.

Le stringenti regole aziendali, comunicate oralmente ai nuovi assunti, sarebbero state valide 24 ore su 24 ed in qualsiasi luogo i dipendenti si fossero trovati, ma il legale degli inquisiti, Elio Bellino Panza, contesterebbe i fatti e replica: «Non esiste alcun “metodo Fenice”, in azienda tutti possono avere relazioni sentimentali».

La prima udienza del processo sarà celebrata a maggio e per adesso vede solo una ex dipendente a promuovere l’azione legale costituendosi parte civile assistita dal suo avvocato Graziella Zingarelli, anche se tante sarebbero le testimonianze concordi raccolte durante le indagini che confermerebbero l’esistenza delle prescrizioni vessatorie.

Pur assurda, la storia, riportata per prima dal Corriere, non è così incredibile e ricorda da vicino l’ambiente descritto nel film del 2008 «Tutta la vita davanti», diretto da Paolo Virzì e liberamente ispirato al libro “Il mondo deve sapere” di Michela Murgia, che si sviluppa nel call center Multiple Italia: una pellicola di denuncia degli effetti deleteri e perversi sull’ambiente di lavoro del precariato, segno che il problema non emerge solo ora, ma viene da lontano.

Secondo uno dei testimoni che ha lavorato nel centro tra il 2012 ed il 2016, l’ideatrice del «metodo della Fenice», sarebbe Rosa Fiorini, «una che considera l’ufficio come casa sua», invasata come Daniela, la capo telefonista del film di Virzì e che quando ha una delazione «va da chi è in difficoltà dandogli del fallito».

Altre due ex impiegate, che dichiarano di essere scappate per il troppo stress cui erano sottoposte, aggiungono benzina sul fuoco, una aggiungendo che «noi ragazze ci vedevano il venerdì, ma solo se c’era la Fiorini, mentre i maschi uscivano con Porrà, senza di loro non potevamo organizzare nulla» ed un’altra di essere scappata quando la Fiorini l’aveva accusata di avere una relazione con un altro dipendente: «Mi diede della poco di buono, non volli nemmeno il TFR».

Ci raccontano da anni che serve elasticità nelle assunzioni, che i lazzaroni devono poter essere licenziati e che le regole troppo ferree per le assunzioni non favoriscono l’economia, ma la precarizzazione del posto di lavoro ha ormai portato non solo a questi fenomeni, ma addirittura all’impossibilità di pianificare la propria vita presente e futura perché i datori di lavoro pretendono ormai di controllare anche la nostra vita privata e le istituzioni non forniscono più alcuna garanzia di sopravvivenza a chi non ha un lavoro stabile, assurda contraddizione in termini.

Si parla tanto di riforma dell’articolo 18 della legge 300/70, ma nessuno si ricorda che quella legge contiene altri 40 articoli mai riformati e che i primi 13 sono contenuti nel Titolo I, denominato “Della libertà e dignità del lavoratore”, tra queste sono specificate la libertà di opinione (Art. 1), il divieto di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori e tanto meno di quello diretto sulle sue cose personali (Art. 4), la tutela e la prevenzione della salute e dell’integrità fisica dei dipendenti (Art. 9), la tutela delle mansioni del lavoratore (Art. 13), anche se quest’ultimo è stato minato dalle norme introdotte con il Jobs Act.

La legge 300/70 è stata approvata dopo tumulti e proteste, era e rimane una legge di progresso e civiltà di cui l’Italia si è potuta dotare a seguito del sacrificio di migliaia di lavoratori, alla fine sarebbe già sufficiente far rispettare le norme che esistono, anche se molte di quelle modificate dovrebbe essere oggi recuperate.

L’Italia non ha un salario minimo stabilito per legge e non ha una vera legge che sanzioni duramente chi non rispetta le norme esistenti, anzi, alla fine non fa nemmeno rispettare le leggi che esistono tramite una giurisprudenza che mischiando interpretazioni di norme vecchie e nuove, alla luce delle aperture dei mercati in ambito internazionale per favorire il mero computo finanziario degli stati, ha già di fatto annullato quasi completamente il titolo del Titolo I della legge 300/70: “la libertà e dignità del lavoratore”.

Il caos del Call center romano non è certamente isolato e non si svolge solamente in quel tipo di ambiente, tutti i luoghi di lavoro dove si impiega personale precario sono a rischio se non già affetti della malattia del sopruso e dell’annientamento della dignità della persona.

È Tempo di smettere di stupirci di situazioni del genere, non per abitudine lasciando che tutto accada passivamente, ma è tempo di ribellarci civilmente, l’unico strumento democratico ancora nelle mani dei cittadini sono le elezioni.

Paolo Borsellino ha detto: ”La Rivoluzione si fa nelle piazze con il popolo, ma il cambiamento si fa dentro la cabina elettorale con la matita in mano. Quella matita, più forte di qualsiasi arma, più pericolosa di una lupara e più affilata di un coltello”.

Se pensiamo che Paolo Borsellino non sia morto invano seguiamo il suo insegnamento in massa, l’occasione è vicina e sarà l’unica per altri cinque anni.

L'INUTILE POLEMICA DEI SACCHETTI BIO

DI PIERLUIGI PENNATI

L’anno scorso credo di aver usato in un supermercato un massimo totale di 20 sacchetti bio o meno, di solito evito i sacchetti e riciclo quelli che già ho e trovo la tassa sui sacchetti una cosa ridicola, invece di trovare soluzioni imponiamo tasse e ci distraiamo dal vero obiettivo.

Ma se l’obiettivo è usare meno plastica, ci sono molte cose da fare prima di imporre tasse, per esempio in Germania ci sono 25 centesimi di deposito su ogni bottiglia di plastica, grande o piccola che sia, se la riporti al negozio te li ridanno, se non la riporti un clochard la ripesca dal cestino delle immondizie e la riporta lui al posto tuo, così si becca il quarto di euro con il quale, ho visto personalmente, si compra da mangiare, lo stesso per il vetro, da 8 a 12 centesimi a bottiglia.

Risultato: non ci sono in giro bottiglie, né di plastica né di vetro, eppure ne bevono di birra in Germania…

Ma l’ultima frontiera tedesca, non ci crederete, sono i gasatori per l’acqua, con una bombola ricaricabile si producono da 40 a 60 litri di acqua gasata usando quella del rubinetto, da quando ne possiedo uno non compero più plastica e vi assicuro il sapore è persino migliore e la qualità garantita, cosa non sempre vera per le bottiglie acquistate al supermercato… inoltre non ho il problema dello stoccaggio e dello smaliomento a casa.

Insomma, si può fare di meglio senza tante polemiche e/o grandi sforzi, tanto un’altra tassa è pronta all’orizzonte, ma perlomeno posso discutere di come tornare indietro dietro, a quando non c’era il Jobs Act e Renzi era uno sconosciuto, almeno a scuola, anche se lo chiamavano il bomba, non faceva danni all’Italia.

Voteremo?

Spero di si e spero che NON ri-voteremo quelli che hanno promesso giustizia sociale ed hanno giustiziato la società.

PIAZZA AFFARI . UN 2017 POSITIVO

DI VIRGINIA MURRU

 

La Piazza finanziaria di Milano ha chiuso il 2017 in grande stile, al seguito dei più importanti mercati mondiali. Il comparto azionario ha registrato un andamento al rialzo nel corso dell’anno, e le performance sono davvero incoraggianti.

L’orgoglio è giustificato se si pensa che Milano è stata la Piazza migliore in ambito Ue, in Europa la piazza di Zurigo ha fatto leggermente meglio (14,1%). Anche le principali Borse del vecchio continente hanno registrato bilanci in positivo.
Certamente il 2017 si conclude a Milano con prospettive ben diverse rispetto al 2016, quando il risultato fu decisamente negativo: -9,68%.

Tra i bancari l’azione più scambiata a Piazza Affari è stata quella di Unicredit, il cui aumento di capitale si è avviato nel 2017 sui 13 miliardi di euro. Tra i titoli più negativi troviamo la Saipem, in sconfortante ribasso, con -28%.
Ottime anche le performance della divisa europea nel 2017, l’euro si rafforza sul dollaro, migliore risultato dal 2003. Mentre lo spread ha oscillato, ma con gap lievi, che non hanno determinato urti di rilievo.

Si è trattato, per le 339 aziende quotate a Piazza Affari, di circa 650 mld di capitalizzazione (nel 2016 sono stati 525 miliardi), la crescita è del 14,55%, bilancio assolutamente positivo per il Fitse Mib, che per il Paese rappresenta una buona fetta del Pil, ossia il 37,8% (nel 2016 era il 31,8%). Fca, Il titolo del Lingotto, è risultato il migliore del listino, in buona compagnia con Ferrari, Fineco, Moncler e altre.

Sul piano internazionale, la ‘stella cometa’ dei mercati a chiusura del 2017, è stata certamente Wall Street, con risultati record: il Nasdaq a +28% e il Dow Jones a +25%, e comunque il più brillante rally si è registrato nei mercati di Hong Kong, con +36%. Rilevante anche il bilancio della Piazza di Tokio, +19%.

Risultati che in parte rispecchiano le tendenze positive dell’economia globale nel 2017, la quale ha decisamente ripreso a viaggiare con forti impulsi, le ultime stime dell’Economic Outlook semestrale dell’ Ocse hanno previsto un Pil mondiale in aumento: +3,6%, che dovrebbe essere confermato anche nel 2018, in lieve crescita: +3,7%. Vi sono delle riserve nel medio e lungo periodo, perché il rischio di scosse e shock sul piano globale, sono sempre dietro l’angolo, anche a causa delle incertezze provenienti degli eventi geopolitici.

Le ultime previsioni sulla zona euro per l’Ocse sono state ottimistiche, in crescita infatti da +2,1% a 2,4% (2017), mentre sono prudenzialmente contenute per il 2018, +2,1%. Tra i Paesi europei, la Gran Bretagna sta pagando un notevole tributo alla Brexit, con un rallentamento progressivo che passerà da +1,5% (2017), a +1,1% nel 2019. La Cina, ‘economia emergente’ protagonista nello scenario economico globale, proseguirà la sua corsa con una crescita del Pil di +6,8% nel 2017, destinato a subire lievi frenate nel corrente anno, +6,6%.

A Piazza Affari c’è stato un buon movimento di scambi (una media giornaliera pari a circa 2,5 mld di euro, e in totale, nel corso dell’anno, circa 70 milioni di contratti), sono state lanciate nel corso del 2017, un discreto numero di Opa, 18 in tutto, 15 quelle che si sono concluse per un valore di circa 800 milioni di euro.

Al positivo assetto delle Piazze europee hanno contribuito anche gli eventi politici, gli appuntamenti elettorali che hanno confermato alla guida di Stati chiave in ambito Ue, establishment moderati, scongiurando i tanto temuti assalti dei vari nazionalismi. L’elezione di Macron, più di tutti gli altri esiti, ha fatto decisamente esultare i mercati finanziari, sensibilissimi alle virate che portano incertezze negli scenari politici.

FS + ANAS= COLOSSO EUROPEO DELLE INFRASTRUTTURE

DI VIRGINIA MURRU
Il 22 dicembre il Ministero dei Trasporti e il Ministero dell’Economia hanno firmato i decreti per la fusione di FS Italiane e Anas, il cui risultato sarà un grande polo integrato, d’importanza internazionale nel campo delle infrastrutture.
“Ormai il dado è tratto” – ha commentato il ministro Graziano Delrio a operazione conclusa.
Negli ultimi giorni del 2017 è stato deliberato l’aumento di capitale da parte dell’Assemblea degli azionisti di FS, di 2,86 mld di euro, tramite il conferimento della partecipazione Anas, in toto, detenuta dal Mef. Soddisfatto il ministro dei Trasporti, Graziano Delrio, che dichiara:
“Oggi nasce un gruppo industriale che contribuirà in modo significativo alla crescita degli investimenti pubblici, e nel contempo renderà più efficiente e innovativo il sistema dei trasporti. Per il Governo è un grande traguardo, insieme a FS e Anas ha realizzato e perseguito con grande impegno questo risultato. Il fine è quello di rendere più semplici i collegamenti in Italia, attraverso un forte impulso allo sviluppo infrastrutturale, secondo un Piano pluriennale di risorse e opere prioritarie.”
Nel sito ufficiale di Anas sono stati pubblicati i nomi dei componenti il nuovo Consiglio di Amministrazione di FS Italiane, del quale farà parte la dott.ssa Gioia Ghezzi, Ing. Renato Mazzoncini (Presidenti); dott.ssa Simonetta Giordani, avv. Federico Lovadina, Ing. Wanda Ternau.
Dal CdA di Anas in arrivo la prof.ssa Francesca Moraci e il Prof. Giovanni Azzone, quest’ultimo ricopre anche il ruolo di Rettore e Presidente del Politecnico di Milano.
Con la ‘confluenza’ di Anas in FS, a fianco di Rete Ferroviaria Italiana, si crea il primo polo integrato di ferrovie e strade in Europa, in termini di abitanti serviti e investimenti; questi ultimi saranno pari a 108 miliardi di euro, ripartiti nei prossimi 10 anni. Non c’è dubbio che all’estero questo colosso avrà credenziali più forti.
Anas all’interno del Gruppo sarà in buona compagnia, ossia insieme a Italferr, che è una controllata in ambito nazionale e internazionale, per quel che concerne la progettazione e l’ingegneria. Ma nel gruppo c’è anche Trenitalia, Busitalia e Mercitalia, aziende di trasporto per merci e passeggeri.
Con il nuovo assetto il Gruppo FS Italiane ha una nuova configurazione e una rete infrastrutturale-ferroviaria-stradale di circa 44 mila Km, percorsi annualmente da 2,3 miliardi di veicoli. Pertanto 64,5 miliardi di km sulle strade e autostrade con gestione Anas, si sommano al traffico già gestito dal Gruppo FS, ossia 750 milioni di passeggeri l’anno su rotaie, dei quali 150 all’estero. Oltre a 290 milioni di passeggeri su ‘gomma’, dei quali 130 all’estero, e infine 50 milioni di tonnellate di merci. Numeri che parlano da soli.
Ora il Gruppo, in seguito al conferimento di Anas e 81 mila dipendenti, può permettersi un fatturato di 11,2 miliardi di euro, con un potere d’investimento pari a 8 miliardi, su 50 miliardi di capitale investito. Per FS e il Piano industriale decennale, uno degli obiettivi fondamentali è l’integrazione infrastrutturale.
Per Anas si attua un’altra fase nel processo di trasformazione già programmato negli ultimi anni. In cordata con FS, sarà in grado di affrancarsi dai vincoli della Pubblica Amministrazione, e potrà nondimeno raggiungere obiettivi di mercato indispensabili per il miglioramento della gestione.
FS a sua volta avrà i suoi vantaggi, potrà realizzare e progettare strade e ferrovie con la semplificazione della condizione di polo integrato, e di conseguenza, con un notevole contenimento di costi ed extra costi. Potrà, all’interno del Gruppo, condividere il know-how, che permetterà uno sviluppo di progetti integrativi (smart road), con tecnologie innovative, da realizzare in Italia e all’estero.
La cooperazione all’interno del gruppo potrà, aspetto non trascurabile, ridurre i tempi nella realizzazione delle opere, in virtù di un coordinamento operativo e gestionale del polo integrato, e tutto questo, naturalmente, andrà a beneficio dello sviluppo infrastrutturale, del quale il Paese ha bisogno per sostenere la crescita. All’estero ci sarà un soggetto unico di ‘rappresentanza’ e operatività, pertanto sul piano internazionale, il Gruppo FS Italiane rappresenterà l’intera potenzialità d’interventi e servizi legati alle infrastrutture e mobilità.
Le attività internazionali cresceranno notevolmente nel decennio 2017/26: dal 13% passeranno al 23%; in termini d’importi si passerà da un miliardo di euro a 4,2 miliardi nel 2026. FS Italiane ha realizzato diversi progetti in Arabia Saudita ed Emirati, e continuerà in futuro; l’espansione all’estero proseguirà anche in India, Americhe, Africa e Sud Est Asiatico.
Una discreta attività internazionale è stata svolta negli ultimi anni anche da Anas all’estero, con commesse per 150 milioni di euro. Una parte dei proventi delle commesse viene dalla realizzazione dell’autostrada M4 in Russia.
Tutti soddisfatti nel CdA del Gruppo FS e Anas. Dichiara Renato Mazzoncini, Ad di FS:
“Con il passaggio di Anas nel Gruppo, in futuro sarà possibile progettare, realizzare e gestire in modo efficace lo sviluppo integrato delle infrastrutture nazionali, ferroviarie e stradali, puntando su un lavoro di sinergia, sul piano tecnologico ed economie di scala, che garantiranno maggiore efficienza e velocità d’intervento. Tappa fondamentale per il Piano industriale del Gruppo, che si accinge ad un cambio di ruolo: non solo impresa ferroviaria nazionale, ma impresa europea di mobilità.”