WOLKSVAGEN. TEST SU ESSERI UMANI E ANIMALI, ED E’ DI NUOVO TEMPESTA

 
DI VIRGINIA MURRU
Il settore automobilistico tedesco ancora bersaglio della gogna mediatica, dopo una faticosa ripresa dalle indagini sulle emissioni diesel della Wolksvagen. Il software truffaldino individuato dall’Epa (Environmental Protection Agency) negli Usa alcuni anni fa, è costato parecchio alla Casa automobilistica tedesca, sia in termini di sanzioni che di immagine.
 
I riflettori sulla ‘dieselgate’ si stavano appena spegnendo ma l’allarme a quanto pare si è riacceso , siamo sempre nell’ambito degli esperimenti sulle emissioni tossiche dei diesel, implicati gli stabilimenti di Wolfsburg, ma anche BMW e Daimler. E’ stato il New York Times ad aprire la “ribalta” al nuovo scandalo; l’accusa è di avere effettuato test relativi ai gas di scarico su scimmie ed esseri umani. Sarebbero in tutto 35 ad essere stati sottoposti a questi esperimenti che comportano un elevato grado di rischio sulla salute: 10 scimmie per la precisione e 25 esseri umani.
 
Nemmeno i quotidiani tedeschi si tengono fuori dalla bufera, Il Sueddeutsche Zeitung e il Stuttgarter Zeitung, hanno rivelato il dietro le quinte di questo nuovo tornado sull’immagine della multinazionale tedesca, la Wolksvagen. Implicata anche una società, l’Eugt (chiusa in seguito alle indagini sul dieselgate, nel 2017), che ha guidato il gruppo di ricerca.
 
Condanne unanimi espresse ovunque, in primis dalle stesse autorità politiche tedesche, Angela Merkel in toni durissimi ha dichiarato il suo totale disappunto in merito:
 
“Non si possono giustificare eticamente simili iniziative, non si possono coinvolgere nei test animali e persone, pertanto non ci si deve stupire dello sdegno che tali esperimenti hanno provocato”.
 
I test si sarebbero svolti nei laboratori del New Mexico, una decina di scimmie sarebbero state chiuse in una camera e forzate a respirare per ore i gas tossici di scarico prodotti da un’auto “Wolksvagen Beetle”. Per non indurle all’insofferenza e all’agitazione, sarebbero perfino state distratte attirando la loro attenzione su immagini interessanti, in modo tale da placare il loro eventuale nervosismo.
 
Gli esperimenti in questione non sono recentissimi, risalgono al 2014, ma evidentemente le indiscrezioni sono trapelate ugualmente, sia pure in ritardo. La Casa automobilistica tedesca, tramite un comunicato, ha espresso parole di condanna, e sembra abbia preso le distanze da questi discutibili test scientifici:
 
“Ci scusiamo per quanto è accaduto, si tratta di individui che in modo autonomo hanno portato avanti test che noi da Wolfsburg non abbiamo autorizzato, e che certamente condanniamo.”
 
Smentite da parte di BMW, mentre è in corso alla Daimler una procedura di accertamento interno, che mira a portare alla luce i fatti che hanno destato un giustificato clamore; i vertici della Casa automobilistica fanno sapere che “tali esperimenti sono ripugnanti, nonché inutili”.
 
I test sono stati messi in pratica da piccoli gruppi, secondo quanto è trapelato, ma hanno seguito un percorso illecito attraverso l’Università di Acquisgrana. A finanziare gli esperimenti erano comunque Wolksvagen, BMW e Daimler.
Degli esperimenti avrebbero fatto parte anche 25 persone, nel 2014, presso la clinica dell’Università di Achen, queste cavie umane sarebbero state esposte alle insidie del diossido di azoto per alcune settimane e diverse ore di esposizione al giorno.
 
Non si capisce perché un simile putiferio sia emerso dopo anni di ritardo, dato che la ‘ricerca’ era stata pubblicata nel maggio del 2016 sulla rivista “International Archives”, che si occupa di salute e ambiente, presso l’Università di Acquisgrana, dove risulta coinvolta perfino la Bosch.
 
L’establishment politico tedesco, ha affrontato con il settore automobilistico altri attriti. Il Land della Sassonia è legato a doppio filo con la più importante multinazionale dell’auto tedesca (Wolksvagen), ed è stato coinvolto nel corso dello scandalo sul dieselgate per via dei diritti di voto che possiede sulla Casa automobilistica; per la Merkel non è stato semplice disimpegnarsi dalle responsabilità che ne sono scaturite.
 
Ora si condannano apertamente simili procedure, la Cancelliera ha affermato che i test non erano affatto necessari, bastava prevenire riducendo il livello di emissioni. Le tre case automobilistiche promettono indagini interne e provvedimenti; lo scandalo ha comunque riempito le pagine di cronaca dei giornali, una raffica che ha soffiato ovunque. La più ovvia conseguenza è il danno all’immagine, cosa non trascurabile, dopo il veleno degli anni scorsi sui dispositivi truccati nei motori diesel.
 
Una caduta di stile dell rigore tedesco e le sue credenziali internazionali? Non propriamente, dato che negli ultimi anni i dubbi sollevati sono tanti, e la tendenza alle pratiche illegali ha imperversato, nemmeno Deutsche Bank, sia pure in altri versanti, ne è stata immune.
 

WORLD ECONOMIC FORUM. ANGELA MERKEL: IL PROTEZIONISMO NON E’ LA RISPOSTA CHE CERCHIAMO

DI VIRGINIA MURRU

 

E aggiunge la Cancelliera: “si vede che la lezione della Storia non è servita..” Da leader moderato qual è, seguire la linea degli equilibri e dei contrappesi in ambito internazionale è la norma, ma non perde neppure occasione di condannare i nazionalismi e il pericolo che rappresentano per l’Europa.
Per quel che riguarda la politica del presidente Trump, nel suo intervento è anche più precisa, sia pure, per ragioni di opportunità, non diretta:
“Se siamo del parere che le cose non sono semplicemente giuste, che non vi è “reciprocità” d’intenti, allora dobbiamo cercare risposte ‘multilateriali’, non perseguire una linea di protezionismo unilaterale, che porta prima di tutto all’isolamento di noi stessi..”
Un’osservazione della Cancelliera che aveva un bersaglio preciso, viste le polemiche suscitate ultimamente dalla decisione dell’establishment politico americano, di applicare dazi all’importazione di alcuni importanti prodotti del settore manufatturiero.
Ovvio che i partecipanti all’”World Economic Forum”, abbiano compreso all’istante e intercettato la freccia della Merkel, così come il suo naturale destinatario, ossia Donald Trump (che interverrà al Forum venerdì), solo che il presidente americano non sembra curarsene più di tanto. ‘America, first’.
E non ha risparmiato l’ironia neppure Ian Bremmer, noto politologo statunitense, fondatore del Think-tank Eurasia Group, che si occupa principalmente di geopolitica. In un tweet, infatti, Bremmer scrive:
“Are you listening, Donald?”. Dopo avere riportato uno stralcio del discorso della Merkel, poi conclude il tweet, in ironia: “Mi chiedo a chi stia alludendo Angela Merkel..”.
Lo stesso Ian Brummer, proprio un anno fa, in riferimento ai rapporti Trump-Putin, commentò: “la relazione tra questi due non mi quadra..”
Una dimostrazione, qualora ce ne fosse ancora bisogno, di quanto la politica di Donald Trump sia messa continuamente in discussione prima di tutto in patria.
Tutti i leader dimostrano avversione verso le politiche protezionistiche, in special modo quelli europei, ma anche in Asia il dissenso e le contrarietà imperversano. Il premier italiano, Paolo Gentiloni, intanto, non ha nascosto le preoccupazioni al riguardo. E infatti afferma:
“Bisogna stare attenti che non si scateni una rincorsa alle misure protezionistiche, che in apparenza sembrerebbero strategie di tutela legittime, ma in sostanza le ripercussioni sono di ben altra natura sul piano economico.”
E poi punzecchia: “Potrei dire “Italy, first”, ma chiudersi dentro i propri recinti non favorisce la crescita, l’occupazione e tutto ciò che contribuisce al benessere di un Paese”.
Dunque, per favorire il dinamismo e la crescita globale, è necessario aprire le porte al mondo, non trincerarsi dietro barriere doganali, abbiamo ben visto che il regime di autarchia adottato nel ventennio fascista, avevano portato solo isolamento e vulnerabilità.
E’ poi oltremodo anacronistico parlare di protezionismo in piena epoca di globalizzazione, significa inserire la chiave in macchina per tornare indietro, difendere i propri privilegi a scapito altrui: significa usare un’arma subdola e niente affatto rivolta alla concordia e all’intesa tra i popoli.
Gentiloni aggiunge anche nel suo intervento al WTF, che sarebbe opportuno chiudere quanto prima il Trattato di Mercosur (Mercado Comun del Sur), firmato da Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay e Venezuela (ma di recente quest’ultima è stato espulsa). Sono in corso trattative tra i paesi di Mercosur e l’Ue, per accordi di libero scambio, con un potenziale mercato di 700 milioni di persone, vi gravitano intorno interessi enormi.
Dallo scorso anno gli incontri tra Ue e Mercosur si sono intensificati, anche perché Donald Trump, quando si è insediato al potere, ha iniziato a mettere in atto politiche protezionistiche, lasciando in un angolo il TPP (Trans-Pacific-Partnership, che non voleva neppure il Congresso, per cui la scelta di Trump è stata un atto formale). Le reazioni dei paesi dell’America Latina non sono state di entusiasmo, privilegiare l’espansione del mercato verso l’Europa, attraverso accordi con l’Ue, poteva essere la migliore risposta.
Secondo il discorso di Gentiloni all’Wtf, non si possono tuttavia stigmatizzare le iniziative volte a creare divisioni, verso l’Amministrazione Trump sarebbe necessario favorire un clima di distensione. Da qui le riserve sui possibili accordi tra i Paesi aderenti a Mercosur e l’Ue.
Nel corso del meeting, ha espresso dissenso verso il protezionismo, anche il premier indiano Narendra Modi, e altri invece, in circostanze concrete, hanno preferito dare qualche lezione agli Usa, come il primo Ministro canadese, dimostrando che si possono portare avanti accordi di carattere commerciale con alcuni paesi dell’area Trans-Pacifica, anche senza gli States.
Per il presidente francese, Emmanuel Macron, non ci sono dubbi che la globalizzazione debba essere difesa e rafforzata, e questo non esclude, secondo il premier francese, che le multinazionali paghino regolarmente le tasse ai paesi coinvolti nei loro traffici commerciali.
C’è chi è poi preoccupato delle iniziative dell’establishment di Trump, e anche spaventato da una possibile guerra commerciale. E’ il fondatore di Alibaba, Jack Ma, il quale, secondo una nota di Cnbc, ha invitato i policymakers a non ignorare i pericoli di ciò che sta accadendo. Afferma Jack Ma al riguardo:
“La globalizzazione sta portando fermenti negativi. E’ molto facile accendere la scintilla di una guerra commerciale, ma è alquanto difficile fermarla. Per questo sono preoccupato.”
Che il mondo stia pericolosamente svoltando a destra, suona quasi come un eufemismo, perché in realtà si avverte un sentore di deragliamento, e non solo in Occidente. Viene fuori dalle urne questa smania di autoritarismo, quando non xenofobia, e Trump con la sua politica, sta proprio interpretando la tendenza dei nostri tempi: l’Europa e i leader europei non devono farsene una ragione, ma ostacolarne il corso.

USA. PESANTI DAZI SULL’IMPORT DI LAVATRICI E PANNELLI SOLARI

DI VIRGINIA MURRU

 

La questione dei dazi non dovrebbe stupire, Donald Trump ne aveva fatto quasi un proclama durante la sua campagna elettorale, sta dunque cercando di realizzare uno dei suoi punti fermi: il protezionismo. Sul piano internazionale è ovviamente un tentativo quasi autoritario d’imporre limiti all’import, perché nei suoi intendimenti vengono sempre prima gli Usa, ossia l’intercalare fisso del suo programma di politica economica e commerciale: “America first”.

La decisione di fissare dazi all’importazione di pannelli solari e lavatrici, ha scatenato una tempesta di proteste e polemiche, e non solo all’estero, ma anche negli Usa.

Il Governo americano si accinge dunque a varare e ad applicare dazi nella misura del 20% ai primi 1,2 milioni di lavatrici importate nell’anno; le tariffe raggiungeranno il 50% per quelle importate oltre il limite indicato. A partire dal terzo anno i dazi diminuiranno, rispettivamente al 16% e 40%.
I dazi sui pannelli solari avranno tariffe del 30% per quelli oltre i 2,5 gigawatt nel primo anno, la tariffa scenderà al 15% nel quarto anno. Quelli a gigawatt inferiori saranno esentati. In poche parole sono le scintille di una guerra commerciale con la Cina, che era già nell’aria da tempo, fin dagli anni dell’Amministrazione Obama.

Nel 2011, infatti, si intrapresero misure protezionistiche contro i pannelli solari, e nel 2015 contro l’acciao (la Cina è il primo produttore al mondo).
Se si tiene conto dell’origine vera di queste strategie “anti-dumping”, Trump non ha l’esclusiva in materia. Il problema è che in questo braccio di ferro vi sono ricatti che potrebbero fare tremare gli Usa. Ai cinesi basta ricordare agli yankee la dipendenza dalle loro banche.

Sono bastati dei rumors su Bloomberg, la notizia di un possibile sell-off di Treasuries in Cina, che intenderebbe ridurre l’esposizione verso il mercato del debito americano (debito sovrano), e si sa, i mercati sono sensibilissimi: nel giro di 48 ore i rendimenti decennali dei Treasuries sono saliti da 2,48% a 2,65%, raggiungendo i massimi da quasi un anno a questa parte. La notizia è stata poi tacciata come ‘fake news’ dalle autorità cinesi e i valori dei rendimenti si sono normalizzati.

Questo per dire che i due grandi colossi economici mondiali, Cina e Usa, non hanno necessità di usare ordigni nucleari per farsi del male a vicenda, possiedono armi commerciali in grado di intimorire fortemente l’avversario.
La Cina detiene comunque ingenti riserve valutarie, e può permettersi qualche finissimo ricatto. Il valore è intorno ai 3.200 miliardi di dollari, dei quali 1.189 in Treasuries, ed è pertanto il primo creditore degli Stati Uniti. Ha aumentato le sue riserve da quando Trump ha preso il potere (38 miliardi in più).

Sono stati diffusi anche i dati sui rapporti commerciali tra Usa e Cina, e nessuno ormai si sorprende della supremazia cinese anche in questo ambito, l’export verso gli States è aumentato del 15% nel 2017. Di pari passo il surplus commerciale (sempre della Cina) nei confronti degli Usa, è andato a circa 280 miliardi, quasi 20 miliardi in più rispetto al 2015.

Intanto, il gigante degli elettrodomestici americani Whirlpool ringrazia, come se l’Amministrazione americana gli avesse piazzato dei molossi davanti ai cancelli, visto che da anni l’industria si lamentava della concorrenza sleale operata dalla Cina, con importazioni a costi nettamente inferiori. Per dimostrare quanto la manovra del Governo sia stata opportuna, Whirlpool ha promesso l’assunzione di 200 lavoratori.

E’ chiaro che la Cina, essendo il primo produttore al mondo di pannelli solari, e avendo enormi interessi nell’export verso gli Usa (nel 2017 ha esportato 21 milioni di lavatrici..), non rientra nelle simpatie del settore manifatturiero americano. E i cinesi sanno anche tramare bene per i propri interessi, dato che in più circostanze il Ministero per il Commercio ha dichiarato che il prezzo più alto dei pannelli solari americani finirà per distogliere la gente dall’investire in energie pulite, e tutto questo non farà che favorire l’inquinamento nel pianeta, il quale, francamente, non sembra essere il primo pensiero del presidente Trump. Anche se gli ambientalisti americani non gli danno tregua.

La Corea del Sud deve difendere a sua volta, gli interessi delle sue due multinazionali: Samsung ed LG e in questi giorni si studiano le strategie per obbligare Trump a tornare indietro, in primis si studia un procedimento da presentare al Wto.
Il presidente Trump ha deciso di ricorrere a queste misure protezionistiche in seguito alle raccomdandazioni della Commissione Internazionale per il Commercio degli States, la quale ha dichiarato che le importazioni dei due prodotti, pannelli solari e lavatrici, danneggiano la produzione di quelli nazionali. La scelta di applicare i dazi è tuttavia in contrasto con le disposizioni emanate dal Wto, che gli Usa dovrebbero rispettare.

Lo afferma senza tentennamenti il capo dell’ufficio indagini commerciali del ministero del Commercio cinese, Wang Hejun, e gli fa eco il ministro del Commercio della Corea del Sud, Kim-Hyun-chong. Per entrambe le autorità politiche si tratta di eccessi e abusi ai danni dei paesi esportatori. Proprio il ministro coreano, che ha lavorato al Wto in qualità di avvocato – Divisione “Appellate Body Secretariat and Legal Affairs” – ha affermato di essere ottimista circa la possibilità di far valere il ricorso contro il protezionismo.

Ma neppure le autorità americane del settore stanno a guardare, le critiche verso le misure intraprese sono aspre, e lo esprime in modo chiaro l’Associazione dell’Industria per l’Energia Solare degli States:
“si tratta di strategie che finiranno per danneggiare gli Stati Uniti, ci sono in ballo 23 mila posti di lavoro, che saranno cancellati se verranno applicate i dazi, insieme a miliardi di dollari in termini di investimenti.”

Il paese ‘del sol levante’ è tutt’altro che arrendevole, e c’è da giurare che le ritorsioni non tarderanno a farsi sentire, e non saranno da meno i coreani del Sud, già inviperiti per l’insidia che sta per affrontare LG e Samsung. Come restare indifferenti? Il mercato americano ha enormi potenzialità per le multinazionali.

E così se i due colossi sud coreani saranno danneggiati, oltre a quelli cinesi dei pannelli solari e lavatrici, c’è da aspettarsi che, per esempio, Apple e Boeing, potrebbero finire nella lista nera. Già, perché neppure il mercato cinese è uno scherzo, soprattutto da una trentina d’anni a questa parte, e gli americani lo sanno bene. Si sta profilando in definitiva un orizzonte di conflitti, visto che ad affrontarsi sono le più grandi potenze economiche e commerciali del mondo.

SECONDO UNA RICERCA DELL’UNIVERSITA’ CA’ FOSCARI, L’EVASIONE FISCALE E’ IN AUMENTO

DI VIRGINIA MURRU

 

L’evasione fiscale, nonostante tutte le misure in atto per prevenirla, è in aumento di circa 5 miliardi, secondo una ricerca dell’Università ‘Ca Foscari’ di Venezia. Le cause deriverebbero dagli effetti del fenomeno definito ‘under reporting’ nelle dichiarazioni dei redditi, che in spiccioli è una ‘sotto stima’ dei propri redditi, volutamente ridotti rispetto a quelli effettivi con il fine truffaldino di aggirare, eludere la scure dello Stato, ovvero il fisco. . I dettagli della ricerca sono stati pubblicati nel sito del Senato.

Il gettito mancato, secondo questa ricerca, è tra i 124 e 132 miliardi di euro. Una perdita notevole, dato che si tratta di 38 miliardi l’anno. Nell’ultimo Def  i dati relativi alle entrate mancate per l’Erario,  riguardanti i redditi da lavoro autonomo, dipendente e da locazione, erano circa 33 miliardi, dunque 5 miliardi in più, secondo gli studi portati avanti dall’Università di Venezia

Il dipartimento di Economina, infatti, ha integrato i due principali ‘metodi’ di stima in merito all’evasione: il ‘discrepancy method’ e il ‘consumption based method’. I risultati non stupiscono più di tanto, ma comunque impressionano, dato che un quarto degli intervistati mente senza pudore, e la percentuale sale quasi al 50% quando si tratta di under reporting legato alla dichiarazione dei proventi derivanti dagli affitti.

Mentire è un riparo che non garantisce molto, ma tant’è: si mente pur sapendo che le bugie solitamente hanno le gambe corte, mentre il Fisco, con i suoi ‘droni’ e gli strumenti  sopraffini di cui è dotato, ha lo sguardo sempre più lungo e acuto.

 I contribuenti italiani mentono anche nelle rilevazioni demoscopiche: si stima che uno su quattro non dichiari la verità, e così le risorse non riscosse per l’erario aumentano, anziché essere più contenute. A tramare ai danni del fisco sono le partite Iva e i contribuenti con ingenti proprietà immobiliari, ma anche i piccoli non disdegnano i rifugi del mentire allorché si tratta di versare imposte ritenute inique.  

Lo Stato infatti esige, dal comune affitto di una casa vacanza (per esempio), il 23% degli introiti. Anche quando si tratta di una sola casa vacanza, che è magari frutto dei risparmi di una vita, e non di rado dietro l’investimento è stato acceso un mutuo. In questo ambito occorrerebbe una migliore perequazione, che colpisca i redditi più alti, non quelli minimi con la medesima aliquota.

Si evadono, secondo la ricerca di Ca’ Foscari,  sistematicamente informazioni concernenti il reddito, si dichiara meno di ciò che si dovrebbe, secondo la normativa in vigore, e si spera di farla franca. I più truffaldini sarebbero coloro che dichiarano i redditi derivanti da contribuenti soggetti ad autotassazione (quelli che riguardano le classi di reddito più elevate, ossia dai 40 ai 60 mila euro in su), lavoro autonomo e impresa, in questo ambito le lacune nella dichiarazione dei redditi effettivi e spendibili, è del 23%. Sale invece al 44% quando si tratta di cespiti inerenti redditi da locazione e rendite da capitale.

Non è sempre semplice per le autorità del fisco colpire con sanzioni e accertare le evasioni dei soggetti contribuenti che dichiarano un reddito inferiore ai 30 mila euro, mentre ne nascondono dai 10 ai 15. Così come coloro che  dichiarano 75 mila euro e in realtà ne nascondono dai 25 ai 30 mila.

Per quel che riguarda la distribuzione geografica dei mentitori incalliti, non vi sono aree particolarmente inclini a non dichiarare l’entità effettiva del reddito, anche se, tendenzialmente, il Meridione ha una ‘propensione’ un po’ più marcata.

Ma vediamo di capire quale relazione c’è tra under reporting ed evasione vera e propria. Semplice: in definitiva sono gli stessi soggetti che nelle interviste hanno la tendenza a non dichiarare il vero, e pertanto sottostimano il loro reddito; tale ‘attitudine’ si conferma nell’inclinazione a occultare i propri proventi ai rappresentanti del fisco. Gli effetti sono evidenti, come già si è constatato:  la perdita di entrate per l’Erario, ovvero per lo Stato, quindi la perdita di risorse che avrebbero potuto essere impiegate proficuamente  in ambito economico.

In questa bolgia di mentitori (in questo caso verso il fisco ), ai quali Dante nel XXX Canto dell’Inferno riserva un trattamento piuttosto rigoroso, si distingue una categoria: si tratta dei pensionati, secondo gli studi e le ricerche, sembrerebbero i più virtuosi e diligenti. Anche perché, diciamola tutta,  il loro reddito, solitamente, viene tassato alla fonte, e aggirare l’ostacolo è praticamente impossibile.

Le cifre concernenti l’evasione sono, per la natura stessa del fenomeno, comunque approssimative, dato che non è semplice quantificare la portata reale dell’evasione, nonostante una base  di calcolo derivante dalle indagini campionarie.

 

 

VENTI CONTRARI PER LE CRIPTOVALUTE, CROLLO DEL BITCOIN

DI VIRGINIA MURRU

 

La diffidenza verso le ‘criptovalute’ dilaga, la Cina ne sta vietando il trading centralizzato, ma il muro alzato sugli scambi arriva anche dalla Corea del Sud, e in Europa, da Germania e Francia. Il bitcoin è sotto i 12 mila dollari, secondo l’Agenzia Reuters, c’è un affondo pari al 18% (martedì 16 gennaio, valore minimo del 2018, dopo un anno al galoppo che sembrava inarrestabile).

E’ stato quindi il bando sentenziato sugli scambi che ha innescato panico e timore “di un più ampio giro di vite regolatorio”. Il 16 gennaio scorso è già stato definito il ‘martedì nero del bitcoin’.

L’impetuosa corsa alle vendite turbina nel mercato di tutte le criptovalute, delle quali, Ethereum è in calo del 23%, e Ripple del 33%. Il sito sudcoreano “Yonhap”, riporta le dichiarazioni rilasciate ad una radio locale dal ministro delle Finanze Kim Dong-yeon, il quale sostiene in sintesi che verranno adottate una serie di misure per arginare la corsa irrazionale e sfrenata agli investimenti in criptovalute.

Ma anche la Cina ha contribuito ad assestare colpi pesanti al bitcoin. Sempre secondo la nota di Reuters, ai vertici della Banca Centrale (su direttiva del vice Governatore Pan Gongsheng), avrebbero deciso di vietare il trading centralizzato delle criptovalute. Ossia quello che passa attraverso le piattaforme “Coinbase o Kraken” canali privilegiati per lo scambio. Anche se per gli irriducibili gli scambi avvengono su canali alternativi.

Intanto, la Corea del Sud, intende bandire gli scambi di valuta virtuale, almeno per ora quelli che non sono stati ancora finalizzati, ma è in programma una disciplina di carattere giuridico per la regolamentazione del mercato. Tutte notizie che corrono sul web e che non contribuiscono ad un rialzo della fiducia, e infatti il bitcoin sta rilevando un crollo di notevoli proporzioni, dato che sulla piattaforma Bitstamp (Lussemburgo), è andato giù fino a 11.200 dollari. Di questo passo la sopravvivenza diventa critica.

Ma la criptovaluta, in termini razionali, che cos’è in realtà?
E’ certamente un’espressione dell’era digitale, in primis.
Dunque una moneta “paritaria”, decentralizzata (e digitale), queste le caratteristiche più singolari, il cui “volume” d’implementazione è basato sulla crittografia, quando si tratta di rendere valide le transazioni e per la generazione.

Ma una vera e propria definizione sfugge e tutte le leggi della finanza in questo ambito, dato che, in ogni caso, è difficile legittimarla al pari di una moneta con corso legale. Trasponendo in un’asse di confronto le due “unità di conto” – la moneta reale e quella virtuale – si può arrivare a qualche stentata conclusione, per ovvie ragioni.

La moneta reale è certamente il mezzo di scambio per eccellenza, e “riserva di valore”, poiché è intrinseca la capacità di mantenere nel tempo il valore e quindi d’essere utilizzata nel futuro senza rischi di deterioramento. La moneta reale porta in sé un “potere liberatorio” in quanto mezzo di pagamento, dato che, nel momento in cui l’acquirente versa il corrispettivo del bene acquistato mediante il controvalore (in moneta appunto), viene meno ogni onere che grava su di lui, dato che si estingue così il debito.

La moneta reale è un’unità di conto, per via delle caratteristiche che storicamente le sono state attribuite, ossia rappresenta un metro comune per misurarne il valore, cosa che si verifica regolarmente con le transazioni commerciali. Ed è la prerogativa storicamente più datata nel tempo, basta pensare agli scambi delle Civiltà più evolute nel Mediterraneo di ormai 5 mila anni or sono, che incidevano su tavolette di argilla il valore relativo allo scambio dei beni, il più elementare negozio giuridico nel quale i protagonisti erano l’acquirente e il venditore.

E’ implicito che, a garanzia del legittimo uso della moneta reale, vi siano organismi di carattere economico-giuridico-finanziario (di espressione politica) che investano la moneta stessa di potere liberatorio nella conclusione di una transazione.

Alla criptovaluta (bitcoin o altre con funzioni simili), non vengono riconosciute le stesse prerogative della moneta reale. Secondo gli esperti, il bitcoin finisce per essere volatile in quanto (secondo un’analisi de Il Sole 24 ore), l’offerta finale del numero di bitcoin è definita, ossia il valore varia a seconda degli umori della domanda. La conclusione alla quale si perviene è che in un simile contesto, la criptovaluta non si può definire “unità di conto”, poiché si comporta come un metro la cui capacità di misura si dilata o si restringe nel tempo. Pertanto non è un mezzo idoneo virtuoso che può essere usato nella contabilizzazione.

Nel panorama poco edificante delle criptovalute, negli ultimi giorni, troviamo anche paesi europei che mettono le mani avanti e prendono misure adeguate a difendere i risparmiatori dai rischi di perdite ingenti, come sta accadendo in Francia e in Germania.

E’ stato infatti Macron a mettere in discussione il bitcoin, decidendo di portare all’attenzione del G20 questo tema attuale e ormai scottante, sempre con l’obiettivo di tutelare i risparmiatori. Ma non solo. Sempre in Francia è di prossima istituzione un “Osservatorio Nazionale sulle Criptovalute”, considerate ormai una potente insidia per la società.

Le Maire, ministro dell’Economia, ha recentemente dichiarato che è in via di definizione la nomina di una Commissione, guidata da Jean Pierre Landau (ex Governatore della Banca di Francia), che avrà la funzione di argine sui rischi derivanti dalle speculazioni nell’ambito delle criptovalute in generale e del bitcoin in particolare. Landau è sempre stato un nemico dichiarato del bitcoin, e non ne ha mai fatto mistero, pare li abbia definiti ‘i tulipani del XXI secolo’, rimando alla speculazione del 2014.

L’avversione sta diventando un tam tam generale, e anche dal versante tedesco della Bundesbank le riserve sono tante. Secondo i vertici della Banca Centrale, sarà inutile lottare all’interno dei propri confini nazionali se non si realizzerà una disciplina di coordinamento giuridico internazionale in grado di ostacolare le speculazioni e tutelare i risparmiatori.

Si annunciano insomma tempi duri per le criptovalute; le sue regole quasi imponderabili sui mercati virtuali, dovranno passare ora attraverso i cingoli delle ferme opposizioni politiche, quasi un morso del cobra per chi fino ad ora ha lucrato in questo ambito. Certamente imprevisto, non in modo così severo, dopo un anno di boom esplosivo, in un mercato in cui vere e proprie regole non ne esistono, forse anche questa è stata la ragione del successo, basato sull’azzardo e il brivido del rischio.

Quando in questi panorami virtuali s’insinua la disciplina della Legge, si è obbligati a procedere su strade ferrate, non su quelle fissate nei transiti irrazionali, dove c’è spazio per illeciti e trasgressioni.

ALITALIA. ANCORA STALLO NELLA VALUTAZIONE DELLE OFFERTE

DI VIRGINIA MURRU

 

Si è concluso l’incontro interlocutorio al Mise tra i ministri Carlo Calenda, Graziano Delrio e i Commissari straordinari Alitalia, Luigi Gubitosi, Enrico Laghi e Stefano Paleari . Al momento non ci sono novità di rilievo, c’è stata solo un’analisi e uno scambio d’impressioni sulla procedura di amministrazione e il processo di vendita della Compagnia.

Si è in definitiva concordato sull’esigenza di ulteriori approfondimenti prima dell’avvio di una negoziazione in esclusiva. Si dovranno valutare con attenzione le tre manifestazioni d’interesse più importanti per il rilevamento dell’ex compagnia di bandiera, e dunque le proposte di Lufthansa, Easy Jet e il Fondo Cerberus.

I tre Commissari hanno puntualizzato che nel primo trimestre Alitalia presenterà una situazione di ricavi in crescita rispetto allo stesso periodo del 2017, e che il prestito ottenuto dallo Stato (900 milioni), non è stato utilizzato. I ministri hanno poi fornito indicazioni ai Commissari per giungere alla conclusione rapida della trattativa allorché si presentasse un’offerta solida e congrua.

Lufthansa, per ora, nonostante le aspettative fossero quelle di un orizzonte più certo, con intese vincolanti, resta in sala d’attesa. Del resto, in più occasioni, il ministro Delrio ha precisato che Alitalia non può essere svenduta con la logica ‘del miglior realizzo’, seguendo ciecamente le condizioni di chi vorrebbe rilevarla. E la Cgil ha a sua volta messo in evidenza la contrarietà verso un possibile piano di esuberi , una delle clausole di Lufthansa per l’acquisto.

Il ministro dei Trasporti Delrio ha anche più volto messo in chiaro l’intento di rendere più veloci le procedure per gli accordi “affinché non si sprechino i soldi degli italiani, e il prestito ponte concesso dal Governo Gentiloni, 900 milioni in tutto, ancora intonso, si eviti di intaccarlo.”

Si deve poi ricordare che nelle travagliate vicende che hanno riguardato Alitalia, è intervenuta anche la Regione Lazio, con 3 milioni e mezzo di euro, a sostegno dei dipendenti della compagnia, che coinvolgono peraltro fortemente la regione, dato che tra aziende operanti sul territorio e 12 mila dipendenti, c’è un evidente interesse alla tutela.

I Commissari, prima della delicata decisione finale, hanno seguito un iter a ritroso, analizzando ancora una volta, le 32 manifestazioni d’interesse che erano pervenute alla sede dell’ex compagnia di bandiera a giugno del 2017. I relativi soggetti interessati sono stati riascoltati, l’intesa, a questo punto, potrebbe essere raggiunta in modo anche imprevedibile, con possibili modifiche ai precedenti accordi e nuovi scenari.

Delle tre proposte più vicine al traguardo ‘acquisto’, Easy Jet e Lufthansa hanno presentato offerte vincolanti, mentre il Fondo Cerberus ha presentato solo una manifestazione di interesse, non offerte formali.
Intanto ci sono in gioco anche Delta e Air France, quest’ultima ha avuto accesso alla data room, segno di interesse prima di elaborare un’offerta. La partita in campo è pertanto ancora aperta, gli interlocutori sono aumentati, e il clima di ‘concorrenza’ non potrà che giovare alle trattative in corso; a favore di Alitalia, ci si augura.

Difficilmente si prenderà una decisione prima delle prossime elezioni politiche, ormai prossime, per ragioni di opportunità è possibile che il tutto slitti alle soglie dell’estate, anche perché, qualora si procedesse ad un taglio sul piano dell’occupazione, i sindacati si rivolterebbero.

Se si optasse per Lufthansa, si deve essere consapevoli che gli esuberi sfiorerebbero le 2 mila unità, oltre ad un processo di riduzione della flotta, e conseguenti cancellazioni di tratte a medio e lungo raggio che determinano solo costi. E’ una strategia della Compagnia tedesca, la quale si è dimostrata inflessibile su questi punti, fondamentali per il risanamento dell’azienda.

E’ altrettanto evidente che ogni soggetto proponente, tende a ‘portare l’acqua al proprio mulino’, e non certo a compiacere gli interessi della controparte. In gioco ci sono gli hub, le più grandi compagnie che si sono avvicinate alla data room di Alitalia, mirano a incrementare il traffico attraverso nuovi flussi, è in definitiva la logica del puro profitto, che va oltre ogni scrupolo di ripercussione sul piano occupazionale.

Ma forse più di ogni altro rischio c’è da valutare la perdita di autonomia, questi colossi del traffico aereo, considerano Alitalia semplicemente un mezzo per rendere più solidi e stabili i loro bilanci. Sul piano decisionale, l’ex compagnia di bandiera potrebbe perdere veramente autonomia, e anche quel prestigio internazionale che, malgrado tutte le battaglie perse in retrovia, l’ha contraddistinta.

Considerazioni sulle quali non si dovrebbe sorvolare a prescindere, nonostante la criticità del momento.

FCA IN 5 ANNI PUO’ RADDOPPIARE GLI UTILI, ANCHE GRAZIE AL BRAND JEEP

DI VIRGINIA MURRU

 

“La Fiat Chrysler Automobiles raddoppierà gli utili nel volgere di cinque anni, grazie anche all’impulso del marchio Jeep”. Lo ha dichiarato Sergio Marchionne, Ad del gruppo, in un’intervista a Bloomberg.

Nell’articolo si sottolinea che Marchionne è “one of the longest-serving bosses in the auto industry” (uno dei ‘capi’ che più a lungo ha ricoperto il ruolo nell’industria automobilistica), e infatti è al vertice da ben 15 anni.

Sarà anche Trump e il suo establishment, attraverso la riforma fiscale, a favorire l’incremento degli utili di Fca per circa un miliardo di dollari l’anno. E’ ovvio che poi il gruppo abbia deciso di aumentare la produzione negli Usa. Il Ceo Marchionne, ( sempre nell’intervista a Bloomberg) ha quindi confermato le voci sul possibile cambio di guardia alla guida di Fca: nel 2019 dovrebbe lasciare il gruppo.

Secondo le sue dichiarazioni, la causa sarebbe la stanchezza e il desiderio di dedicarsi ad altre attività, ‘perché gestire un’importante industria automobilistica ti consuma’. Dopo Fca potrebbe occuparsi di Exor, holding di controllo della famiglia Agnelli.

Esiste già una lista di candidati per sostituirlo, le loro competenze sono al vaglio dei vertici del gruppo.
“His growth strategy is focused on a global expansion of Jeep” (la sua strategia di crescita è diretta all’espansione sul piano globale del marchio Jeep), si legge nell’articolo pubblicato questo pomeriggio dall’Agenzia di Stampa internazionale. Tra gli obiettivi di Marchionne c’è però anche quello di riportare la Ferrari a vincere il Campionato del mondo.

Quest’anno, intanto, il gruppo porterà a compimento il Piano industriale presentato a Detroit quattro anni fa (aprile 2014). Gli obiettivi ‘indebitamento zero e 5 miliardi di euro in cassa’, sono stati raggiunti, ci sono però ancora incertezze a livello produttivo.

La Fca non è stata immune dalla crisi economica globale esplosa nel 2008, e pertanto sono stati rinviati alcuni target in termini di sviluppo, in particolare quelli concernenti il marchio Alfa Romeo. Rinviato il lancio di tre modelli dell’Alfa.

In ogni caso, e in più occasioni, Marchionne ha puntualizzato che la situazione internazionale è ancora complessa, e prima di lasciare il gruppo definirà le linee guida per gli anni successivi al 2019.

Secondo Bloomberg ‘Chief Financial Officer Richard Palmer is seen by investors as the leading candidate for the job’. Il prossimo candidato, potrebbe dunque essere Riccardo Palmer, manager responsabile della gestione generale delle attività finanziarie (Direttore finanziario).

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PREZZO DEL PETROLIO. INARRESTABILE CORSA AL RIALZO

DI VIRGINIA MURRU

 

Il prezzo del petrolio  non sfiorava vertici così alti dal 2015, un’autentica corsa al rialzo, impennata favorita anche dalla recente esplosione di un oleodotto in Libia. Già gli ultimi giorni del 2017 la Cnn scriveva che il prezzo del greggio superava i 60 dollari al barile. Ora i contratti sul greggio Wti (con scadenza febbraio, sul mercato ‘after hour’ di New York), ha raggiunto quota 63,43 dollari al barile. Salite anche le quotazioni dei titoli petroliferi.

Mentre il Brent va ancora più su: siamo a 69,26 dollari al barile, mai così in alto da 3 anni a questa parte. L’incremento della domanda, secondo gli esperti, ha incentivato le quotazioni, dietro ci sono anche le stime derivanti dal ‘Rapporto mensile dell’Energy Information Administration’, Agenzia degli States, che prevede un aumento della domanda per quest’anno, intorno al 2,4%, e nel 2019 del 2%.

Lontano il 2016, quando invece i prezzi seguivano una ‘corsa al ribasso’, l’oro nero sfiorò infatti un minimo di 26 dollari al barile, il rialzo riprese solo quando all’Opec si accordarono per ridurre la produzione, con tagli che si sarebbero dovuti portare avanti fino al 2018. Accordi rinnovati di recente anche col benestare della Russia.

L’esplosione in Libia, secondo la National Oil Corporation, costerà una perdita tra i 70 e i 90 barili di greggio in termini di export al giorno. All’origine dell’esplosione, come ormai è noto, ci sarebbe un commando di terroristi Isis, i quali avrebbero minato gli impianti con esplosivi.

 

ISTAT. IN CALO IL TASSO DI DISOCCUPAZIONE GIOVANILE, SIAMO A 32,7%

DI VIRGINIA MURRU

 

Ancora buone notizie sul fronte dell’occupazione, l’Istituto Italiano di Statistica ha divulgato i dati riguardanti novembre 2017, dai quali emerge che la stima degli occupati è in crescita, con + 0,3% rispetto al mese precedente, in termini di numeri si tratta di 65 mila occupati in più.

Il tasso di occupazione va quindi al 58,4%, ossia +0,2 punti percentuali. Un dato che comunque incoraggia, segno di un sistema che si muove in modo positivo, se è in grado di generare occupazione, quand’anche si trattasse di contratti a termine.

Nel periodo di riferimento, secondo gli ultimi i dati Istat si riscontra una crescita che riguarda le due componenti di genere, e tutte le classi di età, tranne quelle comprese tra i 35-49 anni. In salita il numero dei dipendenti, sia dei permanenti che di quelli assunti a tempo determinato. Risultano in calo gli indipendenti.

Mentre i dati sull’occupazione sono una buona ‘spia’ per il Governo, lo sono meno per la leader della Cgil, Susanna Camusso, la quale, in un’intervista all’Ansa, dà una lettura più disincantata. A suo avviso i dati relativi al tasso di occupazione devono essere interpretati con maggiore realismo, così infatti dichiara in merito:

“Non c’è proprio da esultare, si tratta dell’ennesimo boom di contratti a termine, c’è ancora immobilismo nel versante dell’occupazione, soprattutto di quella giovanile. Noi continueremo a proporre per i giovani una riforma che ne preveda la tutela con una pensione di garanzia, una risposta efficace alla prospettiva previdenziale, che vada oltre la riforma Fornero. Finora il sistema non ha tenuto conto delle nostre proposte, ma noi insisteremo in questa direzione.”

Nessun facile entusiasmo da parte dei sindacati, anche se i numeri dell’Istat fanno sperare in un’inversione di tendenza, anzi qualcosa di più, dato che in termini percentuali, il tasso di disoccupazione risulta essere quello più basso dal 2012. Nei giovani tra i 15 e i 24 anni (sempre a novembre 2017), il tasso scende al 32,7%, in calo non di poco: 1,3 punti rispetto al mese precedente.

E su base annua, il rapporto di questi dati è ancora più positivo: il calo dei disoccupati è pari a 7,2 punti percentuali. A livello generale, il tasso va all’11% a novembre scorso, lo 0,1 punti in meno rispetto ad ottobre. Ma l’asse si sposta in positivo anche sul terreno degli occupati, che crescono di 65 mila unità, e pertanto, sempre nel periodo di riferimento, siamo a 23,18 milioni, per trovare un tasso simile si deve andare a ritroso nell’archivio storico dei dati fino al 1977.

Nel trimestre settembre-novembre, si evidenzia una crescita in termini di occupati, rispetto al trimestre precedente, di +0,4%, tradotto in numeri si tratta di 83 mila occupati in più, per entrambi i generi, e la crescita si concentra in particolare tra gli ‘over’ 50, in misura più lieve interessa anche i 15-24enni, considerando comunque il calo degli occupati nella fascia tra i 25 e i 49 anni.

Come ha fatto rilevare la leader della Cgil, l’incremento degli occupati deriva dai contratti a termine, dato che si riscontra un calo tra quelli permanenti, mentre restano stabili gli indipendenti.

Diminuiscono a novembre i lavoratori alla ricerca di occupazione, un calo in rilievo per quattro mesi consecutivi, sarebbero 18 mila in meno. Il tasso di occupazione secondo gli ‘effetti’ demografici, resta ancora sotto i livelli rilevati nel 2008: -0,5 punti percentuali. Per le donne il tasso di occupazione è in crescita, e va al 49,2%, il dato più positivo di sempre.

Su base annua, secondo i dati Istat, risulta in crescita il numero degli occupati, ossia di +1,5%, che corrisponde a 345 mila per entrambi le componenti di genere.
Tra i 15-64 anni il tasso di occupazione sale al 58,4% (novembre 2017), con un incremento di 0,2 punti percentuali su ottobre, e 0,9 punti su base annua rispetto allo stesso periodo del 2016.

Sottolinea l’Istat: “Al netto dell’effetto della componente demografica tuttavia, su base annua cresce l’incidenza degli occupati sulla popolazione in tutte le classi di età.”
Il premier Gentiloni commenta con cautela i dati diffusi dall’Istat, ma non nasconde in un tweet nemmeno la soddisfazione:

«A novembre il numero di occupati ha raggiunto il livello più alto da 40 anni. E scende anche la disoccupazione giovanile. Si può e si deve fare ancora
meglio. Servono più che mai impegno e serietà, non certo una girandola di illusioni».

Più entusiasmo e orgoglio nel commento dell’ex premier Matteo Renzi:

“Da questi dati emerge un risultato storico, da quando abbiamo preso le redini del Governo, nel 2014, l’Italia ha registrato un milione di posti di lavoro in più.”

Secondo Vincenzo Boccia, leader degli industriali, i dati confermano semplicemente quello che Confindustria ha da tempo messo in rilievo, ossia che si tratta di risultati conseguenti alle buone misure di politica economica. Le riforme hanno dato un nuovo slancio al paese, secondo Boccia, Jobs Act in primis.

Opinione che certamente non condividerebbe con Susanna Camusso e una buona parte dei lavoratori del Paese.

SONO GLI NPL LA VERA SPINA NEL FIANCO DELLE BANCHE ITALIANE

DI VIRGINIA MURRU

E’ First Cisl a fare il punto sulle reali criticità delle banche. Il sindacato, nel portare avanti un’analisi sui bilanci delle principali 5 banche nei primi 9 mesi del 2017, mette in rilievo il fatto che sugli 8 mld di utili realizzati dai cinque grandi istituti bancari italiani, hanno contribuito in modo notevole i 14 miliardi di commissioni nette direttamente connesse al fattore lavoro.

Sostiene a questo proposito il Segretario Generale di First Cisl, Giulio Romano:
“Il peso vero che grava sul sistema bancario non è il costo del lavoro, ma le grandi svalutazioni esatte dai regolatori europei, e i riflessi non sono di poco conto, dato che si continuano a ‘svendere’ Npl con esigui recuperi, mentre il loro valore potrebbe rientrare in maniera più rilevante attraverso una gestione oculata e paziente, producendo così un reddito ben più consistente.”

Le svalutazioni, secondo le analisi del sindacato, hanno raggiunto un valore di 10 miliardi di euro nei primi nove mesi del 2017, mentre il loro recupero qualora fosse stato risolto “in house dai dipendenti, avrebbe generato reddito”. E infatti, precisa ancora First Cisl, “agli 8 mld di utili realizzati dalle 5 maggiori banche italiane (nei primi 9 mesi dello scorso anno), hanno dato un grande contributo gli oltre 14 miliardi di commissioni nette.

Dichiara il responsabile dell’Ufficio Studi del sindacato, Riccardo Colombani : “l’utile al quale si fa riferimento beneficia inoltre dei 527 milioni registrati in termini di calo dei costi del personale, per via di un taglio di quasi 8 mila addetti negli istituti analizzati, non tenendo conto però delle riduzioni di personale nelle banche acquisite da Intesa Sanpaolo e Ubi.”

Questi interventi hanno un valore, sommati alle commissioni nette, di quasi 16 miliardi complessivi nel versante dei risultati lordi della gestione. Il costo del lavoro, nello specifico (e per i 5 grandi gruppi bancari analizzati), ha inciso per 12,6 miliardi.

Sempre secondo gli studi compiuti da First Cisl, a schiacciare la redditività sono gli oltre 10 miliardi di rettifiche sui crediti, e in questo versante non è cambiato quasi nulla rispetto ai riscontri dello stesso periodo del 2016.

La parte più incisiva è rappresentata pertanto dagli accantonamenti su crediti che divorano una somma più alta dell’utile netto, equivalente al 70% delle commissioni, mentre sugli interessi netti raccolti dalle banche, siamo al 59% di 17 miliardi.

Se gli Npl non fossero sistematicamente venduti con la logica più o meno ‘del realizzo’ – e gestiti in house da personale competente, e gli accantonamenti si effettuassero tenendo in considerazione i recuperi realizzati – gli utili, secondo gli studi di Riccardo Colombani, riprenderebbero a generare reddito, quindi sviluppo ed occupazione.

ISTAT. 3° TRIMESTRE 2017: IN RILIEVO LA PROPENSIONE AL RISPARMIO DELLE FAMIGLIE

DI VIRGINIA MURRU

 

Tutte in positivo le stime preliminari diffuse dall’Istat, relative al terzo trimestre 2017. L’inflazione, a dicembre scorso, ha messo in evidenza un aumento dello 0,4% su base mensile, mentre su quella annuale (rispetto al 2016), è dello 0,9%; non siamo ancora alla soglia del target (2%), ma non c’è neppure la preoccupante immobilità degli anni scorsi: era in agguato la deflazione.

Buone anche le performance dei prezzi al consumo, i quali registrano un incremento pari all’1,2%, seguito alla flessione del 2016. Se si tiene conto dell’inflazione di fondo, ossia al netto di beni energetici e alimentari freschi, si è a +0,7%; non è tanto, ma l’Istat mette in rilievo il cambio di tendenza, che riporta i dati sul livello dei prezzi al 2013. E’ già un buon risultato.

I prezzi dei carburanti, benzina e diesel e altri prodotti, avevano subito ribassi notevoli nel 2016 (-6%), mentre lo scorso anno si è registrato un trend positivo, ossia +6,2%. Più o meno le stesse considerazioni per gli energetici regolamentati, quelli che ci ritroviamo nelle fatture delle utenze: erano a -5,0% nel 2016, e sono andati poi a fine 2017 a +2,9%.

L’Istat, nel suo comunicato, precisa che i Conti relativi alle Amministrazioni Pubbliche (AP), famiglie e Società, sono elaborati in milioni di euro, a prezzi correnti, e rientrano tra i Conti trimestrali dei vari settori istituzionali.
I dati sulle AP sono espressi in forma non destagionalizzata, mentre quelli concernenti le Famiglie e le Società sono destagionalizzati.

In rapporto al Pil, l’indebitamento netto delle AP (sempre terzo trimestre 2017, come riferimento), è stato del 2,1%, dato lievemente in miglioramento rispetto allo stesso periodo del 2016 (era stato allora pari al 2,4%). Per quel che riguarda il saldo primario delle AP, ovvero l’indebitamento al netto degli interessi passivi, il dato è positivo: l’incidenza sul Pil è dell’1,2%. Era dell’1,4% nello stesso trimestre del 2016.
Secondo il comunicato Istat anche il saldo corrente delle AP è stato positivo: pari all’1,3% l’incidenza sul Pil. Nel 2016 era dello 0,6%.

In riduzione i dati concernenti la pressione fiscale, che risulta del 40,3%, in calo di 0,4 punti percentuali in rapporto ad un anno prima. Si riscontra un trend positivo anche sul reddito disponibile delle ‘famiglie consumatrici’, che aumenta dello 0,7% rispetto al trimestre precedente (2017), i consumi invece sono aumentati dello 0,2%. Ne consegue che migliora anche la propensione al risparmio delle famiglie, e infatti risulta in aumento di 0,5 punti percentuali, arrivando all’8,2%.
Si legge infine nel comunicato Istat:

“A fronte di una diminuzione dello 0,1% del deflatore implicito dei consumi, il potere d’acquisto delle famiglie è cresciuto rispetto al trimestre precedente dello 0,8%.
La quota di profitto delle società non finanziarie è risultata pari al 41,3%, diminuendo di 0,4 punti percentuali rispetto al trimestre precedente. Il tasso di investimento, pari al 20,7%, è aumentato di 0,5 punti percentuali rispetto al trimestre precedente.”

Il commento sui dati Istat del premier Paolo Gentiloni su Twitter:

“Dati incoraggianti sui conti pubblici, comincia a scendere la pressione fiscale, cresce finalmente il potere d’acquisto delle famiglie italiane. Risultati da migliorare, non da sprecare.”

PIAZZA AFFARI . UN 2017 POSITIVO

DI VIRGINIA MURRU

 

La Piazza finanziaria di Milano ha chiuso il 2017 in grande stile, al seguito dei più importanti mercati mondiali. Il comparto azionario ha registrato un andamento al rialzo nel corso dell’anno, e le performance sono davvero incoraggianti.

L’orgoglio è giustificato se si pensa che Milano è stata la Piazza migliore in ambito Ue, in Europa la piazza di Zurigo ha fatto leggermente meglio (14,1%). Anche le principali Borse del vecchio continente hanno registrato bilanci in positivo.
Certamente il 2017 si conclude a Milano con prospettive ben diverse rispetto al 2016, quando il risultato fu decisamente negativo: -9,68%.

Tra i bancari l’azione più scambiata a Piazza Affari è stata quella di Unicredit, il cui aumento di capitale si è avviato nel 2017 sui 13 miliardi di euro. Tra i titoli più negativi troviamo la Saipem, in sconfortante ribasso, con -28%.
Ottime anche le performance della divisa europea nel 2017, l’euro si rafforza sul dollaro, migliore risultato dal 2003. Mentre lo spread ha oscillato, ma con gap lievi, che non hanno determinato urti di rilievo.

Si è trattato, per le 339 aziende quotate a Piazza Affari, di circa 650 mld di capitalizzazione (nel 2016 sono stati 525 miliardi), la crescita è del 14,55%, bilancio assolutamente positivo per il Fitse Mib, che per il Paese rappresenta una buona fetta del Pil, ossia il 37,8% (nel 2016 era il 31,8%). Fca, Il titolo del Lingotto, è risultato il migliore del listino, in buona compagnia con Ferrari, Fineco, Moncler e altre.

Sul piano internazionale, la ‘stella cometa’ dei mercati a chiusura del 2017, è stata certamente Wall Street, con risultati record: il Nasdaq a +28% e il Dow Jones a +25%, e comunque il più brillante rally si è registrato nei mercati di Hong Kong, con +36%. Rilevante anche il bilancio della Piazza di Tokio, +19%.

Risultati che in parte rispecchiano le tendenze positive dell’economia globale nel 2017, la quale ha decisamente ripreso a viaggiare con forti impulsi, le ultime stime dell’Economic Outlook semestrale dell’ Ocse hanno previsto un Pil mondiale in aumento: +3,6%, che dovrebbe essere confermato anche nel 2018, in lieve crescita: +3,7%. Vi sono delle riserve nel medio e lungo periodo, perché il rischio di scosse e shock sul piano globale, sono sempre dietro l’angolo, anche a causa delle incertezze provenienti degli eventi geopolitici.

Le ultime previsioni sulla zona euro per l’Ocse sono state ottimistiche, in crescita infatti da +2,1% a 2,4% (2017), mentre sono prudenzialmente contenute per il 2018, +2,1%. Tra i Paesi europei, la Gran Bretagna sta pagando un notevole tributo alla Brexit, con un rallentamento progressivo che passerà da +1,5% (2017), a +1,1% nel 2019. La Cina, ‘economia emergente’ protagonista nello scenario economico globale, proseguirà la sua corsa con una crescita del Pil di +6,8% nel 2017, destinato a subire lievi frenate nel corrente anno, +6,6%.

A Piazza Affari c’è stato un buon movimento di scambi (una media giornaliera pari a circa 2,5 mld di euro, e in totale, nel corso dell’anno, circa 70 milioni di contratti), sono state lanciate nel corso del 2017, un discreto numero di Opa, 18 in tutto, 15 quelle che si sono concluse per un valore di circa 800 milioni di euro.

Al positivo assetto delle Piazze europee hanno contribuito anche gli eventi politici, gli appuntamenti elettorali che hanno confermato alla guida di Stati chiave in ambito Ue, establishment moderati, scongiurando i tanto temuti assalti dei vari nazionalismi. L’elezione di Macron, più di tutti gli altri esiti, ha fatto decisamente esultare i mercati finanziari, sensibilissimi alle virate che portano incertezze negli scenari politici.

FS + ANAS= COLOSSO EUROPEO DELLE INFRASTRUTTURE

DI VIRGINIA MURRU
Il 22 dicembre il Ministero dei Trasporti e il Ministero dell’Economia hanno firmato i decreti per la fusione di FS Italiane e Anas, il cui risultato sarà un grande polo integrato, d’importanza internazionale nel campo delle infrastrutture.
“Ormai il dado è tratto” – ha commentato il ministro Graziano Delrio a operazione conclusa.
Negli ultimi giorni del 2017 è stato deliberato l’aumento di capitale da parte dell’Assemblea degli azionisti di FS, di 2,86 mld di euro, tramite il conferimento della partecipazione Anas, in toto, detenuta dal Mef. Soddisfatto il ministro dei Trasporti, Graziano Delrio, che dichiara:
“Oggi nasce un gruppo industriale che contribuirà in modo significativo alla crescita degli investimenti pubblici, e nel contempo renderà più efficiente e innovativo il sistema dei trasporti. Per il Governo è un grande traguardo, insieme a FS e Anas ha realizzato e perseguito con grande impegno questo risultato. Il fine è quello di rendere più semplici i collegamenti in Italia, attraverso un forte impulso allo sviluppo infrastrutturale, secondo un Piano pluriennale di risorse e opere prioritarie.”
Nel sito ufficiale di Anas sono stati pubblicati i nomi dei componenti il nuovo Consiglio di Amministrazione di FS Italiane, del quale farà parte la dott.ssa Gioia Ghezzi, Ing. Renato Mazzoncini (Presidenti); dott.ssa Simonetta Giordani, avv. Federico Lovadina, Ing. Wanda Ternau.
Dal CdA di Anas in arrivo la prof.ssa Francesca Moraci e il Prof. Giovanni Azzone, quest’ultimo ricopre anche il ruolo di Rettore e Presidente del Politecnico di Milano.
Con la ‘confluenza’ di Anas in FS, a fianco di Rete Ferroviaria Italiana, si crea il primo polo integrato di ferrovie e strade in Europa, in termini di abitanti serviti e investimenti; questi ultimi saranno pari a 108 miliardi di euro, ripartiti nei prossimi 10 anni. Non c’è dubbio che all’estero questo colosso avrà credenziali più forti.
Anas all’interno del Gruppo sarà in buona compagnia, ossia insieme a Italferr, che è una controllata in ambito nazionale e internazionale, per quel che concerne la progettazione e l’ingegneria. Ma nel gruppo c’è anche Trenitalia, Busitalia e Mercitalia, aziende di trasporto per merci e passeggeri.
Con il nuovo assetto il Gruppo FS Italiane ha una nuova configurazione e una rete infrastrutturale-ferroviaria-stradale di circa 44 mila Km, percorsi annualmente da 2,3 miliardi di veicoli. Pertanto 64,5 miliardi di km sulle strade e autostrade con gestione Anas, si sommano al traffico già gestito dal Gruppo FS, ossia 750 milioni di passeggeri l’anno su rotaie, dei quali 150 all’estero. Oltre a 290 milioni di passeggeri su ‘gomma’, dei quali 130 all’estero, e infine 50 milioni di tonnellate di merci. Numeri che parlano da soli.
Ora il Gruppo, in seguito al conferimento di Anas e 81 mila dipendenti, può permettersi un fatturato di 11,2 miliardi di euro, con un potere d’investimento pari a 8 miliardi, su 50 miliardi di capitale investito. Per FS e il Piano industriale decennale, uno degli obiettivi fondamentali è l’integrazione infrastrutturale.
Per Anas si attua un’altra fase nel processo di trasformazione già programmato negli ultimi anni. In cordata con FS, sarà in grado di affrancarsi dai vincoli della Pubblica Amministrazione, e potrà nondimeno raggiungere obiettivi di mercato indispensabili per il miglioramento della gestione.
FS a sua volta avrà i suoi vantaggi, potrà realizzare e progettare strade e ferrovie con la semplificazione della condizione di polo integrato, e di conseguenza, con un notevole contenimento di costi ed extra costi. Potrà, all’interno del Gruppo, condividere il know-how, che permetterà uno sviluppo di progetti integrativi (smart road), con tecnologie innovative, da realizzare in Italia e all’estero.
La cooperazione all’interno del gruppo potrà, aspetto non trascurabile, ridurre i tempi nella realizzazione delle opere, in virtù di un coordinamento operativo e gestionale del polo integrato, e tutto questo, naturalmente, andrà a beneficio dello sviluppo infrastrutturale, del quale il Paese ha bisogno per sostenere la crescita. All’estero ci sarà un soggetto unico di ‘rappresentanza’ e operatività, pertanto sul piano internazionale, il Gruppo FS Italiane rappresenterà l’intera potenzialità d’interventi e servizi legati alle infrastrutture e mobilità.
Le attività internazionali cresceranno notevolmente nel decennio 2017/26: dal 13% passeranno al 23%; in termini d’importi si passerà da un miliardo di euro a 4,2 miliardi nel 2026. FS Italiane ha realizzato diversi progetti in Arabia Saudita ed Emirati, e continuerà in futuro; l’espansione all’estero proseguirà anche in India, Americhe, Africa e Sud Est Asiatico.
Una discreta attività internazionale è stata svolta negli ultimi anni anche da Anas all’estero, con commesse per 150 milioni di euro. Una parte dei proventi delle commesse viene dalla realizzazione dell’autostrada M4 in Russia.
Tutti soddisfatti nel CdA del Gruppo FS e Anas. Dichiara Renato Mazzoncini, Ad di FS:
“Con il passaggio di Anas nel Gruppo, in futuro sarà possibile progettare, realizzare e gestire in modo efficace lo sviluppo integrato delle infrastrutture nazionali, ferroviarie e stradali, puntando su un lavoro di sinergia, sul piano tecnologico ed economie di scala, che garantiranno maggiore efficienza e velocità d’intervento. Tappa fondamentale per il Piano industriale del Gruppo, che si accinge ad un cambio di ruolo: non solo impresa ferroviaria nazionale, ma impresa europea di mobilità.”

CONFERENZA STAMPA DI GENTILONI: SIAMO TRA I GIGANTI DELL’EXPORT, ‘NUN CE SE CREDE’

DI VIRGINIA MURRU
“Siamo tra i primi quattro o cinque colossi dell’export” – dichiara Paolo Gentiloni nella conferenza stampa di fine anno, e lo sottolinea con orgoglio; per conferire maggiore enfasi si esprime anche in romanesco: “nun ce se crede, sì, siamo tra i primissimi al mondo per quel che riguarda l’export. Ma non ne siamo abbastanza consapevoli.”
Il premier ricorda che l’export italiano può ora vantare cifre da record: ben 440 miliardi, ossia 50 in più rispetto al 2016; il nostro paese fa dunque parte della cerchia ristretta dei ‘giganti dell’export industriale’.
Paolo Gentiloni non manca in ogni caso di rimarcare che l’Europa ha posto un limite preciso al surplus commerciale, un’indiretta frecciatina alla Germania, dato che da anni supera di gran lunga il limite del 6%, ma non è comunque la sola. L’Italia ha finora dimostrato di non andare oltre gli steccati imposti dalle regole europee.
Il premier sostiene poi che i conti pubblici del Paese hanno le carte in regola. “Il deficit è ‘a norma’ con le richieste dell’Ue, ma abbiamo impiegato ogni sforzo possibile per abbassare anche il debito pubblico, percorso di misure previste per il triennio 2018/20. Se la congiuntura si rivelerà favorevole, il prossimo Governo potrà anche fare di meglio.”
Gentiloni mette poi l’accento sulle strategie della manovra 2018, appena diventa legge, e afferma che vi sono misure atte a contenere il debito, ‘si è aperta una strada, ora è necessario che la prossima legislatura accompagni la crescita, e non aumenti le tasse’. “Ricordo – aggiunge il premier, che il deficit era al 3% nel 2013, e sarà portato a 1,6% il prossimo anno. Un risultato non da poco”.
E’ ottimista sullo stato dell’economia globale, “poiché il mondo viaggia ormai in un contesto economico più che favorevole”. Semmai, secondo il premier, bisogna vigilare sugli eventi di carattere geopolitico, che possono condizionarne il corso. Ma il 2017 resta un anno positivo per l’economia mondiale, e per i paesi della zona euro in particolare.
Nella conferenza stampa di fine anno, il premier non manca di fare qualche riferimento alla crisi bancaria, sottolineando gli interventi risolutivi tramite il decreto ‘salva risparmio’.
“Non abbiamo regalato risorse pubbliche per contenere la crisi del settore – precisa – ogni iniziativa del Governo ha avuto l’obiettivo di salvare il risparmio e insieme l’economia di interi territori, perché solo così si poteva sbloccare il sistema, ed evitare conseguenze peggiori.”
Nel resoconto di fine anno il presidente del Consiglio ha rivendicato anche il milione di posti di lavoro in più, dei quali gran parte a tempo indeterminato, nonché la buona spinta nelle assunzioni dei giovani, in particolare al sud. “Anche se, sottolinea il premier, il tasso di disoccupazione è ancora alto, e in questo senso ‘c’è poco da scherzare’, si può fare di più negli anni a venire.”
Importanti passi avanti sono stati compiuti con ‘l’impresa 4.0’, con ambiziosi obiettivi nell’ambito dell’innovazione, una sfida che si può vincere nell’immediato futuro.
E ha poi proseguito con un’analisi completa degli impegni portati a termine nella legislatura, in ogni ambito:
“Senza fare proclami – ha sottolineato il premier – ma abbiamo lavorato intensamente, non abbiamo tirato a campare. E’ stata portata a compimento la legislatura, interromperne il corso sarebbe stato devastante.”
Il presidente del Consiglio ne attribuisce il merito alle famiglie, ai lavoratori, alle imprese, e a chiunque abbia svolto un ruolo attivo nella società. “Tutti gli italiani insieme, collaborando in sinergia, hanno contribuito a riportare l’Italia in una degna linea di ‘ripartenza’. Adesso è importante non dilapidarne risultati, la prossima legislatura dovrà farsi carico di sviluppare questi sforzi, sarebbe da irresponsabili se non lo facesse, noi comunque vigileremo.”
“L’Italia dunque, afferma Gentiloni, si è rimessa in moto, ricordo che questo Governo è venuto fuori in circostanze piuttosto critiche sul piano politico, viene dalle conseguenze di una sconfitta nel referendum costituzionale, e le dimissioni di Matteo Renzi”.
Nonostante il fiume rovente di polemiche, il premier sostiene che il Governo non si è limitato a procedere per inerzia, ha preso importanti iniziative in ogni settore della vita pubblica e dell’economia, anche perché ha potuto contare su ministre e ministri di ‘elevate qualità e competenza’, che hanno fatto un lavoro straordinario.
E assicura che questa legislatura si concluderà nei tempi e nei modi che il Presidente della Repubblica indicherà, per il passaggio istituzionale e le dovute consegne al prossimo esecutivo. “Ma intanto, assicura, non tireremo i remi in barca”.
Gentiloni riconosce infine il ruolo positivo svolto da chi lo ha preceduto, e afferma al riguardo:
“Matteo Renzi ha lavorato con un dinamismo e una capacità di riforme straordinari, lasciando pacchetti di decreti attuativi piuttosto importanti.”
Ora la parola passerà agli elettori, le prossime elezioni politiche sono state infatti fissate per il 4 marzo prossimo.

UTENZE. IL 2018 NON PROMETTE REGALI: RAFFICA DI RINCARI IN ARRIVO

DI VIRGINIA MURRU

 

In dirittura d’arrivo, da gennaio, una serie d’aumenti nelle bollette riguardanti la fornitura di luce e gas, ma non solo: il repertorio è più ampio e coinvolgerà servizi fondamentali, come trasporti, banche, pedaggi autostradali, assicurazioni.

La manovra 2018, dopo il lungo e faticoso iter parlamentare, è diventata legge, tanti gli emendamenti apportati durante il suo percorso, gli interventi sono frutto di sforzi notevoli per le limitate finanze dello Stato. Si chiedeva tanto a questa Legge di Bilancio, forse troppo considerato il ‘budget’, del resto il ministro Pier Carlo Padoan ha ripetuto spesso che le risorse non erano infinite.

Molti obiettivi si sono raggiunti, ma resta l’amarezza di quel limite che ingabbia, dietro le finanze dello Stato c’è un debito pubblico simile ad un drago insaziabile, che inghiotte risorse senza sosta, e nessuno ha ancora trovato l’arma giusta per bloccarlo.
I grandi sforzi compiuti dalla manovra appena convertita in legge, sono solo la prima fase di un ciclo, che riprende il corso nel nuovo anno con tutte le strategie e misure atte a portare energia all’erario, perché tutto il piano di spese deve essere adeguatamente coperto, anche in previsione del prossimo ‘esercizio’ dell’azienda Italia.

E il cittadino resta sempre sotto mira, il reddito delle famiglie, soprattutto quello che consente di arrivare in affanno a fine mese, torna in trincea, in Italia metà anno si lavora per le tasse (negli Usa solo fino ad aprile). In ogni caso sono i contribuenti a trasformarsi in Atlante e a reggere l’immane peso che la spesa pubblica comporta. Così, ogni anno si ripete, e la speranza di una condizione di vita migliore, affiora appena dal cappello di quel grande illusionista che è poi lo Stato.

Il 2018 sarà il capoverso di un rituale che riprende il suo avvio, anche in termini fiscali; in agguato sempre qualche rincaro, soprattutto sul versante delle utenze, indispensabili al normale svolgimento della vita quotidiana. Il nuovo anno, ormai alle porte, non si presenta come il sacco di una generosa befana, pieno di sconti e condoni, o riduzioni d’imposta, anzi.

Secondo l’Adusbef, sarebbe pronto un potente morso al reddito del cittadino, già ipotecato da troppi impegni fiscali e insidiato da oneri di ogni genere. Sarà quasi di mille euro la spesa in più prevista per ogni famiglia (esattamente 952 euro), a causa degli aumenti in vista sulle utenze, e non solo di luce e gas, anche i servizi delle banche faranno parte del pacchetto di rincari, le polizze, i trasporti.

Aumenta il costo dell’energia, la tendenza dei prezzi va verso l’alto, sembra che solo il tasso d’inflazione sia insensibile.
Nonostante i prezzi delle materie prime siano ancora accettabili, questi giorni quello del greggio ha raggiunto vertici ai quali non eravamo più abituati: oltre 60 euro a barile (oggi il Brent è a 66,72).

L’Adusbef spiega che le fatture sui consumi di energia elettrica aumenteranno per 22 milioni di famiglie già dal prossimo gennaio. Per quel che concerne le bollette della luce, si sa che è già prossima la riforma delle tariffe, le quali penalizzeranno proprio le famiglie che consumano meno, e che appunto riguardano 22 milioni di abitazioni, più o meno il 70%; non si tratta di buona perequazione, anche se non siamo propriamente nell’ambito dei tributi.

Ma nel lungo orizzonte dei rincari ci sono anche le tariffe del gas, i servizi offerti dalle banche, le assicurazioni e i pedaggi stradali. E si va ancora oltre con i trasporti, le utenze dell’acqua e la tassa sui rifiuti (per la quale si aspettava un rimborso, causa errori di calcolo..).

Una vera e propria stazione d’inferno per il cittadino, che non può compensare con salari più congrui, e tanto meno appoggiarsi con sicurezza all’importo percepito con la pensione. Si fa riferimento alle classi sociali meno abbienti, alle fasce intermedie, i cui nuclei familiari rappresentano gran parte della popolazione.

Del resto, il cittadino italiano, e non è una novità, è quello più tartassato in Europa; i rincari annunciati peseranno anche sulle imprese, soprattutto quelle piccole. Tra colpi e contraccolpi, tirando le somme, a pagare di più saranno gli ‘ultimi’, per i quali nessuno garantisce un reale reddito d’inclusione.

La stangata in arrivo, insomma, costerà poco meno di mille euro. Un’autentica sferzata, una raffica non di poco conto. Sarà pertanto il costo della vita in generale ad aumentare in modo pesante, e a ridurre notevolmente la capacità di acquisto delle famiglie; non sarà solo lo Stato, in modo diretto, ad affondare le mani nelle tasche del cittadino, ma tutto il sistema che vi ruota intorno.

NATALE 2017. L’EURO E’ CROLLATO, IN POCHE ORE PERSO IL 3% DEL VALORE CONTRO IL DOLLARO

DI VIRGINIA MURRU

 

Per la divisa europea, la perdita repentina del 3% nel volgere di poche ore, non è stato propriamente un regalo di Natale.
Il mondo della finanza è quanto di più aleatorio possa esistere, nel volgere di 24 ore può accadere di tutto, e spesso gli outlook, le stime delle Agenzie di rating, lo sguardo lungo degli analisti, non sono sufficienti a mettere a tacere il rischio, e prevenire così eventi che possono diventare drammatici.

Lo sanno bene gli operatori dei mercati finanziari, o chiunque conosca da vicino le subdole leggi della finanza.
Una delle belve in agguato può essere la speculazione, ma concorrono anche altri fattori, che non risparmiano le ‘vittime’ neppure il giorno di Natale, appunto. Proprio così: nelle atmosfere soft della festa più attesa dell’anno, che coincide – tanto per coniugare sacro e profano – con la tanto sospirata tredicesima, si possono verificare eventi che nessuno mette in conto, specie quando riguardano una valuta stabile, tra le più forti sul piano globale.

Si allude all’euro, la divisa europea che continua a tenere testa al dollaro, e che all’esordio dell’autunno ha perfino preoccupato per quei balzi in avanti, l’esuberanza e la tendenza a segnare distanze sempre più marcate proprio nei confronti biglietto verde.

Si è pensato a qualche strategia per frenare la smania di schizzare troppo in alto, avrebbe finito col danneggiare l’export. Già, perché nel mondo della finanza vi sono ‘ruoli’ incompatibili, che possono marciare controsenso, in apparente contraddizione con il reale stato dei fatti.

L’euro, comunque, proprio il giorno di Natale, ovvero un giorno fa, ha passato un brutto momento, dato che ha perso in poche ore il 3% del valore, scendendo a 1,15 in rapporto al dollaro. Il 24 dicembre (sempre nei confronti del dollaro), era a 1,18. Un vero e proprio caos per il sistema dei prezzi e la stabilità necessaria a garantirlo.

Un crollo, come si diceva, non previsto, neppure ‘diagnosticato’ anzitempo, dato che la divisa europea, come si sa, è in buona salute. Secondo analisti ed esperti, la perdita è riconducibile ad una sorta di ‘effetto boomerang’ delle vendite computerizzate, e ai loro automatismi, non pertanto a movimenti speculatori.

Tale effetto sarebbe stato stigmatizzato dalla ridotta portata degli scambi in un giorno come il Natale, dove di norma si tira il freno a mano più o meno ovunque, e per ovvie ragioni. L’entità della perdita subita dall’euro sarebbe però del 2% in realtà, secondo i dati diffusi dall’Agenzia Bloomberg, che sono stati poi pubblicati dal Financial Times il 26 dicembre.
Il calo negli scambi non deriverebbe dai fondamentali, ma da vendite automatiche da computer, che si avvalgono di algoritmi.

A conferma di queste analisi, c’è un ‘segnale’ che rivela le ragioni dei movimenti dietro le quinte, chiamato anche in gergo ‘flash crash’; alla caduta è seguito infatti un rapido recupero. Si è trattato dunque delle conseguenze del basso traffico di scambi nei mercati (che a Natale erano chiusi) e dei programmi informatici di trading, che con i loro automatismi possono avere innescato questi ‘crash’, come fossero cortocircuiti dovuti all’attività del trading quando non è guidato dai normali processi posti in essere dagli investitori, e dagli esperti che lavorano normalmente nelle sale operative.

Svelato dunque l’arcano: i responsabili sarebbero gli algoritmi dei robo-advisor, programmi informatici impostati in modo automatico, per garantire un certo flusso di operazioni finanziarie, anche il giorno di Natale. Qui l’euro è stata una sorta di vittima, perché in modo autonomo e automatico sono evidentemente partiti, tramite i ‘comandi’ dei robo-advisor, gli ordini, i quali, in mancanza del normale traffico dei mercati, hanno creato tali risultati. Comunque sia, non si è trattato di un bel regalo di Natale..

E tuttavia, sempre secondo i resoconti degli analisti, la vulnerabilità esisteva già nel ‘sentiment’ degli operatori, un sentire che non era a favore della divisa europea, c’era quindi una certa esposizione al rischio. Sul piano geopolitico non hanno giovato al buon ‘sentiment’ degli investitori, le elezioni in Catalogna, che hanno seminato nuovamente incertezza. I mercati, come si sa, sono spugne che assorbono ogni urto, e lo traducono in codici non criptati, ma certamente in dati che riflettono la super sensibilità verso i più vaghi sospetti di cambiamento, che possano anche da lontano insidiare lo status quo.

Di certo si sa che si arriva al flash-crash quando una valuta è già nel mirino, i mercati registrano i ‘rumors’, ogni eventuale umore che non sia in sintonia con la stabilità. Simili eventi non sono certo agli esordi, l’importante è che il sistema provveda in modo veloce a ristabilire l’equilibrio preesistente, e a neutralizzare il panico, visto che l’effetto più immediato nei mercati è proprio di carattere emotivo.

Ogni tanto queste evenienze, che sono poi il riflesso degli automatismi software, ci riportano al ruolo indispensabile della mente umana, la quale, per quanto sia stata superata in termini di efficienza dai prodotti del suo stesso ingegno, resta indispensabile nella guida e nell’orientamento dei medesimi.

MANOVRA. RITIRATI DUE EMENDAMENTI, SU LAVORO A TERMINE E INDENNITA’ DI LICENZIAMENTO

 

 

DI VIRGINIA MURRU

 

Non ci saranno cambiamenti nella norma che disciplina i contratti a termine, 36 mesi di lavoro continuativo costituiscono il limite, al di là del quale scattano le condizioni per passare ad un contratto a tempo indeterminato.

L’emendamento presentato pochi giorni fa dal Pd, in Commissione Bilancio, alla Camera, era una proposta che piaceva ai sindacati: si chiedeva di portare il limite a 24 mesi di lavoro continuativo, ma poi la proposta è stata ritirata. La durata massima resta pertanto di 36 mesi, nell’ambito di questo periodo, i datori di lavoro potranno prorogarne i termini per 5 volte, con il consenso del lavoratore.

La Cgil considera grave il ritiro dell’emendamento. Così si è espressa la Segretaria Confederale, Tania Sacchetti:
“La nota congiunta di oggi conferma gli effetti disastrosi del Jobs Act. Quanto si sta decidendo in queste ore sui temi del lavoro è grave e conferma l’incapacità dell’Esecutivo a mantenere gli impegni”.

Non sono benevole le critiche della Cgil, il ritiro dei due emendamenti alla manovra, riguardanti l’aumento dell’indennità di licenziamento e la riduzione della durata massima dei contratti a tempo determinato, hanno reso più aspre le divergenze tra sindacato e Governo in merito alle politiche del Lavoro. Secondo la dirigente della Cgil Tania Sacchetti, “entrambi gli emendamenti, nonostante la valenza limitata, potevano costituire l’inizio di un iter volto a mettere in discussione la struttura tutt’altro che solida del Jobs Act”.

E’ noto che i sindacati hanno lottato strenuamente contro l’abolizione dell’art. 18 (tanto per fare un esempio). Susanna Camusso, nel corso di una manifestazione indetta dal sindacato (ottobre 2014), commentò: ‘L’articolo 18 non è totem ideologico ma tutela concreta.’

La Sacchetti stigmatizza e dichiara: “La conseguenze disastrose del Jobs Act sono state confermate da una nota congiunta diffusa da Istat, Inail, Inps, Anpal e Ministero del Lavoro. Anche nel terzo trimestre del 2017 si registra un calo dei contratti a tempo indeterminato, e un aumento di quelli a tempo determinato. Abbiamo sempre sostenuto che è fondamentale puntare su investimenti pubblici e lavoro di qualità, per stimolare la crescita inclusiva e arginare l’emergenza della disoccupazione giovanile.”

Gli emendamenti, tra raffiche di polemiche, non sono stati tuttavia approvati; su indicazione del governo e del relatore alla manovra, Francesco Boccia, Cesare Damiano ha ritirato l’emendamento che stabiliva in 8 mensilità minime (erano 4), da versare al lavoratore, qualora si verificassero casi di licenziamento senza giusta causa. Ma poi, lo stesso Damiano, evidentemente poco convinto, ha commentato al riguardo:

“Si sta commettendo un errore che non è giusto sottovalutare, sarà alla fine la prossima legislatura a farsi carico del problema, dato che nel nostro paese il datore di lavoro che licenzia se la cava con oneri minimi, e questo non si può accettare.”

Si può ancora precisare che, per quel che concerne i contratti a tempo determinato, il decreto Poletti (del marzo 2014), è stato finora poco efficace, dato che non ha realmente affrontato il problema del precariato ‘estremo’, ossia quello che interessa i lavoratori impegnati in contratti di pochi giorni. Secondo i report di Istat, Inail, Inps e Anpal, sono circa 500 mila coloro che nel mondo del lavoro sono impiegati come interinali, per un terzo il rapporto di lavoro ha la durata di un giorno.

Ora il lavoro a chiamata ha preso il posto dei voucher, così tanto ‘incriminati’, e aboliti nei primi mesi dell’anno in corso, semplicemente questo genere di reclutamento ha ripreso forza a causa della tracciabilità dei voucher.

Ci sono cambiamenti anche sul ‘bonus bebé’, ossia l’assegno destinato alle famiglie con un figlio, che sia naturale, adottato o in affido. La Commissione Bilancio ha approvato un emendamento presentato da Alternativa popolare, il quale apporta delle modifiche alle norme già approvate dal Senato, la misura riprende la sua validità per nuovi nati e bambini adottati tra il 1° gennaio e il 31 di dicembre del 2018.

Al compimento del primo anno di vita verrà erogato l’assegno, gli importi relativi sono stati confermati, ossia 960 euro l’anno, con l’Isee che supera i 7 mila euro l’anno, ma non va oltre i 25 mila.

L’erogazione sarà di 1.920 euro l’anno, con un Isee che non sia superiore i 7 mila. E’ passato anche l’emendamento che porta a 4 mila euro la soglia di reddito per i figli lavoratori sotto i 24 anni, i quali resteranno fiscalmente a carico dei genitori. Tra gli 11 emendamenti presentati dal relatore Francesco Boccia (Pd), c’è anche quello che conferma il canone Rai, fissato ancora a 90 euro.

LA NUOVA VERSIONE DELLA WEB TAX

DI VIRGINIA MURRU

Lo prevede uno degli emendamenti del relatore alla manovra, Francesco Boccia (Pd), presidente della Commissione Bilancio, che ha fatto sapere di aver depositato 12 emendamenti, tra i quali un ‘pacchetto digitale’, con un intervento sul FinTech, la modifica alle norme sulla spedizione postale dei pacchi, e nuove regole sulla protezione dei dati digitali.

La web tax in apparenza sembra meno aggressiva verso i suoi bersagli: l’imposta sulle transazioni digitali è stata dimezzata e va al 3%, ma non è stata estesa all’e-commerce. In realtà, secondo uno degli emendamenti presentati dal relatore, portandola al 3% (rispetto al 6% stabilito dal Senato), non ci sarà più il credito d’imposta, ma con una diversa base imponibile si potranno incassare 190 mln, ossia 78 milioni in più, comunque ossigeno per l’erario, dato che era previsto un gettito di 112 milioni.

La nuova versione, dunque, non si applica all’e-commerce e alla cessione di beni, come era già stato espresso in un primo momento dal relatore, ma alla cessione di servizi, con un’aliquota dimezzata (3%).

La web tax troverà applicazione, in veste di ritenuta alla fonte, direttamente sulle transazioni, e riguarderà coloro che effettuano più di tre mila transazioni di servizi nel corso dell’anno. Di fatto non ci saranno più le comunicazioni all’Agenzia delle Entrate, dunque non si potranno tracciare le imprese digitali, e, come si è visto, non ci sarà più il credito d’imposta sulle imprese residenti, utile per evitare doppie tassazioni.

Per quel che concerne il ruolo di sostituti d’imposta svolti dalle banche, si è ugualmente deciso di sospenderne la funzione. L’imposta entrerà in vigore il primo di gennaio del 2019.
Il ‘pacchetto digitale’ prevede interventi di FinTech (ossia Financial Technology, che attraverso le più avanzate tecnologie dell’informazione, fornisce servizi e prodotti finanziari).

Tra gli emendamenti anche diverse agevolazioni per le imprese che si occupano di materia finanziaria, un regime autorizzativo meno pesante, ossia una zona franca nella quale le startup della finanza potranno trattare in sicurezza i loro prodotti per un periodo di 3 anni.

La clientela deve essere limitata, ma intanto potranno esercitare la loro attività con maggiore elasticità e senza le pressioni derivanti dalle regole un po’ contorte, alle quali devono sottostare di norma gli operatori del credito. Si tratta di un primo riconoscimento a livello fiscale del Fintech, vale a dire i nuovi strumenti finanziari, quelli che transitano sulle piattaforme digitali. In Gran Bretagna la chiamano ‘sandbox’.

La regolamentazione del ‘sandbox’ spetterà tuttavia a Bankitalia, Consob e Ministero dell’Economia, con i propri rappresentanti, che potrebbero formare in seguito un Ente permanente. L’istituzione di un nuovo Ente servirebbe a dare indicazioni e orientamenti di carattere innovativo sul versante finanziario.

Tra gli emendamenti, l’obbligo per le Poste Italiane di realizzare un servizio postale di carattere universale, si occuperà infatti dei pacchetti con un peso fino a 5 kg.
E’ vincolante anche per il garante della privacy stabilire le regole di tutela dei dati personali sensibili, in formato digitale. Questo è il pacchetto di emendamenti alla manovra, sul sistema regolatorio digitale, presentato da Francesco Boccia.

La Commissione ha ripreso i lavori e continuerà a mettere al vaglio gli emendamenti che sono stati presentati negli ultimi giorni, in particolare quelli concernenti l’Agricoltura, lo Sport e la famiglia, giudicati già in modo favorevole dal Governo.

SECONDO I REPORT STATISTICI, L’ITALIA NEL 2016 REGISTRA IL PIU’ ELEVATO NUMERO DI POVERI

DI VIRGINIA MURRU
Le stime relative al 2016 (consideriamo prima i dati relativi all’Ue), diffuse dal report Eurostat sulle popolazioni a rischio povertà o esclusione sociale, stanno creando un certo giustificato allarme. Si tratta di numeri impressionanti: in Europa, 117,5 milioni di persone, ossia il 23,4% della popolazione, sono a rischio povertà.
Il confronto, in ambito Ue, del tenore di vita nei paesi membri, sono solitamente fondati sul prodotto interno lordo, ovvero il Pil pro capite, il quale determina in termini monetari, il grado di ricchezza di un paese in rapporto agli altri del ‘perimetro’ indicato nell’indagine statistica. Si tratta, tuttavia, di un indicatore che non esprime tante informazioni circa la distribuzione dei redditi di un determinato paese, così come sui fattori non monetari che possono risultare incisivi al fine di mettere in rilievo la qualità della vita della popolazione oggetto dell’indagine.
Non di rado emerge che, alle disparità di reddito, sono legati fenomeni di criminalità, povertà ed esclusione sociale. In questi casi si può essere incentivati a trovare soluzioni per il miglioramento della condizione economica, attraverso il lavoro, l’acquisizione di nuove competenze e dunque l’innovazione, ma non è un percorso semplice, né realizzabile nel breve periodo.
Nel 2001, nel corso di una sessione del Consiglio europeo, i Capi di Stato e Governo, fissarono per la prima volta un ventaglio di indicatori statistici comuni in termini di povertà ed esclusione sociale, sottoposti poi ad un processo di revisione e perfezionamento da un sottogruppo di indicatori del Comitato della Protezione Sociale (o CPS). Tali indicatori consentono un monitoraggio sulle misure poste in essere dagli Stati dell’Unione per abbattere le radici che determinano povertà ed esclusione sociale.
Secondo i criteri fissati dalla ‘Strategia Europa 2020’, il Consiglio europeo, nel 2010, ha individuato al riguardo una priorità, ossia l’obiettivo dell’inclusione sociale, con un forte impegno per la riduzione, entro il 2020, appunto, di 20 milioni di persone a rischio povertà, rispetto alle statistiche emerse nel 2008.
Dagli ultimi dati diffusi da Eurostat, sul ‘rischio povertà nell’Eu’, sono in evidenza i più significativi indicatori di povertà, dai quali emergono le difficoltà più critiche delle classi sociali meno abbienti. Circa un terzo (il 31%), della popolazione, non può permettersi una settimana di vacanza annuale (uno degli indicatori), con la più ampia fascia riscontrata in Romania (il 66%), e la più bassa in Svezia (l’8%).
Il 26,5% dei bambini in ambito Eu, nel 2016 è stato a rischio povertà ed esclusione, con un gap che va dal 13,8% in Danimarca al 49,2% della Romania.
L’11,5% della popolazione Eu con diploma di laurea, è stata a rischio povertà – sempre riferimento 2016 – con una differenza che va dal 3,4% di Malta al 21% della Grecia.
Altro indicatore è il tasso di disoccupazione nell’Eu, il 67% delle persone senza un’occupazione sono a rischio povertà. Un’apparente contraddizione: ‘i working poors’ esprimono la percentuale più critica in Germania, con ben l’83,3% d’incidenza, e il ranging più basso in Slovenia, 56%.
Si tratta degli indicatori fondamentali per formulare le statistiche al riguardo, c’è anche da dire che Eurostat definisce a rischio povertà quegli individui o nuclei familiari che non raggiungono il 60% del livello ‘mediano’ di reddito disponibile. Che tale reddito provenga da salari o altre fonti. Il rischio povertà non coinvolge solo i soggetti senza un’occupazione, ma purtroppo interessa anche i lavoratori che non raggiungono un livello di reddito sufficiente.
Il fenomeno dei ‘working poors’, già monitorato da tempo negli Stati Uniti, interessa una fascia di lavoratori che percepiscono livelli di salari minimi, non sufficienti per un dignitoso sostentamento. I dati riguardanti l’Italia sono forse i più drammatici: il nostro paese è in assoluto quello che conta più poveri nell’Unione europea. Secondo Eurostat sarebbero 10,5 milioni nel 2016. Come si è visto, i criteri di classifica tengono conto di una serie di indicatori che mettono in rilievo la consistenza economica e la condizione sociale degli individui. Classifica dei primi 10 paesi con un indice di povertà assoluta:
1 – Italia, 2 – Romania, 3 – Francia, 4 – Regno Unito, 5 – Spagna, 6 – Germania, 7 – Polonia, 8 – Grecia, 9 – Bulgaria, 10 – Ungheria. Singolare che la Germania, l’economia più solida dell’Ue, e una delle più forti a livello globale, abbia più poveri della Grecia, ma tant’è: si tratta di statistiche.
La ‘deprivazione materiale e sociale’ è un indicatore sensibile, e si entra in questa categoria quando non si possono affrontare almeno 5 delle ‘spese’ seguenti:
spese impreviste, una settimana di vacanza annuale, maturazione di arretrati su mutui, affitti o utenze o arretrati di rate varie. La possibilità di acquistare un pasto di carne o pesce, o di tipo vegetariano. Garantire un adeguato riscaldamento per la propria casa. Un’auto o furgone per uso familiare e personale.
Cambio mobili logori, sostituzione di abiti lisi con altri nuovi, almeno due paia di scarpe, per estate/inverno. Avere una piccola somma disponibile settimanale per piccole spese. Potersi permettere attività di svago regolari. Frequentare amici o familiari stretti per un drink o un pasto 1 volta al mese. Possibilità di connessione alla rete Internet.
In Italia, sempre tenendo conto del 2016, come anno di riferimento, è emerso, secondo le statistiche redatte da Eurostat e Istat, un record in termini di persone a ‘rischio di povertà’: il 20,6% – a rischio povertà ed esclusione sociale il 30%. Nettamente peggiorato rispetto ai dati del 2015, che erano del 28,7%. A livello di tassi, sono in ogni caso peggiori rispetto alla media europea: il 17,2% rispetto ad una media europea del 15,7%. Il gap non è elevatissimo, ma certamente preoccupante per l’Italia.
Ci si può confortare con paesi sicuramente in condizioni peggiori, ma questo non significa che sia una realtà che tranquillizzi, o peggio che sia suscettibile d’immobilismo e inerzia. Dovremmo comunque essere in fin dei conti undicesimi in questa poco edificante classifica:
1- Romania, – 2 Bulgaria, 3- Grecia,  4 – Ungheria, 5 – Lituania, 6 – Lettonia, 7 – Cipro, 8 – Portogallo, 9 – Spagna, 10 – Italia. (Primi 10 paesi per numero di poveri rispetto alla popolazione).
Sempre per quel che riguarda l’Italia, le stime relative ai report, si riferiscono a due misure diverse di povertà, ossia quella relativa e quella assoluta, alle quali sono comunque legate quasi 5 milioni di persone. In questo senso, rispetto al 2015 non ci sono state sostanziali variazioni. L’incidenza di povertà assoluta, se si considerano le famiglia, è del 6,3%, il trend è più o meno stabile negli ultimi 4 anni.
Per quel concerne gli individui, invece, la povertà assoluta incide del 7,9%; non significativamente più alta rispetto al 2015 (7,6%).
Anche la ‘povertà relativa’ è sostanzialmente stabile rispetto al 2015. Lo scorso anno era del 10,6% (come abbiamo visto), e nel 2015 era del 10,4%. L’incidenza della povertà relativa si mantiene elevata per categorie di lavoratori come operai e assimilati, il 18,7%, e per famiglie il cui soggetto di riferimento è alla ricerca di un’occupazione (31%).
Intanto, su un altro fronte, per quel che riguarda la produzione industriale, l’occupazione, il movimento del Pil (tutti dati macro piuttosto importanti), l’Italia, nell’Ue, ha registrato delle buone performance, certo i target da raggiungere sono ancora lontani, soprattutto in termini di miglioramento dei conti pubblici, ma tanti passi avanti sono stati fatti. E anche questi dati emergono regolarmente dai report diffusi da Eurostat e Istat.
Intanto, da segnalare, in ambito Ue, l’occupazione record relativa al terzo trimestre 2017: in Eurozona i soggetti che hanno ottenuto un’occupazione è cresciuto dello 0,4%, e dello 0,3% in ambito Ue. Se si raffronta allo stesso periodo del 2016, il dato macro aumenta di ben 1,7% in zona euro e 1,8% in ambito Ue 28. Secondo il report di Eurostat, 236,3 milioni di individui hanno un lavoro nell’Unione europea, dei quali 156,3 milioni in Eurozona. Non è un dato trascurabile, perché riporta il più alto livello mai registrato.

UNICREDIT, ‘PIANO TRANSFORM 2019’, NPL RIDOTTI DI ALTRI 4 MILIARDI

DI VIRGINIA MURRU

 

Lo ‘strategic plan 2016/19’, deciso lo scorso anno da Unicredit, prosegue con il ‘perseguimento degli obiettivi chiave ’, lo ha dichiarato il Ceo Jean Pierre Mustier, confermando anche l’aumento del dividendo.

Il piano di cessione dei crediti deteriorati è una strategia in linea con le direttive europee, e il raggiungimento di questi punti fondamentali è stato inserito nella nota di aggiornamento del Piano industriale, presentato proprio oggi a Londra. Il Ceo di Unicredit afferma con orgoglio che il management ha deciso d’incrementare il dividendo, per l’esercizio 2019, del 30%, sottolineando che il target Cet1 ratio6 andrà a superare il 12,5%. Performance che indicano uno stato patrimoniale di buona salute per l’istituto di credito, e soprattutto buone prospettive nel breve e medio periodo.

Proprio lo scorso dicembre era stato presentato un documento, lo ‘Strategic Plan’, che indica le linee guida nella gestione dell’Istituto:
“Una banca panaeuropea, semplice, con una rete unica in Europa Occidentale, Centrale e Orientale, a disposizione della sua ampia base di clienti.”

In sintesi si delinea una rete di azioni che stanno già tracciando il futuro della banca, la quale trae insegnamento dalle negative eredità del passato, e punta ad eliminare in primis l’ingombrante fardello degli Npl, per acquisire più competitività, anche attraverso una posizione patrimoniale realmente rafforzata, affinché i risultati di questi interventi si riflettano a lungo termine.

Tra gli obiettivi c’è l’attività di de-risking, fondamentale, con un potenziamento dei tassi di copertura, per creare una base più solida rispetto al passato.
Incentivazione della disciplina di gestione del rischio, attraverso erogazioni future più garantite in termini di qualità.
Un programma di misure di efficienza e disciplina dei costi, in grado di ridurre notevolmente il rapporto costi/ricavi, col raggiungimento di un nuovo modello di business. Da sottolineare i ‘risparmi annui ricorrenti netti’ per 1,7 miliardi di euro, a partire dal 2019.

Altro punto importante del Piano: una più efficiente redditività, insieme ad una nuova politica di distribuzione dei dividendi cash, alla quale si sta già dando attuazione.
C’è da dire che questa revisione strategica ha interessato le principali aree dell’istituto, con il solo fine di rinvigorire e ottimizzare la dotazione di capitale del gruppo.

Si tratta di obiettivi pragmatici, target raggiungibili. In primis il miglioramento della qualità dell’attivo, ma non meno importante la trasformazione del modello operativo, che deve focalizzarsi sui clienti, anche attraverso la semplificazione degli standard di prodotti e servizi, affinché siano sensibilmente ridotti i costi delle attività riguardanti i clienti stessi.

Basi di partenza che fanno lezione delle difficoltà del passato, perché solo così è possibile costruire su fondamenta finanziariamente più solide e sicure.
A questo riguardo c’è da sottolineare la megacartolarizzazione da 17,7 miliardi; l’istituto ha firmato accordi per limitare la partecipazione nel portafoglio di Npl, ossia la riduzione della sua posizione nel portafoglio FINO al di sotto del 20%. Tale decisione era stata già annunciata nel comunicato stampa del 17 luglio scorso. Obiettivo comunque reso noto dal Gruppo una prima volta nel corso del ‘Capital Markets Day 2016’.

Il portafoglio Fino in origine era pari a 17,7 mld di euro di crediti in sofferenza lordi (al 30 giugno 2016), e ridotti a circa 16,2 mld di euro esattamente un anno dopo, ossia al 30 giugno scorso.

Unicredit sostiene che il piano di riduzione di Npl è un percorso strategico fondamentale, ‘si tratta di passi cruciali’. Sono state anche chiuse 557 filiali in Europa nel 2017, tagli non semplici, ma processi necessari per la riduzione dei costi. Il piano di riduzione dell’organico è iniziato nel 2015; attraverso ulteriori chiusure di filiali, ha portato a 72% il target previsto. Un piano ambizioso che il management sta portando scrupolosamente a compimento, i risultati sono racchiusi come sempre nei numeri.

INDAGINE SU DEUTSCHE BANK, DALLA PROCURA DI TRANI A QUELLA DI MILANO

DI VIRGINIA MURRU

 

I tedeschi di Deutsche Bank, nel 2011, hanno giocato sullo stato dell’economia italiana, che lottava strenuamente per riuscire ad avere ragione di una crisi aggressiva, che stava intaccando il sistema profondamente: il paese sembrava davvero prossimo al baratro. Certamente era l’anticamera della recessione. La crisi economica globale, aveva del resto risparmiato solo la Cina e l’India, ma non gli States, proprio qui si era scatenata la tempesta, e l’Europa, per ovvie ragioni, non ne fu immune.

La Deutsche Bank, l’istituto di credito più importante della Germania, ma anche uno dei maggiori a livello internazionale, aveva deciso nel 2011 di trarre vantaggio della situazione, dato che deteneva 8 miliardi di euro in titoli del nostro debito (Btp). Giocando le sue carte poteva con un soffio farci scivolare davvero in basso, e infatti lo fece, ma barando, nascondendo, appunto, i suoi assi nella manica.

Ai suoi manager bastava speculare sui titoli di Stato italiani (il debito sovrano era veramente critico), del resto avevano davanti i più potenti mezzi di ‘forecast’ finanziari per intuire che il Paese controllava a fatica i remi di una congiuntura fortemente segnata dalla crisi globale. Crisi partita dagli States nel 2007, legata ai mutui subprime, al quale poi è seguito il crack di Lehman Brothers. Una delle principali banche d’affari americane, caduta in un crocevia di eventi sfavorevoli che la misero in ginocchio; non era invulnerabile alla stregua di una statua di bronzo, era un gigante con i piedi d’argilla. All’inizio del 2016 ha perso il 48% di valore delle sue azioni.

In un mondo globalizzato nessuno è più al sicuro in ambito finanziario, e nemmeno gli accessi di Deutsche Bank sono stati ‘a prova di scasso’, dato che due anni fa ha rischiato il default, poi salvata dal provvidenziale soccorso di Stato, con le mani lunghe di Angela Merkel e il ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble. Non è un mistero né per i tedeschi, naturalmente, né lo è in Europa, anche se il salvataggio è avvenuto in deroga, e in barba ai regolamenti dell’Ue (alle regole del Bank Recovery and Resolution Directive che impedisce un salvataggio di Stato, ossia il bail-out).

Regolamenti che proprio i tedeschi, vigilando come molossi in ambito Eurozona, hanno strenuamente difeso. Hanno puntato i fari, per esempio, su un Istituto di credito italiano, su Monte dei Paschi, che aveva necessità di un intervento pubblico per essere messo in salvo, ma i tedeschi a suo tempo espressero tutto il loro dissenso in ambito Ue, dichiarandosi contrari. Eppure il loro governo non era agli esordi quando ha deciso di salvare Deutsche Bank, ne avevano già fatte di operazioni in deroga alle norme europee sui loro istituti. Del “rischio default” del colosso finanziario, ne ha parlato diffusamente anche il settimanale finanziario tedesco, Handelsblatt.

Una premessa per concludere che questi giganti della finanza, possono diventare dei burattinai, e usare le liane che li legano agli Stati in crisi, tramite appunto i titoli che possiedono del debito sovrano, per realizzare operazioni a loro favore, senza alcuno scrupolo morale, in totale cinismo, anche se lo Stato in questione finisce poi in una scarpata.
E’ quello che stava accadendo all’Italia nel 2011, Deutsche Bank era come un caimano che aveva nelle potenti fauci una parte consistente di titoli di Stato, e di quegli 8 mild, nel primo semestre dell’anno, decise di venderne 7, ma senza fare tanto rumore. Si comportò tuttavia come un ladro che ruba con la luce accesa, anzi, quasi alla luce del sole. Speculò sulle disgrazie di un Paese in affanno, le cui finanze facevano acqua da tutte le parti. La vendita  dei titoli ne portò al tracollo il valore, lo spread fece un balzo terribile, tale da causare la caduta del governo Berlusconi.

Prima un’implosione di cause, e poi con la spinta causata dai manager di DB, l’esplosione, al quale seguirono, come  avvoltoi, i declassamenti delle Agenzie di Rating: un tornado. Uno dei momenti congiunturali più difficili per il Paese.
Ma fino a che punto sono responsabili i tedeschi della Deutsche? Certamente questo colosso conosce bene tutta la potenza esplosiva di certe armi finanziarie, ne fu il detonatore, e premette il fatale ‘pulsante’, per pura speculazione, per i propri interessi, dato che fin da allora, il maggiore istituto bancario tedesco, accusava falle nei suoi sistemi.

Ora, sulla maxi speculazione della Deutsche indaga la Procura di Milano (da ottobre), per ragioni di competenza territoriale (è stata la difesa della banca tedesca a chiederlo), dopo essere passata per quella di Trani. Non si è trattato di avocazione, lo ha deciso la Corte di Cassazione. L’accusa è di manipolazione del mercato, un’operazione finanziaria di circa 10 mld di euro. I magistrati pugliesi avevano chiesto il rinvio a giudizio di 5 manager, i top alla guida del gruppo Deutsche nel 2011 (ora c’è un nuovo management): l’ex presidente Josef Ackermann, e due ex Ad, Jurgen Fitschen e Anshuman Jail, e dello stesso Istituto, in qualità di persona giuridica.

Dall’indagine e dal controllo di documenti sequestrati da agenti della finanza nella sede milanese, è emerso che, dopo la vendita dei titoli di Stato italiani (7 mliardi in Btp), nel primo semestre 2011, Deutsche aveva ricominciato ad acquistare titoli del nostro debito sovrano (nel mese di luglio), i quali, proprio in seguito ai movimenti di mercato causati dalla speculazione, erano stati svalutati parecchio, e pertanto era più che mai conveniente acquistare.

E infatti acquistò di nuovo titoli per un importo di circa 3 miliardi, ma non lo fece sapere in giro, per non destare sospetti. Solo che non sono occorsi droni particolari per venire a capo degli intenti truffaldini del management dell’istituto tedesco. E non era il solo ‘malloppo’: altri quattro miliardi e mezzo di titoli erano in mano ad una società che la Deutsche aveva acquisito nel 2010.

Dagli atti risulta che solo alla fine di luglio del 2011, la banca tedesca annunciò la vendita dei titoli italiani avvenuta entro giugno, ma tenne ben stretto in pugno il segreto sui nuovi acquisti. Strategie, ovviamente, per fare passare in sordina l’operazione, ma i manager erano ben consapevoli del colpo inferto allo Stato italiano, causando la volata dello spread (ossia i rendimenti tra Btp e bund tedeschi), e facendo cadere il governo, il quale fu consegnato ad un ‘Caronte’ esperto in ambito finanziario, Mario Monti.

Certo, in seguito alla travolgente crisi della Grecia, e la forte esposizione al rischio delle banche tedesche, la mega operazione dei titoli di Stato italiani, rappresentava un affare non di poco conto per Deutsche. E intanto l’Italia stava per seguire le sorti della Grecia.. Il Financial Times, tanto per amplificare sul piano internazionale la notizia sul preoccupante stato dell’economia italiana, fece sapere che gli investitori fuggivano dal Paese, terza economia della zona euro. Secondo i magistrati italiani, la decisione dei manager di Deutsche, di ridurre l’esposizione sui titoli di Stato italiani, per importi così rilevanti, è a dir poco eclatante per quel che concerne i reali intenti.

C’era la volontà di lucrare su un momento veramente drammatico per l’Italia; le conseguenze, infatti si ripercossero sul differenziale di rendimento tra Btp decennali e omologhi Bund, uno schizzo che a fine anno superò i 500 punti base.
In Parlamento si chiese l’intervento di una Commissione d’inchiesta, e c’era ben donde. Nel bilancio della Deutsche Bank, tra i documenti, c’è un prospetto che indica l’esposizione al rischio dei paesi più vulnerabili in quel periodo (Grecia in primis, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna), nella colonna riguardante l’Italia si evidenzia, per il primo semestre 2011, un’esposizione di 996 milioni.

E’ pur vero, che in un periodo di buio pesto per l’economia europea, non era inconsueto per le banche, effettuare operazioni di cessione di titoli di Stato a rischio, mentre si attivavano anche ‘derivati di copertura’ (Credit Default Swap, per esempio).
Il management della Deutsche ha pertanto manipolato i mercati, e lo ha fatto con metodi a dir poco illeciti, poiché nei primi mesi del 2011 li rassicurava sulla sostenibilità del debito sovrano italiano, mentre in realtà, stava già pianificando una drastica riduzione dell’esposizione al rischio, attraverso la vendita dei titoli di debito contenuti nel suo portafoglio.

E portò, come si è visto, a compimenti gli obiettivi con una vendita massiccia di ben 7 miliardi di euro, proprio entro giugno di quell’anno.
Ovviamente non era pensabile che i mercati finanziari restassero indifferenti, l’operazione influenzò pesantemente il valore di mercato dei titoli, e non solo. Fu una slavina che tutto travolse all’interno del suo raggio d’azione: lo spread, il rating delle Agenzie internazionali, che peraltro sono state perseguite a loro volta dalla Procura di Trani per i danni che hanno causato all’economia italiana. Il declassamento del rating italiano, un dannosissimo downgrade, secondo le accuse della Procura (da A a BBB+), fu deciso “illegittimamente e dolosamente” da S&P nel 2011 “al solo fine di danneggiare l’Italia”.

Ma non finì così, tante furono le ripercussioni, tra queste anche il versamento di 2,5 miliardi di euro da parte del Ministero del Tesoro alla banca d’affari americana Morgan Stanley. Il pagamento era dovuto perché stabilito da una clausola in un contratto di finanziamento tra il Ministero dell’Economia e la banca Usa. Tale condizione portò all’estinzione di un derivato e il conseguente pagamento dell’importo da parte del Ministero del Tesoro.

Secondo un’indagine della COnsob, poi trasmessa alla Procura di Trani, che già stava indagando su Standard & Poor’s, Morgan Stanley è azionista dell’Agenzia di rating, il che crea le premesse per i fortissimi dubbi sulle mosse seguite alla tempesta scatenata da Deutsche Bank.
Ci si chiede come mai il Mef abbia ceduto alle pressioni di Morgan Stanley e abbia autorizzato il pagamento senza nulla obiettare in merito. Ci fu Brunetta, all’epoca, che espresse sarcasmo per il comportamento ‘impassibile’ del Ministro dell’Economia.

Ma alla Procura di Trani i dubbi sono aumentati quando si è scoperto che, nel periodo in cui il Tesoro ha versato la somma di due miliardi e mezzo, ai vertici della banca d’affari americana c’era Domenico Siniscalco, che aveva ricoperto la carica di Direttore Generale al Tesoro (in Italia, ovvio), e successivamente era anche diventato ministro dell’Economia. Interrogativi che passeranno alla Procura di Milano, che ora ha in mano gli atti.

UE. MINISTRO DEL TESORO UNICO? IL PRIMO PASSO VERSO GLI STATI UNITI D’EUROPA

DI VIRGINIA MURRU
Lo avevano proposto lo scorso anno Jens Weidmann, e Francois Villeroy De Galhau, rispettivamente Governatori della Bundesbank e della Banca di Francia: l’istituzione di un Ministero unico per il Tesoro nell’Unione europea, avrebbe aiutato a superare tanti scogli e motivi di attrito tra gli stati membri dell’Eurozona. Se ne riparla questi giorni, che sia la volta buona e non la retorica di due tecnocrati?
Un’autorità sovranazionale ‘super partes’, quindi, con l’obiettivo di creare maggiore convergenza, eliminando contese e nazionalismi così tanto dannosi per il raggiungimento del fine ultimo dell’Ue, che dovrebbe mirare, secondo l’intento dei Padri fondatori, alla costituzione degli Stati Uniti d’Europa.
Ovvero un unico Stato Federale, che abbracci gran parte del vecchio Continente: in definitiva un’Unione che si fondi sul principio dello Stato di diritto.
Obiettivo tutt’altro che scontato, nonostante l’interminabile repertorio di trattati, da quelli siglati all’origine, come il Trattato di Roma che ha istituito la CEE (ed Euratom) nel 1957, e prima ancora, nel 1951, il Trattato che istituì la CECA, Comunità Europea per il Carbone e l’Acciaio. E poi, a seguire, tutti gli altri. Certamente i trattati di Schengen e Maastricht restano colonne portanti dell’asse unitaria che ha vincolato i paesi membri, diventati col tempo 28, poi, in seguito alla consultazione referendaria del 2016 (che ha determinato la Brexit), 27.
Paesi che hanno recepito la legislazione Ue, in tutto o in parte, a seconda delle convergenze (la Gran Bretagna è stata la grande assente in Euro zona, per esempio, avendo scelto di non aderire alla divisa unica), ma pur sempre una grande ‘coalizione’ di Stati che decidono, specialmente sul piano economico, norme in difesa di interessi comuni.
Basterebbe ricordare che Maastricht, modificando i precedenti trattati, ha consolidato un’Unione di Stati fondata su tre strutture portanti: le Comunità europee, la cooperazione in termini di Giustizia e affari interni (GAI), la politica estera e sicurezza comune (PESC). E il Trattato di Schengen, o Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen, partito nel 1985 con l’adesione del Benelux, Francia e Germania, si è col tempo ampliato tramite l’integrazione (fine di ogni trattato Ue), di altri paesi.
Attualmente sono 22 i paesi aderenti allo ‘spazio Schengen’, i cui accordi sanciscono la libertà di circolazione di beni e persone, la liberalizzazione di flussi di capitale, non solo in ambito Ue, ma anche all’esterno, dato che il Trattato è stato ratificato anche da Paesi terzi ‘extra Ue’, come Svizzera, Islanda, Liechtenstein, Norvegia.
L’insieme degli accordi parte da una base giuridica che trova riscontro negli Articoli dal 63 al 66 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFU).
Contrariamente alle diffidenze, e al prevalere di pregiudizi di ordine nazionalistico, i rappresentanti delle maggiori economie dell’Ue, vedrebbero con favore l’unione politica, e proprio lo scorso anno sono stati i governatori di due Banche Centrali (zona Euro) a diffondere al riguardo un articolo/documento. Si tratta, come si è già accennato, di Weidmann e Villeroy. Nell’articolo vi si leggono affermazioni davvero incoraggianti su un percorso di Unità che ancora oggi sembra quasi utopico:
“In Francia come in Germania, qualcuno può avere la percezione che la solidarietà europea, su questi due punti, sia carente. Altri arrivano addirittura a rimettere in discussione il progetto europeo, e le tendenze nazionaliste in diversi Stati membri si stanno accentuando. Tuttavia, come cittadini europei impegnati, noi siamo del parere che il futuro dell’Europa non possa poggiare su una rinazionalizzazione, ma al contrario debba passare attraverso un rafforzamento delle sue basi.”
C’è da dire che, nonostante l’apparente ostilità e rudezza nei confronti delle economie più fragili dell’Ue, Weidmann si è più volte espresso a favore dell’istituzione di un Ministro del Tesoro unico, primo passo per conseguire poi l’Unione politica. Il che, sia detto per inciso, porterà sicuramente Weidmann, in un futuro non lontano, a ricoprire anche questo posto chiave nell’Unione.
Così com’è organizzata oggi l’Ue, non è né carne né pesce, è sempre una porta aperta a tutti i venti, una sorta di arena di confronto, dalla quale non emerge quell’Autorità autentica sul piano internazionale, della quale l’Europa ha tanto bisogno. Proprio perché le sfide sul piano della politica economica sono davvero forti – non è l’Europa del Novecento, siamo in piena fase di globalizzazione – e tutti gli scenari hanno prospettive diverse.
I due governatori, il tedesco e il francese, dichiarano di essere pronti a rinunciare alle sovranità nazionali, per lasciare spazio ad una sola Autorità in materia economica e finanziaria, non si tratta di proposte di poco conto, nonostante i media non abbiano dato il dovuto rilievo alle dichiarazioni congiunte di Villeroy e Weidmann. Se ne lamentò lo scorso anno anche Eugenio Scalfari in un editoriale pubblicato su Repubblica (che pubblicò anche il documento in versione integrale).
Affermava Scalfari: “La cosa che mi ha stupito in questi ultimi tre giorni è il silenzio totale delle varie stazioni televisive su questo tema, e così pure quella di quasi tutti i giornali. Siamo stati i primi e i soli a dare la notizia e ad esaminarla. Ci fa piacere ma è comunque stupefacente”.
Non è per finire in retorica, ma le ‘voci’ che contano in ambito europeo restano inascoltate, in questo caso è incomprensibile che una simile istanza non abbia trovato il giusto accoglimento nelle sedi opportune. Si tratta di disponibilità alla cooperazione, di aperture, importantissime per portare a compimento quell’obiettivo di Unità per il quale si versano torrenti di parole, ma poi, alla fine, quando si trovano i passaggi per andare oltre, si resta nell’ingranaggio di un’inerzia che finirà per favorire solo i movimenti politici euroscettici e xenofobi.
All’Europa manca proprio la volontà di una ‘liaision’ che razionalizzi con i fatti ciò che resta di un’unione sospesa, vulnerabile, e con la perenne minaccia della disgregazione, alla mercé dei populismi.
Si leggeva ancora nell’articolo scritto dai due governatori (pubblicato un anno fa):
“Gli europei condividono valori forti, un modello sociale equo e una moneta solida. È questo il patrimonio su cui dobbiamo costruire. Premesso ciò, va detto che la crisi del debito sovrano ha scosso la fiducia nell’Unione economica e monetaria europea. Malgrado le differenti misure in atto per migliorare la stabilità della moneta unica, il quadro strutturale presenta insufficienze gravi. Non solo: la zona euro patisce la debolezza della crescita economica. Se è vero che la politica monetaria ha apportato sostegno all’economia della zona euro, è vero anche che non è in grado di generare una crescita duratura, dunque non costituisce l’argomento principale di questo editoriale. Sono necessarie altre politiche economiche.”
Francia e Germania hanno proposto una sola Autorità per governare l’euro, ma è come se avessero esposto le loro tesi ai mulini a vento. Nulla è seguito, si vive in questa sorta di ‘catalessi’ sul piano dei progressi verso l’Unione politica, e c’è solo spazio per le divergenze, polemiche, evanescenza degli intenti. Mentre la direzione dovrebbe essere quella del riequilibrio fra responsabilità e controllo.
Questa inerzia potrebbe decretare la fine di un sogno.
Domanda legittima: ma perché si temporeggia e si foraggiano i populismi senza avere il coraggio di fare il passo decisivo, nonostante si scopra poi che sono le economie più forti dell’Ue a incoraggiarne il corso?
Risposta: perché, inspiegabilmente, il blocco dei Paesi facenti parte dell’Ue, è ancora arroccato nel suo nazionalismo sterile e inconcludente, dedito a ‘confezionare’ il pane di un inferno che sancirà davvero la fine di tante battaglie, se non si tracceranno le fondamenta per l’Unità.
Se ne parla anche questi giorni del ‘ministro del Tesoro per l’Eurozona’ e se ne parlava agli inizi dell’estate, quando con cautela si pensava che fossero di prossima introduzione gli ‘Eurobond’, insieme ad un sistema unico di garanzia per i depositi bancari, col fine di rendere più solida l’unione monetaria.
Si diceva ormai a voce alta a Bruxelles: “diventa necessario il completamento dell’Unione economica e monetaria, per incentivare l’occupazione e quindi la crescita, per la stabilità finanziaria e convergenza economica.”
Il cronogramma dovrebbe prevedere, entro il 2019, le norme per la garanzia dei depositi bancari, in un sistema unico, ed entro il 2025 si dovrebbe compiere ogni sforzo per l’emissione di un titolo pubblico europeo, garantito dagli Stati, passaggio fondamentale per arrivare verso un nuovo debito comune. Il termine ‘Eurobond’, nel documento proposto da Bruxelles, è sotteso, si accenna piuttosto ad un nuovo strumento finanziario che permetta l’emissione comune di debito, l’”european safe asset”, un tramite fondamentale per l’integrazione finanziaria e la stabilità.
Le ultime notizie su questo delicatissimo tema, di pochi giorni fa, riguardano la trasformazione del fondo ESM (o fondo salva Stati), in Fondo monetario dell’Unione. In programma uno ‘spazio’ finanziario nel bilancio Ue, che ha un fine di copertura per il fondo Esm, e che permette di affrontare le crisi qualora si presentassero choc economici non previsti, in soccorso comunque dei Paesi dell’area Euro.
Ma soprattutto, e finalmente, la nomina di un superministro del Tesoro, con il il Fiscal Compact integrato nella legislazione Ue. Sono le ultime proposte della Commissione europea. Sarà arrivato il tempo di fare aderire le parole ai fatti? Il 2018, ormai alle porte, ci darà queste risposte.

ENTRO IL 2017 FUSIONE TRA IL GRUPPO FERROVIE DELLO STATO E ANAS

DI VIRGINIA MURRU

 

La fusione tra Anas e FS, ossia di due aziende strategiche per gli investimenti infrastrutturali del Paese, è realizzabile entro l’anno, secondo il presidente dell’Anas, Gianni Vittorio Armani. In via di definizioni con il Ministero dei Trasporti, le prescrizioni formulate dalla Corte dei Conti, che ha dato il via libera alla registrazione del nuovo contratto.

La firma sul contratto di programma potrebbe essere apposta già entro questa settimana, secondo una comunicazione dell’Anas, l’integrazione con Fs è pertanto un obiettivo raggiunto.

A darne conferma anche il Mit, tramite il ministro Graziano Delrio, che così si è espresso in merito:
“l’integrazione di Anas con Fs, come già anticipato, sarà attuata entro quest’anno, saranno rispettati i tempi previsti”.
Già lo scorso aprile era nell’aria la conferma, poiché l’operazione aveva avuto l’ok da parte del Consiglio dei ministri, e la norma che autorizza l’integrazione, è stata inserita nel decreto legge sulla manovrina, in seguito all’autorizzazione della Ragioneria generale dello Stato.

Il decreto contiene altre 2 norme, delle quali, la prima è una precondizione, in quanto permette, con una somma di 700 mln provenienti dai risparmi di gare, di trovare una soluzione, in gran parte, per il contenzioso che grava sull’Anas verso gli appaltatori, e che ha un valore di ben 9 mld.

La seconda norma, voluta dal ministro Delrio, permetterà di velocizzare la procedura per il decollo delle opere già inserite nel contratto di programma Anas-governo, allorché giungerà l’ok del Cipe. Nella soluzione trovata dal Ministero dell’Economia e quello dei Trasporti, c’è il passaggio dell’Anas alle Fs, alle condizioni in cui si trova attualmente, con la garanzia di mantenerne l’autonomia.

L’integrazione non avverrà a titolo gratuito, ci sarà un aumento del capitale per Fs effettuato dallo Stato, per via del conferimento Anas. Il saldo complessivo che detiene lo Stato sulle due aziende, resterà invariato, ossia 40 mld (38 di Fs e 2 di Anas), il patrimonio dello Stato pertanto non varierà in termini di saldo complessivo.

In riferimento al contenzioso che riguarda l’Anas, del quale si è accennato, il presidente ha precisato “che è stata effettuata una valutazione in merito, e i fondi disponibili sono congrui.”

La situazione dell’azienda sembra stabile, nel sito ‘Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica’, si legge che lo scorso agosto ,il Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica), ‘ha approvato lo schema di contratto di programma tra il Mit e Anas per il 2016/20. Il Piano pluriennale degli investimenti Anas per il quinquennio prevede circa 23,4 mld di euro, i quali aggiunti a quelli in fase di attivazione e in via di esecuzione, che sono 6,1 mld, raggiunge un valore di quasi 30 mld di euro, 21 dei quali sono già finanziati.

E’ per questo che Armani si dichiara ottimista sulla chiusura dell’esercizio dell’anno in corso, sottolineando che si è data priorità al rilancio degli investimenti, c’è stata una corsa all’aggiudicazione dei bandi, il che va ben oltre i risultati raggiunti nel 2016. Armani auspica che il nuovo contratto di programma possa consentire un autentico rilancio sul piano infrastrutturale, anche perché è il mantra che l’Ue ci propone costantemente in termini di sollecitazioni.

La fusione delle due grandi aziende è una maxi operazione attesa da tempo, finora fallita per cavilli di natura burocratica, ora è diventata una realtà, “si è avverata l’ultima condizione”, come ha dichiarato il Presidente dell’Anas, Gianni Vittorio Armani.

AFERPI-CEVITAL. IL MINISTRO CALENDA: PRONTI ALLA RESCISSIONE DEL CONTRATTO

 DI VIRGINIA MURRU
Polemiche e un fuoco di fila di accuse: tra il Ministero dello Sviluppo Economico e Issad Rebrab, imprenditore algerino che 3 anni fa rilevò le acciaierie di Piombino (ex Lucchini), si profila un contenzioso legale.
Non è stato un polo siderurgico fortunato, Piombino, hanno fallito in tanti, da Lucchini ai russi di Severstal, e ora gli algerini di Cevital. L’acciaieria sul piano produttivo accusa problemi di risorse, 2 mila lavoratori da alcuni anni (osservazione di Matteo Renzi), ‘vivono con la morfina della Cassa integrazione’. Passaggio di mano in mano, e poi il fallimento, ‘stile Alitalia’, ma gli esempi sarebbero tanti.
La società che gestisce lo stabilimento di Piombino, Aferpi, lamenta il pignoramento dei conti correnti e documenti da parte del Commissario straordinario, gli stipendi così sarebbero a rischio. La RSU del sindacato replica che gli stipendi sono coperti al 90% dall’Inps. E smentisce la Fiom (Federazione metalmeccanici), sostenendo che si sta facendo solo del terrorismo mediatico.
Già una decina di giorni fa il ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, dopo un vertice al Mise, aveva dato mandato all’amministratore straordinario di avviare la procedura di risoluzione del contratto Aferpi-Cevital, causa inadempienza.
Il 20 novembre scorso, infatti – secondo una nota pubblicata nel sito del Mise – il ministro Calenda e la viceministro, Teresa Bellanova, hanno incontrato il Ceo algerino Issad Rebrab, “per fare il punto sullo stato di attuazione degli impegni assunti rispetto al complesso industriale di Piombino.
Risale al 30 giugno la firma di un addendum al contratto di compravendita, tra il Commissario straordinario della Lucchini e Rebrab”.
Tale addendum prevedeva una proroga di 2 anni del regime di sorveglianza del Ministero sull’attuazione della vendita, ma anche una revisione temporale degli impegni di Aferpi, in primis la ripresa entro agosto 2017 dei lavori di laminazione per le rotaie, e altre attività di carattere produttivo in autunno.
Infine l’addendum prevedeva, entro ottobre, l’individuazione di una partnership per il piano siderurgico del ‘Progetto Piombino’. In mancanza, si sarebbe dovuto presentare un piano industriale che mettesse in rilievo le fonti di finanziamento.
Il dott. Pietro Nardi (nella funzione di Commissario straordinario), ha fatto rilevare alle società Cevital e Aferpi, le inadempienze degli impegni assunti, ossia gli obblighi di
prosecuzione dell’attività produttiva accettati per contratto sullo stabilimento ex Lucchini. Pertanto si contestano le evidenti inadempienze sui vari punti messi in rilievo. Ne consegue che non ci sono riscontri per quel che concerne l’addendum, ed è per questo che è stata avviata la procedura per la risoluzione del contratto. “Sono stanco d’essere preso in giro” – ha dichiarato il ministro Calenda.
Rebrab, tuttavia, reclamerebbe il doppio dell’importo investito nel gruppo siderurgico di Piombino, per procedere alla risoluzione del contratto e lasciare il campo libero al prossimo acquirente. Dichiarazione che ha suscitato lo sdegno del ministro Calenda, il quale ha fatto sapere che si tratta di una pretesa inaccettabile, abbastanza prossima alla speculazione. Issad Rebrab era subentrato nel gruppo delle acciaierie di Piombino in seguito ad una gara, nel 2014, Renzi aveva appena preso le redini del Governo.
La proposta di Rebrab era risultata la migliore, e vinse la gara. Dopo tre anni comunque non vuole più saperne, e rimanda al mittente le accuse di speculazione. Rebrab, anzi sarebbe disposto, dopo la vendita, a investire parte del ricavo in Italia, ma chiede garanzie, e un intervento del governo italiano, tramite il ministro dello Sviluppo Economico.
“Non possiamo svendere Aferpi a beneficio di chi intende subentrare – afferma Rebrab – non sono condizioni eque per noi”
Lo ribadisce il Ceo di Aferpi (società costituita da Cevital per l’acquisizione delle acciaierie), Said Benikene, il quale afferma che la somma richiesta non è frutto di un azzardo, né il doppio di quanto si è investito, ma il semplice risultato di una perizia. Tante sarebbero le ragioni che hanno portato l’imprenditore algerino a chiudere i conti con le acciaierie, in primis la mancanza di sostegno da parte del governo italiano.
Non è una novità l’interesse della società Jindal per l’ex polo siderurgico di Piombino, si era presentato alla gara anche nel 2014, ma in quell’occasione aveva avuto la meglio Cevital. Ora spunta ancora il suo nome, sembra sia disponibile a subentrare agli algerini, ma anche dal suo punto di osservazione, il prezzo fissato da Aferpi è troppo alto.
A settembre scorso, Jindal, aveva presentato al Governo un piano per rilevare Aferpi, con coordinate tutt’altro che da disprezzare: 400 mln di investimenti, 1800 dipendenti e 4 laminatoi. Jindal intendeva anche integrare ai treni rotaie, barre e vergella, i piani. Potrebbe finalmente essere la carta vincente, ma prima ci sono da districare i nodi nei rapporti con l’algerino Rebrab, che viene peraltro da un ben lontano dalla siderurgia: il settore agro-alimentare.
Ma le polemiche vanno anche oltre questo panorama di tensioni, c’è anche l’attrito sorto tra l’ex premier Matteo Renzi e il governatore della Regione Toscana Enrico Rossi. Negli ultimi giorni è diventato rovente, in seguito alle dichiarazioni di Renzi sulle presunte responsabilità di Landini e Rossi, che avrebbero voluto a tutti i costi favorire Rebrab 3 anni fa nell’acquisizione delle acciaierie.
Il governatore non è disposto ad accettare le insinuazioni, e precisa che gli algerini hanno solo vinto la gara, non ci sarebbero state forzature di alcun genere. Si sta cercando di smorzare i toni, ma non è semplice. Le opposizioni trovano invece terreno fertile sul quale ‘beccare’, e chiedono con insistenza la tutela dei lavoratori dell’indotto ex Lucchini. Il Movimento 5s ha presentato al riguardo una mozione.
Al convegno della Fiom (Federazione impiegati operai metallurgici), che si è svolto alcuni giorni fa a Roma, il ministro Calenda ha messo in rilievo il fatto che la vicenda delle acciaierie di Piombino sia stata oggetto di valutazioni non solo da parte del Governo, ma anche da sindacati e istituzioni, Regione Toscana compresa.
Così si esprime al riguardo:
“Il sindacato ha seguito ogni fase della nuova gestione, tanti sono stati gli incontri al ministero con Rebrab, ma alle promesse non sono seguiti gli esiti sperati, evidentemente la Cevital non ha né risorse disponibili né le competenze necessarie, ora si auspica che la procedura legale, decisa congiuntamente, si concluda in modo ragionevole.”
L’imprenditore algerino era riuscito a convincere tutti alcuni anni fa, allorché andò alla guida dell’ex polo siderurgico, presentando un piano con ottime prospettive per il futuro. “Ma purtroppo, allo stato dei fatti, sostiene il ministro, era solo fumo se i risultati sono quelli di oggi”.
Al convegno romano era presente, tra gli altri, anche il governatore della Toscana, Enrico Rossi e il presidente di Federacciai, Antonio Gozzi. Rossi ha sottolineato la necessità di garanzie sulla prossima gestione, per evitare altri errori, e dunque controlli più severi del piano industriale, considerato che il settore dell’acciaio ha la sua importanza e richiede scelte strategiche a livello politico. Antonio Gozzi ha spiegato che resta sempre dell’opinione che l’unico impianto da portare avanti è il treno rotaie.
Intanto si attendono sviluppi dal processo legale in atto, si spera che il contenzioso tuttavia non sia avviato e si possa bypassare con una trattativa che soddisfi entrambe le parti. Dietro l’angolo c’è sempre Jindal, dagli esiti degli accordi dipenderà la sua entrata in scena e l’avvicendamento nella gestione di Aferpi.
La vendita della società è quasi scontata, dato che Rebrab ha più volte sottolineato di non essere in condizioni di andare oltre senza il supporto del Governo.

DOPO I PANAMA PAPERS E’ ARRIVATA L’INCHIESTA SUI ‘PARADISE PAPERS’

DI VIRGINIA MURRU

L’ennesima inchiesta da parte del Consorzio Internazionale dei giornalisti investigativi (CIGI), i paradisi fiscali hanno ora accessi ancora più trasparenti. Il 5 novembre scorso, questa rete internazionale di giornalisti – che ha sede a Washington,  e conta sull’attività di 165 giornalisti investigativi, operanti in 65 paesi – con la pubblicazione di un articolo, ha reso noto la diffusione di nuovi files che contengono documenti su conti off-shore di persone fisiche e multinazionali.

Il CIGI (o in inglese ICIJ, International Consortium of Investigative Journalists), si occupa in particolar modo di reati transnazionali e di corruzione, e proprio  quest’anno ha vinto  il Premio Pulitzer (Sezione giornalismo di divulgazione), per avere pubblicato e rivelato, tramite lunghe inchieste, i Panama Papers. Di questo staff di giornalisti – che collaborano in sinergia su tanti temi di carattere internazionale, comuni ai loro paesi di appartenenza, non di rado inerenti traffici illeciti – fa parte anche il settimanale italiano ‘l’Espresso’, che ha condiviso con gli altri il prestigioso riconoscimento. Questa la motivazione del Premio, categoria ‘giornalismo divulgativo, attribuito dalla Columbia University di New York:

“Per aver svelato la struttura nascosta e la scala globale dei paradisi fiscali”.

I  giornalisti del ‘Consorzio’ hanno investigato e pubblicato documenti importanti sui Panama Papers, legati allo studio legale Mossak Fonseca, dimostrando nel contempo che esiste una fitta rete di società offshore, usate purtroppo dagli stessi governi e dai potenti di turno (banchieri finanzieri, politici etc.) per eludere tasse celando al fisco profitti illeciti.

L’inchiesta ha coinvolto in tutto circa 300 giornalisti, che hanno messo in moto, attraverso controlli e indagini incrociate, qualcosa come 10 milioni di files e documenti, portando alla luce i traffici di 200 mila società, e centinaia di capi di stato. Naturalmente l’Italia non è stata esente da questa black-list: sono un migliaio le persone coinvolte.

I nuovi files  mettono in luce altri paradisi fiscali (tax haven), tra i quali le isole Cayman e Bermuda; si tratta di nuove inchieste, che portano più in profondità lo scandaglio sui conti off-shore. L’inchiesta condotta nel 2016, che ha avuto per oggetto i Panama Papers, riguardava un network imponente di oltre 200 mila società off-shore, con sede a Panama.

Una slavina che tutto ha travolto nel suo percorso d’inchiesta, leader politici e personaggi in vista, noti nell’ambito dello sport o dello spettacolo, certamente individui facoltosi, interessati a portare il loro ingombrante portafogli fuori confine. Lo scorso anno, i giornalisti investigativi, avevano un archivio di oltre 11 milioni di files, riguardanti un arco temporale che va dagli anni ’70 al 2016.

Persone fisiche e imprese (non di rado un intrico di società fantasma), avrebbero sottratto al fisco e dunque all’Erario, imposte per un valore che si conta in milioni di dollari, e ha coinvolto studi legali e banche, i quali hanno assistito i propri clienti senza rispettare la normativa antiriciclaggio, e senza svolgere gli opportuni controlli.

E’ stata poi una reazione a catena: in questa deflagrazione sono finiti anche istituti di credito che operano in circuiti internazionali,  risultati responsabili della costituzione di società a Panama e nelle Isole Vergini. Paesi che hanno una normativa ‘compiacente’ e accomodante, dove il denaro (soprattutto se proviene da fonte illecita), segue una rete contorta, non facile da individuare.

Ma i tax haven hanno strade accessibili anche per i finanziamenti al terrorismo, per il traffico di armi, per tutte quelle attività sommerse che non possono servirsi dei circuiti convenzionali. La garanzia del segreto e della massima discrezione è il lasciapassare di queste risorse, e investire diventa veramente un business. E’ in definitiva il segreto la maggiore attrattiva, e proprio la protezione sulla tracciabilità delle transazioni consente questi traffici, che vanno dal riciclaggio di denaro sporco, alle immense risorse derivanti dalla vendita di stupefacenti.

I governi possono agevolare l’elusione fiscale, favorendo per esempio le multinazionali con norme precise,  dopo accordi non propriamente alla luce del sole. Il governo italiano è uno di questi.

L’Unione europea ha di recente contestato la riforma fiscale varata da Renzi nel 2015, che consentiva troppi sconti sulle tasse che avrebbero dovuto versare le multinazionali.  Il premier Paolo Gentiloni ha quindi provveduto ad abolire, o a modificare, nel mese di aprile di quest’anno, le norme riguardanti il ‘patent box’ (ossia tassazione agevolata sui redditi derivanti da opere d’ingegno), le quali, appunto, stabilivano importanti riduzioni d’imposta per le società titolari di brevetti, marchi e licenze. In ambito Ue è stata la Germania, insieme ad alcuni altri paesi membri, a contestare all’Italia tale procedura fiscale in favore delle big del web, anche se, il ‘dossier’ al riguardo, è rimasto piuttosto riservato.

E’ stato comunque il settimanale l’Espresso a pubblicare i verbali riservati che vedono l’Italia sotto accusa. Sono proprio le cosiddette ‘Carte di Bruxelles’  a mettere in rilievo i vantaggi fiscali concessi alle big company, i cui traffici commerciali si svolgono tramite il web.

E’ un’inchiesta giornalistica che ha rivelato le valutazioni dello staff tecnico dell’Ue,  circa il rispetto, in termini di compliance, delle regole europee; quindi sull’applicazione delle norme fiscali da parte degli Stati membri. Regole che sanciscono la trasparenza e la lotta all’elusione già indicate peraltro dall’Ocse.

E’ vero che l’Ocse ha fornito disposizioni ai singoli stati per favorire, con opportuni incentivi fiscali, brevetti e studi volti a migliorare l’innovazione (che rientrano poi nel ‘patent box’), ma ha nondimeno precisato che tali agevolazioni fiscali devono corrispondere a spese effettive sostenute per ragioni di ricerca e sviluppo.

L’Italia, che in ambito Ue, aveva i suoi ‘detrattori’ alle spalle, Germania in testa, è stata in definitiva accusata di avere contravvenuto a queste norme, le quali, come si è accennato, riguardano la riforma fiscale del 2015. Si tratta poi di benefici che davvero l’Italia non si poteva permettere, visto che prevedono un consistente sconto del 50% delle tasse per una durata di 5 anni. Non solo: il beneficio era possibile prorogarlo per altri 5 anni.

L’attuale Governo ha certo provveduto a modificare o a cancellare le norme al riguardo, ma in un certo senso è stato come ‘chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati’. L’Italia non è mai stata chiara nel fornire i nomi delle aziende che hanno beneficiato di queste agevolazioni, e i tecnici tedeschi, i più riottosi verso l’Italia – questa volta veramente a ragione – hanno sottolineato  il fatto che, nonostante il governo Gentiloni abbia cercato di rimediare cancellando le norme sotto accusa, le multinazionali che hanno beneficiato finora delle agevolazioni, dopo avere siglato accordi con il Governo, potranno continuare a goderne fino al 2021..

Inutile perdersi in retorica e piangere ‘sul latte versato’, tanto per dirla con un luogo comune, di certo è stato un grande errore del governo Renzi. Se poi l’Ue ogni tanto ci dà una strigliata, non bisogna sempre atteggiarsi a vittime, perché di errori ce ne sono stati.

Su questo punto c’è da dire, secondo l’inchiesta condotta da l’Espresso, che possiamo consolarci col fatto che non siamo gli unici disobbedienti: discordanza con le norme fiscali sancite dall’Unione europea, ne sono state trovate anche nel ‘patent box’ della Spagna e della Francia.

 

 

 

FINANZIARIA 2018. TROPPE RICHIESTE, LE RISORSE NON SONO UN POZZO SENZA FONDO

DI VIRGINIA MURRU

 

Si è cercato di tendere le braccia in tutte le direzioni, accogliendo più emendamenti possibili ed effettuando correttivi anche al di là forse dei limiti, ma la finanziaria 2018 non è un cappello per illusionisti, né un pozzo senza fondo, oltre non si può andare. Il piano di spesa deve essere contenuto in un ‘portafoglio’ alla portata dell’azienda Italia, impegnata più che mai a fare quadrare i conti secondo le regole imposte dai trattati dell’Unione europea.

Troppi gli emendamenti presentati, non ci poteva essere attenzione per arrivare a tutto; avranno spazio (oltre ai ritocchi riguardanti le materie più dibattute, ad esempio le pensioni, e l’esenzione da ‘quota 67’ delle 15 categorie di lavori gravosi) anche i fondi per rivedere il superticket e il rifinanziamento dei cosiddetti ‘bonus bebé’, un incentivo ‘salva librerie’, che non siano parte di una catena facente capo allo stesso editore. E ancora sostegno per giovani e donne, e perfino un fondo (di 2 milioni) per i festeggiamenti del carnevale.

Ok alla web tax, anche se entrerà in vigore dopo un anno (approvata il 26 novembre), ossia il 1° gennaio 2019. Partirà quindi una flat tax pari al 6%, che sarà applicata a tutte le transazioni on line (ad eccezione di agricoltori e aziende agricole). L’emendamento relativo alla web tax è stato presentato da Massimo Mucchetti, il quale sottolinea che ‘una volta a regime le entrate che ne deriveranno saranno prossime al miliardo di euro, sicuramente ossigeno per l’Erario’.

Secondo la relazione tecnica di Massimo Mucchetti, senatore Pd e presidente della Commissione Industria, una prima stima del gettito però sarà di 114 milioni di euro. L’iniziativa sulla web tax è solo italiana, al momento, ma in ambito europeo se ne discute già da mesi con altri paesi, Germania in primis. Tutti concordano sulla necessità di mettere un argine ai lauti profitti delle multinazionali, le quali, fino ad ora, hanno solo cercato di eludere il fisco dei paesi nei quali avvengono effettivamente le transazioni.

L’iniziativa è solo italiana, si diceva, perché se si aspetta la locomotiva dei paesi Ue interessati a regolamentare i traffici commerciali della rete, si finisce come ‘Godot’, per dirla come il senatore Mucchetti.

E infatti a settembre, nel corso del summit dei Ministri delle Finanze europei a Tallinn, si è parlato dei giganti del web e del loro agire illecito nei confronti del fisco, tanti buoni propositi, convergenza di vedute, sdegno, oltre che da parte del rappresentante italiano, anche di quello francese, tedesco e spagnolo. Ma poi di nuovo silenzio, attese estenuanti per un intervento che dovrebbe avere priorità d’agenda in ambito europeo.

La tassa sul fatturato delle multinazionali che operano nell’ambito della digital economy, non ha trovato concreta applicazione, né un accordo definitivo. Dietro le incertezze i timori delle ‘ritorsioni’ degli stessi giganti che operano con i loro traffici commerciali sul web, i quali potrebbero decidere di fare le valigie e ‘migrare’ in altri lidi più accoglienti.

Importante per la Finanziaria anche il fondo istituito in favore dei caregiver, che sostiene un’ampia platea di familiari impegnati non di rado notte e giorno ad assistere familiari affetti da gravi patologie, e dunque non autosufficienti.

Il senatore Pd Giorgio Tonini, presidente della Commissione Bilancio, è preoccupato, il dibattito non segue una procedura spedita, slitta di qualche giorno il voto finale, è un iter simile ad una corda piena di nodi, probabilmente entro il 29 novembre si dovrebbe avere una visione più chiara degli interventi. Il problema è anche una maggioranza risicata, a svolgere un ruolo di discrimine sono due senatori di Ala (Alleanza Liberalpopolare-autonomie), i loro voti sono stati determinanti per la Commissione Bilancio del Senato.

Si è discusso forse troppo sul sovraprezzo imposto dalle regioni per le prestazioni specialistiche di carattere sanitario, anche perché ognuna ha parametri di applicazione diversi e non è facile districarsi in questa giungla. Il Governo ha arginato gli ostacoli con un fondo di 60 milioni, ma non tutto è stato definito, questo punto si è rivelato uno dei più difficili da superare in termini di accordi.

Un occhio alla spia rossa delle risorse disponibili, e uno alle raccomandazioni della Commissione europea, che ha sospeso il giudizio sui conti italiani fino alla prossima primavera, in attesa di prospettive più certe.
In seguito alla lunga serie di intoppi, di stop and go, la finanziaria arriverà in Aula a Montecitorio quasi sicuramente mercoledì.

MANOVRA 2018. TRA GLI EMENDAMENTI ANCHE L’ISTITUZIONE DI UN FONDO PER I CAREGIVERS

DI VIRGINIA MURRU
In Commissione Bilancio al Senato, c’è stato un bel da fare negli ultimi giorni, tanti gli emendamenti apportati alla Legge di Bilancio 2018, in primis quello riguardante le 15 categorie di lavori usuranti, che saranno esentati dall’adeguamento automatico alle aspettative di vita (‘quota 67’). C’è anche l’istituzione di un Fondo per i cosiddetti ‘caregivers’, ossia quei soggetti che si prendono cura di familiari affetti da patologie fortemente invalidanti.
Al Fondo verrà destinato un finanziamento di 20 milioni l’anno (60 mln in 3 anni), per il triennio 2018/20, e avrà una funzione di copertura per gli interventi a beneficio di questi ‘assistenti familiari’, ma soprattutto se ne riconoscerà l’importante ruolo sociale. Si tratta di interventi e battaglie portati avanti dal Pd negli ultimi anni, anche con specifici disegni di legge volti al riconoscimento di questa particolare ‘figura sociale’, culminati ora con l’accoglimento degli emendamenti da inserire nella manovra, che prevedono, appunto, l’istituzione di un Fondo ad hoc.
Secondo la definizione dell’esponente del Pd in Commissione Lavoro, Annamaria Parente (capogruppo), “i ‘caregiver’ sono coloro che assistono persone con uno stato di salute seriamente compromesso”, nella gran parte dei casi si tratta di donne, che si prendono cura del proprio coniuge, ma riguarda anche le unioni civili tra persone dello stesso sesso, nonché conviventi di fatto o familiari affini entro il terzo grado, soggetti, in ogni caso, che non siano in grado di provvedere a se stessi, a causa di affezioni gravi (ad esempio demenza senile o disabilità).
Tra le tante battaglie di carattere sociale, rivendicate dal Pd, c’è anche quella sul rifinanziamento del Fondo per il ‘Dopo di noi” , (istituito con la legge n.112 del 2016 ), rivolto all’intervento assistenziale permanente di persone con disabilità grave e permanente, che non possono contare sul sostegno familiare.
Per quel che concerne il Fondo destinato ai caregivers, si prevede che la gestione sarà affidata al Ministero del Lavoro; come già accennato, avrà una funzione di copertura per gli interventi di carattere legislativo che porteranno al riconoscimento del ruolo, tramite un adeguato sostegno economico, anche secondo personali situazioni lavorative e di vita.
Tra le altre proposte di correttivo al ddl Bilancio, c’è anche la riserva di una ‘dote’ mirata, da individuare nel Fondo per il contrasto delle povertà con fine d’inclusione, destinata all’assistenza e al supporto dei giovani ‘fuori famiglia’. L’istituzione di questa risorsa finanziaria sarà attribuita per ora in via sperimentale, e avrà una consistenza di 5 milioni l’anno, sempre di competenza del triennio 2018/20.
Nello specifico, tale sostegno sarà riservato ai giovani che, al momento del compimento dei 18 anni di età, vivessero fuori dal contesto familiare di origine, per via di provvedimenti di carattere giudiziario. L’assistenza potrà avere una durata di 3 anni.
Nella pioggia di correttivi vi sono i pensionamenti anticipati riguardanti i direttori sanitari, emendamento promosso da un esponente di Ala (Alleanza Liberalpopolare-Autonomie), Antonio Milo, che è il risultato di un compromesso raggiunto con il Pd, per una questione di maggioranza in Commissione Bilancio. L’intervento è a favore dei dirigenti medici dipendenti da strutture sanitarie che presentassero entro il prossimo anno, domanda di pensionamento anticipato, e che abbiano compiuto i 64 anni e sei mesi di età.
E’ necessaria però, una maturità contributiva di 40 anni e 8 mesi. Ci sono ovviamente delle condizioni per l’anticipo pensionistico: il dirigente medico deve dimostrare di essere parte dell’organico dell’azienda sanitaria nella quale svolge la sua attività, fino al 31 dicembre 2017, e deve essere stato collocato fuori dal reparto o dal servizio medico da almeno due anni.
All’esame anche gli emendamenti relativi ai Premi di produttività in azioni, che rimandano ai lavoratori dipendenti; una proposta che tiene conto del calcolo delle plusvalenze derivanti dalla cessione, e nella fattispecie dalla differenza tra ciò che percepisce il dipendente e il valore delle azioni nel momento in cui queste sono state assegnate. Anche questo ‘ritocco’ deriva da un esponente Pd (Giorgio Santini).
Tanti altri sono i ritocchi, vista la mole non indifferente degli emendamenti sulla manovra (700), c’è anche l’emendamento che trasferisce competenze concernenti il ciclo dei rifiuti all’Autorità per l’energia elettrica, che potrebbe assumere, nell’ambito di questo circuito integrato, il nome di ‘Arera’, ossia Autorità di regolazione per l’energia, reti e ambiente.
I rappresentanti saranno sempre 5, su nomina e proposta del ministero dello Sviluppo economico, in sinergia con quello dell’Ambiente.
E’ ancora Ala a presentare in Commissione l’emendamento che istituirà il Registro Nazionale degli Agenti Sportivi presso il Coni, c’è già stato al riguardo l’ok della Commissione. Riguarderà quei soggetti che, dopo avere redatto in forma scritta un incarico che crea una relazione tra due persone attive nell’ambito di una disciplina sportiva – riconosciuta dal Coni affinché il ‘contratto’ concernente la prestazione sportiva di carattere professionistico risulti valido – possano accedere al tesseramento presso una federazione sportiva professionistica.
La registrazione avviene dopo il versamento di un’imposta di bollo dell’importo di 250 euro, annuale.
Via libera della Commissione Bilancio anche per la detassazione della Previdenza integrativa che interessa i dipendenti pubblici, più o meno in linea di simmetria con ciò che è previsto con i privati; l’intervento dovrebbe moltiplicare le adesioni degli statali alle cosiddette forme complementari. Sono previste Commissioni tecnico-scientifiche.
Il dibattito in materia di pensioni comincia ora a Montecitorio, è già previsto un emendamento da parte del Governo, per allargare la platea dell’Ape Social alle 4 attività considerate usuranti, ed esenti da ‘quota 67’. Si tratta di pescatori, marittimi, siderurgici, e braccianti. E con queste nuove mansioni incluse (oltre le 11 già previste), si arriva alle 15 categorie che saranno esentate dagli scatti automatici in termini di maturità pensionistica.
Particolari agevolazioni sono previste per le donne, punto di forza della trattativa con la Cgil.
Si pensa che proprio nel dibattito alla Camera, si potrebbe trovare un accordo tra maggioranza e opposizione per prorogare l’Ape social, con le agevolazioni anche per le donne, fino al 31 dicembre 2019.

LETTERA UE ALL’ITALIA: ATTENZIONE, TRA I 5 PAESI A RISCHIO INADEMPIENZA

DI VIRGINIA MURRU

 

Il pungolo è quello dello scorso anno, sembra anzi un tamburo battente, che per la verità suona un po’ troppo fuori dal coro, considerati gli ottimi giudizi espressi dalle Organizzazioni internazionali che monitorano l’economia globale.

Strigliate continue ad un Governo che ha compiuto ogni sforzo possibile per arrivare a un dignitoso risultato di fine legislatura, senza dimenticare che ha preso le redini quando il Paese, nel 2014, aveva imboccato il sentiero della recessione.

Tutto questo mentre è appena arrivato l’ennesimo risultato positivo da parte dell’istat, con il Pil in crescita all’1,5% (stima rivista da +1%), ossia al top dal 2010 a questa parte. A spingerlo in avanti è la domanda interna, ma a questo dato seguono altre positive performance dei dati macro, come il calo del tasso di disoccupazione, e l’aumento dell’occupazione, sempre provenienti da calcoli statistici.

Basterebbe del resto riflettere al dissesto dei conti pubblici che ha ereditato il Governo, e agli strettissimi margini di manovra che purtroppo hanno permesso, per osservare i fatti su prospettive migliori.

Le raccomandazioni della Commissione europea, tramite il vicepresidente Valdis Dombrovskis e il commissario agli Affari economici Pierre Moscovici, danno una lettura della realtà che non lascia spazio, se non con un trascurabile inciso (‘riconosciamo l’impegno del Governo..’), che fa sentire il Paese sempre sul limite del baratro.

E sempre a rischio procedura d’infrazione, comunque a rischio di ‘non rispetto del Patto di Stabilità e Crescita’ sancito dal Trattato di Mastricht.
Ancora in agguato resta dunque la procedura per il debito pubblico ben oltre il limite, ai sensi dell’art. 126/3 dei Trattati.

Anche se la Commissione si riserva un altro rapporto a febbraio sugli scompensi macroeconomici rilevati, e dunque c’è sempre da vigilare, siamo in buona compagnia, dato che insieme a noi c’è Francia, Irlanda, Germania, Svezia, Bulgaria, Portogallo, Olanda, Cipro, Croazia e Slovenia.
Ma i paesi effettivamente ‘disobbedienti’ in materia di compliance sono 5: Italia, Belgio, Austria, Portogallo e Slovenia. In particolare il Belgio naviga più o meno nelle stesse acque dell’Italia quanto a debito pubblico.

Sulla bozza della legge di Bilancio inviata di recente dal Governo alla Commissione, si sottolinea in chiaro che “The Plan is at risk of non-compliance with the provisions of the Stability and Grouth Pact” (Il Piano è a rischio inadempienza con le disposizioni del Patto di Stabilità e Crescita).

Tutto questo è francamente umiliante, se facciamo parte del G7, qualche ragione pure l’avrà l’economia italiana. Nel mirino il debito pubblico, sempre sul banco degli imputati, e qui purtroppo non si possono fare grandi passi avanti, se quando lo si è preso in mano era già quasi ‘intrattabile’, un mezzo mostro.

Nella lettera inviata dalla Commissione, si legge tra l’altro:
“La persistenza del debito pubblico è motivo di preoccupazione, la Commissione si riserva di effettuare altri controlli sui parametri e il rispetto delle regole nei primi mesi del 2018. E ancora:

“Sappiamo che l’Italia ha compiuto tanti sforzi per favorire la crescita, ma nel 2018 è fondamentale che la manovra presentata sia attuata con rigore in tutte le sue disposizioni, affinché diventi possibile raggiungere in termini strutturali lo 0,3% del Pil. Per questo è importante non ‘annacquare’ le ultime riforme in ambito welfare, non è consentita nessuna retromarcia sulle pensioni, dalle quali dipende la sostenibilità nel lungo periodo”.

Moniti che non suonano come ‘sedativi’ per la recente vertenza tra Governo e sindacati, nella quale è emersa la contrapposizione della Cgil, che non intende accettare la trattativa e ha già dichiarato che la mobilitazione sarà inevitabile. Un Governo che deve mediare tra due fuochi: da un lato i sindacati, dall’altro la Commissione europea, che non lascia scampo.

La Commissione infine si raccomanda in ambito Eurozona sul completamento dell’unione bancaria, invita a favorire quanto più possibile l’inclusione sociale, l’uso di strategie volte a migliorare la produttività e la crescita potenziale, rendendo in tal modo più solida anche l’Eurozona.

a Letter-to-Minister-Padoan

VERTENZA PENSIONI: LA CGIL PROCLAMA LA MOBILITAZIONE, “INSUFFICIENTI” LE PROPOSTE DEL GOVERNO

DI  VIRGINIA MURRU
La leader della Cgil, Susanna Camusso, ha ritenuto insufficiente la proposta del premier sulle pensioni, proclamando così, come già ventilato (nel caso in cui le istanze del sindacato non fossero state accolte), la mobilitazione generale territoriale per il prossimo 2 dicembre, in alcune grandi città.
Dopo l’incontro col Governo, la Segretaria della Cgil ha dichiarato:
“Per noi vertenza aperta, lo sosterremo con grande forza.” E’ stato chiesto un incontro urgente ad alcuni gruppi parlamentari per trovare una soluzione comune, e a questo punto si spera che sia finalmente la strada giusta.
Respinto dunque il nuovo testo, presentato oggi dal Governo nel corso dell’incontro con i rappresentanti dei sindacati. In sintesi, la Camusso ha confermato, durante la conferenza stampa, le perplessità già espresse nel precedente incontro, ossia ‘l’esiguità delle risorse inserite nella Legge di Bilancio’.
“Si tratta di scelte politiche – ha ripetuto la Segretaria – e pertanto la vertenza resta aperta. Ci sarà una prima mobilitazione generale il 2 dicembre, per affermare i cambiamenti universali del sistema previdenziale, esigiamo attenzione verso i temi del lavoro.”
E ha proseguito:
“Ora le proposte fatte durante il confronto di oggi saranno portate davanti al Parlamento, il quale potrebbe ancora intervenire per rendere efficaci le tante dichiarazioni delle ultime settimane. C’è una notevole differenza tra le proposte formulate durante gli ultimi incontri e quelle espresse nel documento del 2016.
Il divario riguarda le risposte sulla pensione dei giovani, sulle donne e il sistema previdenziale impostato sull’aspettativa di vita. Troppe lacune in termini di attenzione verso i fondamentali temi del lavoro. Per questo la Cgil non ci sta, non possiamo accontentarci.”
Nel documento presentato dal governo c’è l’estensione dei requisiti per l’Ape Social, proposta già messa sul tavolo nella trattativa, ma il Governo ritiene di avere fatto anche sforzi non di poco conto per sostenere i giovani e le donne. Afferma Gentiloni al riguardo: “E’ a tutti gli effetti un pacchetto importante e sostenibile..”
Ora queste nuove ‘aperture’ del Governo saranno inserite nella legge di Bilancio come emendamento, pur senza un’intesa unitaria con le rappresentanze sindacali. C’è un lungo e travagliato percorso dietro il tentativo di un’intesa comune sulle problematiche del lavoro.
Era stato avviato lo scorso febbraio al Ministero del Lavoro, e poi è passato il 2 novembre a Palazzo Chigi. L’epilogo non è certo quello che si sperava. Mentre per la Cisl di Annamaria Furlan le proposte del premier Gentiloni sono accettabili, ‘è stato fatto un buon lavoro’, non lo sono altrettanto per Susanna Camusso. Carmelo Barbagallo, rappresentante della Uil, non si ritiene pienamente soddisfatto, ma in definitiva si è ottenuto almeno gran parte rispetto alle aspettative.
Il premier Paolo Gentiloni ha impiegato ogni strategia possibile per convincere la Camusso che il Governo ha fatto ogni sforzo possibile per rispondere con sensibilità alle istanze presentate, e che le misure previdenziali messe in campo sono ‘alquanto rilevanti’, ma la Camusso ritiene queste proposte ancora insufficienti.
La Segretaria della Cisl, Furlan, forse la più conciliante tra i rappresentanti dei sindacati, sostiene che non si può chiedere altro a questo governo, ‘a Babbo Natale non ci crediamo più’. Nonostante la volontà di non ostacolare la trattativa, sia Annamaria Furlan che Barbagallo, concordano sulla necessità di vigilare affinché i 300 milioni messi a disposizione del governo, non si dissolvano o prendano altre direzioni.
“In fin dei conti – ha affermato Barbagallo – si è aperto un varco importante in quel muro intransigente che la legge Fornero rappresenta.”
Miglioramenti ce ne sono stati dopo le proposte e l’emendamento inserito nella legge di Bilancio:
15 categorie di lavori usuranti e gravosi saranno tutelati con l’esenzione dall’innalzamento dell’età pensionabile, secondo il sistema automatico basato sulle aspettative di vita.
Maggiore attenzione alle pensioni dei giovani e delle donne, garanzia di ampliamento della platea Ape Social alle categorie di lavori gravosi. Le risorse stanziate per onorare questi impegni.
La Cgil ritiene che su tanti punti il Governo abbia offerto dei vantaggi, ma poi in realtà se li sia ripresi con altri ‘espedienti’, procedendo per deroghe, ma senza portare significativi miglioramenti al sistema previdenziale e al mondo del lavoro. Si vedrà nelle prossime settimane se il Parlamento riuscirà a trovare una soluzione accettabile per colmare il divario e portare la Cgil sulla via di un accordo.

WELFARE. CONFRONTO TRA CGIL E GOVERNO RINVIATO

DI VIRGINIA MURRU

 

La Cgil aspetta con cautela l’incontro di domani, 21 novembre, ma la Segretaria, Susanna Camusso, avverte che, in considerazione dei risultati insoddisfacenti, scaturiti dai confronti avvenuti nelle ultime settimane, esiste uno stato di fibrillazione che potrebbe condurre alla mobilitazione, qualora non si accettassero le proposte del sindacato sulle pensioni.
Dichiara al riguardo Susanna Camusso:

“non siamo di fronte ad un quadro che risponde alle nostre richieste e agli impegni che erano stati assunti, e confermiamo pertanto la necessità che si risponda a questa indisponibilità ad affrontare l’ingiustizia esistente nel sistema, e soprattutto l’assenza di prospettiva per i giovani”.

E per le donne, un tema più volte messo in campo nel corso degli ultimi incontri, che il sindacato mette in primo piano per giungere ad un accordo più equilibrato.

Il Governo sostiene di avere compiuto ogni sforzo possibile, considerato ‘il sentiero stretto’ della finanza pubblica (più volte ribadito dal ministro dell’Economia, Padoan), per giungere ad un’intesa con la Cgil. Si tratta di estendere l’esenzione dall’aumento dell’età lavorativa, oltre che alle 15 categorie di lavori ritenuti usuranti, anche alle pensioni di anzianità, nonché a quelle di vecchiaia. A queste proposte il Governo aggiunge la disponibilità a rendere attivo un Fondo per stabilizzare l’Ape Social.

Tuttavia, secondo la Camusso, si può andare oltre, la posta in gioco riguarda i giovani e le donne, ‘categorie’ sociali sensibili, che hanno necessità di una maggiore tutela; non ritiene che su questi temi si possa transigere e di conseguenza l’ultima istanza resta la mobilitazione generale, come prova di forza per spingere il Governo a riaprire la trattativa.

Secondo le dichiarazioni del premier non sembra ci sia spazio per ulteriori compromessi, l’incontro di domani, ha già precisato Gentiloni, non porterà sul tavolo altre concessioni, ci si aspetta semmai una riflessione da parte della Cgil, eloquente.

Ma sul welfare, il sindacato non ha alcuna intenzione di arrivare ad un compromesso.
Eloquente il tweet appena pubblicato:

CGIL Nazionale @cgilnazionale
#Pensioni Età, giovani, donne: i conti non tornano. L’intervista del segr.gen. Cgil Susanna Camusso a RadioArticolo1

La Segretaria, Susanna Camusso, tornerà domani davanti ai rappresentanti del Governo, per un chiarimento sulle proposte che gli stessi hanno avanzato, e sui mezzi che s’intendono impiegare. Il sindacato si accinge a valutare la portata di questi mezzi, ed eventualmente decidere se siano sufficientemente consistenti, a garanzia degli impegni presi.

In realtà è già chiaro che il Governo metterebbe a disposizione 300 milioni di euro, che tuttavia garantirebbero, secondo la leader Camusso, una platea di lavoratori pari al 2%, nell’arco di dieci anni, ‘quota’ inferiore agli impegni presi nell’autunno del 2016. A questo si aggiungono lacune di attenzione nei confronti di giovani e donne, manca a questo riguardo, per esempio, una proposta di ‘pensione garanzia’ per i giovani.

“Oggi – sostiene Susanna Camusso – coloro che hanno la fortuna di avere un lavoro che garantisce carriera e buon trattamento economico, possono andare in pensione 3 anni prima, perché nel contributivo si matura un assegno che è maggiore di 2,8 volte il minimo. Cosa che invece non avviene per le categorie meno ‘remunerative’ in termini di salario, soprattutto se il lavoro è discontinuo, pertanto noi esigiamo maggiore equità sul contributivo.”

Sulle aspettative dei giovani nel corso dei colloqui non si è dunque transatto: è necessario, secondo la Camusso, garantire il loro avvenire, anche perché le nostre richieste oggi non aggiungerebbero oneri ai conti dello Stato, se ne riparlerebbe in questo senso tra 15 anni.

In una trasmissione televisiva, ieri, ha dichiarato che il governo dimentica gli impegni presi, dato che durante un incontro al Ministero del Lavoro di qualche mese fa, aveva proposto interventi importanti sui giovani, dei quali poi non si è più parlato.

Meglio sarebbe, secondo la Cgil, rimandare a giugno la decisione di far scattare i cinque mesi di lavoro; sulla base dei nuovi ‘target’ di aspettativa di vita, si avrebbe più tempo per una discussione più obiettiva e una definizione più equa su questi temi delicati.

Non ci si può ‘accontentare’ della volontà che ha dimostrato il Governo, secondo la Confederazione sindacale rappresentata dalla Camusso, perché lo stop dei cinque mesi in favore delle categorie di lavori gravosi, non è in realtà né utile né incisiva per la tutela, in quanto è difficile raggiungere per questi lavoratori i 42 anni e 10 mesi di contributi. Mentre per quel che attiene alle pensioni di vecchiaia, non basta l’intento di esentarle dallo scatto degli ulteriori cinque mesi, se si fissa un limite di contributi di 30 anni, invece di lasciare invariati i 20 anni.

La Cgil considera queste proposte un po’ farlocche, espresse senza tenere conto delle reali ripercussioni e dell’efficacia.

“Così – afferma Camusso in un’intervista al Corriere della Sera – si riduce la platea ai minimi termini.”

Lo sciopero è pertanto sospeso, vincolato agli esiti dell’incontro di domani, martedì 21 novembre. Qualora il Governo non tornasse indietro e si mostrasse intransigente, lo sciopero generale previsto per il 2 dicembre, sarebbe inevitabile.

PARADISI FISCALI. NON C’E’ TREGUA PER I COLOSSI DEL WEB, ORA NEL MIRINO DELL’UE

DI VIRGINIA MURRU

 

Sono proprio le multinazionali più in vista a fare la parte del leone e a defilarsi, come mani lunghe che rubano con la luce accesa, ma tant’è: finora non se ne sono curate più di tanto, forti delle protezioni e della legislazione dei paesi che hanno una pressione fiscale davvero minima.

Sta di fatto che nel giro di 5 anni, i cosiddetti giganti del web, senza fare tanto rumore, hanno eluso 46 miliardi di euro. ma vanno anche oltre, fino a 69, se al vasto repertorio dei ‘fedifraghi’ si aggiunge Apple, il gigante dell’hardware che presenta il fatturato più consistente (e che non è però una internet company).

Sono le risultanze delle recenti indagini condotte da ‘Ricerche e Studi di Mediobanca’.
Inutile domandarsi in che modo si può essere volpi, se la consuetudine di spostare grandi capitali off-shore non è nata nel terzo millennio, ma viene da lontano, e le autostrade dell’evasione sono quelle che portano ancora verso i paradisi fiscali, dove lo Stato, sul versante delle tasse, mangia a piccoli morsi.

Per questo il denaro qui soffre molto meno che nei luoghi dai quali proviene. E non è un mistero che in Europa, il Lussemburgo, l’Irlanda e l’Olanda, abbiano tetti più sicuri per multinazionali come Facebook, Amazon, Google, Microsoft ed Apple, tanto per citare le più note.

I loro utili vengono portati sistematicamente fuori dai paesi in cui si sono generati, per una semplice questione di pressione fiscale, certamente più forte rispetto ai paesi in cui questi capitali vengono ‘traslati’.

In Cina le multinazionali non fanno eccezione, e non sono meno scaltre di quelle citate, operanti tra Stati Uniti ed Europa: Tencent ed Alibaba, tanto per non scomodare il fisco ed eventuali strali della giustizia, hanno stabilito la sede proprio nelle isole Cayman, notoriamente meno aggressive in materia fiscale.

Le web company hanno versato all’Agenzia delle Entrate veramente inezie rispetto ai ricavi generati nel nostro paese: 12 milioni (si tratta di Amazon, Apple, Tripadvisor, Twitter, Facebook e Airbnb), esponendosi così all’indignazione delle grandi e medie aziende che operano offline, e che in termini di compliance con il fisco sono sicuramente più virtuose. Il Governo in Italia sta prendendo atto finalmente delle grandi perdite per l’Erario, e chiede con forza l’introduzione di una tassa Ue. Troppi utili sottratti alle imposte, dato che, come si è visto, al fisco lasciano solo ‘bruscolini’.

Non è servito a molto fino ad ora ricorrere al patteggiamento, perché poi questi giganti riprendono il vecchio sentiero con la segnaletica più conveniente, che porta nei paesi compiacenti in termini di aliquote fiscali, così i ricavi delle transazioni digitali mettono le ali senza alcuno scrupolo.

La Procura di Milano era riuscita pochi mesi fa a indurre Apple e Google al patteggiamento, chiedendo 600 milioni (in due), come saldo di pendenze arretrate col fisco, ma poi la lezione è evidentemente troppo difficile per essere assimilata, quando gli interessi in gioco sono alti.

Le residenze legali restano laddove si campa meglio, senza eccessiva ‘oppressione’ fiscale. E così continua ad agire Facebook, per esempio.
Inutile che in Italia le autorità competenti abbiano accertato un utile per la vendita di servizi (pubblicità), pari a 225 mln, perché questi ricavi si sono subito messi in viaggio alla volta dell’Irlanda, luogo più ‘salutare’ per gli utili, e l’Agenzia delle Entrate in Italia non ha visto che briciole. Si capisce che sono situazioni ormai inammissibili, come si è visto non si tratta solo di Facebook, anche le altre big fanno saltare i soldi dal cilindro altrove.

Per anni e anni di evasione, Google Italia ha registrato in bilancio tasse che incidono per 42 mln, ma la quota di competenza relativa al 2016 è solo una piccola parte, il resto riguarda anni e anni di inadempienze. Per forza poi i conti non tornano, e a questo punto, obbligare le potenti multinazionali a versare tutte le imposte sui profitti generati in Italia, è il minimo.
L’evasione riscontrata nelle web companies non riguarda solo l’Italia, ma anche altri paesi europei, fortemente danneggiati dal loro operato. Si cercano strategie normative per mettere con le spalle al muro le multinazionali, finora ci sono stati solo ultimatum di cause legali (la Procura di Miano ha aperto un fascicolo su Amazon, accusata di avere evaso 130 mln), ma il problema, nonostante qualche riflessione, non è stato risolto.

L’Ue ha perseguito l’Irlanda (deferita alla Corte di Giustizia), uno dei paesi più ‘accoglienti’ per i profitti, obbligandola a versare 13 miliardi di euro, per avere concesso agevolazioni fiscali non dovute, ma non è certo che questo Paese membro dimostrerà fedeltà alla normativa Ue. Diffidata anche Amazon, ha forti pendenze fiscali con il Lussemburgo.

Intanto, da qualche mese, si avverte aria di grande insofferenza, e così Italia, Germania, Francia e Spagna, che poi corrispondono alle economie più solide dell’Ue, hanno deciso di reagire e di chiedere un regime fiscale comune, con tassazione digitale, per obbligare le multinazionali a non portare altrove i ricavi originati nei paesi di competenza (fiscale), dove il valore si crea. Neanche a dirlo, i paesi di appartenenza delle multinazionali (le più grandi sono degli States), fanno scudo e tentano di difenderle in tutti i modi dai possibili fulmini in arrivo dall’Ue.

La sfida ha tutta l’aria di non essere a portata di mano.
Secondo gli studi portati avanti da Mediobanca, le grandi del web hanno eluso imposte per oltre 11 mld di euro, tra queste c’è Microsoft che ha messo in salvo 3,6 mld, e Apple 5,3 mld, a seguire le altre, che pure hanno ‘risparmiato’ parecchio.

Ossia circa due terzi degli utili (prima d’essere stato tassato), è finito nei paesi dei quali si è detto, perché molto più soft in termini di pressione fiscale, rispetto alla sede delle web companies. La pressione fiscale negli Usa è pari al 35%..
Ormai questi colossi sono sorvegliati dall’Ue, e Google, bontà sua, ha dichiarato che resterà in Europa, a condizione che le imposte siano ‘semplificate’.

Pretendono davvero troppo, dato che, a giudicare dai profitti, non rischiano certo il tracollo. E’ Amazon la numero uno dell’e-commerce – già per 3 anni di seguito – con un ricavo, nel 2016, di 129 miliardi di euro.

Alle grandi dell’e-commerce cinese va anche meglio, ma del resto c’è dietro un grande mercato, solo la Cina ha quasi un terzo degli abitanti del pianeta. I loro guadagni sono enormi.
Della web tax, in Italia, che mira a regolamentare, nell’era della digital economy la tassazione sugli utili delle multinazionali, si è fatto promotore il deputato Pd Francesco Boccia, il quale ha di recente ribadito che si tratta “di una battaglia di equità”.

Aggiungendo che “parlare di web tax non significa tassare il mondo, ma trattare in termini di tassazione il mondo online come quello offline, non consentendo ai grandi gruppi del web di farla franca, cosa che nemmeno i piccoli commercianti possono fare. Pertanto le multinazionali devono pagare le imposte indirette nei Paesi in cui i profitti si originano”.

Il 17 novembre, dopo l’approvazione alla Camera della fiducia sul decreto fiscale collegato alla manovra, (nell’ambito della discussione sulla legge di Bilancio in Senato), dal Pd è arrivato l’emendamento già annunciato, sulla web tax. L’emendamento è frutto dell’attività di un anno nelle Commissioni di Industria e Finanza del Senato.

Il Governo non aveva introdotto la tassa nel testo base, lasciando al Parlamento la libertà d’intervenire. L’emendamento rafforzerà la regolamentazione transitoria (sulla digital tax), inserita nella manovrina di aprile. Secondo il primo firmatario, Massimo Mucchetti, senatore Pd bresciano, nonché presidente Commissione Industria:

“ai soggetti non residenti, che comunque avessero stabile organizzazione nel nostro paese, sarà tassata, al pari di tutte le società, la base imponibile dichiarata e verificata dall’Agenzia delle Entrate. L’emendamento introdotto sulla legge di Bilancio, ha il fine di regolare la tassazione dei profitti o ricavi originati in Italia da queste grandi aziende che operano nel web. Auspichiamo che la nuova norma sia approvata, poiché prevede una tassazione del 6% dei ricavi (o transazioni digitali) per la cessioni di servizi provenienti da soggetti non residenti a soggetti residenti in Italia.”

La preoccupazione, semmai, secondo il promotore della digital tax, Boccia, è che la nuova tassa possa colpire le aziende italiane in regola, poiché essa è rivolta esclusivamente alle multinazionali del web, che fino ad ora hanno evaso somme ingenti sfuggendo al fisco.

PADOAN: INSOPPORTABILI ILLAZIONI SUI CONTI PUBBLICI, NULLA NASCONDIAMO ALLA GENTE

DI VIRGINIA MURRU
Così pieno di sdegno, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, non lo si era mai visto, altre volte ha mostrato i denti verso allusioni tendenziose, ma in questa circostanza ha ritenuto che il veleno in circolo fosse veramente troppo.
Le illazioni, così come egli le ha definite, riguardano la finanza pubblica, la quale non avrebbe affatto abbandonato il girone infernale in cui da decenni ‘brucia’. Padoan non accetta queste considerazioni, e dichiara:
“Sta diventando insopportabile la confusioni tra fatti e allusioni, che serve solo a disorientare la gente, alla quale nulla abbiamo nascosto circa i conti pubblici, che sono migliorati, e il riflesso nell’economia, al di là dei numeri, è ben evidente”.
Così si è espresso nel corso dell’Assemblea degli industriali che si è tenuta a Salerno, e ha aggiunto:
“sta per chiudersi una legislatura che metterà nelle mani della successiva un quadro oggettivamente migliore, non vogliamo nascondere nulla, è un dato di fatto che la situazione congiunturale sia nettamente migliore.”
I venti contrari, per la verità, sono giunti nei giorni scorsi dagli ambienti più scettici dell’Unione europea, che  esprimono riserve nei confronti delle finanze dello stato italiano, che non sarebbero ancora ‘a norma’, secondo i requisiti del Patto di Stabilità e Crescita di Maastricht, stipulato e sottoscritto nel 1997 dai paesi membri dell’Ue.

Nel corso del meeting di Strasburgo di alcuni giorni fa, infatti, la Commissione ha deciso di chiedere al Governo ulteriori chiarimenti sulla manovra 2018 (bozza di legge di Bilancio) e sulle risultanze dei conti relativi al 2017.

La lettera sarà quasi certamente formalizzata e trasmessa il 22 novembre prossimo, secondo alcune Agenzie di stampa, allorché diventerà ufficiale il parere sulla legge di Bilancio 2018- E tuttavia, secondo la Commissione, è opportuno attendere le verifiche di Eurostat ad aprile, con numeri più chiari, per accertare se ci sia effettivamente stato uno scostamento dai parametri europei nel 2017. Si dovrà attendere dunque fino a maggio prossimo, mese in cui, solitamente, la Commissione, rende note le proprie previsioni.

Il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, ha già risposto alla missiva di fine ottobre (prima della pubblicazione delle previsioni autunnali), circa le perplessità espresse sullo scostamento dei conti italiani rispetto a quelli redatti dai tecnici dell’Ue. Il riferimento è evidentemente alla riduzione programmata del deficit, rivisto secondo gli effetti del ciclo economico, e al ‘netto’ delle una tantum.

Padoan aveva concordato tre decimi di punto di Pil con il Commissario Pierre Moscovici (accordo politico), ma si sarebbe andati tuttavia anche oltre, secondo la Commissione, rispetto a quelli concordati. In termini numerici,  la deviazione sarebbe pari a 3,5 mld di euro, e pertanto il Governo dovrà provvedere con una manovra correttiva, così come è già accaduto per la precedente Legge di Bilancio presentata dall’ex premier Matteo Renzi.

Il più riottoso sembra essere Jyrki Katainen, nel suo ruolo di vicepresidente della Commissione, il quale sostiene che l’Italia non stia migliorando in termini di finanza pubblica. E queste sarebbero ‘le illazioni’ che hanno poi suscitato lo sdegno di Padoan.

Ricordiamo che la Commissione europea ha il potere di respingere la Legge di Bilancio dei Paesi che non risultassero virtuosi in termini di compliance, rispetto alla normativa fiscale dell’Unione. All’Italia comunque, si è chiesto un ‘aggiustamento’ strutturale che slitterà al 2018. A ottobre, il Governo ha preso un impegno per un aggiustamento dello 0,3%, un braccio di ferro che dura da più di un anno, e che Padoan ha più volte motivato con la lunga serie di emergenze che l’Italia ha dovuto affrontare, come gli eventi sismici e la gestione dei flussi di migranti.

Il ministro dell’Economia rimanda indietro le frecciate, i suoi bersagli (alla Commissione europea) hanno sicuramente raccolto il messaggio, nonostante le loro obiezioni sulla presunta mancata correzione del deficit strutturale.
All’assemblea degli industriali tenutasi ieri a Palermo, era presente anche il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, il quale ha interpretato in modo meno aggressivo le ‘illazioni’ della Commissione europea. E infatti dichiara:
“Per quel che riguarda gli impegni presi dal Governo sul controllo e riduzione del deficit, il riferimento che proviene dall’Ue è rivolto più verosimilmente ai partiti politici, che sono già scesi in campo nella campagna elettorale per le prossime elezioni politiche”.
E ha proseguito con un monito:
“Bisogna fare davvero attenzione alle politiche economiche che favoriscono l’aumento del deficit, e di conseguenza anche il debito”.
Boccia concorda poi con il ministro Padoan, sul fatto che negli ultimi anni sono stati compiuti sforzi notevoli per contenere il dramma del debito pubblico, che ha pesato come piombo nelle scelte concernenti la politica economica. Un limite che non è mai stato sottovalutato, Padoan del resto ha sempre messo le mani avanti su questo vortice che inghiotte e macina risorse, sostenendo che purtroppo ‘il sentiero è stretto’.
Prendere atto dei limiti, di cinquant’anni di errori, non significa, secondo gli intendimenti di Padoan, che la situazione sia irreversibile e che non si possano fare dei passi avanti, così come ritiene si sia fatto nel corso della presente legislatura. Egli si definisce peraltro un ministro atipico in termini di ottimismo: ‘sono stranamente ottimista’.
“Si può guardare avanti, facendo tutto ciò che è possibile in termini di strategie per migliorare, allo stesso tempo restando con i piedi per terra, senza ‘compiacersi’ eccessivamente dei risultati, che pure sono arrivati, e sono sotto gli occhi di tutti”.
Conclusioni che il ministro ha ribadito in tante occasioni, mette in rilievo i risultati ottenuti, nonostante il ‘sentiero stretto’, che ‘tuttavia si sta allargando’, i miracoli, del resto, non sono il target di un governo serio, si opera secondo scelte adeguate, e i frutti arrivano, gradualmente, ma la crescita apre nuovi orizzonti, così com’è accaduto in Italia negli ultimi anni.
Il problema è che la gente si aspetta forse l’uso di una bacchetta magica che nessun governo può adottare.
E sottolinea infatti Padoan:
“Il Paese può fare ulteriori progressi, noi abbiamo creato delle buone fondamenta per aprire la strada alla speranza di un futuro più solido, dipenderà dalla prossima legislatura, dalla capacità di proseguire su un percorso già tracciato. Noi abbiamo compiuto ogni sforzo per migliorare la finanza pubblica e nel contempo favorire la crescita.”

UE. L’ECONOMIA ITALIANA HA ESPRESSO OTTIME PERFORMANCE, MA E’ ANCORA IN CODA

DI VIRGINIA MURRU
La Commissione Europea riconosce il movimento in positivo dell’economia italiana, sottolinea i progressi compiuti in termini di finanze pubbliche, in particolare del deficit, che nell’anno in corso si è sostanzialmente contratto, sia pure di poco (2,1%), ma nel contesto degli altri paesi membri è ancora tra gli ultimi ‘della classe’.
Un giudizio che conta quello della Commissione, un outlook sull’Italia che certamente suona come un riscatto, dopo gli anni di buio pesto, durati dal 2008 al 2014. Ma sono anche ‘istantanee ad alta risoluzione’ che non trascurano il ‘contesto’, ossia il panorama economico dell’Unione nel suo insieme, e dell’Eurozona – della quale facciamo parte – in particolare.
In questa prospettiva il passo diventa breve, l’espansione in termini macroeconomici contenuta, poiché si confronta con una crescita media europea del Pil pari al 2,3% nel 2017, a fronte di quello italiano, che ha raggiunto l’1,5% (sempre nell’anno in corso).
Certamente si tratta di progressi riconosciuti sul piano internazionale, anche al di là dei cancelli dell’Ue: dalle Agenzie di rating, all’Ocse, al Fmi, un po’ ovunque dalle Organizzazioni che monitorano l’economia sul piano globale. Promossi, dunque, ma con gli opportuni distinguo, e con la riserva dell’inevitabile, impietoso confronto con i paesi, la maggior parte, che hanno compiuto passi più lunghi.
La Spagna è un esempio davvero eloquente. Il suo Pil nel 2017 si è rivelato quasi dirompente, con +3,1%.
Il paese che ha espresso la crescita più consistente è Malta: +5,6% nel 2017 (quasi al ritmo del dragone cinese), certamente mette in rilievo un’espansione veramente eccezionale, destinata, secondo i forecast dell’esecutivo europeo, a contrarsi negli anni a venire, con un calo già a partire dal 2018, il Pil assumerà infatti un valore pari al 4,9%, e 4,1% nel 2019.
Ma siamo in un gap di valori che superano in ogni caso la crescita media Ue, che è attualmente al 2,3%.
L’Italia potrebbe trarre ‘conforto’ dall’andamento dell’economia del Regno Unito, che soffre già da più di un anno del sintomo Brexit, ma sono tuttavia, proprio per questa ragione, stime estrapolate del contesto dei 27, essendo in corso la trattativa per l’uscita dall’Ue.
Secondo le analisi della Commissione europea, la ripresa economica in Italia è da attribuire al positivo riscontro nell’export e alla domanda interna; le previsioni restano stabili nel breve periodo, ma nel medio e nel lungo sono destinate a subire un rallentamento, fino al 2019. Per l’anno di pertinenza, ossia il 2017, la Commissione ha dovuto rivedere le previsioni di crescita del Pil espresse a maggio (0,9%), adeguandole agli ultimi riscontri, che hanno rivelato un’accelerazione dell’ordine dell’1,5%. La fase di contrazione del Pil in Italia raggiungerà l’1% nel 2019.
Dal ministero dell’Economia sottolineano che “la Commissione conferma la ripresa sostenuta e il miglioramento dello stato della finanza pubblica, deficit compreso, dati già comunicati dal Governo italiano, anche con il documento relativo alla legge di Bilancio 2018. Il ministro Pier Carlo Padoan non concorda con le previsioni del Pil relative al 2018, secondo il Governo, le stime sul Pil il prossimo anno, confermeranno quelle del 2017, ossia l’1,5%.
Una ‘sfida’ in termini percentuali che ha visto prevalere, negli ultimi anni, i dati espressi dal Governo italiano, in opposizione a quelli più prudenti della Commissione europea.
Contrasto, se vogliamo, sostanziale, anche per quel che attiene alle finanze pubbliche. Il ministro mette in rilievo il fatto che la Commissione riconosce il calo del deficit per il corrente anno, a 2,1%, ma non concorda sulle previsioni relative al 2018, il cui calo arriverebbe all’1,8%, mentre secondo le prospettive del Governo il calo del deficit sarebbe più marcato, ossia l’1,6%. Vi sono poi discordanze sulle stime del debito. Secondo il ministero dell’Economia è dovuto alla differenza nella valutazione della crescita del Pil reale e dalle divergenze di stima dell’inflazione.
L’Ue riconosce anche la riduzione della disoccupazione, che nel 2017 si attesta all’11,3%, rivisti anche in questo caso i valori definiti a maggio (era attesa all’11,5%), si prevede poi che nei prossimi anni sarà ulteriormente ridotta, nel 2018 e 2019, rispettivamente andranno al 10,9% e 10,5%.
I dati sull’occupazione invece, dopo gli effetti positivi degli sgravi sulle assunzioni, subiranno una contrazione dell’ordine dell’1% nell’anno in corso, con una fase intermedia (di rallentamento) nel prossimo, fino ad attestarsi allo 0,5% nel 2019. Certamente, l’andamento dei dati macro, risente dell’ interdipendenza dei valori, che, per quel che riguarda l’Italia, sono destinati a contrarsi nel breve periodo, secondo le stime attuali.
La Commissione Ue riconosce gli interventi incisivi volti a ridurre i rischi di default degli istituti bancari più vulnerabili, interventi che contribuiranno a controllare i rischi e a sbloccare il credito. L’accento cade anche sulle riforme strutturali, importantissime, secondo il parere della Commissione, per incentivare la crescita potenziale.
Per quel che riguarda la zona euro, la disoccupazione ha assunto i valori più bassi dal 2009, con ‘picchi record’ di occupati, e un rilievo in positivo di crescita pari all’1,5%. Dati che miglioreranno nei prossimi due anni, fino ad attestarsi, nel 2019, al 7%.
Il Commissario agli Affari Economici, Pierre Moscovici, dichiara nelle ‘previsioni d’autunno’:
“Ci sono buone prospettive, molto positivi i rilievi sull’occupazione, indubbiamente l’economia europea è in grado di creare più occasioni di lavoro, buoni i dati sugli investimenti, i parametri relativi alle finanze pubbliche migliorano. Ma a fronte di queste ottime premesse, resta ancora da fare sul piano dei conti pubblici, sul grado d’indebitamento in particolare, e sull’aumento dei salari, che stenta a decollare.
Aggiunge Moscovici:
“Rafforzare la zona euro è fondamentale, in sintonia con la convergenza strutturale, affinché l’area dimostri maggiore resilienza verso i possibili shock futuri. L’Ue deve essere un autentico centro propulsore di prosperità condivisa. C’è stata una forte riscossa nel volgere di un anno nell’Eurozona, si tratta del più alto tasso di crescita riscontrato da 10 anni a questa parte”.
E non si tratta di inezie.

PENSIONI. PER 15 CATEGORIE DI LAVORI GRAVOSI STOP AUMENTO ETA’ PENSIONABILE

DI VIRGINIA MURRU
Il confronto sulla previdenza che si è svolto a Palazzo Chigi il 6/7 novembre, è stato relativamente soddisfacente, secondo i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil. Intorno al tavolo tecnico, in rappresentanza del Governo, erano presenti il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, i ministri Poletti, Madia e Padoan.
Per ora si è stabilito che per 15 categorie di lavori cosiddetti ‘gravosi’, scatterà il blocco sull’aumento dell’età pensionabile. L’iter dell’accordo passa su strade piene di chiodi, l’intesa è stata piuttosto travagliata, e i sindacati dichiarano che non c’è da esultare.
All’ordine del giorno i temi più scottanti concernenti le rigide norme sull’innalzamento della soglia relativa all’età pensionabile a 67 anni, a partire dal 2019, in adeguamento automatico (previsto dalla riforma previdenziale, legge Fornero) all’aspettativa di vita, pertanto non più a 66 anni e 7 mesi, com’è attualmente. Secondo gli ultimi dati Istat, l’aspettativa di vita, a 67 anni, si allunga di 5 mesi, arrivando a 20,7 anni.
Già a luglio scorso, Cesare Damiano e Maurizio Sacconi, rispettivamente presidenti della Commissione Lavoro di Camera e Senato, avevano indetto una conferenza stampa congiunta dichiarando che innalzare la soglia dell’età pensionabile sarebbe stato a dir poco iniquo. Ovviamente avevano immediatamente fatto coro i sindacati. Ne è scaturita una vertenza non semplice da affrontare:
da una parte ci sono le ragioni del Governo che si trova continuamente a fare i conti con un debito pubblico che crea urti come cortocircuiti con le esigenze delle riforme strutturali, del quale lo Stato ha un gran bisogno, e poi con un piano di spesa legato a doppio filo proprio allo stato dei conti pubblici.
E dall’altra ci sono le rappresentanze sindacali che difendono i lavoratori, stanchi di aspettare il meritato riposo dopo una vita durissima di lavoro.
Non è facile rassegnarsi, e vedersi spostare l’asticella sempre più in alto non può che creare disappunto. La vita non cambia di molto, e i sacrifici richiesti sono ritenuti davvero eccessivi. L’alternativa è l’uscita anticipata, ma c’è dietro un tale ginepraio di ostacoli, disorientamento e costi non indifferenti per l’accesso all’anticipo pensionistico, da scoraggiare seriamente chi si accinge a inoltrare richiesta.
Intanto, per ora, si è ottenuto il blocco dell’aumento dell’età di pensione, che sarebbe dovuto partire dal 2019, per 15 categorie di lavori ritenuti ‘gravosi’: 11 già individuate da Ape social, nelle quali rientrano, infermieri turnisti, macchinisti, edili e maestre; le altre 4 che interessano lavoratori siderurgici, agricoli, pescatori e marittimi.
E’ la proposta del Governo presentata al tavolo tecnico, nell’incontro con i sindacati a Palazzo Chigi. Il numero di lavoratori che rientrano in queste categorie dovrebbero essere 20 mila, e rappresenterebbero il 10% circa dei pensionamenti previsti per il 2019.
Il tema scottante dell’adeguamento automatico alle aspettative di vita, è stato anche oggetto di discussione in sede di Commissione Bilancio (di Camera e Senato sulla legge di Bilancio). Sia la Corte dei Conti che la Banca d’Italia, si sono espresse a favore dell’esigenza di non modificare le riforme al riguardo, è un momento delicato, sostengono, e non si possono fare passi indietro. Ha fatto eco Tito Boeri, Presidente Inps, che non concorda sullo stop dell’aumento relativo all’età pensionabile.
“Al massimo – ha dichiarato – meglio procedere con ‘adeguamenti annuali’.”
Il Governo indica requisiti precisi, tra i quali sono fondamentali il raggiungimento dei 36 anni di contributi, e avere svolto attività considerate ‘gravose’ per almeno 6 anni, in modo continuativo nel volgere degli ultimi 7.
E tuttavia, nel corso dell’incontro a Palazzo Chigi, il Governo si è reso disponibile ad aprire un confronto più ampio e aperto. In termini di blocco dell’età pensionabile, secondo gli intendimenti del Governo, si può cedere sull’adeguamento dell’età di vecchiaia, non per quel che concerne gli scatti sull’anzianità contributiva.
Nella proposta del Governo c’è anche una Commissione formata da Istat, Inps e Inail, oltre ai ministeri della Salute, del Lavoro e dell’Economia, e rappresentanze sindacali, affinché un adeguato studio scientifico porti il migliore risultato, secondo le differenze legate alle aspettative di vita, e sulla base dell’attività lavorativa svolta.
I sindacati, tuttavia, non si ritengono soddisfatti e non esultano. “Non è sufficiente – dichiara Domenico Proietti della Uil – la proposta del governo di bloccare l’età pensionabile.”
Gli altri rappresentanti sono sulla stessa linea, si spera che, finché il tavolo della trattativa è aperto, ci siano ragioni per arrivare ad un accordo più vicino alle esigenze dei lavoratori.
Nel tavolo tecnico in cui si sono confrontati Governo e sindacati, lunedì e martedì, c’erano appunto le questioni irrisolte riguardanti l’aspettativa di vita, la previdenza complementare e il Fis (Fondi d’integrazione salariale).
Questi fondi di solidarietà rimandano al decreto lgs del 14 settembre 2015, n.148, sono disciplinati dagli articoli 26 e seguenti, e sono mezzi di sostegno al reddito qualora si verifichino casi di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa. Interessano lavoratori dipendenti di imprese facenti parte di settori non tutelati dalla normativa in materia d’integrazione salariale.
Vi sono fondi addetti all’erogazione di prestazioni integrative, complementari a quelle pubbliche, nel caso in cui si verifichi la conclusione di un rapporto di lavoro, e per questo sono anche definite ‘prestazioni emergenziali’. I fondi svolgono anche altre funzioni di assistenza in questo ambito.
Nel corso dell’incontro col Governo, i sindacati hanno chiesto d’inserire nella vertenza i punti principali della cosiddetta ‘Fase due’, soprattutto quelli concernenti la pensione dei giovani e delle donne, ma non c’è ancora un’intesa su questi aspetti della trattativa, ci sono state anzi delle riserve al riguardo.
Oggi, 9 novembre, si discuterà ancora tra sindacati e Governo, che ha lanciato la sua proposta in merito, e molti nodi saranno comunque sciolti il 13 novembre prossimo, allorché si terrà il vertice decisivo, al quale parteciperanno il Segretario della Cgil, Cisl e Uil, e rappresentanti dell’esecutivo.
Sarà l’ultima occasione per conoscere i reali intenti del Governo, intanto, per ora, c’è stata un’intesa sullo stop all’aumento a 67 anni dell’età pensionabile a partire dal 2019, per 15 categorie di lavori gravosi, ed è già una conquista, si prende atto che le scelte del governo (sulla base di riforme già approvate), non sono rigide ma flessibili, a fare la differenza, come sempre, è il confronto e il dialogo.

ALITALIA. I CONTATTI CON IL FONDO CERBERUS SI FANNO PIU’ STRETTI

DI VIRGINIA MURRU

L’interesse dei tre Commissari straordinari di Alitalia nei confronti del fondo di private equity Cerberus, va al di là delle offerte vincolanti presentate entro il 16 ottobre scorso. Del resto non hanno mai fatto mistero dell’inclinazione a favorire le proposte che implicassero la vendita integrale dell’ex compagnia di bandiera italiana, e non quella separata degli asset aviation e handling. Com’è noto, gli acquirenti extra europei, non potranno superare la quota del 49%, secondo una legge dell’Ue.

Luigi Gubitosi, nel ruolo di coordinatore dei commissari, è in partenza alla volta di New York con l’obiettivo d’incontrare il management del fondo Cerberus; prima però sarà presente ad Atlanta per il meeting annuale con Sky Team, dell’alleanza aerea. Rinegoziare la joint venture transatlantica, della quale fanno parte Delta e Air France-Klm, è importante, in quanto l’accordo stabilisce dei limiti per le rotte che dall’Europa raggiungono il Nord Atlantico.

Alitalia mira ad incrementare i voli verso gli Stati Uniti per la prossima stagione estiva, ma prima occorre trovare un accordo con i partner.
L’incontro a New York tra il Fondo Usa Cerberus Capital Management e Luigi Gubitosi, servirà ad approfondire i termini di un’eventuale trattativa. La volontà del fondo di rilevare l’intera compagnia sta facendo passare in secondo piano l’offerta, pure allettante, di Lufthansa, interessata all’aviation, che intenderebbe imporre comunque delle precise condizioni, in primis gli esuberi, e la ‘subalternità’ degli aeroporti di Milano. Interessata allo stesso asset ‘aviation’, c’è anche Easyjet. Di certo c’è che Cerberus conferma l’interesse verso Alitalia, e mira alla cloche di comando.

Come si sa, Cerberus figura tra i più rilevanti investitori speculativi di Wall Street. Attualmente, il Fondo americano, gestisce un patrimonio intorno ai 30 mld di dollari, dietro ai quali ci sono 150 manager espertissimi (nonché scaltri). Sono specializzati in cure drastiche di imprese che rischiano il default, si occupano del settore immobiliare, e di Npl, ossia di sofferenze bancarie. Si sono occupati anche della ristrutturazione di Air Canada. Cerberus, come il cane della mitologia, ha un fiuto infallibile, e Alitalia si presenta un buon boccone in questo momento.

In Italia è interessato ai prestiti in sofferenza, come si è accennato, attività in cui certamente è un’eccellenza. Ambisce, sempre in Italia, a rilevare i 10,3 mld di mutui e rate non riscosse delle Rev, le 4 banche italiane in default (Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Cariferrara), finite in amministrazione straordinaria. Ma avendo vista acuta ha già puntato la mira verso le sofferenze di Intesa Sanpaolo, Carige e Bpm.

Dopo la manifestazione d’interesse presentata nei confronti della compagnia italiana, Cerberus è rimasta a osservare ‘da lontano’, in una sorta di stand by, dato che, secondo le dichiarazioni dei vertici, ‘le condizioni erano troppo restrittive’.
L’interesse dei Commissari verso il fondo americano, potrebbe celare l’intento strategico di rilanciare il tavolo negoziale anche nei confronti delle compagnie che hanno presentato un’offerta vincolante, come le due maggiori interessate al lotto aviation, ossia Lufthansa e Easy-Jet.

Tirando di più la corda si potrebbero strappare condizioni più vantaggiose qualora il confronto riprendesse con entrambe. Intanto non c’è tanta fretta, fino al 30 aprile tante cose potrebbero cambiare in questi scenari che si stanno delineando sul versante della cessione di Alitalia, i negoziati sono aperti comunque, il governo ha autorizzato ancora diversi mesi per le trattative, affinché non si decida senza valutare al meglio le condizioni di vendita, questa volta.

Gli interventi volti a ridurre al minimo i costi hanno espresso buoni risultati, e infatti in cassa ci sono ancora 850 milioni, ben poco si è attinto dal prestito di 600 milioni + 300 (prestito ponte), concesso dal governo, da restituire entro settembre del prossimo anno.

Intanto, il Chief Communications Officer di Cerberus, Jason Ghassemi, ha confidato al Sole 24 Ore:

“Noi puntiamo a svolgere un ruolo costruttivo, collaborando col governo italiano e i sindacati, affinché si creino le premesse per un’intesa a lungo termine, affinché Alitalia resti integra, più competitiva e indipendente. Noi siamo convinti che debba restare la compagnia aerea nazionale italiana.
L’obiettivo di Cerberus è il controllo della compagnia italiana, non mira a partecipazioni di minoranza.”

UNA SCELTA DI PRUDENZA LA NOMINA DI JEROME POWELL AL TIMONE DELLA FED

DI VIRGINIA MURRU
La Federal Reserve System ha un nuovo Governatore, Jerome Powell, fresco di nomina (2 novembre), in seguito all’investitura da parte di del Presidente Donald Trump, ora si attende la conferma del Senato.
Era nell’aria che Janet Yellen sarebbe finita fuori scacchiera, l’ha spuntata Powell, che ha sostenuto la sua politica monetaria e la prudenza nella gestione dei tassi, contrariamente ai criteri dinamici dell’altro candidato, John Taylor, che ha sempre ritenuto troppo ‘legata’ la monetary policy della Fed.
Taylor è un accademico molto noto negli ambienti finanziari di tutto il mondo, ma non ha offerto garanzie e idoneità che corrispondessero alle esigenze del momento.
Il nuovo Presidente, già nominato alla Banca Centrale Americana da Obama nel 2012, sostituirà dunque Janet Yellen il prossimo febbraio, data di scadenza del mandato. Trump gli ha dato la fiducia perché lo ritiene ‘intelligente e talentuoso’, in grado di guidare la Fed e le sfide che attendono l’economia Usa nei prossimi anni.
Vicino alle scelte della Yellen, certamente, ma Powell non concorda  sulla questione della ‘deregulation’ finanziaria. Janet Yellen ha sempre messo le mani avanti, sostenendo che la regolamentazione imposta da Barak Obama, tramite le riforme di Wall Street nel 2010, è una garanzia per la stabilità.
L’abolizione delle riforme era però uno dei bersagli di Donald Trump, e infatti alcuni mesi fa, molte delle restrizioni volute dall’ex presidente Usa, sono state eliminate. Ne consegue che soprattutto i grandi istituti di credito saranno meno sottoposti a controlli, avranno così meno pastoie ai piedi. Bank of America, infatti, insieme a Goldman Sachs, a giugno scorso avevano esultato, e non erano le sole. Era in atto una grande crociata dell’alta finanza per agire più liberamente nei loro circuiti.
Yellen ha espresso in più circostanze il dissenso sulla deregulation – che ritiene poco meno di una deriva – anche nel corso del meeting dei banchieri centrali che si è svolto alcuni mesi fa a Jackson Hole, in Wyoming:
“non c’è abbastanza solidità per andare incontro al rischio, non si può essere certi, né escludere altre crisi, in ogni caso le emergenze alle quali ci ha obbligati l’ultima, quella del 2008, dovrebbe essere sufficiente per indurci alla prudenza e alla riflessione, la regolamentazione non si dovrebbe sfiorare..”
Ma negli intendimenti del presidente Usa c’è una Wall Street con poche regole.
Il contrario della politica di regolamentazione in atto in Cina, dove invece, memori delle pessime esperienze nei mercati lo scorso anno, l’establishment sta mettendo in atto una serie di riforme proprio per regolamentarli, insieme al comparto bancario. Anche Mario Draghi, in sintonia con la Yellen, ha messo in guardia Donald Trump dalla deregulation.
Powell è più aperto su alcune misure di controllo, ritiene inoltre che sia venuto il momento di esercitare meno pressioni sugli stress test ai quali la Fed sottopone le banche regolarmente.
Tra le dichiarazioni di Donald Trump, in merito al cambio di guardia alla Banca Centrale, ci sono anche i dovuti riconoscimenti per l’attività svolta dal Presidente uscente:
“Janet Yellen ha svolto un fantastico ruolo all’interno della Fed, i risultati le danno ragione, dato che gli Usa hanno superato la crisi finanziaria, e fatto notevoli passi avanti. C’è più solidità, anche rispetto agli anni che hanno preceduto la grande crisi del 2008.”
Powell è considerato un emblema della continuità, un investimento sul futuro, una sorta di ‘colomba’, in contrapposizione a John Taylor, visto come un falco, per via delle sue strategie finanziarie, non propriamente rivolte alla ponderazione.
Il nuovo inquilino della Fed, originario di Washington, con laurea in Scienze Politiche e in Giurisprudenza, milita nelle fila dei repubblicani moderati, ha 64 anni, e, come si è detto, è già nel board della Fed.
Non ha un dottorato di ricerca in Economia, e questo è forse il solo punto a suo sfavore, visto che gli altri che lo hanno preceduto avevano questo percorso di studi nel loro background. Il nuovo Governatore ha comunque ottime credenziali alle spalle, oltre all’attività di legale, ha fatto parte del gruppo Carlyle (dal 1997 al 2005), uno dei più importanti Fondi d’investimento a livello mondiale. Ha svolto funzioni di sottosegretario al Tesoro durante il mandato di Bush (padre).
E’ in fin dei conti un moderato, e di questi tempi sembra ce ne sia un gran bisogno, i mercati ieri hanno apprezzato la nomina, e ‘ringraziato’ con indici positivi un po’ ovunque.
La riconferma di Powell da parte del Senato non sarà un’incognita, dato che la candidatura era piuttosto gradita ai suoi membri.
Powell rappresenta la continuità della politica monetaria della Federal Reserve, con lui al timone si proseguirà con gli interventi di rialzo (graduale) dei tassi, senza trascurare la riduzione del bilancio, già in corso dal mese di ottobre.

NEOM, PROGETTO FARAONICO, CITTA’ DELLA SFIDA, IL FUTURO DIETRO LA PORTA

DI VIRGINIA MURRU

 

L’Arabia Saudita intende stupire il mondo accingendosi a costruire ‘la città del futuro’, impiegando avanzatissimi livelli di tecnologia, e ovviamente investendo miliardi e miliardi in questo faraonico progetto.

Ma l’aspetto finanziario per gli arabi, si sa, non costituisce un problema, le risorse sono abbondanti, del resto è il paese leader dell’Opec, e produce un terzo dell’oro nero del pianeta, esattamente 7,5 milioni di barili al giorno, dunque primo paese esportatore al mondo.

Per questo non baderanno a spese, pur di realizzare questa autentica meraviglia, che sarà alimentata con energie rinnovabili, sfruttando fonti naturali ed inesauribili: quella solare ed eolica, senza trascurare nulla, neppure la filiera alimentare, per la quale è previsto il meglio nel campo della ricerca. Ma anche uno stile di vita basato sul lusso.

Si direbbe che la ricchezza aguzzi l’ingegno, già si sapeva che muove la creatività, in questo caso è proprio così: solo uno Stato che dispone di mezzi garantiti da fonte sicura, con alti margini di profitto, come il petrolio, può fare simili azzardi. Diventa pertanto più semplice investire in prestigio internazionale e affermare il proprio spazio di potere economico e finanziario.

Gli arabi hanno dimostrato di saper sognare, e lo fanno in grande stile, anche attraverso l’ambizione e l’intraprendenza del principe saudita Mohammed Bin Salman, figlio eletto del re Salman, già designato erede al trono, e attualmente titolare del Ministero della Difesa, considerato per la verità un po’ spregiudicato, soprattutto all’estero.

L’annuncio, da parte del principe Mohammed, dell’ immenso progetto ‘Neom’, ha avuto luogo una settimana fa, il 24 ottobre, nel corso del Forum ‘Future investment initiative’, al quale hanno partecipato politici e uomini d’affari provenienti da 88 paesi del mondo. Una grande risonanza, ma tant’è: doveva fare rumore. Presente anche il ministro dell’Economia italiano, Pier Carlo Padoan.

Gli investimenti previsti per la costruzione di questo modernissimo polo industriale, saranno di circa 500 mld di euro, individuato anche il sito, tra il deserto e il Mar Rosso, in una località vicina al Golfo di Aqaba. Tanto per dare l’idea della vastità del territorio che sarà impiegato per questa gigantesca start-up, si può immaginare la più estesa regione italiana, dove ci sarà spazio per l’utilizzo delle più moderne tecniche di costruzione.

I migliori architetti, ingegneri e tecnici, avranno il compito di seguire i più innovativi e avanzati processi in ogni ambito, che prevedono peraltro l’impiego di bio-tecnologie e ogni sorta di servizio automatizzato. Standard di vita irrealizzabili nelle metropoli più moderne, anche a Ryhad, dove i magnati arabi hanno introdotto automazione e robotica ai massimi livelli. Il progetto Neom, è stato ovviamente lanciato dai media arabi ed è rimbalzato ovunque nel mondo, tramite meeting televisivi che hanno riunito i massimi esperti mondiali in campo scientifico-tecnologico-digitale. Sembra roba da fantascienza, ma è un disegno che, nel volgere di pochi anni, si concretizzerà in una città animata, viva, immensa.

Gli arabi, del resto, non amano perdersi in chiacchiere o in retorica, realizzano gli obiettivi non trascurando il fattore tempo. L’area destinata a Neom è sterminata, ossia circa 26mila km quadrati, con sistemi di collegamenti via terra ‘high speed rail’, e non da meno saranno quelli aerei, tutto insomma sarà ai limiti dell’avanguardia.

Il principe saudita mira ad attirare investitori internazionali con ingenti capitali al seguito, perché sta spalancando le porte al futuro, sta precorrendo i tempi: Neom diventerà un cantiere di proporzioni mai viste, un’arena nella quale si misurerà il meglio dell’innovazione. Ma soprattutto la libertà circolerà senza veti sulle sue strade, avrà un volto aperto alla tolleranza religiosa: si realizzeranno strutture per ogni credo.
Un’autentica sfida, un Islam in versione avveniristica che nessuno avrebbe mai creduto possibile. Il miracolo del dio denaro? Forse, anzi quasi certamente sì.

Ma Mohammed Bin Salman ha solo 31 anni, già di per sé rappresenta la staffetta generazionale che non potrà ignorare le istanze di un mondo globalizzato, non solo nel versante commerciale, ma anche in quello culturale.

Neom sarà una città all’avanguardia in ogni aspetto della vita sociale, il principe Mohammed sottolinea che il progetto è davvero proiettato nel futuro, dove il progresso che rifletterà non sarà solamente tecnologico, ma anche sociale, perché è rivolto ad una società ‘emancipata’, in grado di gestire se stessa, e dunque pronta a confrontarsi con le più avanzate dell’Occidente.

Il principe, infatti, ha già rivolto la sua attenzione alla società dell’Arabia Saudita, alle donne in particolare, dimostrando che è possibile andare oltre il radicalismo dell’Islam, e cominciare ad allontanarsi dal rigore che impone in termini di diritti umani. Un segnale eloquente, un chiaro tentativo di modernizzare proprio sul piano sociale la nazione araba. E dopo la concessione della libertà di guida alle donne, ora arriva il permesso di frequentare i luoghi dello sport, come gli stadi, la libertà di organizzare concerti.. Una rivoluzione silenziosa?

Cose dell’altro mondo per gli arabi.. Domanda: ‘come mai gli ‘Imam’ (Sunniti) non si rivoltano alle ‘follie’ del principe saudita?’ – Risposta: perché la società è pronta per il cambiamento, e non si possono mettere in eterno le catene al denaro.. Solo pochi anni fa, riforme di questo tipo, sarebbero state comunque inconcepibili.

E’ un importantissimo, epocale, processo di cambiamento in atto che il principe intende portare avanti, una rivoluzione quasi silenziosa, che paradossalmente non viene dal popolo, ma per iniziativa di chi lo governa. Una sorta di governo ‘illuminato’, che trasformerà radicalmente l’assetto interno dell’Arabia Saudita, tra i più conservatori Paesi islamici.

Una seconda ‘primavera’ araba, che cambierà volto e immagine della nazione, soprattutto sul piano internazionale. Il giovane principe ha già intuito che, senza rivolgimenti interni, senza il coraggio di voltare pagina, non si può essere veramente credibili. Per questo vuole emancipare la società ed eliminare in modo graduale, i veti che impediscono alle donne l’integrazione: solo con un grado di evoluzione sociale veramente significativa ci si può confrontare.

Neom, la città del futuro, secondo gli intendimenti del principe, avrà una società ‘modello’, dove al progresso più avanzato corrisponderà una società in grado di gestire tutto questo, e l’impiego delle donne in ogni settore, è fondamentale perché si possa definire città moderna. Sarà una zona franca, con l’adozione di particolari franchigie fiscali, crocevia di tre Paesi, tramite un grande ponte che collegherà Neom all’Egitto, e quindi alla Giordania. E non solo, perché diventerà un hub all’avanguardia sul versante economico e finanziario per tre continenti, Africa, Asia, Europa.

Il principe Mohammed Bin Salman potrebbe diventare l’Ataturk dell’Arabia, certamente si preserveranno i principi religiosi più cari all’Islam, ma il cambiamento in atto non si potrà più fermare.

Il principe ereditario è anche al timone di Vision 2030, altro progetto ambizioso a lungo termine, dietro il quale c’è una serie di riforme strutturali, tra gli obiettivi anche lo svincolo per affrancarsi dalla dipendenza dal petrolio.

Si vuole non solo riformare, ma anche rendere più dinamica l’amministrazione statale e l’economia del Paese, passando attraverso la privatizzazione di tanti settori dell’economia, e non solo. Si punta all’inclusione sociale delle donne, ‘allargando’ il mercato del lavoro; l’attenzione ai giovani sarà massima. S’intende incoraggiare gli investimenti e l’iniziativa privata, puntare ad aprire nuovi fronti nell’ambito delle scienze tecnologiche e digitali, della produzione industriale, diversificandola, innovandola anche sul piano digitale: una sorta di Industria A 4 pronta a qualunque sfida.

Il principe ha anche un altro obiettivo colossale, una vera ‘challenge’: ossia quotare in Borsa una parte di Saudi Aramco, ora a capitale pubblico, una società simile alla nostra ‘Eni’ di alcuni decenni fa, che riunisce nella sua gestione i giacimenti più produttivi al mondo. Mohammed Bin Salman conta di realizzare questo obiettivo nel 2018, creando le premesse per l’Ipo più importante mai transitato nei mercati finanziari.
Il principe pensa di quotare il 5% di Aramco, e di realizzare così 100 mld di dollari da investire tramite un fondo sovrano nel faraonico progetto ‘Vision 2030’.

Ci sarà posto solo per gli investitori e società che hanno il meglio da proporre in termini d’innovazione, in tutti i settori. Nel versante italiano, ci sono alcune grandi imprese favorite, come il gruppo Salini Impregilo, che gode già della fiducia di Ryadh da decenni, per avere realizzato importanti impianti idraulici in alcuni centri, e la Linea 3 della Metro.

Il gruppo Salini opererà nei cantieri di Neom in collaborazione con Ansaldo, ma ci sarà anche il prestigioso gruppo Italferr-Ferrovie dello Stato Italiane, società d’ingegneria, che si occuperà della supervisione tecnica della metro. Molti aspetti tuttavia sono ancora da definire, le opportunità non mancheranno, è necessario essere competitivi e pronti a coglierle.

IGNAZIO VISCO. LA RICONFERMA DEL MANDATO E L’AUDIZIONE ALLA COMMISSIONE BANCHE

DI VIRGINIA MURRU

E’ arrivata nei giorni scorsi la fumata bianca del Consiglio dei Ministri per la riconferma dell’incarico di Ignazio Visco a Governatore di Bankitalia, il cui primo mandato è in scadenza il 31 ottobre.

Nonostante l’’ostruzionismo’ esercitato dall’ex premier Matteo Renzi, e i quattro ministri assenti alla riunione di Governo, il Consiglio ha approvato la delibera all’unanimità, riproponendo, tra uno sciame di polemiche, il Governatore uscente.

Si è trattato di una ‘seduta lampo’, durata una ventina di minuti.
Ma i rumors, in questo gioco di veti incrociati, non sono mancati, la riconferma di Visco si è portata dietro un’autentica bufera, la scadenza del mandato peraltro coincide con le imminenti prossime elezioni politiche, non c’era molto tempo per il Governo, si è trattato in primis di considerazioni che mettono al centro la ‘continuità per garantire la stabilità’, in un momento in cui il premier Paolo Gentiloni, è impegnato su diversi fronti, non ultimo i rapporti con le Istituzioni europee, che hanno già chiesto spiegazioni sulla Legge di bilancio 2018.

E poi c’è il giro di boa che attende l’esecutivo con la scadenza della legislatura, ormai alle porte, il clima di campagna elettorale è già iniziato, fervono ‘i preparativi’ per il cambio di guardia a Palazzo Chigi, e ovviamente del Parlamento.
Non c’erano poi molti candidati che presentassero credenziali migliori di Ignazio Visco per ricoprire un ruolo certamente prestigioso, ma piuttosto delicato, ed esposto a tutti i venti della polemica in ambito politico.

Renzi proprio aveva ‘in uggia’ il Governatore, e non ne ha fatto mistero, ha espresso in modo chiaro la sua posizione e le riserve sulla riconferma alla guida di Palazzo Koch.
Alla riunione del Cdm, che doveva esprimersi sulla ricandidatura di Visco, mancava, e non a caso, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi, oltre al ministro della Salute Beatrice Lorenzin, alle Politiche Agricole Maurizio Martina, allo Sport Luca Lotti. Un drappello che, con motivazioni varie, ha giustificato la sua assenza nella particolare circostanza.

Dopo la delibera del Governo, sul candidato idoneo a diventare il prossimo Governatore della Banca d’italia, i dubbi sulla riconferma di Visco sono stati praticamente spazzati via. C’era anche il parere favorevole del Consiglio Superiore della Banca d’Italia, a questo punto Renzi stesso ha capito di non avere alcuna chance sul veto alla nomina, sarebbe stato del resto come giocare con i mulini a vento.

Gentiloni ha esitato a lungo prima di risolversi ad esprimere parere favorevole, ha certamente ascoltato le ragioni di Renzi e dei ministri che hanno optato per una defezione celata da impegni vari, ma poi ha scelto la linea del buon senso. Sull’assenza dei 4 ministri è arrivata puntuale la disapprovazione di Franceschini, Roberta Pinotti, Marco Minniti, Andrea Orlando.

Disappunto seguito al vespaio di reazioni suscitate dalla mozione parlamentare, dove Matteo Renzi non si è esposto, ma la fonte era evidente, visto che esprimeva riserve sull’operato di Visco, sul modo in cui ha gestito le emergenze del sistema bancario, che Renzi, in più di un’occasione, ha definito “gestione disastrosa”.

Chi forse non ha dubitato sulla riconferma del Governatore di Bankitalia, è Mario Draghi, Presidente in carica della Bce, e sponsor convinto di Visco. Sembrava chiaro già il 31 maggio scorso, quando, nel corso della lettura delle ‘Considerazioni finali’ (da parte di Visco), Draghi era seduto in prima fila a Palazzo Coch, tra Mario Monti e Rosy Bindi; non lo si era più visto circolare in Via Nazionale, da quando aveva lasciato la Banca d’italia per la presidenza dell’Eurotower.

In quelle considerazioni finali, del resto c’erano temi scottanti, come i dossier sulle banche venete, il dialogo difficile con le istituzioni europee, Monte dei Paschi di Siena da salvare con intervento pubblico, la Commissione parlamentare d’inchiesta sul credito, il settore bancario in crisi, nonostante Ignazio Visco si ostinasse a definirlo ‘solido’.

I giudizi poco lusinghieri su Visco sono stati tanti, non è stata denigratoria solo la critica mossagli dall’ex premier Renzi, anche Vittorio Feltri è stato drastico e irriverente: ‘Visco piace ai politici perché è un inetto..’

E’ indubbio che una nebbia fitta abbia circondato il comparto bancario italiano, uno dei più colpiti dalla crisi in ambito europeo. Bankitalia non è stata immune da critiche negli ultimi anni, i politici hanno espresso sospetti soprattutto sulla vigilanza che la Banca Centrale avrebbe dovuto esercitare nei confronti degli istituti che sono finiti in default.

Non sono esattamente cieli tersi quelli che attendono Ignazio Visco; tra alcune settimane dovrà affrontare la Commissione d’inchiesta sulle banche, gli esponenti politici che ne fanno parte gli chiederanno conto del suo operato negli ultimi anni, in particolare del ruolo che ha avuto nel crack delle banche venete, di Monte dei Paschi..

Di certo, per ora, c’è che Ignazio Visco, economista, ricoprirà il ruolo di Governatore di Bankitalia per altri 6 anni, era in carica dal 1° novembre del 2011.
Con il decreto di nomina firmato dal Presidente Sergio Mattarella, il rinnovo dell’incarico a Visco è ormai ufficiale. Lo aspettano impegni ‘roventi’, Bankitalia dovrà mostrarsi più convincente davanti al mondo politico, risolvere l’annoso problema dei Npl, emergenza tutt’altro che alle spalle, e il Fondo speculativo americano Cerberus, lo sa bene.

Bankitalia ha sempre rassicurato al riguardo, ma ora ci saranno più obiettivi puntati su Palazzo Koch, e se tutti i mali non vengono per nuocere, scuoterne le fondamenta, con qualche benevolo siluro, non sarà stato propriamente un male, se servirà a portare maggiore efficienza e ad esercitare una più accorta vigilanza sugli istituti di credito. Ignazio Visco, naturalmente, difenderà nelle sedi opportune i suoi 6 anni di mandato, portando davanti alla Commissione banche, quando sarà chiesta la sua audizione, tutta la documentazione necessaria.

Non mancherà di sottolineare i meriti, la riforma delle Popolari, per esempio, scritta proprio tra le mura di Palazzo Koch, oltre al nuovo assetto che assumeranno le Bcc (Banche di Credito Cooperativo), tutte iniziative, comunque, da condividere con l’ex premier Matteo Renzi, che peraltro ne rivendica la ‘paternità’.

Se la strategia di Renzi, in un clima pre-elettorale, era rivolta all’incasso di consensi, il tiro al bersaglio su Bankitalia potrebbe rivelarsi un mezzo boomerang, Ignazio Visco non è personaggio facile da incastrare, troverà il modo di disimpegnarsi dai sospetti e le accuse davanti alla Commissione.

Intanto ci sono buone nuove per i dipendenti della Banca d’Italia, che sono circa 7 mila. Pochi giorni fa il dipartimento risorse umane- divisione e avanzamenti, ha inviato una circolare ad una parte del personale (che svolge ruoli di responsabilità), dove si comunicano i ‘passaggi di livello economico 2017’.
L’avanzamento di livello (nonché trattamento economico), riguarda circa 1.700 dipendenti.

CONFERENZA STAMPA DI MARIO DRAGHI A FRANCOFORTE: DICHIARAZIONI IN LINEA CON LE ASPETTATIVE

DI VIRGINIA MURRU
Nessuna dichiarazione a sorpresa nella conferenza stampa del presidente della Bce, Mario Draghi, ha comunicato quello che il mondo dell’Economia e della Finanza si aspettava, in linea anche con le previsioni espresse da un gruppo di analisti consultato in un sondaggio da Bloomberg una decina di giorni fa.
Draghi, con la consueta espressione calma, ha confermato le attese, ossia che le misure di politica monetaria subiranno delle variazioni a partire da gennaio 2018, con una riduzione di acquisti di asset pari alla metà di quello attualmente in corso: 30 mld di euro al mese fino a settembre prossimo.
Non sono le economie dell’area euro che si adeguano alle strategie di politica monetaria decise dal board della Bce, ma al contrario, è la Banca Centrale Europea che prende le sue risoluzioni secondo gli assetti e le esigenze dell’Eurosistema.
E’ naturale che le risposte, in un clima d’interdipendenza, debbano essere quelle più affini alle necessità del sistema, e chi sta al timone di una struttura complessa come la Bce, può scegliere rotte di breve e medio termine, considerate le variabili, i condizionamenti e i riflessi di un fenomeno come la globalizzazione, che rende il contesto internazionale piuttosto volatile, e per questo non si può prescindere.
Ed è una delle ragioni della cautela del Governatore dell’Eurotower, il ruolo della Banca centrale è quello di camminare a fianco delle economie che tutela, come un’ombra discreta, seguirne gli orientamenti, le ascese e soprattutto le scivolate. Draghi ha affermato, nella conferenza tenutasi in data odierna, che l’accomodamento monetario è ancora necessario,  nessuno del resto dubitava del fatto che un intervento d’interruzione drastico non facesse parte della programmazione e delle scelte del board.
Uno dei giornalisti presenti in aula ha chiesto al Presidente se le delibere del Consiglio Direttivo sono state approvate in modo unanime, e Mario Draghi ha risposto che su alcuni temi ‘il consensus’ è stato pieno, su altri l’intesa è avventa a grande maggioranza. Il Consiglio ha concordato sulla necessità di allentare il Qe e di allungare il programma di stimolo monetario, anche in vista di un maggiore controllo sul tasso d’inflazione.
“Il programma di accomodamento monetario – ha spiegato il Presidente della Bce – si rende ancora necessario, sarà portato a 30 mld al mese a partire da gennaio prossimo fino a settembre, ma potrebbe andare oltre ed è suscettibile di variazioni, anche d’essere incrementato qualora il caso ricorresse.”
Si sta dunque in un clima d’attesa, la politica monetaria non convenzionale, ossia quella relativa ai tassi, sarà invariata, i tassi dunque resteranno a 0, mentre un ulteriore rallentamento del Qe, è comunque un buon segno, significa che l’economia europea si è allontanata dai semafori rossi della crisi esplosa nel 2007, una delle più grandi e difficili che siano state affrontate da un secolo a questa parte. Le conferme vengono dai numeri e da tutte le analisi degli specialisti che monitorano l’andamento dell’economia dei singoli Stati e in generale dell’Unione europea.
Draghi ha precisato che le scelte della Bce non possono essere messe in una linea di simmetria con quelle di altre Banche centrali, dato che gli scenari sono diversi, e di conseguenza anche le strategie adottate.
I mercati finanziari intanto hanno espresso ‘apprezzamento’ verso le scelte dell’Eurotower, sì dunque alla stretta del Qe, ma in modo graduale, non traumatico, i mercati del resto reagiscono negativamente alle virate d’impulso che non risultino ponderate per il sistema.
Per questo le Borse europee hanno chiuso in positivo, sono messaggi chiari, risposte senza urti. Invece pare ne abbia risentito il confronto euro/dollaro, sceso, a un’ora di distanza dal discorso di Draghi, a 1,175. Il mese scorso il rapporto più marcato a favore dell’euro, si era superato l’1,20. Lo spread tra Btp e bund tedeschi è sceso a 152 punti base.
“I tassi – ha precisato Mario Draghi – saranno mantenuti bassi anche oltre il programma di acquisto di attività nel mercato”. E ha aggiunto: “Le riforme strutturali devono essere incentivate, per la tenuta del sistema, sono stati creati 7 milioni di posti di lavoro in 4 anni, e questo è dovuto alla ‘forza e tenuta dell’economia’, ma è necessario un consolidamento che offra più sicurezza.”
Uno degli obiettivi del Consiglio Direttivo della Bce, è quello di agganciare il target relativo al tasso d’inflazione, ancora distante da quel sospirato 2% al quale si mira.
Nel suo intervento, Vitor Constancio, il vicepresidente, ha spiegato che sono previsti degli accantonamenti per i Npl, ossia i crediti deteriorati, questo consentirà agli istituti di credito di migliorare la gestione dei finanziamenti, e di bypassare il problema delle sofferenze bancarie.
Terminato il discorso di Mario Draghi, si è dato spazio alle domande dei giornalisti presenti a Francoforte per assistere alla Conferenza stampa.

ALITALIA. IL FONDO USA CERBERUS FA UN’OFFERTA FUORI TEMPO, IL NO DEI COMMISSARI

DI VIRGINIA MURRU

 

La manifestazione d’interesse espressa alcuni mesi fa dal Fondo Cerberus Capital Management verso il vettore italiano non è sufficiente se non si è poi concretizzato l’intento attraverso un’offerta vincolante nei termini stabiliti (16 ottobre).

Ne parla anche il Financial Times con un articolo circostanziato, il Fondo Usa (operante fondi di investimento, ossia private equity), rileverebbe tutta la compagnia italiana, non in parti o lotti, come invece hanno proposto le due blasonate compagnie europee, Lufthansa e Easy-Jet.

Peccato però che le pretese di Cerberus, di aggiudicarsi l’acquisto in toto del gruppo italiano, siano quelle di scavalcare le regole, e anche i vettori che hanno presentato un’offerta secondo i termini e i criteri stabiliti dal bando di gara.
Si legge sul quotidiano di Finanza britannico:

“Cerberus opted not to submit its own binding offer because it considered the terms of the public tender too restrictive”. (Cerberus ha deciso di non trasmettere la propria offerta vincolante perché ha ritenuto che i termini relativi all’asta fossero troppo restrittivi).

E’ vero che il Fondo Usa avrebbe avuto dei contatti con i commissari poco dopo la chiusura del bando ufficiale, e che li abbia informati circa l’intenzione di acquistare in blocco sia le attività di ‘aviation’ (di volo), che quelle di ‘handling’ (di terra), a condizione che la compagnia italiana fosse adeguatamente ristrutturata.

Ma ormai era fuori tempo, anche considerando il fatto che, il termine di scadenza per la presentazione delle offerte vincolanti, era stato prorogato di due settimane, ossia dal 2 di ottobre al 16. Niente da fare, il Fondo speculativo statunitense non può cambiare le carte in tavola, questa sembra sia stata la risposta per ovvie ragioni da parte dei commissari.

E’ verosimile che Cerberus abbia giocato d’azzardo considerando l’offerta di acquisto ‘relativa’ delle altre compagnie in gara, le quali, com’è noto, intendono rilevare solo gli asset più allettanti della compagnia tricolore.

Quand’anche fosse stato possibile accettare la proposta del Fondo speculativo americano, resta il fatto che, secondo la normativa europea, avrebbe potuto acquisire al massimo il 49%, non il controllo del vettore, trattandosi di un gruppo d’affari extra-europeo, norma ben nota alla compagnia di Abu Dhabi, Etihad, che aveva acquistato proprio una quota pari al 49% di Alitalia nel 2014.

Secondo l’articolo pubblicato dal Financial Times, le intenzioni del gruppo Cerberus sarebbero quelle di investire dai 100 ai 400 mln di euro per acquisire il controllo del business della compagni italiana, e sarebbe interessata anche a coinvolgere il Governo tramite una partecipazione azionaria, e perfino i sindacati (così sarebbero fuori dalle scatole.. Etihad si è spesso lamentata degli eccessivi scioperi), con i quali si potrebbero condividere gli utili.

I 150 manager di Cerberus si presentano ad Alitalia come dei salvatori, e fanno leva sull’orgoglio italiano, che vorrebbe evitare di ‘svendere’ la compagnia a ‘pezzi’, e infatti i tre Commissari straordinari hanno sempre sottolineato che avrebbero privilegiato le offerte che avessero mirato all’acquisto per intero di Alitalia.

Ma sono dei salvatori o dei corvi?

Di certo Cerberus figura tra i più rilevanti investitori speculativi di Wall Street. Attualmente, il Fondo americano, gestisce un patrimonio intorno ai 30 mld di dollari, dietro ai quali ci sono 150 manager espertissimi (nonché scaltri). Sono specializzati in cure drastiche di imprese che rischiano il default, si occupano del settore immobiliare, e di Npl, ossia di sofferenze bancarie. Si sono occupati anche della ristrutturazione di Air Canada.

In Italia è interessato ai prestiti in sofferenza, come si è accennato, attività in cui certamente è un’eccellenza. Ambisce, sempre in Italia, a rilevare i 10,3 mld di mutui e rate non riscosse delle Rev, le 4 banche italiane in default (Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Cariferrara), finite in amministrazione straordinaria. Ma avendo vista acuta ha già puntato la mira verso le sofferenze di Intesa Sanpaolo, Carige e Bpm.

DISORIENTAMENTO SU APE VOLONTARIA, RIESAME DELLE DOMANDE PER APE SOCIAL

DI VIRGINIA MURRU

 

Il 16 ottobre, l’Inps ha comunicato che le operazioni di verifica sull’idoneità delle domande di ‘riconoscimento delle condizioni di accesso ai benefici dell’Ape social’, o pensione anticipata per lavoratori precoci (la cui prima esperienza di lavoro è avvenuta prima dei 19 anni), si sono concluse regolarmente il 15 ottobre.

L’Ape Social riguarda categorie di lavoratori che hanno diritto a tutele specifiche prima del raggiungimento dei requisiti concernenti il pensionamento.
Tali diritti sono stati introdotti con la legge 11 dicembre 2016, n. 232, Legge di bilancio 2017.

L’Ente di previdenza precisa comunque che, secondo i “nuovi indirizzi interpretativi” espressi dal Ministero del Lavoro su alcune categorie di lavoratori, si ‘procederà al riesame delle istruttorie, e, nei casi in cui l’esito sarà ritenuto positivo, il risultato sarà trasmesso d’ufficio ai beneficiari interessati al provvedimento, la cui domanda, dopo il riesame, è stata accolta.”
Priorità e attenzione verso i lavoratori che sono più vicini alla pensione di vecchiaia.

Si legge nel comunicato stampa diffuso dall’Inps:

“L’Istituto ha provveduto all’invio agli interessati delle comunicazioni di avvenuta certificazione del diritto alle prestazioni in parola sulla base della maggiore prossimità al requisito anagrafico per l’accesso alla pensione di vecchiaia.

Si comunica, inoltre, che il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha inviato nuovi indirizzi interpretativi in merito alle istruttorie inerenti all’accesso ai benefici da parte dei richiedenti che si trovano in stato di disoccupazione a seguito di cessazione del rapporto di lavoro per licenziamento, anche collettivo, dimissioni per giusta causa o risoluzione, e da parte dei lavoratori dipendenti addetti ai lavori particolarmente difficoltosi e rischiosi.”

L’Ape social è un anticipo pensionistico che viene riconosciuto prima che sia maturata l’età pensionistica (di vecchiaia), ai soggetti che hanno presentato una regolare richiesta all’Inps.
Hanno presentato richiesta circa 66 mila persone, ma due su tre sono state respinte per cause diverse.

Eccesso di reiezioni per scarsità di risorse o per incompatibilità con i requisiti richiesti?

L’esame delle domande è stato rigorosissimo, tanto che il Direttore Generale dell’Istituto di Previdenza, Gabriella Di Michele, e il Ministro del Lavoro Giuliano Poletti, hanno pensato di riesaminare le domande per l’accesso all’Ape Social, le quali, con varie motivazioni, sono state respinte.

Una parte non è stata accettata a causa del particolare tipo di contratto che il richiedente aveva nel momento in cui è cessato il rapporto di lavoro. In questo ambito si sono riscontrate la maggior parte dei ‘vizi’ che hanno indotto i funzionari addetti all’esame delle domande, a respingerle.

Tante sono le istanze Ape Social ritenute non idonee, in quanto, pur essendo i soggetti richiedenti in regola con il requisito anagrafico e contributivo, l’ultima attività lavorativa riguarda un contratto a termine, a tempo determinato, oppure retribuito tramite voucher.

Le condizioni ritenute non compatibili con i requisiti, paradossalmente, hanno indotto l’Inps e il Ministero del Lavoro a richiedere più elasticità nei criteri di valutazione, il rigore è risultato veramente eccessivo. Già si sapeva che la Legge di bilancio è passata su sentieri stretti in termini di risorse, ma quando le richieste risultate in regola, e quindi accettate, sono anche inferiori alle somme stanziate, allora è necessario riprendere in mano le domande e analizzarle secondo criteri più flessibili.

E questo si sta tentando di fare, intervenendo sulla Legge di Bilancio. I sindacati sono già sul piede di guerra. Ma basterebbe dare uno sguardo ai risultati relativi all’esame delle pratiche, per capire che la procedura ha necessità d’essere formulata in maniera tale che risulti più ‘inclusiva’.
Sono state in definitiva respinte il 64,89% delle domande su Ape Social, ovvero 7 su dieci, perché non idonee. Secondo i dati pubblicati dall’Inps risulta che sono state presentate in tutto 39.700 domande, ne sono state accolte 13.600, e bocciate 25.890.

L’Inps stesso trova severa la procedura d’esame delle domande, e chiede pertanto che la valutazione per il riconoscimento del diritto all’Ape social, riguardi tutti i casi di cessazione del rapporto di lavoro, che si tratti di licenziamento o di rapporti a tempo determinato.

Intanto, nei giorni scorsi (il 19 ottobre), il Ministero del lavoro ha comunicato che la platea dei beneficiari di Ape Social o precoci, sarà allargata, con interventi sulla Legge di Bilancio, quest’ultima del resto è stata varata ‘salvo intese’. Il ministero ha altresì informato l’Inps della decisione di rivedere la normativa e di renderla più duttile, affinché sia possibile una più ampia inclusione di domande.

Nel testo del comunicato si legge:

“I dati resi noti oggi dall’INPS riguardo i risultati dell’esame delle domande di accesso all’Ape sociale e al pensionamento anticipato per i lavoratori precoci (ossia i soggetti che hanno iniziato a lavorare prima del compimento del diciannovesimo anno di età), sono riferiti all’esame effettuato dall’Istituto prima delle nuove indicazioni fornite dal Ministero del Lavoro, in risposta alla richiesta di chiarimenti avanzata dall’Inps.

In quella risposta, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha confermato la volontà del Governo di favorire una piena utilizzazione delle due misure, fornendo indicazioni che permetteranno all’Istituto di applicarle in maniera pienamente coerente con le volontà espresse dal legislatore, anche rivedendo in autotutela le decisioni già assunte.”

Terminata la seconda valutazione, sarà il Ministero stesso ad effettuare un controllo obiettivo sui risultati, al fine di accertare che siano stati rispettati i nuovi requisiti di coerenza. Nella legge di bilancio, che ora prevede una più ampia platea di beneficiari, figurano lavoratrici con figli a carico e lavoratori disoccupati a causa della cessazione del rapporto di lavoro, dovuto a contratti a tempo determinato.

Secondo il Patronato Inca Cgil, si è partiti con una linea rigida di off limits da parte dell’Ente previdenziale, in netta divergenza con le intenzioni del legislatore, quando non in contrasto con la legge stessa. Ancora prima che gli esiti sull’esame Ape Social fossero diffusi, il Patronato ha messo in rilievo i motivi per cui, tante, troppe domande, sono state respinte.

Il requisito riguardante lo stato di disoccupazione, come già si è detto, è uno dei più penalizzanti, perché secondo questa logica, basta un solo giorno di lavoro retribuito con voucher, seguito ad un periodo di disoccupazione, per perdere il diritto all’Ape Social.

Perdono il diritto anche i lavoratori che sono stati licenziati senza ammortizzatori sociali privi dei requisiti, oppure perché non hanno inoltrato richiesta entro il termine stabilito. Infine i lavoratori che hanno svolto attività all’estero, con relativi contributi (l’Inps ritiene invece di avere esteso il diritto all’Ape a questa categoria di lavoratori).

Per il Patronato si tratta di una discriminazione che non può essere accettata. L’Inps si è ritrovata a mantenere un atteggiamento controverso: ha respinto le accuse dei sindacati, e allo stesso tempo ha ammesso, in sintonia col Ministero del Lavoro, che la selezione delle domande è stata troppo severa. Lo sdegno, peraltro legittimo di lavoratori e sindacati, un risultato lo ha raggiunto: un intervento al riguardo nella Legge di bilancio c’è stato, la platea degli aventi diritto è stata ampliata.

Non c’è molta chiarezza nemmeno nel versante degli anticipi pensionistici, su Ape volontaria si è dovuto attendere a lungo prima che il decreto attuativo fosse firmato. In ogni caso i lavoratori prossimi al raggiungimento dei requisiti, non possono accedere all’anticipo pensionistico, dopo mesi di attesa per la firma del decreto, perché non ci sono ancora le convenzioni con l’Abi, nel settore bancario, e Ania, su quello assicurativo, con entrambe le Associazioni il governo non ha ancora fissato un accordo per le relative convenzioni.

Non sono stati determinati dunque i costi per avere accesso ai prestiti tramite banca, né quelli assicurativi tramite polizza, che prevedono la copertura dei rimborsi nel caso in cui il pensionato muoia prima di avere estinto il prestito.

La conseguenza più diretta di questo clima sospeso, è il disorientamento, non si conoscono le condizioni, i tassi, sul prestito, che avrebbe una durata ventennale con l’istituto di credito che finanzia l’anticipo pensionistico. Come del resto quelle riguardanti la polizza assicurativa, che coprirebbe i rimborsi nei casi estremi di scomparsa del pensionato.

Neppure l’Inps ha fornito istruzioni adeguate per la presentazione della regolare richiesta. C’è però la scadenza del 17 novembre, in quanto il decreto ha previsto che le convenzioni tra Abi, Ania e Ministero del Lavoro, siano fissate entro 30 giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta.

Per ora il Governo ne ha preso atto nella Legge di bilancio 2018, prorogando di un anno i termini entro i quali sarà possibile inoltrare richiesta. Dunque non sarà più il 31 dicembre 2018, ma slitterà di un anno.

SONDAGGIO SU UN CAMPIONE DI ANALISTI: LA BCE DIMEZZEREBBE GLI ACQUISTI DI ASSET

DI VIRGINIA MURRU

 

 

Secondo il sondaggio condotto da Bloomberg, le misure di tapering sarebbero orientate verso una riduzione dell’importo di acquisto di titoli da parte dell’Eurotower, che verranno presumibilmente ridotti fino a metà degli attuali 60 miliardi al mese.
Le misure di tapering che la Bce dovrebbe annunciare giovedì prossimo, in occasione della riunione del Consiglio direttivo, sono particolarmente attese, nel mondo della finanza c’è anzi un gran fermento per queste importanti decisioni.

Il Qe rispetterà le esigenze del sistema economico, e non renderà traumatica l’interruzione degli acquisti, anche perché, il presidente della Bce, Mario Draghi, ha continuato a ripetere, nel corso delle conferenze stampa mensili, che nonostante la ripresa si stia consolidando, è necessario sostenerne la crescita anche attraverso la politica monetaria espansiva.

Draghi ha sempre ritenuto fondamentale il supporto che lo stimolo monetario ha garantito, e nonostante le pressioni e l’avversione dei più importanti esponenti della finanza tedesca, non si è mai lasciato travolgere da teorie contrarie: le risposte del sistema sono state positive, e pertanto non si può considerare una ‘terapia d’urto’ priva di ponderazione o eccessiva.

Intanto fervono ‘i preparativi’, non mancano supposizioni e ipotesi sull’effettiva entità della prossima manovra della Bce, secondo il sondaggio portato avanti da Bloomberg, le misure di tapering sarebbero ormai dietro la porta, è solo questione di giorni. I tempi sembrano maturi per scalare la ‘terapia’, e rendere il sistema meno dipendente dallo stimolo monetario. In breve, l’intento è quello di portare l’economia dell’area euro ad essere nuovamente autonoma, gradualmente, fino a quando potrà muoversi con le proprie gambe.

Gli acquisti, secondo il parere degli analisti, non dovrebbero comunque essere interrotti fino a settembre del 2018, Draghi ha più volte fatto cenno a questa possibile ‘scadenza’, ma non ha mai neppure escluso il fatto che potrebbe protrarsi anche oltre, qualora il caso ricorresse e se ne riscontrasse la necessità. Insomma, il tempo sarà maestro, le previsioni, in un clima globale di cambiamenti continui, non esprimono certezze.

E’ tuttavia convinzione comune, tra gli analisti interpellati, che il primo rialzo dei tassi avrà luogo nel 2019, non prima. Questi sono i rumors più attendibili, ma ovviamente si dovrà attendere il meeting di metà settimana per conoscere le risoluzioni del direttorio (25/26 ottobre).
In ogni caso i dubbi sulla riduzione degli acquisti di titoli, sono davvero minimi, resta semmai da capire in che modo queste misure saranno portate avanti nei confronti dei paesi dell’Eurozona.

Negli ultimi 5 mesi, la Bce pare abbia acquistato meno bund tedeschi (tra lo 0,5 e l’1% rispetto alla quota), mentre verso altri paesi, come Francia e Italia, ci sarebbero state ‘deroghe’ circa la quantità dei titoli acquistati, che sarebbero maggiori rispetto al piano stabilito dall’Eurotower.

Un’elasticità negli acquisti non propriamente nota a livello ufficiale, ma frutto di un adeguamento alla realtà dei mercati, ossia alla disponibilità di bond. Decisioni non molto gradite ai tedeschi, il confronto su questi temi nell’ambito del board Bce, non è stato certamente facile.

INPS. OSSERVATORIO SUL PRECARIATO AGOSTO 2017

 

DI VIRGINIA MURRU

 

Sono stati pubblicati dall’Inps i dati riguardanti l’Osservatorio sul precariato agosto 2017, certamente in rilievo la notevole crescita dei contratti a chiamata, un autentico boom da gennaio ad agosto: + 129,5%, rapportato al 2016 (sempre i primi 8 mesi dell’anno).

Il mercato del lavoro è in netto miglioramento, lo dicono in modo evidente i numeri.
Dai rilevamenti risulta che il turn-over cresce, in lieve calo i posti di lavoro stabili. Dall’analisi dei dati emerge infatti che solo 24 contratti aperti su 100 sono da considerarsi stabili. La causa va ricercata nella riduzione degli sgravi per l’inserimento fiss, quando questi erano più consistenti il rapporto era 38 su 100.
Gli sgravi tuttavia rientreranno con la nuova legge di bilancio 2018, misura adottata proprio per favorire l’occupazione nel triennio 2018/20, i lavoratori assunti, secondo le stime, aumenteranno di 1 milione.

Il report periodico dell’Istituto previdenziale sul precariato, mette in evidenza il saldo attivo tra nuove assunzioni e cessazioni di rapporti di lavoro nel settore privato, in relazione al periodo gennaio-agosto del corrente anno: + 944mila. Il dato, che rispecchia l’andamento positivo dei dati macro dell’economia italiana, supera i rilevamenti del 2016: +704mila – e del 2015: +805mila.

Per quel che riguarda il lavoro subordinato, l’Inps precisa che il campo di osservazione considera i lavoratori dipendenti del settore privato, pertanto sono esclusi i lavoratori domestici e gli operai agricoli.
Sulla Pubblica Amministrazione, il riferimento è esclusivamente ai lavoratori degli Enti pubblici economici. Le rilevazioni hanno per oggetto i flussi, ossia i movimenti effettivi dei rapporti di lavoro, che comprendono le assunzioni, le cessazioni e trasformazioni intervenute nel corso del periodo di riferimento.

L’Ente di previdenza fa anche osservare che la contabilità dei flussi non può coincidere con quella dei lavoratori in quanto lo stesso lavoratore può risultare, nel medesimo periodo, interessato da una pluralità di movimenti.

Se si considerano i contratti ‘a chiamata’ o ‘intermittenti’, l’aumento che va dai 121mila del 2016, ai 278mila del corrente anno, è dovuto alla necessità delle imprese di fare ricorso a mezzi di contratto flessibili, che sostituiscano i voucher, com’è noto eliminati a marzo in seguito al referendum fortemente voluto dalla CGIL, e a partire da luglio, per le imprese con meno di 6 dipendenti, sostituiti da contratti di prestazione occasionale.

Si possono tenere in considerazione i dati relativi al saldo per la misurazione della variazione tendenziale concernente le posizioni di lavoro. Negli ultimi 12 mesi, secondo l’Osservatorio sul precariato, il saldo su base annua, che indica la differenza tra nuove assunzioni e cessazioni, ad agosto 2017, è positivo, ossia pari a +565mila, lievemente contenuto se rapportato ai dati rilevati a luglio: +586mila.

Questi risultati, secondo l’Osservatorio Inps, “cumulano la crescita tendenziale dei contratti a tempo indeterminato (+17mila), dei contratti di apprendistato (+53mila) e, soprattutto, dei contratti a tempo determinato (+494mila, inclusi i contratti stagionali).

Tali tendenze, in linea con le dinamiche osservate nei mesi precedenti, attestano il proseguimento della fase di ripresa occupazionale.”
Le assunzioni che si riferiscono solo al settore privato, nel periodo di riferimento gennaio-agosto 2017, sono state 4.598.000, le quali esprimono un aumento del 19,2%, rispetto allo stesso periodo del 2016.

Le più consistenti vengono dal lavoro a tempo determinato, pari a +26,3% e dall’apprendistato, +25,9%, mentre risultano in calo quelle a tempo indeterminato: -3,5%, rispetto allo scorso anno, la causa è da attribuire alle assunzioni part time.
In aumento anche le cessazioni: +15,9%, sempre rapportato allo stesso periodo del 2016, ma il dato cresce in maniera inferiore rispetto alle assunzioni.

L’Osservatorio sottolinea infine l’incentivazione di 36.236 rapporti di lavoro, quale effetto del programma ‘Garanzia giovani’, e 75.957 attraverso le misure adottate per favorire l’”Occupazione al Sud”.

CDM. APPROVATO IL DECRETO FISCALE, DOMANI PRESENTAZIONE DELLA LEGGE DI BILANCIO

DI VIRGINIA MURRU

E’ stato approvato il decreto fiscale, in vista della legge di bilancio che lunedì sarà presentata dal Cdm, nell’ambito della manovra 2018 (sarà solo la prima tranche). La legge di Bilancio sarà poi trasmessa a Bruxelles, ma l’attende anche l’esame di Camera e Senato.

L’approvazione, secondo la dichiarazione della ministra Anna Finocchiaro, è ‘salvo intese’, potrebbe pertanto essere rivista prima di passare alle Camere.
Si riconfermano (come anticipato da Padoan nelle scorse settimane), le sanatorie sulle cartelle fiscali, la cosiddetta ‘rottamazione bis’, nonché la proroga con rifinanziamento del prestito ponte destinato ad Alitalia: si aggiungeranno (ai 600 mln già stanziati) 300 milioni.

Per quel che concerne la rottamazione bis, si tratta dei ruoli fiscali e contributivi di pertinenza del corrente anno, da gennaio a settembre. Sono state previste massimo 5 rate, l’importo delle rate deve essere ripartito in modo uguale, i mesi di competenza saranno: luglio, settembre, ottobre, novembre e febbraio 2019. Sarà stabilito un accordo in merito con l’agente della riscossione entro marzo 2018, mentre il termine ultimo per le adesioni dei contribuenti è fissato per il 15 maggio prossimo. Per coloro che avessero omesso di versare le rate di luglio e settembre, i termini sono stati prorogati fino alla fine di novembre.

Secondo il ministro Padoan, la sanatoria sulle liti pendenti dovrebbe portare nelle casse dell’Erario 250 milioni. Il ministro dell’Economia ritiene ‘compatta e solida’ la legge di bilancio, e si dichiara fiducioso sull’esito della discussione alla quale sarà sottoposta a breve in Parlamento.

La riapertura della sanatoria arriva anche sul versante delle rateazioni, che anch’esse saranno soggette a rottamazione. I contribuenti che hanno saltato il pagamento delle rate relative alle vecchie cartelle, potranno beneficiare di questa proroga, con la precedente disciplina non era consentito, si perdeva il diritto.

Del dl fa parte anche una nuova norma ‘anti-corvo’, per alzare una barricata contro le scalate ostili; le norme sul golden power, infatti, prevedono poteri speciali quando si presenta l’insidia di investimenti ‘predatori’ provenienti dall’estero. Si tratta di una norma cara al ministro per lo Sviluppo Economico, Carlo Calenda, e agisce contro i ‘predatori’ di quote azionarie che vengono da Paesi terzi.

La norma stabilisce infatti che, al superamento della soglia, chi investe ha l’onere di trasmettere una ‘lettera d’intenti’, nella quale, in modo trasparente, si mettono in chiaro gli intenti, appunto, al fine di prevenire manovre poco limpide. Dopo il contenzioso tra Mediaset e Vivendi, il Governo ha ritenuto opportuno disciplinare queste evenienze, evitando spiacevoli sorprese alle aziende ‘vittime’ di queste mire da parte di imprenditori stranieri.

Troverà applicazione nel contenzioso Vivendi-Tim, ma non sarà l’unico caso, la norma disciplina e contempla situazioni simili. In via di definizione ora gli interventi del Cdm su questo caso specifico, verrà messa in atto una delibera al riguardo dalla Presidenza del Consiglio proprio lunedì 16 ottobre, quando sarà presentato anche il disegno di legge di bilancio.

Nella delibera della Presidenza del Consiglio ci saranno condizioni di trasparenza ben precise concernenti la gestione di Telecom Italia Sparkle, che è controllata da TIM, e si occupa dei cavi sottomarini internazionali. La delibera è stata avviata in concerto con il Ministero della Difesa e  degli Interni, e la collaborazione del Ministero per lo Sviluppo Economico.

Il decreto fiscale prevede, come il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan aveva già annunciato, la sterilizzazione Iva per il prossimo anno, in programma 1 miliardo. La legge di bilancio stabilirà le misure per questo processo di contenimento delle aliquote, che sarebbero scattate nel 2018, per un importo di 15,7 miliardi.

500 mln sono stati invece assegnati, tramite il Fondo di garanzia, alle piccole e medie imprese, di questi 300 sono destinati al 2017, i restanti 200 al prossimo anno. Il decreto tiene anche conto delle catastrofi naturali, e pertanto sono state sospese le tasse nell’area intorno a Livorno, di recente colpita dall’alluvione.

Una novità del decreto fiscale riguarda l’intermediazione della SIAE, ossia quelle norme che disciplinano il diritto d’autore. Gli organismi di gestione collettiva (associazioni no profit) potranno rappresentare i propri tesserati e difenderne i diritti, senza chiedere l’intervento della Siae, prima d’ora obbligatorio.

Un’altra disposizione del decreto si occupa del credito d’imposta per l’avvio di una campagna pubblicitaria (tramite giornali o radio e TV). Il beneficio relativo al credito d’imposta è rivolto ai lavoratori autonomi e imprese, per investimenti di competenza del secondo semestre 2017. Il credito d’imposta, che è del 75%, viene applicato sulle quote incrementali degli investimenti, rapportate all’anno precedente. Arriva fino al 90% per start-up e piccole imprese.

Sarà esteso a tutte le società controllate dalla Pubblica Amministrazione lo ‘Split payment’; si tratta, in spiccioli, del nuovo meccanismo di liquidazione IVA, che era stato previsto dalla Legge di Stabilità di due anni fa (la Legge 190/2014), poi revisionata con DL 50/2017.

La nuova normativa riguarda gli enti pubblici nazionali, regionali e locali, fondazioni (partecipate della PA) e società controllate in modo diretto o indiretto da qualunque amministrazione pubblica.
Tra le disposizioni del decreto c’è anche il rinnovo del finanziamento delle missioni internazionali, oltre ad assunzioni straordinarie per le forze dell’ordine (polizia). In questo ambito stabilisce che, la carica dei generali, avrà una durata massimo di 3 anni e non sarà suscettibile di proroghe.

Sono previste in questo ambito 5.590 assunzioni entro la fine del 2017, più alcune migliaia da reclutare tramite concorsi che si svolgeranno entro il 2019. E’ in sintesi la risposta del governo alle proteste dei sindacati di polizia, Vigili del fuoco e agenti penitenziari, che tramite la Consulta di sicurezza, hanno chiesto interventi più incisivi. Oltre 5 mila nuovi assunti andranno a potenziare le forze dell’ordine.

Un milione di euro per il triennio 2018/20 sarà stanziato per il personale delle Prefetture in missione all’estero per l’adempimento dei relativi accordi internazionali, riguardante la lotta contro il terrorismo, ed emergenze in materia d’immigrazione.

IL NOBEL PER L’ECONOMIA 2017, RICHARD H. THALER, E LA ‘TEORIA DEL PUNGOLO’

 

DI VIRGINIA MURRU

 

Quest’anno il Nobel per l’Economia è stato assegnato ad un ‘professor’ di scienze comportamentali all’University of Chicago Booth School of Business, per gli studi sui comportamenti economici (e la finanza comportamentale), ma è anche ricercatore associato del National Bureau of Economic Research.

Thaler è il noto autore e assertore della “Teoria del pungolo”. Questi studi costituiscono ormai una branca dell’Economia Politica, che fonda le sue basi su concezioni di carattere psicologico, in quanto spiega l’irrazionalità delle scelte nei comportamenti umani, guidati da flussi d’ impulsi emotivi che non di rado influenzano l’andamento dei mercati.

E’ infatti l’aspetto puramente umano, secondo gli studi portati avanti da Thaler in questo versante per decenni, ad avere il potere di orientare l’esito delle contrattazioni (per esempio), e non è certo un’eccezione che il panico agisca come una raffica causando autentici crolli in Borsa. Abbiamo visto cosa è accaduto nel gennaio 2016 nei mercati di Shenzhen e Shanghai, e l’effetto domino che ha causato nei mercati dell’Occidente, e a livello globale.

Reazioni simili possono interagire su altri mercati, espandere quest’onda d’urto come fosse un cerchio concentrico che si propaga in modo irrazionale, a volte difficile da controllare. Eppure dietro il panico o l’euforia dei mercati, vi sono queste onde emotive scatenate da dichiarazioni di alti esponenti della finanza, da rappresentanti politici, o da situazioni d’instabilità geopolitica.

Tutto ciò che filtra in questo grande impluvio finanziario, può scatenare tempeste o esaltare gli investitori, dipende ovviamente da quelli che sono gli input che provengono da orizzonti sensibili.

I mercati sono uno degli aspetti analizzati e studiati da Thaler, è in generale il comportamento del singolo e della collettività ad essere oggetto delle sue ricerche.

Gli studi sulle teorie di Thaler hanno riscontrato un notevole successo e sono stati applicati di recente non solo negli States (Nudge è stato un libro simbolo durante la campagna elettorale di Obama), ma anche in Europa. Thaler ha prestato la sua opera in qualità di consulente ‘tecnico’ nel governo Cameron e ha quindi creato il “Behavioural Insights Team”, uno staff che ha contribuito a mettere in pratica la teoria del paternalismo libertario.

I suoi principi di scienza comportamentale, orientati sull’economia e la finanza, sono stati divulgati attraverso una pubblicazione del 2008, scritta a quattro mani con il giurista Cass Sunstein, e intitolata ‘Nudge (pungolo), la spinta gentile’.
L’opera spiega quanto sia importante orientare le scelte del singolo o di un gruppo di persone, affinché i risultati siano ponderati e soddisfacenti, indirettamente anche per la società e il governo che la rappresenta (paternalismo libertario).

Scelte che contribuiscono a migliorare il proprio stile di vita, risultando più consapevoli, perché dietro vi operano esseri umani, vero punto di partenza per ogni valutazione di carattere politico ed economico. Thaler ha in definitiva messo al centro dei suoi studi l’uomo, avvalendosi di ricerche in ambito psicologico e sociologico.

Già le grandi aziende hanno adottato strategie di economia comportamentale per influenzare i consumatori e persuaderli a scegliere un certo prodotto. Una semplice pubblicità, del resto, con tutte le ricerche di marketing che si porta dietro, assolve un ruolo di questo tipo, perché è in fin dei conti una sollecitazione, non puro orientamento.

Secondo il professore dell’University of Chicago, ‘gli esseri umani compiono scelte poco mirate, perché influenzati da una serie di comportamenti inadeguati, viziati da pregiudizi cognitivi, in tante direzioni: dalla scelta dell’istruzione, a quella della salute, alle valutazioni di un investimento, un mutuo, fino a errori che implicano conseguenze anche più serie.

Thaler non è il pioniere degli studi sulla finanza comportamentale, già Adam Smith, con l’opera ‘Teoria dei sentimenti morali’, illuminò il processo dei comportamenti psicologici individuali che guidano le scelte, specialmente in ambito economico e finanziario. Ed altri seguirono la traccia di questi studi, fino a che, Kahneman e Tversky, diedero una svolta con l’opera “Decision Making Under Risk”.

I due autori si avvalsero di tecniche particolari, attinenti alla psicologia cognitiva, per spiegare i nodi che determinano l’impulso decisionale. Seguendo questa logica, le teorie economiche partono dal presupposto che gli individui svolgono un ruolo razionale ben preciso nel mercato.

Eppure vi sono oscillazioni di reazioni all’interno dei mercati, tali da implicare e chiamare in causa la finanza comportamentale. Il panico di perdere i soldi investiti, per esempio, che magari rappresentano i risparmi di una vita, sembra sia tre volte più incisiva dell’esaltazione di una speculazione andata a buon fine.

I mercati funzionano non di rado tramite flussi di emozioni che viaggiano in modo ‘sotterraneo’ (in apparenza), per questo nessuno si stupisce quando c’è la corsa all’acquisto di un titolo, perché si segue il branco, e non ci si volta indietro, spesso, anzi, non si prendono nemmeno le dovute precauzioni, seguendo un’adeguata informazione. E’ così che esplodono le cosiddette ‘bolle speculative’.

Dietro la scienza relativa alla finanza comportamentale vi sono studi svolti ‘sul campo’, tramite test o sondaggi, con il supporto della stessa medicina, per arrivare a comprendere il complesso universo degli impulsi che portano l’individuo a compiere scelte davanti a situazioni incerte, comunque poco chiare.
Si è riusciti ad individuare, tramite ricerche mirate, le aree del cervello implicate nel processo ‘decisionale’, e dunque si è trovato un riscontro concreto, con questi studi ancora empirici, purtroppo, perché non danno certezze assolute nei risultati.

L’individuo, in quanto singolo, può compiere scelte in modo autonomo, ma spesso è il risultato di naturali influenze di carattere sociale a spingerlo verso una direzione piuttosto che in un’altra. In definitiva si direbbe che è l’inconscio collettivo di Jung a svolgere il suo ruolo anche negli ostici scenari dell’economia e della finanza, dove il terreno è tempestato di ‘mine’.

Gli studi di Thaler iniziarono negli anni ’70, mettendo in discussione le teorie economiche classiche, le quali partivano dal presupposto che l’equilibrio perfetto si potesse raggiungere attraverso il punto d’incontro (perfetto) tra domanda e offerta. Mentre gli attori economici si pongono l’obiettivo di massimizzare i vantaggi e il profitto dalle operazioni e scelte compiute, naturalmente portando al minimo i costi.

Thaler ha dimostrato che si tratta di assetti convenzionali: la realtà compie altri percorsi. Gli esseri umani possono essere divisi in due grandi categorie, secondo l’economista:
gli Econs – che sono assolutamente razionali, e in grado di effettuare scelte ponderate,
e gli Humans – cioè il resto dell’umanità. Un’umanità che ha tutte le informazioni e la giusta ‘segnaletica’ per compiere scelte idonee alle proprie esigenze, dal semplice prodotto di un supermercato, al medico più competente, alla banca più efficiente, al mutuo più conveniente.

Eppure, nonostante la razionalità della ragione (it’s hard to make good decisions), ci lasciamo prendere la mano da influenze che non risultano governabili dall’arbitrio. Thaler ovviamente, concentra le sue ricerche sulla seconda categoria, ossia un prototipo d’individuo che rappresenti la società.

Il professore, insignito del più alto riconoscimento in ambito internazionale, non ritiene positivi i comportamenti puramente razionali derivanti dai modelli economici imperanti, e per sottolinearne l’importanza, ha dichiarato che la somma in denaro del Premio Nobel (9 milioni di corone svedesi, circa), “la spenderà nel modo più irrazionale possibile..”

FMI: ACCELERAZIONE DELLA RIPRESA A LIVELLO GLOBALE, ITALIA IN CRESCITA

DI VIRGINIA MURRU

 

Il FMI, nel ‘Global Financial Stability Report 2017, è positivo sui risultati della ripresa a livello globale, ma invita alla cautela e alla vigilanza, a non ‘compiacersi’ degli obiettivi raggiunti, sottovalutando le vulnerabilità che ancora sussistono nel sistema.

Secondo le valutazioni dell’Istituto di Washington, è stato, ed è fondamentale, il sostegno della politica monetaria espansiva (Qe), e pertanto si ritiene importante proseguire ancora in questa direzione, fino a quando l’eurosistema non sarà in grado di svincolarsene senza creare conseguenze sul piano finanziario. Si legge infatti, nel report di ottobre 2017:

“The Global Financial Stability Report (GFSR) finds that the global financial system continues to strengthen in response to extraordinary policy support..” (Il ‘Report sulla stabilità finanziaria globale, constata che il sistema finanziario globale continua a rafforzarsi, in risposta alla politica di supporto straordinaria).

I punti fragili del sistema economico mondiale sono stati riassunti in 5 punti, tra i quali il protezionismo, la volatilità bassa dei mercati, e il debole tasso d’inflazione, che in diversi paesi (Europa in primis), è distante dal target, ossia del 2%, obiettivo delle banche centrali.

E poi l’ottimismo delle stime: l’economia europea è avviata verso una crescita del 2,1%, invece il target relativo all’inflazione del 2% slitta al 2022, con traguardi intermedi tra l’1,4% (nel 2018) e l’1,5% nel 2017. A fare fibrillare i ‘forecast’ sono anche i ‘Non performing loans’, ossia i crediti deteriorati, quelle sofferenze bancarie che tanti disastri hanno creato nel sistema finanziario dell’Ue.

E poiché proprio l’assetto finanziario è vulnerabile alle incertezze geopolitiche che filtra il sistema, l’attenzione è puntata sull’instabilità politica che sta causando la richiesta di secessione della Catalogna, la quale potrebbe fungere da detonatore per altre aree dell’Europa sensibili su questo versante.

L’analisi del Fmi tiene conto anche di queste variabili, i risultati si considerano soddisfacenti, ma persistono ‘correnti’ contrarie, che, se non tenute sotto controllo, potrebbero sovvertire un quadro proiettato verso la crescita. Christine Lagarde, Direttore Generale del Fmi, insiste sull’importanza della cooperazione a livello globale, a non erigere steccati sul piano internazionale: è necessario andare avanti e non percorrere sentieri autonomi che chiamano in causa il protezionismo, pressoché inconcepibile in piena era di globalizzazione.

Non si fanno allusioni, nel report, ma certamente la politica degli Usa non è vista nell’ottica della stabilità e della cooperazione.

Secondo l’istituto americano, l’Italia ha compiuto notevoli passi avanti, e infatti le stime di crescita sono state riviste al rialzo per il corrente anno, mentre nel 2018 ci sarà una contrazione pari allo 0,4%, sarà dunque dell’ordine dell’1,1%.

Una divergenza non di poco conto con le stime del Def, che invece ha previsto lo stesso livello di crescita anche per il prossimo anno. Il tasso di disoccupazione sta rientrando, secondo il Fmi, verso argini meno drammatici, ma resta ancora un dato sensibile dell’economia italiana. Come del resto non si può ancora dire solido il comparto bancario, se si porta dietro una zavorra di Npl che equivale al 30% del totale riscontrato negli altri paesi europei.

E tuttavia, a livello generale, in Eurozona, i crediti deteriorati restano un problema irrisolto, nel primo trimestre dell’anno in corso risultano pari al 5,7%, in diversi paesi hanno raggiunto picchi che superano il 10%.

A rendere meno vigorosa la crescita in Italia, contribuisce anche il debito (soprattutto), perenne emergenza dei conti pubblici del Paese, il Fmi prevede che nel 2017 si attesterà al 133% (era 132,6% lo scorso anno), il Fondo prevede un miglioramento nel 2018: il debito pubblico sarà ridotto a 131,4%. Anche qui discordanza con la Nota di aggiornamento del Def, che è più ottimista circa la possibilità di ridurne la portata.

Un’Italia promossa in fin dei conti con riserva, sono questi i nodi che impediscono di esprimere auspici migliori per il futuro, le stime non possono essere del tutto positive finché non si interverrà per sanare i punti deboli del nostro sistema economico.

BCE. POSITIVI GLI ESITI SUGLI STRESS TEST CONDOTTI DALL’EBA NELLE BANCHE EUROPEE

 

DI VIRGINIA MURRU

 

L’Autorità Bancaria Europea (EBA), ha eseguito gli stress test sui bilanci delle banche europee di fine esercizio 2016; l’Eurotower si è dichiarata soddisfatta dell’esito positivo di questi risultati, le banche hanno risposto bene a queste ‘sollecitazioni’.

Gli stress test rappresentano un fondamentale mezzo di controllo sulle capacità di tenuta dei maggiori istituti di credito europei; si considerano situazioni finanziarie avverse, ma  effettivamente, non hanno un alto grado di probabilità di verificarsi.

Le Autorità di vigilanza europee adottano questi metodi di analisi da anni, ormai. Lo stress test sui bilanci delle banche europee (relativi alla fine del 2016), hanno avuto il fine di accertare la tenuta delle banche in esame, dato che in prospettiva c’è, per i successivi 3 anni, un possibile aumento dei tassi d’interesse:  ci si aspetta infatti dalla Bce un cambiamento della politica monetaria (misure di tapering).

Se questo aumento dei tassi auspicato si verificasse – secondo le risultanze della Vigilanza – ciò avrebbe come conseguenza l’incremento del margine d’interesse, al quale seguirebbe un’altra reazione, che porterebbe in decremento il valore del capitale, ossia dell’equity.

Aumentando di 200 punti base i tassi, il margine d’interesse andrebbe ad aumentare del 4,1% nel corrente anno, del 10,5% entro il biennio 2018/19, anche se, come si è accennato, andrebbe in decremento il valore dell’equity, che sarebbe del 2,7% considerato a livello aggregato.

Con queste premesse, sostiene la Banca Centrale Europea, ci si aspetta che, in considerazione dei maggiori rischi, ogni singola banca chieda un capitale maggiore; si tratterebbe di una reazione comunque circoscritta, non sul piano globale.
Il metodo con cui si applicano gli esercizi di stress test, possono essere diversi e cambiare a seconda del paese ‘in esame’ con l’andare del tempo.

La procedura attuale riguardante i test è piuttosto rigorosa, sia perché è proiettata in un triennio, e dunque uno spazio temporale più ampio (per esempio rispetto a quelli seguiti dalle Autorità statunitensi), e sia per le caratteristiche concernenti i metodi applicati.
Gli stress test possono anche definire esigenze immediate d’incremento patrimoniale, ma sono risultati che vengono impiegati dalla Vigilanza per fini di ordinari processi di controllo e supervisione.

L’EBA – Autorità Bancaria Europea – si prefigge, con l’utilizzo di questi metodi, di verificare la stabilità del sistema finanziario europeo, e di regolare il funzionamento  e l’efficienza dei mercati finanziari, individuandone quindi le possibili vulnerabilità, i rischi e le tendenze.

Le funzioni dell’Eba, in ambito europeo, vengono svolte in collaborazione con il CERS, ossia Comitato Europeo per il Rischio Sistemico, i test ai quali le banche sono sottoposte, hanno il fine d’individuare le reali capacità degli istituti di credito di affrontare emergenze, comunque situazioni negative dei mercati.

Elaborando questi dati, l’Eba può prevenire condizioni di rischio e in ogni caso contribuire alla valutazione del rischio sistemico (finanziario) in ambito europeo.
Gli stress test seguono una procedura ‘bottom-up’, alla base vi sono metodiche e scenari analizzati tramite una stretta collaborazione con il CERS, oltre che con la Bce e la Commissione europea.

MOODY’S: L’ITALIA NON MERITA UNA PAGELLA PIU’ BRILLANTE..

DI VIRGINIA MURRU

 

L’Agenzia Moody’s non si lascia condizionare dall’entusiasmo del momento, l’outlook sull’Italia è negativo e il rating non va oltre Baa2. Estrema prudenza nelle valutazioni, permangono considerazioni d’incertezza verso il futuro e le prossime elezioni politiche.

Secondo l’agenzia di rating, che non è mai stata di ‘manica larga’ nei confronti del bel paese, il futuro Governo, verosimilmente, potrebbe essere ‘un precario’ non in grado di assicurare la stabilità politica della quale il Paese ha estremo bisogno, per ingranare una marcia di crescita più decisa.

Ci dovrebbero essere garanzie precise per quel che concerne le scelte di politica economica coraggiosa espresse dall’attuale Governo, con un’incentivazione delle riforme strutturali, e il rafforzamento del settore bancario.
In sintonia con altri dati macro fondamentali per consolidare la crescita.

Moody’s riconosce tutti gli sforzi compiuti dal Governo negli ultimi quattro anni, ritiene buona anche la crescita dell’1,5% del Pil per l’anno in corso e il 2018, rivelatosi ‘oltre le aspettative’, sottolinea. Ma non basta: per una pagella più brillante, è necessario dimostrare impegno e risultati più convincenti, secondo l’Agenzia di rating.

Insomma, nessun voto d’incoraggiamento, il Paese dovrà dimostrare di meritarselo con coerenza e impegno nei prossimi anni, una volta avviata la nuova legislatura. Moody’s insiste sulla necessità di risanare i conti pubblici, il debito è molto alto, e proprio qui il prossimo Governo dimostrerà di sapere stare al timone.

Abbattere questo mostro che schiaccia l’economia deve diventare un imperativo, considerato che sottrae risorse fondamentali, anche a causa della ruota infernale di interessi che produce. Bisogna fermarlo e ridurlo in maniera più efficace, sia pure graduale, solo così i margini di manovra diventeranno più elastici, tali da rendere più agevole la spesa e l’incentivazione degli investimenti.

IL LOW COST NON E’ PIU’ LA STRATEGIA VINCENTE DELLE COMPAGNIE AEREE

 

DI VIRGINIA MURRU

 

La strategia del low cost, applicata da tanti vettori in Europa (e non solo), nonostante si sia rivelata vincente per anni e anni, ora è inesorabilmente in crisi. Qualcosa si è spezzato nella giungla di questo mercato, dove le dinamiche della concorrenza decidono la supremazia delle compagnie che dimostrano di reggere gli urti della competitività, perché in fin dei conti sono più resilienti, più corazzate finanziariamente.

Per troppo tempo abbiamo messo alla gogna Alitalia, l’ex compagnia di bandiera, addebitandole ogni responsabilità, mentre si assisteva ad un susseguirsi di crisi e dissesti, che nel volgere di alcuni decenni, da vettore di prestigio internazionale, si è esposta al declino, cancellando anno dopo anno le credenziali di efficienza e invulnerabilità sulla ‘quota’ di mercato che si è conquistata.

Dalle stelle alle stalle, da un padrone all’altro. Eppure le altre compagnie di bandiera europee non hanno avuto ali propriamente d’acciaio, e le notizie di cedimenti non sono state poi una rarità nella compagine dei vettori europei più solidi negli anni della crisi.
Ora c’è da dire che stanno recuperando, dopo serie riflessioni sull’esigenza di tagliare i costi e di migliorare la gestione. Per non collassare hanno messo in atto strategie volte a ridurre gli sprechi, anche tramite il contenimento degli stipendi al personale.

Una delle ragioni che hanno portato più volte Alitalia sull’orlo del fallimento, è stato proprio il trattamento economico di cui beneficiano i dipendenti, in particolare piloti e comandanti.

Le compagnie di bandiera, e quelle al di fuori del perimetro del low cost, hanno assimilato diverse lezioni.

Per questo nuovo assetto finanziario più solido, per una governance più garantita ed efficiente, la Borsa le ha premiate, se si considera come riferimento l’inizio dell’anno, i titoli di alcune compagnie hanno fatto balzi davvero considerevoli, si allude ad Air France Klm, il cui titolo è salito del 163%, British Airways, del 38%, Lufthansa, del 98%..
In questo clima di ripresa e consolidamento delle grandi compagnie tradizionali, come mai le big del low cost, che sembravano inossidabili e inaffondabili, si trovano davanti all’abisso della crisi? Una crisi che magari non sarà irreversibile, ma che, inevitabilmente, si presenta come una spia rossa lampeggiante, ed impone una revisione del concetto ‘low cost’.

C’è da fare il punto su un allarme che nemmeno Ryanair può più celare dietro ‘il riposo dovuto ai piloti’ e ‘lo studio per il rispetto della puntualità sugli orari’, quando la verità è più amara, e riguarda invece la fuga dei piloti verso ripari più gratificanti, non solo sul versante del trattamento economico. Tutto da rivedere? Possibile, se da questi acquitrini Mister Michael O’Leary si vuole allontanare, insieme a tutta la numerosa tribù.

Il quotidiano irlandese ‘The Irish Independent’, parla di ‘migrazione’ verso la compagnia low cost ‘Norwegian’, che sembra godere ottima salute, e ha spalancato le sue porte a 140 piloti di Ryanair, offrendo loro contratti molto più allettanti.

E la lista non sarebbe così ‘esigua; infatti, secondo le risultanze dell’associazione dei piloti irlandesi, Ialpa, sarebbero invece 718 i comandanti che hanno trovato riparo altrove, in compagnie ancora più compiacenti, come quelle cinesi e arabe. Se questi dati fossero confermati, sarebbe davvero tutto da rifare, e non resterebbe che un senso di stupore e scalpore, perché davvero, con i risultati conseguiti dal vettore irlandese nel 2016, sembrava che quel cielo fosse libero e immune dal termine ‘crisi’. Il low cost sembrava anzi il parafulmine della crisi.

E infatti lo scorso anno si è chiuso con cifre da record: prima di tutto il vettore irlandese si conferma in Italia la prima compagnia aerea, sia in ambito nazionale che internazionale. Ryanair, e già si sapeva, è il principale operatore degli scali aeroportuali italiani.

E veniamo ai numeri (nel 2016): 32.615.340 passeggeri, che segnano una crescita in positivo del 9,8%, rispetto al 2015. Non cifre che preludono una crisi quasi imminente. Eppure, siamo sulla soglia. Mentre ad Orio al Serio Ryanair fa la parte del leone, e detiene l’80% del traffico passeggeri. Vi lavorano 7.500 dipendenti, senza considerare l’indotto, che sfiora i 25 mila.
Ora la ‘big company’ farà la sua pausa di riflessione, come tutte le crisi che si rispettino, al malessere serio, seguirà un protocollo di cura che sia confacente al caso, ma non è pensabile, né tanto meno auspicabile, che un gigante di questa portata possa collassare. Perderà qualche unghia, userà un’impietosa mannaia, e ad essere sacrificati saranno magari migliaia di dipendenti. Ma è ragionevole pensare che potrà tornare a spiccare il volo con la consueta sicurezza.

Nessuno, in ogni caso, avrebbe mai potuto ipotizzare una crisi del settore low cost, che delle strategie di ottimizzazione dei costi ne ha sempre fatto una carta vincente. Non ‘All of a sudden’, dicono nel Regno Unito per ‘Monarch Airlines’, vettore (low cost) che gestiva una buona fetta del mercato in Europa, e che facendo un bel po’ di rumore è uscito di scena, perché finito nel vortice della bancarotta. E’ un turbinare continuo negli ultimi mesi, soprattutto intorno alle compagnie del low cost; ignorare questo planare raso terra di eccellenze, il cui ‘brand’ ha sempre rappresentato una garanzia per i passeggeri, non è più possibile.

Difficile capire le origini di questi cedimenti, alcune cause sembrano evidenti, ma tante si celano nella fitta rete di dinamiche che regolano il mercato, una giungla, quasi.
Secondo il prof. Cesare Pozzi, docente di Economia industriale alla Luiss, “abbassare i prezzi in modo così selvaggio, per difendersi dalla concorrenza, a scapito del personale di volo e della qualità dei servizi, non può produrre buoni risultati nel lungo periodo.

I costi con i quali ci si misura, portano inevitabilmente alle difficoltà.” Le ragioni, secondo il prof. Pozzi, sarebbero da ricercare anche sulla liberalizzazione del trasporto aereo, che ha portato a sviluppare un nuovo assetto normativo, il quale favorisce la concorrenza, ma produce dipendenza nel mercato. Gli investimenti pubblici negli aeroporti, per rendere più agevoli gli scali, hanno favorito fino ad ora i vettori del low cost, perché hanno anche finanziato la disponibilità di nuove rotte.

Intanto Ryanair ora deve pensare a svincolarsi dagli artigli della Codacons e della Procura di Bergamo, visto che la Magistratura non intende fare finta di nulla, dopo gli annunci shock della compagnia sulla sospensione di centinaia di migliaia di voli.

Ryanair, non è una novità, con la politica di prezzi ‘low cost’, ha costruito la sua fortuna, ora però dovrà fare i conti con un procedimento istruttorio aperto dall’antitrust, a causa di presunte iniziative commerciali sleali, violando, secondo l’Authority, il Codice del Consumo. Il vettore irlandese dovrà vedersela anche con l’inchiesta dei magistrati della procura di Bergamo, in seguito all’esposto di Codacons, dopo la decisione di cancellare migliaia di voli.

Quest’ultima ha deciso di tutelare i passeggeri, ‘scaricati’ senza troppi riguardi, i quali potranno costituirsi come parte offesa nel procedimento in corso, e saranno assistiti tramite una richiesta di rimborso e/o risarcimento che ognuno di loro potrà indirizzare a Ryanair. Gli interessati possono scaricare ‘una nomina di persona offesa’ individuale, con questa procedura saranno sicuramente riconosciuti i diritti di ogni passeggero danneggiato.

E in graticola, come si è accennato, c’è anche Monarch, oltre ad un’ecatombe di fallimenti di piccole compagnie, che sono scese nell’arena, ma non hanno retto il confronto: i passeri, del resto, davanti alle aquile, prima o poi finiscono per diventare prede, e infatti molte di loro sono state reclutate da vettori più forti, sia in termini di flotta che di profitti.
Monarch Airlines, compagnia del Regno Unito, pochi giorni fa ha dichiarato fallimento, e non è stato facile per l’aviazione civile britannica accettarne il crack, anche perché ha piantato in asso 110 mila passeggeri, mentre altri 300 mila si ritroveranno con i voli annullati, e un ticket da rimborsare.

Il Governo britannico ha provveduto al noleggio di alcune decine di aerei, per riportare in Gran Bretagna i passeggeri bloccati all’estero a causa della cancellazione dei voli. Mentre Ryanair scopre nel giro di pochi mesi che piove in casa, per Monarch Airlines non è una novità, lo spettro della crisi incombeva da anni. Come Alitalia ha subito tante trasfusioni di liquidità, si pensa che le tratte verso la Turchia e l’Egitto, nelle quali aveva quasi il monopolio, abbiano subito un ingente calo di passeggeri, e questa sia stata la breccia attraverso la quale è passata la crisi.

La Monarch Airlines, con base all’aeroporto londinese di Luton, è stata pertanto costretta alla sospensione di tutti i voli. Questa volta il malessere è serio.
Ora è in amministrazione controllata, le sue sorti non sono state ancora definite, occorrerà del tempo, ovviamente, anche perché 3 mila lavoratori non si rassegneranno ad essere scaricati come valige in un angolo. I dirigenti della compagnia non risparmiano le frecce al veleno al Governo May, per il modo in cui è stata gestita la crisi fino ad ora, e c’è poi l’incognita Brexit, che non si sta rivelando essere, come si illudevano i sostenitori del ‘leave’, quel favo di miele che avrebbe finalmente reso felici i sudditi di S.M.

Eppure la crisi che attraversa l’aviazione civile non riguarda solo l’Europa, negli Usa, le difficoltà ci sono eccome. Anche negli States c’è carenza di piloti (in Europa, secondo gli esperti, ne mancherebbero circa 50 mila). La compagnia ‘Horizon Air’ è stata indotta a cancellare oltre 700 collegamenti ad agosto scorso, ed entro un ventennio si stima che sono necessari più di 600 mila boeing. Ma la grande lacuna restano i piloti, la loro formazione, l’integrazione nell’organico.

In piena era di globalizzazione, l’Europa non poteva essere l’unico continente ad essere coinvolto in questo fenomeno, che sta peraltro creando notevoli disagi ai passeggeri.

VIA LIBERA DEL PARLAMENTO SU NOTA DI AGGIORNAMENTO E SCOSTAMENTO BILANCIO

DI VIRGINIA MURRU

 

Il Senato approva in data 4 ottobre, con risoluzione di maggioranza, la Nota di Aggiornamento al Def e scostamento dal pareggio di bilancio. A sostegno della Nota di programmazione economica presentata dal Governo, è emersa una forte maggioranza (è stata assoluta, e avrebbe comunque superato l’esame anche con una maggioranza semplice), visto che hanno votato a favore 164 senatori. I contrari sono stati 108, più un astenuto.

Mentre, poco più tardi, l’Aula ha dato il via libera al Governo sullo scostamento dal pareggio di bilancio; la maggioranza è stata più ampia perché sostenuta anche dal gruppo Mdp, passa dunque con 181 favorevoli e 107 contrari. Con l’approvazione si rende possibile l’aggiustamento strutturale pari allo 0,3% per il prossimo anno, intervento che rientra nella Nota di aggiornamento al Def. Per questa approvazione era necessaria, secondo l’art. 81 della Costituzione, la maggioranza assoluta.

Anche il Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, esprime la sua soddisfazione in un tweet: “il voto del Senato è all’insegna della responsabilità e stabilità”. E dichiara ‘che non sarà una manovra depressiva per il sistema’.
Il Movimento democratici progressisti si sono astenuti lasciando l’Aula, i suoi esponenti non convergono sostanzialmente sulla linea programmatica del quadro economico-finanziario relativo alla prossima legge di Bilancio. Non erano stati peraltro accolti i sette emendamenti presentati precedentemente. Votato a favore, ‘per senso di responsabilità verso il Paese’, 12 esponenti del gruppo di Verdini.

Hanno però espresso il voto a favore, nella seconda votazione riguardante l’autorizzazione allo scostamento dal pareggio di bilancio, i 16  senatori del Mdp hanno infatti votato coesi per il sì.
C’è stato poi anche l’’ok’ a Montecitorio, con 358 sì e 133 no sull’autorizzazione allo scostamento di bilancio, per il quale si è espresso a favore anche Mdp. In seconda votazione ampio assenso alla risoluzione di maggioranza relativa alla Nota di aggiornamento del Def (i favorevoli sono stati 318 e i contrari 135), ma, come avevano annunciato, gli esponenti Mdp, si sono astenuti.

Mdp non concorda su diversi punti, come la mancanza di interventi sulle privatizzazioni, le quali, secondo il Movimento, avrebbero permesso un più agevole contenimento del debito. Non vi è convergenza sulle iniziative di carattere strutturale, che ritengono fragili, mancherebbe una visione chiara sulla Sanità, alla quale sarebbero state destinate risorse insufficienti, considerando poi che in ambito europeo siamo di alcuni punti percentuali al di sotto della media. Pierluigi Bersani non vuole sentire parlare di superticket.

Il Governo, al riguardo, ha manifestato comunque apertura sull’ipotesi di una revisione, ma in prospettiva ci sono ancora tante battaglie, anche se, in generale, i parlamentari della Sinistra hanno dimostrato senso di responsabilità, e questi atteggiamenti possono sostenere il Paese più dell’ostruzionismo e della sterile opposizione.

Le iniziative del quadro programmatico sono proiettate su un clima di crescita, innovazione e progresso, considerato il favorevole assetto congiunturale degli ultimi anni, e del 2017 in particolare. Le performance dell’economia, secondo le risultanze dei dati diffusi dall’Istat (ma anche dalle varie Agenzie di rating), sono andati al di là di ogni ragionevole aspettativa. Sono queste le fondamenta di un processo proiettato nel futuro, dove tuttavia il presente, attraverso scelte mirate, è importantissimo, per aprire orizzonti nuovi di crescita e permettere al Paese di allontanarsi definitivamente dalla palude della crisi.

Tante le misure del Governo contenute nel quadro di programmazione economica, alla luce dell’ottimismo imperante e delle nuove prospettive in cui è proiettata l’economia del Paese. E’ prevista una ‘crescita inclusiva’ per le classi meno abbienti, promette il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Il ministro assicura che il paese ha imboccato la via della svolta, e  non c’è da preoccuparsi circa la ‘dipendenza’ dal Qe, il cui effetto non può essere ritenuto una ‘droga’ dalla quale è difficile affrancarsi.

“Lasciamo il Paese – afferma Padoan –  con un lungo percorso di riforme e interventi che ci hanno permesso di abbandonare le sabbie mobili della recessione, lasciamo un’eredità forte al prossimo Governo, al quale spetterà il compito del transito, del passaggio all’autonomia per ciò che concerne la politica monetaria espansiva portata avanti dalla Bce, che indubbiamente ha dato una mano al Paese.
La crescita va avanti, il settore bancario procede con maggiore sicurezza, anche se – precisa – il sentiero è stretto e le risorse ancora limitate. Ma si può migliorare, non pecchiamo di ottimismo.”

Secondo il ministro, la fine del Qe, attesa a breve, non deve preoccupare, a patto che in futuro si continui a perseverare nel campo delle riforme strutturali, e le iniziative volte alla riduzione del debito. Questo impegno è fondamentale per proseguire su un percorso di crescita.
Nel 2016 risulta cresciuto anche il reddito disponibile delle famiglie italiane.

Ed eccole le ‘cifre’ più importanti del Def:

Sostegno alle famiglie e potenziamento degli assegni per i figli; proroga sulla riduzione, fino al 10%, della cedolare secca sugli affitti, con l’impegno di allungare l’intervento anche sui proventi che derivano dagli affitti non destinati ad uso abitativo. Nelle politiche di sostegno alle famiglie vi è l’intento di favorire la crescita demografica, l’Italia è uno dei paesi interessati al fenomeno del calo delle nascite.

Per ciò che attiene agli interventi previsti per il settore sanitario, così tanto contestati dalle opposizioni, c’è la disponibilità a riesaminare i criteri concernenti le norme sul superticket, con misure di revisione graduali, e col presupposto di agevolare gli assistiti sui costi, già di per sé un versante piuttosto travagliato e discusso. Ed è proprio una condizione che la maggioranza ha praticamente imposto al Governo per il Def, sulla risoluzione relativa alla Nota di aggiornamento.

L’opposizione insiste anche  sulla necessità di investimenti in ambito sanitario, da attuare nel volgere di un triennio, dato che le risorse destinate non sono ritenute sufficienti per il settore.
Il Governo ha mostrato disponibilità per una revisione in meglio degli interventi sul sistema Sanità, anche nell’ottica di misure che rendano più dinamica ed efficiente l’assistenza sanitaria.

Intanto la legge di bilancio dovrà essere approvata entro il 20 ottobre, e la bozza trasmessa alla Commissione dell’Unione europea entro il 15 ottobre.
Nella manovre ci sarà spazio per circa 2,5 mld di spesa e 6 mld di entrate. Si deve tenere conto anche della sterilizzazione delle clausole di salvaguardia, la quale, secondo gli intendimenti del ministro Padoan – precisati nella Nota di aggiornamento al Def – sarà compensata con misure intorno allo 0,5% del Pil, ed interesserà sia la spesa pubblica che le entrate. La manovra, complessivamente, sarà pertanto di 8,5 mld, dei quali 6 riguardano le entrate e 2,5  tagli alla spesa.

Il ministro dell’Economia spiega che nella manovra non è previsto l’aumento dell’Iva, anch’esso tanto dibattuto, “ci sarà attenzione verso il sostegno ai soggetti più fragili e dunque verso la povertà, in un’ottica di rispetto verso gli impegni presi con l’Ue.”

Secondo l’Istat, il debito pubblico, comunque drammatico, sarà, per l’anno in corso, pari a 131,6%, rapportato al Pil, mentre nel 2018 si riscontrerà una contrazione, e, sempre in rapporto al Pil, sarà di 129,9%, ma qui anche i decimali rappresentano importi considerevoli. Secondo le affermazioni di Padoan, nel volgere di un quinquennio  o poco più, l’imposizione fiscale sarà ridotta di circa 20 mld; i tagli a beneficio del contribuente riguardano l’Ires, il bonus Irpef, eliminazione della Tasi per la prima casa.

Il ministro Padoan, come si è visto, assicura anche l’eliminazione delle clausole Iva, totalmente, insieme alle accise. Per i compensi si potrà attingere dai margini di deficit pari a 6 decimi di punto, il che, tradotto in cifre, equivale a 10 mld. Resterebbero altri 5 mld di clausole senza relativa copertura, ma si pensa di riuscire a trovare gli spazi necessari nella legge di bilancio, così come per altri ambiti.

E’ chiaro che queste manovre richiedono sacrifici, secondo il ministro, e non manca mai ultimamente, di sottolineare che si procede ancora su un ‘sentiero stretto’. Per questa ragione, per via delle risorse limitate, il pareggio di bilancio sarà conseguito nel 2020, e non nel 2019, come si pensava fino al secondo trimestre del 2017.