
TORNA IL CLIMA DI FIDUCIA NEI MERCATI, MALGRATO GLI ESITI TURBOLENTI DEL G7

Never give up!
DI VIRGINIA MURRU
DI VIRGINIA MURRU
Inutile cercare eufemismi, l’Italia sta vivendo uno dei momenti più drammatici, purtroppo non solo nel versante politico, ma anche in quello economico-finanziario (semmai queste variabili interdipendenti potessero essere considerate in modo disgiunto..). Momenti in cui anche le parole diventano cristalli da maneggiare con cura, perché possono essere recepite e interpretate nella loro pura accezione letterale.
I mercati finanziari sono diventati bersagli sensibili, più che mai. Certo era evidente per tutti che i risultati delle urne, in Italia, avrebbero portato sconvolgimenti negli assetti politici, e ribaltato gli equilibri in Parlamento, ma francamente era difficile presentire un tale dissesto.
Non era previsto questo sconquasso generale, e le ripercussioni così pesanti sul piano finanziario, con Piazza Affari che sembra essere diventata un faro che trasmette segnali di allarme in tutto il pianeta.
Che l’Italia, da seconda economia industriale europea, esercitasse il suo peso in ambito Ue, e l’Eurozona in particolare, era evidente, ma che rischiasse di essere pure determinante per la solidità dell’Euro, era una concezione lontana, o meglio: non era in discussione.
Dalla settimana scorsa lo spread sembra l’ago di una bussola impazzita, nei mercati si avverte tensione al limite del panico, e così si susseguono le sedute, una dopo l’altra. con avvio e chiusura in negativo.
Oggi l’indice Ftse Mib è ancora in perdita: -1,8%, a 21.535 punti. Nel mirino di questa crisi politica, che tutto sta travolgendo sotto il suo passaggio, i maggiori istituto di credito italiani, che con fatica stavano riacquistando credibilità sul piano internazionale.
Nei giorni scorsi ci sono state perdite consistenti registrate da Unicredit, Bpm, Mps. Anche Poste è stata interessata dal cliclone, ma ovviamente il repertorio è ben più ampio. Oggi l’avvio a Piazza Affari non promette di meglio, le banche in primo piano, le più bersagliate nel sistema.
Solo ieri a Milano il Ftse All Share (indice di tutti i titoli del listino), ha lasciato sul campo l’1,88%, mandando così al rogo 12 mld di euro. Ora il saldo della capitalizzazione, bruciato in una decina di sedute, va oltre i 62 miliardi di euro. Sempre ieri sera lo spread ha chiuso in forte ascesa: a 233 punti base.
Sul settore bancario sta imperversando il sell-off, effetto di un certo panico diffuso nei mercati, causato dall’ascesa turbolenta dei rendimenti sul Btp, mettendo in risalto la relativa solidità di un comparto che ancora stenta a riprendere quota. E così l’osservatorio internazionale punta la lente da vicino agli istituti di credito italiani. Ieri, intanto, l’indice Ftse All-Share Banks, ha chiuso in forte perdita: -3,67%, e tanti titoli che a causa del sell-off percorrono la via della volatilità.
La causa principale di questa ‘aggressione’ all’indice del comparto bancario è, neanche a dirlo, lo spread; le conseguenze, se l’andamento negativo dovesse persistere, è di un’inversione del trend principale, (rispetto ai mesi precedenti).
La coalizione Lega-5Stelle non è andata avanti con la formazione del nuovo governo, e dunque la mancanza di stabilità pesa come il piombo sull’attendibilità di una nazione solida sul piano politico ed economico. Tanto basta ai mercati per scatenare reazioni a catena, che col passare dei giorni diventano sempre più insidiose per la precarietà dei conti pubblici del Paese.
Ancora incertezza in prospettiva, dunque, e gli effetti, come un boomerang, stanno intaccando l’euro, che è diventato nelle ultime settimane vulnerabile, non solo nei confronti del dollaro. Il monito del presidente della Confindustria, Vincenzo Boccia, non è da sottovalutare: “L’Italia senza l’euro? Sarebbe davvero la fine, non si può nemmeno scherzare su certe cose.”
Intanto, se non ci saranno le premesse per una solidità politica degna di questo nome, sarà come costruire alle pendici di un vulcano in eruzione, tutt’altro che in stato di quiescenza. Gli effetti della crisi politica sono stati amplificati sul piano finanziario, perché il Paese aveva solo negli ultimi anni intrapreso la strada delle riforme strutturali e del controllo dei conti pubblici. E proprio su queste fondamenta ancora ‘fresche’, non propriamente solide, si è scatenata una tempesta praticamente senza precedenti a livello politico.
Piazza Affari ha influenzato i mercati europei, ma, come si è accennato, anche il resto del pianeta. Proprio oggi è evidente che il ‘contagio’ è giunto anche sulle borse asiatiche, che danno una lettura forse distorta delle nuove elezioni che si svolgeranno quasi sicuramente entro l’anno in Italia. Il rimando è alla possibilità che l’esito sia un test sulla permanenza o meno in area euro.
Una crisi al di là di ogni valutazione o previsione, nessuno immaginava che diventasse simile ad un sasso scagliato in una superficie d’acqua più o meno immobile, e che le sue onde concentriche finissero per arrivare anche nei punti più lontani del pianeta.
L’auspicio ovviamente, per tutti, è che questo clima di emergenza finisca, se continuasse sarebbe davvero arduo delimitarne i confini. Già qualche flessione nella produttività sul piano globale si avvertiva, ora potrebbe innescare effetti imprevedibili.
Forse non sarebbe poi così improprio il rimando ai mutui subprime, i quali sembravano una mina vagante e sommersa, che in breve tempo avrebbe esaurito il suo potenziale esplosivo, e invece, prima che ciò sia avvenuto, si sono bruciate immense risorse, non solo negli Usa, e poi inevitabilmente in Europa, ma anche oltre.
DI VIRGINIA MURRU
Lo spread Btp-Bund continua a salire (ieri è arrivato a 216 punti base), ultimo rilevamento delle 8:00 di oggi è di 206,7 pb), ossia un differenziale di rendimento ai massimi da quattro anni a questa parte. L’eziologia di questa febbre è evidente: l’incertezza di un quadro politico che i mercati interpretano con preoccupazione. Resta il fatto che in una decina di giorni Piazza Affari ha visto andare in fumo oltre 51 miliardi. Madrid non ha saputo fare di meglio, ma il Pil in Spagna viaggia a +3%, ossia al di là della media europea (2,4%), e marcia in positivo con +3% da tre anni consecutivi. Tutta un’altra storia.
La Borsa di Milano ha rilevato ieri perdite pesantissime tra i maggiori istituti di credito (oggi a inizio seduta Piazza Affari è in negativo): Bpm è andata a -7,3%, Mediobanca -4%, Unicredit -3%, Intesa Sanpaolo -4%; insomma i maggiori istituti hanno subito le pressioni negative provenienti dalle incertezze dell’orizzonte politico. Vanno giù anche Eni e Saipem, che hanno risentito del calo di prezzo del petrolio.
Un baratro che si è aperto in poche settimane, dato che lo scorso 7 maggio, il Ftse Mib a Piazza Affari aveva chiuso la seduta con un massimo storico, risultati che non si vedevano dal 2008.
L’insofferenza di Matteo Salvini verso i richiami provenienti da Bruxelles, è una spia che lampeggia verso l’euroscetticismo, e un programma politico che certamente sarà espressione dell’ostilità nei confronti delle autorità dell’Unione europea.
In un momento così delicato per l’Italia, mentre l’economia negli ultimi anni ha cercato di risollevarsi da una congiuntura pesante e molto critica, allontanarsi dall’Europa non sembra indice di buon senso e di prudenza. In un momento in cui l’Italia stava imboccando la strada non semplice del controllo del debito, che da circa un anno ha cominciato a contrarsi, pensare ad un cambiamento di rotta, e avviarsi verso un itinerario politico ed economico, con un programma tempestato d’incognite, non sembra la chiave giusta per traghettare il Paese in una sponda che offra davvero la garanzia di una svolta sicura.
Certo, lo spread a 215 punti base rievoca lo spettro dell’incubo che l’Italia ha vissuto nel 2011, quando si superarono i 500 pb, e si scivolava inesorabilmente verso la recessione, mentre Fitch prendeva atto di quella bussola che sembrava impazzita, e tagliava il rating a 8 banche.
Momenti che dovrebbero fare riflettere, ma seriamente. La fiducia, in particolare all’estero, non è alle stelle. Il nuovo esecutivo presenta punti di programma (Flat tax sul piano fiscale, che rischia di danneggiare e non poco gli istituti finanziari, ma non solo..), che potrebbero destabilizzare i conti pubblici, già in sofferenza. “Bastano pochi mesi per smarrire le redini” – avverte l’attuale premier Gentiloni.
Ma è un coro unanime la sfiducia che circola negli ambienti finanziari, tra i pareri degli economisti ed analisti di tutto il mondo: questo è un governo che rischia di portare l’Italia allo sbaraglio.
Lo spread (termine inglese che significa differenza), torna ad agitare gli animi, ma perché si ha tanta paura del differenziale di rendimento tra i titoli italiani Btp (Buoni del Tesoro poliennali, che poi sono certificati di debito emesso dallo Stato, obbligazioni) e gli omologhi, ossia i Bund tedeschi?
La differenza consiste nell’indice di rischio che il titolo comporta per l’investitore che compra Btp e quello che acquista i Bund. Se lo spread aumenta, significa che nei confronti del Bund, il Btp esprime un rischio maggiore, e di conseguenza ‘prestare denaro allo Stato italiano’, è più pericoloso, perché lo stato dell’economia riflette incertezze di fondo, e potrebbe non garantire la restituzione del debito.
Lo spread ci dice, con i suoi punti base, quanto è più rischioso il Btp nei confronti del Bund, di per sé solido come una roccia, e per questo per il mercato è il più indicativo quanto a stabilità di valore.
Più aumenta lo spread, e più l’economia – in questo caso quella italiana – è vista dai mercati come un’incognita della quale diffidare, e come ovvia conseguenza anche acquistare Btp diventa un mezzo salto nel buio. Il contrario avviene quando il differenziale si riduce: è segno che ci si può fidare delle garanzie dello Stato, l’economia e i dati macro sono incoraggianti, e quindi acquistare Btp allenta il rischio per gli investitori.
Il metodo di calcolo del differenziale non è difficile, sostengono gli esperti: si tiene conto di un Btp con scadenza a 10 anni, e si arriva al calcolo del rendimento alla scadenza del titolo. Poi si confronta, seguendo la stessa procedura, con il Bund tedesco, sempre decennale. Sono i valori espressi dai due titoli che metteranno in evidenza la differenza di rendimento, e qui scatteranno anche i cosiddetti “punti base”.
Uno spread a 215 punti base, significa che il Btp italiano rende intorno al 2,15% in più rispetto al titolo di Stato tedesco. Può certo essere una buona notizia per chi investe, perché aumenta il rendimento, ma non lo è per lo Stato italiano, perché costretto a spendere di più, e perché dal maggiore rendimento si valuta anche il rischio d’insolvenza.
Lo spread pertanto rappresenta le due facce di una medaglia, ed è uno degli indicatori che misurano lo stato di salute di un’economia.
DI VIRGINIA MURRU
La Cina, tramite una nota del Consiglio di Stato (State Council o Governo), comunica che abbasserà i dazi sull’import di veicoli dall’attuale 25% al 15%. Sulla componentistica per auto le tariffe saranno ridotte al 6%.
Il provvedimento scatterà il primo luglio. Non si tratta propriamente di un exploit a sorpresa, poiché, il Presidente Xi Jinping, lo aveva già annunciato lo scorso aprile (al Boao Forum for Asia), con un cenno significativo in merito: “i dazi sull’import di auto saranno notevolmente ridotti”. Una mossa strategica, che certamente ridurrà la fibrillazione sui mercati, dovuta al ‘conflitto’ commerciale tra Usa e Cina.
La tariffa del 25%, applicata fino ad ora sulle importazioni, era del resto molto penalizzante per l’industria del settore automobilistico all’estero, fin troppo protettiva nei riguardi del mercato interno. Certamente è un’ottima notizia per le Case automobilistiche europee, giapponesi e americane, dato che il mercato cinese ha un’enorme potenzialità sul piano globale.
La conferma di questa scelta importante del Governo cinese, arriva in un momento in cui c’è necessità di distensione, in particolare nei rapporti commerciali e diplomatici con gli Usa. Sembrerebbe in sintonia con l’arrivo – a breve in Cina – del Segretario al Tesoro, Steven Mnuchin. Ci si aspetta una ridefinizione dei negoziati tra le due super potenze.
Un’anticipazione sul provvedimento viene anche dall’Agenzia Bloomberg, la quale scrive di un “piano di imminente annuncio”, e, proprio nella seconda metà di maggio, mentre si svolgono gli eventi legati al Salone dell’auto di Pechino, si parla del contenimento dell’imposta sull’import di automobili, che potrebbe anche tendere ad una riduzione del 10% (dall’attuale 25%).
Una dimostrazione di ‘opening’ verso il mercato, tariffe che non possono essere lette tuttavia come semplici concessioni (all’Occidente in particolare), ma come uno stimolo alle vendite e all’offerta diretto alle Case automobilistiche. I marchi di lusso in particolare saranno avvantaggiati dalle nuove misure di Pechino, in quanto favorirà la competitività sul mercato globale.
E’ anche una strategia per rendere meno significative le differenze sui prezzi applicati dal mercato interno cinese, attraverso l’incentivazione dei consumi. Il Governo ha considerato l’altro piatto della bilancia, ossia una perdita di quota considerevole nel mercato interno, ma l’intervento è giustificato in termini di stimolo verso una maggiore competitività: le Case automobilistiche cinesi saranno incentivate a migliorare la qualità dei veicoli prodotti, dato che i risultati attuali non sono certo eccellenti, non sicuramente in grado di competere con i migliori marchi esteri.
E’ certo un segnale di apertura, interpretato nel migliore dei modi dall’Unione europea, che ancora attende una risposta circa l’esenzione dei dazi su acciaio e alluminio, richiesta all’Amministrazione Trump; situazione temporaneamente sospesa, anche se negli ambienti di Bruxelles circola un po’ di ottimismo al riguardo. Sarà perché anche sugli Usa incombe l’ombra di una ritorsione commerciale, qualora si dia seguito all’imposizione delle nuove tariffe in ambito Ue.
Decisive per le relazioni commerciali tra i due blocchi, le trattative che avranno luogo nelle prossime settimane.
DI VIRGINIA MURRU
Nonostante il Fmi cerchi di rendere meno amari per l’Italia i dati del “Regional Economic Outlook per l’Europa”, la situazione della nostra economia, anche alla luce delle vicende politiche legate alle ultime consultazioni elettorali, non sono edificanti. La produttività del lavoro è cresciuta solo dell’1%, dal 2002, un dato che fa riflettere, per il Fondo è quasi un monito.
Si avverte uno stato di allerta ovunque, la stampa internazionale sembra in fibrillazione per l’asse politico Movimento 5 Stelle-Lega Nord. Il Financial Times, (editoriale di ieri) parla di questa ‘pariglia’ della politica italiana come dei “nuovi barbari dentro i palazzi romani”. Il clima è già ostile, e questo non è un buon viatico per l’avvio delle attività del nuovo governo. Il quotidiano londinese rincara poi la dose:
“In Italia prende il potere il governo più inesperto che sia mai andato alla guida di una democrazia europea, a partire dalla firma dei Trattati di Roma”.
Se la fiducia sul nuovo governo fosse, per pura ipotesi, passata nelle mani delle maggiori Organizzazioni internazionali, stampa e Ue compresa, difficilmente avrebbe avuto il passaporto per governare.
Nonostante questo clima ostile, il Fmi, per quel che concerne le riduzioni degli Npl in ambito europeo, sostiene che l’Italia, insieme a Spagna e Irlanda risulta tra le più virtuose. Il Fondo riconosce gli sforzi compiuti per alleggerire gli Istituti di credito, tanto che la situazione è ormai nettamente migliorata. Le conseguenze positive si ritrovano sull’aumento del credito bancario al settore privato.
Il Fmi sottolinea tuttavia che, per una parte rilevante del sistema bancario, risulta poco soddisfacente la profittabilità, nonostante la ripresa economica. Alla base vi sono problemi di carattere strutturale, almeno per quelle banche che risultano meno efficienti a livello redditizio, le quali non incoraggiano per questa ragione gli investitori.
Nell’Outlook, il Fmi, esprime preoccupazione per le incertezze politiche e l’instabilità derivante dai nuovi governi eletti in diversi paesi europei, e non nasconde i rischi che la Brexit ancora rappresenta; il Regno Unito ha sempre avuto un complesso sistema finanziario, con ovvi legami all’economia globale. Uscire dal mercato unico potrebbe innescare meccanismi al momento difficilmente prevedibili. Ora, secondo gli studi del Fondo, se ne percepiscono comunque i rischi. E ancora riferimenti si leggono sul pericolo derivante dal protezionismo e la politica sui dazi dell’Amministrazione Trump.
Nel rendiconto ci sono poi i consueti riferimenti alla crescita economica della zona euro, al riguardo si confermano le stime del World Economic Outlook diffuso nel mese di aprile a Washington.
Si accenna appena al fatto che gli indicatori stanno segnalando qualche lieve rallentamento nell’area, nonostante questo non si intravedono pericoli seri, e il grado di crescita “resta solido”. Le previsioni sulla crescita, per l’anno in corso (area euro), vanno al 2,6%, mentre nel 2019 ci sarà una flessione, e la crescita si attesterà sul 2,2%. Il remark che dovrebbe tranquillizzare viene tuttavia dal trend di crescita positiva rilevato negli ultimi 19 trimestri, supportato da un’espansione economica diffusa , e un aumento degli indici di occupazione, investimenti e consumi, nonché ricchezza delle famiglie, in molti casi andati oltre i target.
E si arriva poi all’analisi più critica per i paesi che ancora oggi presentano un alto grado d’indebitamento, sempre in area euro. Nonostante il supporto del Qe, verso il quale il Presidente Mario Draghi è sempre prudente, i paesi che presentano criticità nei conti pubblici – qualora la politica monetaria diventasse meno accomodante – potrebbero affrontare d’ora in avanti costi di finanziamento più elevati. Tutto questo davanti ad un bilancio per il quale poco è stato fatto, così come in termini di riforme strutturali.
Nel “Regional Economic Outlook per l’Europa”, il Fmi conferma le previsioni già espresse per l’Italia: il Pil si confermerà all’1,5% nel corrente anno, ma subirà una riduzione nel 2019: ossia l’1,1%.
Sul piano europeo, il Fondo auspica che la politica monetaria della Bce non subisca variazioni che possano avere conseguenze nel trend di crescita dell’Eurozona, nonché sull’inflazione, uno dei principali problemi dell’Eurotower.
Nelle sue previsioni, il Fmi, elogia Cipro, risollevatasi dalla grave crisi e recessione del 2013, che ebbe come conseguenza “l’incursione” nel sistema bancario del bail-in, applicato in modo ‘forzato’, oggi viaggia sul versante economico a vele spiegate.
La ripresa dell’isola è stata rapida, tra le migliori dell’area euro, nel volgere di pochi anni. Ormai si accingono a superare l’Italia in termini di crescita, sono considerati più ricchi, secondo gli studi del Fondo, dato che nella tabella relativa al Pil pro capite, i ciprioti (nel 2020) supereranno gli italiani. E non si tratta di una partita di calcio, dove una squadra blasonata subisce una sonora sconfitta da una formazione di periferia. Ma del resto ci aveva già superato anche Malta pochi anni or sono.
Una batosta in più o in meno.. Ma il problema è che siamo già stati surclassati dalla Spagna, e non basta ancora. Secondo l’Outlook, e le previsioni per il prossimo quinquennio del Fondo, nel 2022 passeranno davanti all’Italia, ossia alla seconda potenza industriale europea (sempre in termini di reddito pro capite), Lituania, Repubblica Slovacca e Repubblica Ceca.
DI VIRGINIA MURRU
DI VIRGINIA MURRU
Il Consiglio Direttivo della BCE, nell’ultima riunione del 26 aprile, non ha deciso interventi di rilievo rispetto al mese scorso, tuttavia, l’analisi dei dati macroeconomici ha evidenziato una fase di rallentamento nell’attività economica e dunque nella crescita, nonostante, in generale, l’economia dell’Eurozona rifletta una rassicurante “tenuta”. Lo afferma poi anche Draghi nella conferenza stampa: “crescita più moderata”.
E aggiunge:
“Necessari ancora stimoli, l’inflazione, la grande assente del sistema (con il mancato raggiungimento del target 2%), non consente al momento cambiamenti rilevanti nella politica monetaria. Il protezionismo è una seria minaccia per la crescita dell’economia in area euro.”
Una stasi dunque, dopo diversi trimestri all’insegna dello sviluppo e della crescita, andati oltre le stime.
In questo quadro che proietta nuovi scenari, emerge il calo rilevato negli indici di fiducia, la contrazione dei dati concernenti il settore manifatturiero, il balzo dei prezzi degli energetici. Segnali che prospettano altre direttive, ma i vertici della BCE hanno scelto di attendere nuovi sviluppi prima d’intraprendere iniziative e interventi relativi alla ‘virata’ rilevata nei dati macro riguardanti l’Eurozona.
L’impressione di esperti e analisti, che hanno seguito con attenzione i comunicati e la conferenza stampa del Presidente Mario Draghi, è che la BCE non intende apportare revisioni al costo del denaro, e pertanto resteranno fermi i tassi d’interesse sui movimenti di rifinanziamento principali, su quelli marginali e sui depositi, la cui stabilità si conferma rispettivamente sullo 0,00%, lo 0,25% e -0,40%.
Non verrà modificata la politica monetaria, e l’acquisto di asset andrà avanti al ritmo già annunciato da mesi, ossia di 30 mld al mese fino al prossimo settembre. “Ma anche oltre, qualora necessario” – ha aggiunto Mario Draghi – il Board procederà al reinvestimento del capitale dei bond giunti a scadenza per un periodo lungo dopo la fine degli acquisti netti”.
Si attenderanno pertanto le proiezioni economiche del mese di giugno, prima di operare scelte sulle misure relative al Qe.
DI VIRGINIA MURRU
L’Antitrust europea ha aperto un’indagine sul prestito di 900 milioni, concesso dallo Stato ad Alitalia nel 2017
Che fossimo perennemente nell’occhio del ciclone (Ue) non è una novità, di tanto in tanto, qualora vi fossero dubbi, arrivano le conferme: questa volta nel mirino c’è Alitalia, e il “prestito ponte” concesso dallo Stato lo scorso anno.
L’indagine è stata avviata e la Commissione europea intende vederci chiaro sui tempi relativi alla concessione del prestito, e le condizioni riservate all’ex compagnia di bandiera italiana.
Così si è espressa in merito la Commissaria alla Concorrenza Margrethe Vestager:
“La Commissione europea deve vigilare e garantire che i prestiti concessi dagli Stati membri rispettino le norme vigenti dell’Ue in termini di aiuti di Stato”. E’ nostro compito verificare che il prestito concesso ad Alitalia rientri nel rispetto delle norme approvate dall’Unione.”
Nel 2017 il governo italiano, considerata l’emergenza finanziaria che Alitalia stava affrontando, risolse d’intervenire con il cosiddetto “prestito ponte” di 900 mln, dei quali peraltro, la compagnia, secondo i rilievi dell’Amministrazione straordinaria, ne ha utilizzato solo una parte. In ogni caso, non hanno torto coloro che sostengono che l’Ue usi nei confronti dell’Italia una spessa lente d’ingrandimento, mentre paesi come la Germania e altre solide economie europee, abbiano trasgredito in modo ben più pesante.
Deutsche Bank e Commerzbank (tanto per fare qualche esempio), pilastri della finanza ed economia tedesca, che hanno rischiato il default (ma ritenute ‘too big to fail’, con un bilancio simile al Pil italiano..), hanno usufruito di aiuti di Stato consistenti, che hanno suscitato a suo tempo non poche polemiche.
Certamente,l’articolo 107 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFEU), è stato violato più di una volta.
Nella struttura solida dell’economia tedesca, ci sono controsensi piuttosto singolari, visto che il sistema bancario si è rivelato uno dei più fragili, sorretto dal lungo braccio dello Stato, soprattutto nel corso dell’ultima crisi economica che ha interessato l’Europa. Lo Stato ha contribuito con somme consistenti per il salvataggio di grandi istituti di credito, ‘elargendo’ più o meno 200 miliardi di euro, rilevando titoli tossici, permettendo aumenti di capitali e intervenendo nei Land anche in settori diversi (comparti industriali) da quello bancario.
Non si tratta di importi approssimati, sono resoconti della Commissione europea, ed equivale al 7% del Pil della Germania.
Ma lo Stato, in Germania, con la sua mano provvidenziale, è andato ben oltre, si arriva a quasi 500 mld di euro, se si aggiungono garanzie statali, offerta di liquidità: ossia il 17% della ricchezza prodotta dalla nazione. Un sistema creditizio, insomma, che senza la protezione dello Stato, avrebbe certamente messo in crisi il sistema, e fatto crollare tante certezze. Sono fatti, non pressappochismi, perché avvicinando l’osservatorio un po’ di più, si conclude che un terzo del sistema creditizio tedesco è al riparo, grazie al paravento dei mezzi pubblici. E si sottraggono anche i conti reali alla vigilanza della BCE.
E allora perché sempre tanto rumore per le ‘trasgressioni’ in Italia, che ha fatto ricorso ai fondi Ue molto meno rispetto ad altri paesi membri? Due pesi e due misure? L’impressione è questa, ma tant’è: quando si punta il dito su presunte o reali violazioni della normativa europea, ci si può solo difendere.
Se poi si pensa che la Commissione si è decisa ad agire, perché concorrenti di Alitalia, hanno esercitato non poche pressioni (non si tratta propriamente di ‘cecchini’, si sarebbero mosse in merito Ryanair e Lufthansa), si comprende che lo sdegno non è puro vittimismo. Il fine, per chi conosce trama e ordito delle vicende Alitalia, sarebbe proprio quello di condizionare le strategie dell’Amministrazione straordinaria, e indurre ad accelerare la vendita della Compagnia, o meglio la ‘svendita’.
Tutto questo, nonostante le dichiarazioni del CUB- Trasporti (il 4 aprile scorso), il quale ha confermato che il trasporto aereo risulta in crescita, e l’ex Compagnia di bandiera, nonostante le difficoltà, ha costi bassi di gestione, forse i più bassi rispetto alla concorrenza. Sempre in rapporto alle regine europee del trasporto aereo, avrebbe anche una produttività superiore, per esempio a quella Lufthansa.
Questo, in teoria, dovrebbe escludere l’ascia dei tagli del personale. Ma purtroppo le logiche e le dinamiche di queste scelte, sono altre.
Proprio ora che iniziano i mesi in cui più intenso è il traffico aereo, e mentre nulla si sa di preciso sul nuovo Piano industriale della compagnia, la scure cade impietosa sul versante occupazionale, e si conferma pertanto la decisione di tagliare quasi 1500 posti di lavoro. Ossia quello che chiede Lufthansa per il risanamento della compagnia, e per portare a buon fine la sua offerta.
I licenziamenti saranno resi meno drammatici dall’assegno di ricollocazione per i dipendenti a ‘0’ ore.
Lo chiamano già ‘l’accordo infame’, quello che ieri le tre maggiori confederazioni sindacali hanno sottoscritto al Mise, guarda caso proprio ieri l’indagine Ue è stata ufficialmente avviata, mentre dietro le quinte gli avvoltoi attendono di avventarsi su un ‘boccone’ ancora ritenuto eccellente nel mercato del trasporto aereo.
Ci si insinua in una fase delicata della politica italiana, alle prese con tentativi (sempre falliti) di accordi politici validi e altri improbabili, per esercitare maggiore pressione sulla vicenda Alitalia, spingere e accelerarne la vendita, certamente non nell’interesse della Compagnia italiana.
Le polemiche sui tagli hanno un loro logico fondamento: perché ridurre i dipendenti se la compagnia viaggia con correnti favorevoli in termini di redditività, il traffico merci e passeggeri è in continua crescita, già si annuncia una stagione estiva record e un trend in continuo progresso?
Queste sono le perplessità sulle decisioni prese dal ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, e dalle parti sociali.
Da Calenda che ha risolto negli ultimi mesi situazioni roventi di aziende minacciate di chiusura, mentre la questione Alitalia si è affrontata in modo apparentemente paradossale. Un anno fa, i lavoratori, tramite referendum, si opposero al Piano di ristrutturazione, i soci non la sostennero più con ulteriori mezzi, e così si aprì la strada dell’Amministrazione straordinaria di Gubitosi e gli altri Commissari. Commissari che hanno poi avviato una procedura d’offerta, con vicissitudini sempre incerte, e tutt’ora ancora nulla è stato deciso sul possibile acquirente.
Basterebbe analizzare i numeri, anche sulle rotte a lungo raggio, per concludere che nei prossimi mesi il traffico aereo è proiettato verso un chiaro aumento del numero di passeggeri.
Vi sono enigmi sulle scelte di questi licenziamenti certamente non chiare, alla luce dei fatti, gli interrogativi sono tanti e c’è chi auspica, per una tutela più certa, la nazionalizzazione. Il 30 aprile scadrà l’intervento della Cassa Integrazione Straordinaria, della quale ha beneficiato la Compagnia, che ad oggi è ancora controllata per il 51% dalla Compagnia Aerea Italiana (CAI), e per il restante 49% da Etihad.
Intanto, nei giorni scorsi, la Compagnia e i sindacati hanno firmato un verbale nel quale si prevede il rinnovo della Cassa integrazione straordinaria, per ulteriori 6 mesi, ossia fino alla fine di ottobre.
Il prestito concesso dal governo ad Alitalia, è stato notificato a Bruxelles all’inizio del corrente anno, e giustificato come “aiuto di salvataggio”, anche se fin da subito, in ambito europeo, vi sono stati dissensi simili a tiri al bersaglio. Si è sostenuto che il prestito viola le norme europee sulla disciplina che riguarda gli ‘aiuti di Stato’.
La Commissione europea contesta in particolare i tempi di durata del prestito e la sua entità, stabiliti dal maggio 2017 fino al dicembre del corrente anno, e dunque, in linea di principio, si sarebbe violata la norma Ue che fissa con un massimo di 6 mesi la durata del prestito a garanzia del salvataggio.
Sarà pertanto la Commissione ad ‘arbitrare’ la questione, c’è solo da sperare che l’Italia riesca a dimostrare di non avere violato le norme europee, non più di altri Stati membri che, al riguardo, hanno un “dietro le quinte” non propriamente ortodosso.
DI VIRGINIA MURRU
I Commissari Straordinari di Alitalia si accingono ad esaminare le 3 offerte recapitate presso lo studio notarile Atlante Cerasi di Roma; nel mettere al vaglio le proposte di acquisto, Alitalia sta per scrivere l’ennesimo capitolo nella storia infinita di una crisi che dura ormai da decenni.
All’esame dei Commissari l’offerta di Lufthansa, la più prestigiosa ma anche quella più problematica, viste le condizioni che fin dall’inizio ha posto per l’acquisizione dell’ex compagnia di bandiera italiana. Interessata all’acquisto dell’aviolinea in amministrazione straordinaria, c’è anche la compagnia low cost EasyJet, in alleanza col Fondo americano Cerberus e Delta. Vi sarebbe poi una terza offerta proveniente da una compagnia ungherese, Wizzair, interessata comunque a rotte di breve e medio raggio. Si è anche parlato di un’offerta tutta italiana, che avrebbe la garanzia finanziaria della Cassa Depositi e Prestiti, ma nulla vi è di certo al riguardo.
Oggi si incontreranno i ministri competenti, per un’analisi delle tre offerte arrivate nello studio notarile romano. Ieri alle 18 scadevano i termini per la presentazione di un’offerta vincolante.
La compagnia EasyJet è stata quella più esplicita riguardo agli intenti contenuti nell’offerta, dichiarando di avere presentato un’altra manifestazione d’interesse, ma in quanto componente di un consorzio, del quale pare faccia parte anche Air France-Klm; tuttavia non vi sono ulteriori dichiarazioni in merito, ogni offerta è coperta dal riserbo.
Lufthansa, intanto, conferma l’orientamento del suo interesse verso la compagnia italiana, ossia la proposta di una “New Alitalia Airlines” ristrutturata, con l’attuale assetto il colosso tedesco volterebbe le spalle ad una possibile intesa. Con le premesse di una ristrutturazione, Lufthansa, potrebbe aprire un tavolo di trattativa, del resto il mercato italiano è sempre stato allettante per i tedeschi.
Nulla di definitivo comunque, l’orizzonte della vendita è ancora piuttosto nebuloso, e la prospettiva di un rinvio sembra l’ipotesi più probabile, la strada più percorribile. Il 30 aprile è il termine entro il quale potrebbe essere emanato, molto verosimilmente, il decreto di proroga. Se non interverranno fatti veramente decisivi, ad oggi sembra l’unica scelta perseguibile.
Qualora si seguisse questa via di cautela, le conseguenze più dirette sarebbero il ricorso agli ammortizzatori sociali, e pertanto, dopo relativa richiesta trasmessa dalla compagnia, dovrebbe estendersi la Cigs (Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria) per altri 6 mesi, ossia fino alla fine di ottobre, per circa 1.700 dipendenti, dei quali 90 sono comandanti, 1230 addetti e 360 fly assistants.
L’ex compagnia di bandiera italiana ha compiuto 70 anni, ed è difficile preconizzarne il futuro, alla luce della crisi di oggi. Potenzialmente è un brand che rappresenta il prestigioso stile italiano, in grado di tornare competitiva, di sapersi distinguere e andare avanti con autorevolezza sul mercato globale – diventato poco meno di una giungla – se guidata da un’amministrazione lungimirante e competente.
Purtroppo i guai per Alitalia sono cominciati già nei primi anni ’90, da allora è stato un procedere in caduta libera per quel che riguarda l’accumulo di perdite e rosso in bilancio. Secondo uno studio di Mediobanca, si stima che a partire dal 1974 fino al 2014, l’ex compagnia di bandiera abbia bruciato soldi pubblici per un importo pari a 7,4 mld di euro. Risorse perse nel nulla, in tentativi falliti di ripresa.
Nel 2008 la compagnia risvegliava l’orgoglio nazionale, e diventava l’emblema del “made in Italy” da difendere a tutti i costi, soprattutto dalle mire della compagnia d’oltralpe, Air France. Suonava come un’umiliazione, e Berlusconi ne fece un tema della sua campagna elettorale.
In seguito, il sodalizio con Abu Dhabi e la compagnia Etihad, non ha rappresentato la svolta che tanto si era sperata, nonostante il 49% dell’azionariato e un orizzonte che sembrava luminoso e florido. Fallito anche questo tentativo di riportarla in piedi. Entro quest’anno la sua sorte potrebbe essere decisa dalle scelte delle autorità che stanno cercando di venire a capo delle sue disavventure finanziarie.
La scelta delle “carte giuste” potrebbe farla decollare definitivamente. Per ora il futuro è più che mai incerto.
DI VIRGINIA MURRU
Altro monito della Commissione europea all’Italia: “E’ necessario attenersi ai target di bilancio, e nel contempo ridurre deficit e debito pubblico”.
Un sermone che purtroppo è diventata intercalare fissa nei rapporti tra l’Italia e la Commissione europea, mai convinta, quest’ultima, che i conti pubblici del nostro paese rispettino i parametri. Per questo il vice presidente Dombrovskis, regolarmente, tiene a ricordare che i ‘deragliamenti’ nei conti ci sono ed è necessario rispettare le regole. Pungolate quasi mai condivise, per la verità, dal governo italiano, in particolare dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan.
La Commissione europea insiste sugli interventi strutturali da attuare nel budget, miglioramenti che sono del tenore dello 0,3% del Pil. Le correzioni sui conti pubblici non possono prescindere dalla riduzione del deficit e del debito, il rispetto dei target in materia sono vincolanti.
Secondo la Commissione, infatti, si tratta di passi decisivi e dovuti, diretti a mettere ordine nel bilancio con interventi incisivi, e non approssimazioni.
Bruxelles riconosce i notevoli passi avanti compiuti dal Paese negli ultimi anni in termini di crescita economica, ma esiste la voragine dei conti che deve nostro malgrado confrontarsi con lo standard degli altri paesi, più disciplinati nei confronti dei parametri fissati dal Trattato di Maastricht.
Dombrovskis fa sentire la sua voce tramite un’intervista rilasciata al Tg5, in occasione della sua partecipazione al Workshop Ambrosetti, che si è tenuto come di consueto a Villa d’Este, con una vasta rappresentanza del mondo economico e politico. All’apertura dei lavori della ventinovesima edizione (sessione intitolata “Lo scenario dell’Economia e della Finanza”), Valerio de Molli (managing partner e Amministratore Delegato di ‘The European House-Ambrosetti), ha introdotto il meeting con queste eloquenti parole:
“Crescita e debito: ossimoro o sfida impossibile? Come crescere malgrado la zavorra pesante del debito pubblico”.
Il ‘pulpito’ è tra i più prestigiosi a livello internazionale, “The European House-Ambrosetti” è stata riconfermata, per il 5° anno consecutivo, il primo Think-Tank privato italiano (“nella top 10 europea e tra i primi 100 indipendenti su quasi 7mila censiti sul piano globale). Il riconoscimento viene da un’Autorità internazionale indiscussa, che vigila in questo ambito: The University of Pennsylvania.
Ci si può muovere dunque in termini di crescita, nonostante il debito pubblico sembri inamovibile alla stregua di una montagna, eppure si potrebbero mettere in qualche modo le ruote a questa montagna. Ma in definitiva non è quello che il governo uscente ha fatto per quasi quattro anni?
I nodi restano comunque, e si portano al seguito le poco edificanti richieste di conformità e ‘compliance’ esatte regolarmente dall’Ue, e mai veramente soddisfatte, secondo la Commissione.
Se il governo, com’è probabile, fosse formato dai partiti di destra, è già certa l’insofferenza verso le richieste di Bruxelles, euroscettici quali sono sempre stati. Le relazioni con le autorità dell’Unione potrebbero col tempo risentirne, creando disagi e complicazioni, che davvero non mancano al Paese. Il leader della destra, Matteo Salvini, ha già sbottato al riguardo. Risponde alla maniera di Trump, il rappresentante della Lega Nord: ‘prima viene il benessere degli italiani, poi le regole europee’.
Un governo, quello italiano, ancora tutto da decidere e formare, ancorato a prese di posizione, arretramenti e orgogli, che in questo momento non servono a risolvere le questioni più urgenti. Intanto Gentiloni ha rimandato la pubblicazione del Def, mentre il Presidente Mattarella cerca di rendere più agevole la strada delle intese, così piene di ostacoli che non ne facilitano il transito.
Da Bruxelles. Intanto, fanno sapere che le valutazioni sugli interventi richiesti al governo saranno fatte tra qualche mese. Dichiara Dombrovskis:
“Il governo uscente presenterà il Def basato su uno scenario politico immutato, mentre spetta al nuovo esecutivo avviare un nuovo approccio”.
DI VIRGINIA MURRU
DI VIRGINIA MURRU
Secondo l’indagine condotta dagli analisti di Bankitalia sui bilanci delle famiglie, l’economia italiana in generale è migliorata, sia pure in un ambito di “work in progress”, e infatti le rilevazioni sul reddito medio delle famiglie, nel 2016, danno un riscontro di +3,5% (rispetto alla precedente rilevazione del 2014).
Può essere considerato un buon risultato se si pensa che dal 2006 i dati al riguardo sono stati in calo costante.
Nel contesto di una fase congiunturale di ripresa e consolidamento, seguita a quella recessiva rilevata negli anni più duri della crisi, è un dato incoraggiante, anche se ancora distante dell’11% dai livelli di reddito nel periodo precedente la crisi economica (iniziata nel 2008).
Dall’analisi di Bankitalia, sul reddito medio delle famiglie, risulta comunque che la crescita non ha riguardato tutti. Il quadro è tutt’altro che omogeneo in questo versante: emerge disuguaglianza (prossima ai livelli di fine anni ’90), ossia emerge dai bilanci delle famiglie, che la fascia di individui con reddito equivalente inferiore al 60% di quello mediano, ha raggiunto il picco storico del 23%, nel 2006 era del 19,6% (questa è la soglia che permette l’individuazione del ‘rischio povertà’, in riferimento al 2016, quando il ‘corrispettivo’ in termini di entrate era di 830 euro mensili). In sintesi un italiano su quattro percepisce meno di 830 euro al mese.
Se l’analisi si estende agli immigrati questa condizione precaria va a raggiungere il 55% (era nella precedente indagine al 34%), il dato (calcolata con i metodi che individuano il rischio povertà) è piuttosto critico anche al nord, le cui fasce interessate sono al 15% (erano poco sopra l’8%). Risultano più a rischio dunque gli stranieri, i giovani, chi vive al sud, gli individui poco istruiti, e con loro anche i nuclei familiari dei quali fanno parte. In condizione di svantaggio i nuclei con capofamiglia giovani.
Negli ultimi 10 anni, il grado di disuguaglianza, misurato con il coefficiente di Gini (che misura la diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza di una popolazione), è salito dell’1,5%. A conforto di queste rilevazioni c’è il riscontro che riguarda la quota di famiglie indebitate, il cui indice si è ridotto del 21%. Il valore mediano del rapporto tra l’ammontare dei debiti delle famiglie e il reddito, è calato al 63%, notevole, se si considera che nel 2012 si era registrato un picco pari all’80%.
Gli squilibri prendono in considerazione anche il livello di ricchezza, e secondo i dati sono in calo sia quella media che la mediana. Il focus sul rischio povertà nel 2016 era allarmante: ha riguardato una famiglia su quattro.
Secondo il comunicato di Bankitalia, concernente l’indagine degli analisti, la ricchezza netta media e quella mediana, sono calate rispettivamente del 5% e 9%, a prezzi costanti. Come è stato rilevato al riguardo anche in passato, il calo ha proiettato, quasi per intero, il crollo dei prezzi delle case.
Bankitalia conduce le indagini sui bilanci delle famiglie italiane (IBF), su base campionaria, metodo applicato e in uso a partire dagli anni ’60. Il fine “è quello di raccogliere informazioni sui redditi e i risparmi delle famiglie italiane”. E infatti sulle motivazioni dell’indagine, in uno dei primi rapporti pubblicati dalla Banca d’Italia, si legge:
“L’importanza economica che rivestono le famiglie nel nostro sistema, così come nella maggioranza di quelli ad economia di mercato, appare evidente ove si consideri che esse possiedono direttamente o indirettamente la quasi totalità della ricchezza nazionale, percepiscono quasi tutto il reddito nazionale e da esse provengono, attualmente in Italia, circa i tre quarti della domanda globale interna.
Anche dal punto di vista finanziario il peso delle famiglie è notevole, dando esse origine a una parte sostanziale dei flussi finanziari e possedendo una quota notevole della ricchezza mobiliare”.
Gli analisti hanno poi portato avanti una serie di ricerche campionarie sul reddito, il risparmio e il consumo delle famiglie italiane, al fine di stimare queste grandezze e di acquisire le conoscenze necessarie all’elaborazione dei dati.
Col tempo è aumentato l’oggetto della rilevazione, esteso per esempio al livello di ricchezza, e aspetti legati ai comportamenti economici e finanziari delle famiglie (come l’utilizzo dei mezzi di pagamento). La ricerca ha seguito un’evoluzione in questo ambito, e in sintonia con lo svolgimento delle competenze istituzionali (della Banca d’Italia), si sono portate avanti ulteriori raccolte di dati, seguite da produzione e pubblicazione d’informazione statistiche.
DI VIRGINIA MURRU
A Bruxelles si stanno per affrontare alcune tematiche importanti in questa fase di transizione politica per l’Italia, in primis si discuterà di Unione Bancaria, ma non meno rilevante sarà la questione del bilancio comunitario, relativo al 2021/2027.
La partecipazione al vertice europeo del 22/23 marzo, sarà l’ultimo impegno in ambito Ue del premier uscente Paolo Gentiloni, e tuttavia, in questo passaggio di consegne politiche delicato, i paesi membri potrebbero attendere l’insediamento del nuovo governo per affrontare materie così delicate come l’Unione bancaria.
Non sembra auspicabile che si possano prendere risoluzioni senza la partecipazione attiva dei nuovi rappresentanti italiani. Lo ha precisato anche il ministro dell’Economia Padoan, in un’intervista dei giorni scorsi sui lavori in corso a Bruxelles.
Già nel dicembre 2017, il presidente della BCE esortava a procedere sulla via dell’Unione Bancaria, ora le condizioni sussistono, perché, spiega, “emerge una riduzione dei rischi ritenuta sufficiente ad aprire la prima fase dell’intesa comune relativa all’assicurazione sui depositi (Edis)”. Mario Draghi lo ha riferito all’Eurogruppo, affinché si prepari una ‘piattaforma’ adeguata per raggiungere l’importante obiettivo.
Non sono dello stesso parere i rappresentanti tedeschi (in particolare il ministro ad interim delle Finanze), i quali ritengono opportuno raggiungere prima risultati più certi sul fronte della riduzione dei rischi. Il ministro, parlando davanti all’Eurogruppo, fa chiaramente riferimento ai paesi che detengono ancora un’alta percentuale di crediti deteriorati o npl, e che pertanto, qualora questi non siano sufficientemente ridotti e resi innocui per il sistema, potrebbero portare ad una nuova crisi bancaria.
Un ‘paper’ pubblicato dall’Università Bocconi, e intitolato “Le criticità dell’Unione Bancaria Europea”, definisce così le ragioni che hanno indotto alla creazione di un’Unione Bancaria:
“L’idea di creare un’Unione Bancaria nasce dalla necessità di ristabilire quella certa unitarietà del sistema bancario, e, più in generale, finanziario, che è stata messa a repentaglio e seriamente danneggiata dalla recente crisi esplosa nel 2007/8”.
Il presidente Draghi ritiene necessario il completamento dell’Unione bancaria in quanto – sostiene – “c’è l’esigenza d’implementare ciò che è stato già approvato in principio al riguardo. L’espansione economica rafforza la convergenza tra Stati, ma per renderla sostenibile bisogna convergere sulle politiche comuni attraverso le riforme strutturali”.
I 28 paesi membri hanno già istituito un Fondo di risoluzione bancaria con l’obiettivo di sostenere le banche che affrontano emergenze finanziarie; nonché un sistema di vigilanza unica, controllata della Bce. Ora mancherebbe l’assicurazione unica dei depositi creditizi, voluta con l’intento di creare una responsabilità in solido tra i paesi membri dell’Ue.
I paesi più solidi economicamente, però, vorrebbero, prima di aderire alla condivisione in solido delle responsabilità, che quelli più fragili, con forte presenza di rischi nei bilanci bancari, provvedessero ad una adeguata riduzione. L’Italia è fra questi, anche se il ministro Padoan, in tante circostanze, anche di recente, ha ribadito il fatto che il sistema bancario italiano è ora più sicuro perché c’è stata una notevole riduzione degli npl.
E tuttavia a gennaio scorso, durante una riunione dei ministri delle Finanze, si è deciso di creare un processo di controllo che permetta di accertare i progressi realmente conseguiti nel sistema bancario dei paesi più interessati, ovvero lo stato di efficienza raggiunto e quel che ancora manca da compiere per avvicinarsi ai parametri comuni in termini di regole sulla gestione dei crediti deteriorati.
DI VIRGINIA MURRU
ù
Giornata di calma nei mercati finanziari, non solo nelle piazze europee, ma anche in quelle asiatiche e a Wall Street. Alcuni dati macro dell’economia americana si stanno consolidando, malgrado il clima di tempesta scatenato dall’imposizione dei dazi voluta dal presidente Donald Trump e da una parte del suo establishment.
L’aumento del tasso di occupazione (diffuso il 9 marzo) ha messo da parte l’ultima riserva dei mercati, incentivando gli indici azionari, ma non insidiando quelli obbligazionari, che avrebbero potuto provocare aumenti non previsti dell’inflazione, e pertanto indurre la Fed ad intervenire.
Gli investitori si sono sentiti più al sicuro dopo la diffusione dei dati relativi all’aumento dell’occupazione a gennaio, che balza in avanti più del previsto, e fa ingranare una marcia più decisa a Wall Street, andamento tutt’altro che ignorato dalle Borse europee e da quelle asiatiche.
Crescita dell’occupazione negli Usa dunque, ma leggera flessione nei salari rispetto a gennaio, del resto anche un loro aumento avrebbe potuto influenzare il tasso d’inflazione, e per conseguenza allertato la Fed.
In base ai dati diffusi dal Dipartimento del Lavoro, il tasso di disoccupazione negli States è rimasto stabile a febbraio (rispetto a gennaio), ossia a 4,1%. Gli analisti attendevano una leggera flessione in positivo dell’indicatore.
In Italia il differenziale di rendimento tra Btp e Bund si è ridotto e ha mantenuto una certa costanza, oggi lo spread è a 137 punti base. Piazza Affari è stata favorevolmente condizionata dalla forward guidance della Bce, la quale, nell’ultima riunione del 9 marzo, ha rassicurato i mercati: nessuna mossa a sorpresa del board. L’euro è stabile, in apertura oggi era sotto 1,23 dollari.
Milano in data odierna ha aperto la seduta in positivo e a metà mattinata viaggia intorno a +0,55%, ma quasi tutte le borse europee proseguono in positivo, a parte il Fitse100 di Londra che presenta una flessione di –0,08%. A Piazza Affari, da rilevare, il balzo in avanti di Poste Italiane in apertura di contrattazioni; si aggiungono le buone performance di Leonardo, a +1,67%; Italgas, a +1,56%.
Gli analisti di Moody’s hanno alzato anche il rating su Eni, e immediato è stato il riflesso sugli investitori, dopo neanche mezz’ora dalle contrattazioni, il titolo va a +0,6%. In seguito all’upgrade di Moody’s Investors Service, il rating (a lungo termine di Eni), passa da Baa1 ad A3, e outlook negativo, ma risulta fino ad ora il più alto rating espresso da Moody’s sulle società italiane quotate.
Hanno favorevolmente condizionato l’Agenzia le aspettative di crescita nella produzione, il miglioramento degli indicatori di debito e l’efficienza gestionale dell’azienda multinazionale italiana. E’ peraltro di questi giorni la notizia che Eni fa il suo ingresso nel mercato degli Emirati Arabi, con una quota offshore; l’accordo per il 10% di Zohr, ad Abu Dhabi è stato siglato dall’Ad Claudio Descalzi e il premier Paolo Gentiloni, con il principe degli Emirati Mohamed bin Zayed Al Nahyan.
Concordata una quota di ingresso del 5% per il giacimento di Lower Zakurm e una del 10% nei giacimenti a olio, condensati e gas, nell’offshore degli Emirati Arabi, indubbiamente uno dei paesi con il più alto indice di ricchezza in termini di idrocarburi.
Buone le performance della Borsa di Tokyo, dove, nelle prime ore del mattino, l’indice Nikkei è balzato a +1,65%, anche gli investitori giapponesi sono stati bene impressionati dai dati sull’occupazione negli Usa.
Nonostante gli scandali interni nel Paese si stiano rivelando ben poco edificanti per ragioni di corruzione e falsificazione di documenti, fatti che hanno travolto il ministro delle Finanze Taro Aso, per il quale si chiedono a gran voce le dimissioni. I mercati non sono rimasti indifferenti, e sulla scia di queste notizie i listini hanno subito poi dei rallentamenti. Lo scandalo, in conseguenza del quale pare ci sia stato anche il suicidio di uno dei personaggi coinvolti, ha creato notevole scalpore in Giappone.
Oggi si riuniranno i ministri delle Finanze dell’Eurogruppo, in agenda le analisi dei conti pubblici della Grecia, che ha ultimato il programma di adeguamento economico richiesto da Bruxelles. Dopo una crisi durata circa 7 anni e il risanamento dei conti pubblici, la Grecia torna ad emettere bond annuali, da domani in asta ci saranno 625 milioni di euro di titoli pubblici.
Il Paese dovrebbe essere oltre la sponda del rischio, anche Moody’s con una revisione, ha alzato il rating, portandolo da Caa2 a B3, con outlook positivo; i bond vanno in rialzo. E così i titoli di Stato di questo paese così travagliato sul versante economico, praticamente in dissesto, ora performano meglio degli altri titoli di Stato europei. La Grecia si appresta a camminare con le proprie gambe.
Le borse cinesi, infine, hanno chiuso in positivo anche in seguito alla svolta proposta dal presidente Xi, il quale si è candidato per un’investitura sul mandato a vita. In aumento le piazze di Shanghai e Shenzhen.
E in conseguenza di quest’aura politica tutta rivolta all’ottimismo, si rafforza anche lo yuan di 118 punti base sul dollaro.
In salita i prezzi del petrolio in Asia, anche qui siamo nell’area d’influenza dei dati sull’occupazione Usa, in aumento sia il Wti che il Brent.
DI VIRGINIA MURRU
Dopo l’ultima riunione del board sembra che non ci siano sostanziali cambiamenti nella politica monetaria, rispetto alle decisioni del Direttivo di gennaio, eppure la forward guidance, ossia le indicazioni e gli ‘input’ ai mercati, è cambiata. Il presidente Draghi, negli ultimi mesi, per esempio, quando si riferisce ai tassi d’interesse, precisa che essi “resteranno invariati”, ma l’espressione “o più bassi”, che ricorreva nel corso delle conferenze stampa, è stata ormai da mesi omessa.
Un segnale della volontà di uscire dal piano di stimoli monetari, del resto già concretizzatosi a gennaio con la riduzione di acquisti di assets, che ora sono esattamente la metà rispetto a dicembre (30 miliardi di euro al mese).
Gli interventi del Consiglio direttivo dell’Eurotower seguono una linea di prudenza, per ovvie ragioni, nonostante la notevole e costante crescita riscontrata nei paesi dell’Eurozona, restano ancora elementi che necessitano di un attento monitoraggio: il tasso d’inflazione è ancora distante dal target, ossia dal 2%.
Il presidente Draghi ha confermato, ieri, la decisione del board di Francoforte di continuare “gli acquisti di assets con il medesimo ritmo dei mesi scorsi, ossia 30 mld di euro al mese fino al prossimo settembre, fino a che non si manifesti un chiaro segno di adeguamento dell’inflazione rispetto al target.”
Confermati anche i tassi d’interesse, mentre la novità riguarda la stima sul Pil dei paesi della zona euro, che passa da 2,3% a 2,4%. Per il 2019, le stime restano all’1,9% e nel 2020 all’1,7%. La crescita, secondo il presidente, potrebbe essere incentivata da fattori locali, ma non è una garanzia, in quanto non si può trascurare il fattore globale, dal quale è possibile che derivino influenze negative.
Mario Draghi anche questa volta non ha mancato di sottolineare l’efficacia e il ruolo di supporto svolto dal Qe, aggiungendo che il sistema ha ancora necessità di mantenere bassi i tassi durante il programma di acquisto di titoli “e anche dopo”, ha aggiunto. Ma ha allo stesso tempo messo l’accento sull’improbabilità di un aumento del volume degli acquisti, qualora la crescita, in termini economici dell’area, dovesse venire meno.
Non è mancata nemmeno l’esortazione all’implementazione delle riforme strutturali, rivolta ai Governi dei 19 paesi facenti parte dell’area euro.
Uno dei giornalisti presenti alla conferenza stampa, ha rivolto a Draghi una domanda sulla situazione post elettorale italiana, e la risposta è stata che il board non ha affrontato questo tema. Tuttavia, per ciò che concerne la sostenibilità fiscale dei paesi ad alto debito, ha rimarcato Draghi, ultimamente i mercati non sembra che abbiano fatto pesare le conseguenze degli esiti elettorali, tanto da compromettere la fiducia. Secondo il presidente, però, a lungo termine, l’instabilità, potrebbe fare venire meno la fiducia.
Le dichiarazioni di Draghi ieri hanno avuto un riflesso positivo nei mercati finanziari, a Piazza Affari il Fitse Mib, indice dei principali titoli, ha corso a ritmi sostenuti guadagnando l’1,17%, a 22.700 punti (dopo un’ora circa dal discorso del presidente della Bce).
Nell’analisi di ieri non potevano mancare riferimenti alla politica protezionistica intrapresa dagli Usa. Ci sono ragioni di prudenza tutt’altro che irrilevanti nelle dichiarazioni del rappresentante della BCE, tutta l’Ue del resto è in qualche modo sotto pressione a causa dell’atteggiamento risoluto di Donald Trump, che intende procedere all’aumento dei dazi su acciaio e alluminio. E non importa se ha il mondo contro, compreso il suo consigliere più fidato, Gary Cohn, che peraltro ha dato le dimissioni. Si stanno creando veramente le premesse per una guerra commerciale globale, le cui conseguenze potrebbero estendersi anche al versante geopolitico.
E Draghi non poteva evitare di soffermarsi sulla questione che sta diventando ormai rovente sul piano internazionale, con qualche considerazione: “Si può maturare qualsiasi convinzione circa il commercio, ma non si possono portare avanti azioni a proprio vantaggio unilateralmente, poiché diventa pericoloso. Quando s’impongono tariffe incongrue ai propri alleati, alla fine c’è da chiedersi, chi sono i miei nemici?”
Già era noto, del resto, che l’Ue non avesse intenzione di subire senza intraprendere contromisure adeguate all’insidia, e infatti è già pronta una ‘ritorsione’ commerciale di 2,8 miliardi di euro.
Oggi la conferma che Trump ha firmato il decreto per rendere ufficiale quel fuoco di fila di dazi che non piacciono proprio a nessuno, e tanto meno ai mercati.
E’ un’offensiva protezionistico-commerciale che destabilizza gli equilibri globali, già di per sé non semplici. L’entità dei dazi è fortemente penalizzante, si tratta del 25% sulle importazioni di acciaio e del 10% su quelle di alluminio.
Alla platea internazionale non occorrono giustificazioni protezionistiche, gli Usa non possono decidere unilateralmente, senza il minimo rispetto delle convenzioni e degli accordi. Pertanto, sostenere che l’establishment degli States agisce per “proteggere la sicurezza nazionale e i lavoratori americani”, non sussiste, non si può dimenticare che ci si confronta in un contesto di globalizzazione, gli effetti di una misura come questa non si fermano nelle frontiere di uno Stato, causano gravi ripercussioni in altri. Sono stati definiti “i dazi della discordia”, e questa è davvero la sostanza del provvedimento.
I mercati, intanto, non hanno proprio gradito, da Wall Street alle piazze europee a quelle asiatiche.
DI VIRGINIA MURRU
Trovato un accordo all’alba di oggi tra Confindustria e Sindacati su un nuovo modello contrattuale e relazioni industriali. Le parti sociali ci lavoravano da oltre un anno. Si legge in un tweet di Cgil Nazionale:
“Trovato in nottata l’accordo tra Cgil, Cisl e Uil e Confindustria in merito ai contenuti e agli indirizzi delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva. Per l’ok definitivo, la parola passa adesso agli organismi delle rispettive organizzazioni”.
Un accordo importante per i rapporti tra imprese e sindacati, l’intesa sarà firmata venerdì 9 marzo dal Presidente della Confindustria, Vincenzo Boccia, e dai Segretari generali delle tre confederazioni sindacali: Annamaria Furlan (Cisl), Susanna Camusso (Cgil) e Carmelo Barbagallo (Uil), previa approvazione degli organismi delle tre organizzazioni.
I firmatari dell’accordo spiegano che il documento conclusivo “rilancia il valore delle relazioni industriali”. Il testo prende avvio dalla conferma dei due livelli di contrattazione, il primo è nazionale, il secondo aziendale-territoriale. Vengono precisati, inoltre, i criteri di calcolo degli aumenti salariali, il Tec e il Tem, ossia, rispettivamente, Trattamento economico complessivo e Trattamento economico minimo.
Tra gli accordi scaturiti da un positivo dialogo tra le parti sociali, la definizione, per la prima volta, “della misurazione della rappresentatività anche per le imprese”.
Si legge in un comunicato stampa congiunto (diffuso stamattina), da Confindustria e sindacati:
“Si è concluso, questa notte, il confronto tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria in merito ai contenuti e agli indirizzi delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva.
Il documento conclusivo rilancia il valore delle relazioni industriali. Il testo è stato condiviso dai tre Segretari generali di Cgil, Cisl, Uil e dal Presidente di Confindustria e sarà sottoposto, nei prossimi giorni, alla valutazione degli organismi delle tre Organizzazioni sindacali.
L’accordo sarà firmato al termine di questa verifica nel pomeriggio del 9 marzo”.
Soddisfatta la Confindustria e i segretari generali delle tre organizzazioni sindacali presenti, secondo la Cisl l’accordo è in sintesi un piano di sviluppo per il sistema-paese.
Si tratta di un nuovo modello di relazioni industriali basate su criteri di stabilità e partecipazione, che si prefigge il fine d’incrementare la produttività, con più salari e una migliore specializzazione del lavoro (formazione).
Emerge da questo dialogo tra le parti sociali un maggiore senso di responsabilità verso il Paese, nonché l’intento di supportare e aiutare l’economia a svincolarsi definitivamente dalla morsa della crisi per continuare a crescere.
Dichiara la segretaria della Cisl, Annamaria Furlan: “La soddisfazione per i risultati raggiunti deriva dal fatto che si danno risposte più chiare ai bisogni delle persone, ma risponde altresì alle esigenze di competitività e qualità del lavoro, dei quali il Paese avverte un grande bisogno.”
Secondo Furlan, gli effetti di questo accordo si riscontreranno nel rafforzamento della contrattazione, aspetto molto importante, che mira a rendere più congrui i salari dei lavoratori e a mettere in definitiva al centro del dibattito pubblico finalmente il lavoro.
Dietro le quinde di questo accordo c’è un anno e mezzo di incontri, di dialogo e confronto tra sindacati e Confindustria, ma in fin dei conti ne è valsa la pena, se la qualità del lavoro e i salari miglioreranno, con punti d’intesa davvero innovativi. Il fine, del resto, secondo gli intendimenti dei sindacati, era quello di “rilanciare la centralita’ della dignita’ del lavoro nel nostro Paese.
Conclude la Segretaria della Cisl, Annamaria Furlan:
“Questa notte abbiamo siglato la sintesi, dopo diche’ ognuno di noi portera’ l’accordo al vaglio dei propri organismi. Ci siamo presi qualche giorno per la firma ufficiale”.
DI VIRGINIA MURRU
DI VIRGINIA MURRU
La tormentata vicenda Embraco sta rendendo rovente il clima elettorale in Italia, già segnato da contrapposizioni e tensioni politiche, normali comunque in periodi come questi.
Prima che Embraco, l’azienda brasiliana del gruppo Whirlpool- che produce compressori per frigoriferi – chiuda i cancelli a Riva di Chieri, dovrà rendere chiare le ragioni che hanno portato il management a decidere la delocalizzazione e il trasferimento della produzione in Slovacchia.
Dietro questa scelta non ci sono motivi di ‘simpatia’, gli interessi guidano sempre rivolgimenti di questo tipo. Il ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda è volato ieri a Bruxelles e ha incontrato la Commissaria alla Concorrenza, Vestager, chiedendo con forza l’intervento delle autorità dell’Unione per sospetti aiuti di Stato (in particolare Fondi strutturali europei) da parte della Slovacchia nella vicenda Embraco.
“La Commissaria a Bruxelles – dichiara il ministro – ha acquisito molto bene gli elementi che hanno portato il governo italiano ad esprimere disappunto verso probabili interventi di Stato nell’Europa dell’Est, al fine di attrarre investimenti in questi paesi, violando, se questo fosse confermato, le norme dell’Ue sulla concorrenza. Mi è stato assicurato che la Commissione al riguardo sarà intransigente”.
E ha aggiunto:
“la Slovacchia, con 5 milioni di abitanti ha il gioco facile, con i Fondi europei poi lo è ancora di più”.
La solidarietà verso il ministro italiano è totale, da parte degli altri Paesi membri e dalle Autorità dell’Unione europea. Non si possono del resto stabilire norme in deroga ai Trattati in modo unilaterale e pensare di farla franca, se si firmano accordi è necessario rispettarli.
Intanto è stato aperto lo scouting, ossia un processo di accertamenti per verificare se effettivamente le ragioni che stanno portando la multinazionale a ‘migrare’ su orizzonti più allettanti, per quel che concerne i costi di produzione, derivano da aiuti di Stato non consentiti dalla normativa Ue. Si tratterebbe in questo caso di scorrettezze inammissibili, concorrenza sleale verso altri paesi dell’Unione.
La multinazionale, intanto, ha ribadito la volontà di andare avanti con i licenziamenti, non intende nemmeno fare ricorso agli ammortizzatori sociali per effettuare interventi di reindustrializzazione. Tra il governo, i dipendenti di Embraco e i vertici aziendali, ormai si è instaurato un braccio di ferro dal quale emerge intransigenza da tutte le parti in causa. Le decisioni della Commissione a Bruxelles sulla vicenda, saranno decisiva per le sorti dello stabilimento di Riva di Chieri.
Secondo il Presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, l’atteggiamento della Slovacchia ‘è inammissibile’.
DI VIRGINIA MURRU
I numeri della crescita dovrebbero suscitare almeno un po’ di ottimismo, anche se l’economia reale si porta ancora dietro le cicatrici della crisi. Ce lo ricorda ogni tanto il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, che l’Italia è il secondo paese industriale in Europa, dovremmo prenderne atto, alla luce delle rilevazioni statistiche, e vedere ogni tanto il bicchiere mezzo pieno.
Da qualche anno a questa parte i resoconti dell’Istituto Nazionale di Statistica sono incoraggianti, emergono da questa giungla di numeri anche gli aspetti positivi della nostra economia. Il dato in rilievo delle ultime rilevazioni riguarda l’export: rispetto al 2016, il 2017 chiude con +7,4% in valore e +3,1% in volume , mentre le importazioni crescono del 9% in valore e del 2,6 (in percentuale) in volume.
In spiccioli significa, per quel che concerne le esportazioni, che i prodotti italiani risultano competitivi nei mercati internazionali, e il “made in Italy” è sempre una garanzia. L’aumento delle importazioni presuppone invece una crescita della domanda interna, dunque della capacità di acquisto delle famiglie, e nel versante produttivo delle imprese.
L’aumento delle esportazioni riguarda sia i paesi dell’Ue (+8,2%), sia i paesi extra Ue (+6,7%). L’avanzo commerciale, sempre secondo i dati Istat, sale a 47,5 miliardi. Al netto dell’energia +81,0 miliardi. Rilevante l’export verso la Cina: +22,2% e Russia +19,3%. Tra i paesi Ue le esportazioni aumentano verso la Spagna, +10,2%, e in misura inferiore verso la Svizzera (+8,7%), la Germania (+6,0%) e la Francia (4,9%).
Tra i prodotti che in particolare hanno contribuito alla crescita dell’export troviamo quelli farmaceutici, chimico-medicinali e botanici, autoveicoli, prodotti chimici e in metallo, alimentari (per l’agroalimentare si tratta di primato storico), bevande e tabacco.
E cresce la produzione industriale, che a dicembre scorso, su base annua (crescita tendenziale) presenta un incremento pari al 4,9%, e si tratta di quasi un anno di crescita costante. Su base mensile, (crescita congiunturale – sempre dicembre come riferimento), aumenta rispetto al mese precedente dell’1,6%, superando in questo ambito le migliori economie europee. Per trovare valori simili si dovrebbe andare a ritroso di almeno 8 anni (al 2010).
Un resoconto dell’economia certamente incoraggiante, anche secondo Mauro Micillo, Responsabile Divisione Corporate e Investment Banking di Intesa Sanpaolo, nonché Amministratore Delegato di Banca IMI, che sostiene:
“ la crescita non è più da ritenere ‘solo’ congiunturale ma anche strutturale”. Un distinguo importante per analisti ed esperti.
Il presidente della Bce, Mario Draghi, ha sempre precisato del resto che la politica monetaria espansiva può favorire la ‘ripresa ciclica’, non quella strutturale, e ha sempre insistito sulla necessità di un solido piano di riforme in questo ambito da parte delle Autorità politiche.
Tornando all’analisi degli ultimi dati Istat, si può notare che sono i beni strumentali e i beni di consumo durevoli a fare meglio, macchinari e comparto delle attrezzature, che crescono del 15,6%. A parte l’elettronica, l’aumento della produzione industriale si rileva un po’ in tutti i settori.
Da evidenziare che l’aumento della produzione nel settore di macchinari è il riflesso più chiaro del risultato derivante dagli investimenti, riconducibili al Piano Calenda su Industry 4.0. In rilievo, in questo ambito, l’impennata nella produzione dei robot, dove importante è stata la domanda interna.
Tutto questo mentre dalle Assisi Generali di Verona, Confindustria lancia un piano di 250 miliardi, risorse reali che potrebbero diventare disponibili col concorso dell’Europa, del settore pubblico e privato. Seguendo questo progetto per il Paese è possibile una crescita del Pil pari al 12% in 5 anni. Il nuovo governo che verrà fuori dalle prossime elezioni politiche dovrà essere dunque, secondo Confindustria, propositivo, in grado di osare e di andare oltre i limiti, solo così si può sbloccare realmente tutta la potenzialità della nostra economia.
Alla fine del meeting è stato chiesto ad alcuni imprenditori convenuti a Verona:
Cosa chiedete al nuovo governo dopo le elezioni? Il primo interpellato ha risposto: “crescita, economia, sviluppo, rispetto dei patti, attenzione verso il sud, che rappresenta ancora, nel terzo millennio, la parte debole del Paese”.
Un altro imprenditore ha proposto “consolidamento degli investimenti per Industria 4.0, importantissimi al fine di creare movimenti positivi nell’ambito della produzione industriale, robotica in particolare, ma anche sistemi digitali e tutto ciò che ruota intorno alle nuove tecnologie.
Diversi imprenditori hanno chiesto attenzione verso il Meridione, attraverso l’agevolazione di iniziative produttive, gli sgravi fiscali sono incentivi incoraggianti, ma secondo il parere di chi ‘vive direttamente sul campo’ sono necessari interventi infrastrutturali veramente consistenti, apertura di nuovi cantieri, coinvolgimenti dei giovani con opportunità di occupazione. Insomma risposte efficaci, non le solite promesse elettorali.
Vincenzo Boccia, presidente della Confindustria, ha riassunto in tre parole la consistenza dei doveri richiesti al prossimo governo: “Lavoro, controllo del debito, crescita”. Questi sono i punti fermi per uno start veramente efficace dell’economia italiana. “ A patto che – ha puntualizzato Boccia – che riforme fondamentali, anche se tanto discusse, come il Jobs Act, non siano spazzate via”.
DI VIRGINIA MURRU
L’Ufficio parlamentare di bilancio fa lampeggiare l’allarme sul rispetto delle regole (in ambito Ue) che potrebbe essere esatto da Bruxelles, com’è avvenuto del resto lo scorso anno, per la finanza pubblica italiana, a rischio di “significativa deviazione”.
L’Upb nel Focus “Situazione e prospettive della finanza pubblica italiana”, allerta il Mef con un messaggio chiaro: la deviazione rispetto alle regole dell’Unione europea potrebbe nuovamente indurre la Commissione a richiedere misure correttive”.
Il ministero di Economia e Finanza non sembra eccessivamente preoccupato dalla possibile incombente richiesta di interventi ‘forzati’ sui conti pubblici I recenti progressi confermati dalle Agenzie di rating, Istat e importanti Organizzazioni internazionali come l’Ocse, fanno ritenere che Bruxelles abbia preso atto degli sforzi compiuti dal Governo italiano, tanto da meritare fiducia.
Nel 2018, se dopo le elezioni si proseguisse sulla via delle riforme, la crescita dell’economia potrebbe andare al di là dei target e delle aspettative, con il Pil in marcia verso un probabile +2%. Traguardo realizzabile, perché, secondo il ministro dell’Eonomia Pier Carlo Padoan, “il sentiero stretto” che si è percorso in termini di rigore, per via del limite delle risorse disponibili e della difficoltà a contenere il debito pubblico, è meno stretto di un anno fa, dato che tanti ostacoli sono stati bypassati, e il deficit è stato costantemente ridotto.”
Potrebbe bastare ai supervisori di Bruxelles? Certo potrebbe bastare l’impegno dimostrato, ma qualora si tenesse conto del fatto che il debito pubblico, in termini di scostamenti, è sempre critico, arriverebbe la solita strigliata, che in ambito internazionale non è una lusinga.
C’è da riflettere sulle previsioni di autunno della Commissione europea, la quale ha sottolineato che nell’anno in corso “la correzione del deficit strutturale non andrebbe oltre un decimo di punto percentuale”, non sufficiente a riportarci sui binari della media europea in termini di deviazione.
L’Ufficio parlamentare di bilancio, nel suo Focus, sostiene altresì che “sarà arduo nei prossimi anni cancellare, anche in parte, le clausole di salvaguardia e basarsi su coperture alternative, poiché è necessario tenere presente la riduzione progressiva dei margini di contenimento di tante voci del bilancio – in seguito alle manovre correttive degli ultimi anni – e degli spazi sempre più ridotti di flessibilità ancora disponibili nelle regole di bilancio.”
E si legge ancora: “il miglioramento dei conti pubblici è legato alle clausole dalle quali ci si aspettano introiti per un importo pari a 12,5 mld nel prossimo anno, e poco più di 19 mld nel 2020.
La disattivazione totale della clausola nel corrente anno, per 15,7 miliardi, è stata finanziata in deficit, consentito dai margini di flessibilità delle regole di bilancio. Vantaggi che non saranno più possibili dato che non ci sono margini idonei alla concessione di ulteriore flessibilità”.
Le ragioni per l’allarme ci sono. Ma si pone l’accento anche sulla spesa pensionistica, che va ben oltre il livello percentuale del Pil, se rapportato ai migliori paesi membri dell’Ue. E tuttavia, per via delle riforme attuate fino ad ora, nel lungo periodo dovrebbe essere più sostenibile. “Anche se – precisa l’Ufficio parlamentare di bilancio (guidata da Giuseppe Pisauro) – difficilmente da questo comparto deriveranno “significativi recuperi di risorse”. La sostenibilità che potrebbe essere messa a rischio da revisioni senza la relativa copertura finanziaria
.
Il sistema previdenziale ha un’incidenza notevole sui conti pubblici, si regge su punti fermi sensibilissimi ad eventuali interventi che non tenessero conto, per esempio, della legge Fornero (monito dell’Upb). I richiami della Commissione europea al riguardo sono stati del resto tanti negli ultimi anni.
Secondo l’Upb, il livello troppo elevato del debito pubblico, continua ad essere l’anello più pesante e problematico della catena in ambito bilancio. La sua incidenza, in rapporto al Pil, è del 132% (nel 2016); messa a confronto con la media dell’Eurozona, che è dell’81,4%, certamente mette in rilievo una differenza notevole. Il debito pubblico è quel macigno che schiaccia e limita, condiziona la consistenza delle riforme strutturali, ma è un’eredità che viene da lontano, e dopo gli anni più ardui della crisi, contenerne la portata non è semplice.
La riduzione costante del deficit e la crescita dell’economia, hanno permesso tuttavia di fermare anche la crescita del debito pubblico, che nel 2015, dopo 7 anni di esorbitante aumento, è stato finalmente bloccato, nonostante le proporzioni siano ancora piuttosto ‘ingombranti’.
Secondo fonti del Mef si può essere più ottimisti, le recenti positive performance della produzione industriale, insieme ai progressi riscontrati in importanti dati macro, fanno ritenere che gli obiettivi di bilancio saranno raggiunti senza eccessive collusioni con le clausole dell’Ue e la relativa sorveglianza sulla finanza pubblica.
DI VIRGINIA MURRU
Nei giorni scorsi il fermento si avvertiva forte intorno al Cda di Ntv-Italo, l’offerta del Fondo Usa GIP‘ (Global Infrastructure Partners) era allettante, ma bisognava alzare il tiro e ‘giocare’ al rialzo, così è finita che Italo-Ntv l’ha spuntata con 1.940 miliardi di euro, che in termini di contropartita equivalgono al 100% del capitale sociale. Gli azionisti di Italo hanno approvato all’unanimità l’offerta, dopo sei ore di Consiglio di Amministrazione.
Il Fondo Gip provvederà anche ai 440 milioni di euro di debito della società italiana. L’alta velocità passa quindi agli americani, che in questo campo non sono dei novellini, dato che gestiscono circa 40 miliardi di dollari, ovvero il 3% del Pil del nostro Paese.
All’accordo pattuito sono stati aggiunti 30 milioni per i dividendi degli attuali azionisti, peraltro deciso con delibera dell’Assemblea, ai quali si sommeranno ancora 10 milioni a titolo di spese per l’interruzione del processo di quotazione, visto che è stata ritirata la domanda per l’ingresso in Borsa.
Il tutto ammonta quindi a circa 2 miliardi e mezzo di euro.
Gli attuali azionisti possono reinvestire fino al 25% dei proventi derivanti dalla vendita, alle medesime condizioni di acquisto di Gip. Nella mattinata di oggi c’è stata la riunione del Cda.
La sottoscrizione del contratto di compravendita dipende dall’approvazione dell’Antitrust, ma una clausola prevede che si dia luogo all’esecuzione entro l’11 febbraio.
Dopo il ritiro della domanda di autorizzazione e ammissione alla quotazioni delle azioni di Italo, inoltrata alla Consob, ci si avvia alla conclusione delle trattative e al transito definitivo della società al Fondo americano. Certo sarebbe stato meglio concludere tutto ‘in famiglia’, come hanno fatto Anas e Ferrovie dello Stato Italiane, ma in epoca di globalizzazione non deve proprio lasciare perplessità.
La società non sarà più italiana, anche se ai passeggeri non importerà gran che del passaggio di mano. Ai dipendenti certamente di più visto che sono in lotta per il rinnovo del contratto.
Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, rassicura:
“Si tratta di un ottimo investimento per il Paese, non ci si può sottrarre all’integrazione tra imprese che ‘viaggiano’ ad alta tecnologia”. Anche per il ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, l’operazione conclusa con il Fondo americano è positiva, “significa che la tecnologia italiana anche nell’ambito dei trasporti sa suscitare interesse all’estero.”
DI VIRGINIA MURRU
La prima nota mensile Istat del 2018 inizia all’insegna della cautela per l’economia italiana:
“In un quadro di forte espansione del commercio mondiale, prosegue l’andamento positivo delle esportazioni Italiane. La produzione del settore manifatturiero registra invece qualche segnale di rallentamento.”
L’Istituto Nazionale di Statistica sottolinea il persistere dell’aumento del potere d’acquisto delle famiglie, ma allo stesso tempo anche la propensione al risparmio, già messa in rilievo negli ultimi comunicati del 2017.
Conclude la nota mensile: “La lieve riduzione dell’indicatore anticipatore, che si mantiene comunque su livelli elevati, delinea uno scenario di minore intensità della crescita economica.”
Si prende atto pertanto del fatto che la crescita rallenta il ritmo, mentre il tasso d’inflazione è stabile. Non si riscontrano flessioni negative, ma è venuto a mancare il regolare ‘sprint’ che ha accompagnato gli ultimi anni. Mentre l’”outlook” dell’Istat si mantiene su livelli di cautela, per quel che concerne i livelli di crescita dell’economia italiana, l’Unione Europea rivede invece al rialzo le stime sul Pil (+1,5%).
Previsioni più ottimistiche rispetto a un anno fa, anche se da Bruxelles non mancano mai di sottolineare che è necessario proseguire sulla strada delle riforme strutturali, poiché proprio da questi interventi è scaturita la crescita riscontrata negli ultimi anni.
Da un’analisi congiunturale delle ‘macro’ aree, emerge in primis il rallentamento del settore manifatturiero, che già alla fine del 2017 aveva presentato qualche segno di arresa, sia pure lieve.
A novembre, infatti, l’indice destagionalizzato della produzione industriale non ha evidenziato variazioni di rilievo. Se si considera la media degli ultimi trimestri 2017, l’ultimo ha rivelato valori in flessione rispetto a quello precedente, -0,2%.
Restano positivi fino a dicembre i dati relativi all’export con i paesi dell’area extra europea, vi sono stati ritmi sostenuti e rilevanti: +8,2% . Per quel che concerne le importazioni il dato è anche migliore +10,8%. Con un saldo complessivo di oltre 39 miliardi di euro. In ripresa in questo scenario anche il settore edilizio, buoni movimenti nell’ambito dei fabbricati residenziali. In diminuzione i prezzi delle abitazioni.
Nell’ultimo trimestre 2017 aumenta, sia pure lievemente, la spesa per consumi delle famiglie, e si conferma la propensione al risparmio, insieme al reddito disponibile, che si presenta con un tasso migliore rispetto al precedente trimestre: +0,7%. Il mercato del lavoro prosegue con la riduzione del tasso di disoccupazione (a dicembre 10,8%), da sottolineare che questi progressi avvengono nell’ambito di una moderazione salariale, lo scorso anno le retribuzioni contrattuali (orarie) sono aumentate dello 0,6% rispetto all’anno precedente.
In questo orizzonte di moderata ripresa, da sottolineare la lieve flessione riguardante la fiducia di consumatori e imprese.
Si distingue invece l’analisi dell’Ocse, che ieri a Parigi ha espresso giudizi lusinghieri:
“Tra i dati delle sette grandi economie, la crescita del reddito reale per individuo è rallentato in modo consistente, in tutti i paesi, tranne che in Italia.”
L’Organismo per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, ha diffuso gli ultimi rilevamenti statistici sulla crescita e il benessere nei paesi facenti parte dell’Organizzazione (che raggruppa i paesi più sviluppati del pianeta ad economia di mercato).
L’Ocse poi conclude: “Il reddito reale per famiglia in Italia (per abitante), è considerevolmente aumentato, in termini percentuali dello 0,8% nel terzo trimestre del 2017, e va a collocarsi più avanti della crescita del Pil reale (sempre per abitante), che è stabile, con +0,4%.
In ambito Ue, sia la Commissione Europea che la BCE, hanno confermato, sulla base dei dati raccolti, la “ripresa ampia e robusta”, che addirittura andrebbe al di là del suo potenziale economico (la previsione per il 2018 in termini di crescita è del 2,3%). Si resta pertanto in un clima di crescita generale, confermato anche dalla tendenza positiva riscontrato nel Pil globale, con stime in rialzo per l’anno in corso, verso un trend prossimo a +4%. Riflesso dell’attività economica globale che prosegue sulla via del consolidamento.
Draghi comunque, a fronte di un clima d’inflazione ancora fragile, ha dichiarato che la politica sui tassi si manterrà su una linea prudenziale stabile, per ampi margini di tempo.
.
DI VIRGINIA MURRU
Andava tutto a gonfie vele in ‘quel’ di Wall Street, ma qualcosa nel sistema globale è andato di traverso, e così la norma si ripete: i mercati finanziari implodono facilmente, sono simili a Colossei con tutte le porte aperte, e nell’aria rimbalzano, vicino e lontano, gli esiti di scambi e contrattazioni, le buone performance e i crolli.
La Borsa dunque trema a Wall street, che ieri arriva a perdere oltre il 6% (intorno a 1.600 punti, e chiude poi la seduta con un calo di 1.175 punti); per trovare il segno di un ‘drop’ così collassante bisogna andare indietro di 7 anni. Ma in una sola giornata le perdite sono da record: bruciati in brevissimo tempo i guadagni di oltre un mese. E l’incubo è di nuovo dietro la porta dei mercati finanziari.
Perché è implicito: se Wall Street ha il mal di pancia, qualcosa probabilmente non va nelle piazze europee, e il malessere è più contagioso di una malattia esantematica. E infatti in Europa la sintomatologia si era già rivelata, gli operatori non hanno perso tempo a riflettere sull’eziologia, la diagnosi era evidente.
Poi il ‘contagio’ è arrivato anche in Asia, visto che oggi vanno a picco le Borse di Hong Kong e Tokyo.
Piazza Affari, insieme a tante altre piazze europee (tedesche e svizzere comprese), fa le spese della speculazione al ribasso dei Fondi Hedge, oggi all’avvio c’è stato un crollo, peraltro previsto. Comunque si è verificata una corsa all’acquisto sul Fitse Mib, la forte ventata di vendite sta creando serie difficoltà al paniere di riferimento della Borsa milanese.
L’intervento ieri di Mario Draghi all’Europarlamento è stato rassicurante, perché ha in definitiva promesso stabilità nella politica dei tassi, eppure sembra che i mercati non si sentano abbastanza protetti dalle autorità finanziarie, e schizzano un po’ ovunque.
Secondo il parere di tanti analisti, la resilienza e il benessere generale dei mercati negli ultimi anni di lotta e ripresa dalla grave crisi del 2008, potrebbe essere al termine del ciclo. E’ possibile che la fase rialzista, durata diversi anni, sia in procinto di cedere. Spaventa l’incalzare dell’inflazione e la crescita dei rendimenti dei tassi obbligazionari.
La fine di questa fase la racconta a Bloomberg il Chief Investment Officer di American Century Investiments:
“E’ in atto la conclusione di una fase rialzista, che era in corso da ormai 8 anni, il sell off che si è scatenato potrebbe non essere un evento che si esaurisce nello spazio di pochi giorni.”
Ma a causare il cortocircuito nel mercato americano è stato paradossalmente il timore di un rialzo dei salari e dei prezzi, e di conseguenza un’impennata del tasso d’inflazione. E a seguire la più ovvia profilassi della Fed: la stretta monetaria, già peraltro nell’aria con il nuovo inquilino, Jerome Powell. Il crollo del Dow Jones e Nasdaq non è stato uno scherzo, ma si pensava anche di peggio ieri sera.
Ora mister ‘America first’, dovrà riflettere prima di esibire al mondo intero le credenziali di Wall Street, quale prova del nove della sua efficienza, in termini di interventi di politica economica.
Intanto, la poltrona di Jerome Powell, appena insediatosi alla guida della Federal Reserve, già lampeggia in rosso. Non è un buon inizio, decisamente. Si legge al riguardo nel quotidiano inglese ‘The Guardian’:
“But on the day that new Federal Reserve chair, Jerome Powell, took office, replacing Janet Yellen, that quiet period seemed to be over. (Ma nel giorno in cui Jerome Powell assume l’incarico di nuovo presidente alla Fed, sostituendo Janet Yellen, i tempi della quiete sembra si siano dissolti.”)
Il crollo della Borsa americana è arrivato in seguito ad un altro giorno pesante nei mercati globali, gli investitori hanno reagito alle forti perdite, e traspare la preoccupazione che la Banca Centrale aumenti i tassi d’interesse, in risposta alla pressione inflazionistica che avanza, e che paradossalmente è stata tanto sospirata.
Gli orizzonti dell’economia americana aprono nuove viste, non sono propriamente quelli che si sono presentati a Janet Yellen, il nuovo presidente dovrà fare i conti con gli interventi del Governo, Trump tiene alla riduzione della pressione fiscale, ed è prossimo il varo della riforma che alleggerirà i cittadini di 1.500 miliardi di dollari.
La riforma ha i suoi punti fermi sui fondamentali dell’economia americana, la stabilità dei dati macro che hanno presentato indici in crescita, come quello dell’occupazione, l’accelerazione della produzione industriale, che insieme alle performance di Wall Street fino ad una settimana fa, hanno permesso un’ottima sinergia di risultati che non facevano certo presagire una simile tempesta.
Mai vaccinati al fatto che per i mercati la volatilità è imprevedibile, e che nel volgere di un giorno, mette a soqquadro una serie di elementi disciplinati come soldatini.
Nella Borsa americana lo S&P perde oltre il 4%, anche qui bisogna andare indietro di 7 anni per trovare sprofondamenti di questa portata. Il Nasdaq perde un po’ meno: qui siamo a 3,75%. Per il DJ e S&P si ripiomba nell’aria plumbea della crisi del 2008, ora non ci sono i mutui subprime a fare da detonatore, ma la mina è sempre vagante, toglie la sicurezza conquistata negli ultimi anni sul piano globale con tanta fatica, e ogni sorta di strategia da parte delle Banche Centrali.
Al momento, negli States, non sono sufficienti le garanzie e le promesse solenni del nuovo Governatore, che ha dichiarato d’essere prudente e procederà ad un aumento graduale dei tassi qualora ne ricorresse la circostanza. Escludendo pertanto una politica monetaria che implichi azzardi o strategie che possano mettere al rischio gli equilibri che la Yellen ha tenuto ben saldi.
Ma intanto si dà quasi per certo un rialzo dei tassi a marzo prossimo, in occasione del primo rendiconto di Powell alla guida della Fed. Ma potrebbero essercene 4 di rialzi ‘graduali’, se i dati macro continueranno ad esprimere la tendenza alla crescita. Da qui partono anche i timori e le diffidenze dei mercati azionari, il cui ossigeno è la stabilità.
E tuttavia, nella radice del problema, secondo gli analisti, c’è anche il “flash crash” derivante dai sistemi super tecnologici dei mercati, ovvero i trading automatici. Del resto qualcosa di simile è accaduto all’euro il giorno di Natale, si è parlato di automatismi del trading, di flash crash. Dietro il crollo ci sarebbe un ‘eccesso’ di tecniche digitali, che mettono a rischio l’intero sistema in certe circostanze.
E sembra sia proprio la causa vera del crollo avvenuto ieri. Tali guide automatiche si avvalgono non di rado della volatilità quale parametro per la valutazione del rischio. Quando l’indice è basso il trading automatico corre all’acquisto di titoli, quando è alto avviene il contrario, ossia si vende. Il meccanismo però è contorto, poiché più si vende più aumenta la volatilità, come il cane che si morde la coda.
Chi sa fiutare i mercati e ne conosce profondamente gli umori, può permettersi, ‘scommettendo’ contro la volatilità, affari d’oro.
Intanto le macchine ragionano da macchine, secondo gli input, e siccome si tratta di ‘prodotti’ derivanti dall’ingegno della mente umana, possono compiere disastri. La dimostrazione, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che l’automatismo nella tecnologia deve stare sotto il controllo e la stretta vigilanza della ‘ragione’ umana.
DI VIRGINIA MURRU
E’ stato il nucleo di polizia economico-finanziaria di Vicenza a disporre ed eseguire il provvedimento di sequestro preventivo del profitto illecito, equivalente all’importo di oltre 106 milioni di euro, a carico della Banca Popolare di Vicenza, che si trova attualmente in stato di liquidazione coatta amministrativa.
L’operazione è avvenuta stamattina, nell’ambito dell’indagine portata avanti dalla Guardia di Finanza, ed è riconducibile, nello specifico, al “reato di ostacolo all’esercizio delle funzioni di vigilanza della Consob” al quale si sarebbe dato corso dopo l’operazione di aumento di capitale deciso dalla Popolare di Vicenza nel 2014.
Le fiamme gialle, agli ordini del comandante provinciale, Col. Crescenzo Sciaraffa, hanno agito in mattinata su autorizzazione della Procura della Repubblica, effettuando quindi il sequestro preventivo, quale confisca diretta per un valore che supera i cento milioni di euro, nel contesto degli accertamenti sulle responsabilità dei vertici della Banca Popolare di Vicenza S.p.A., inchiesta che allo stato attuale è in fase di udienza preliminare.
Le risorse finanziarie disponibili poste sotto sequestro si trovavano su un conto aperto nella filiale di Milano di una banca nazionale, intestato alla BpVi; si tratta di proventi ricollegabili alla pregressa liquidazione di asset facenti parte del patrimonio dell’istituto di credito.
L’ordine di sequestro disposto dal gip del Tribunale di Vicenza, è quello originario che fa riferimento agli articoli 19 e 53 del DL 231 del 2001, e riguarda, come si è accennato, il profitto del reato che ha ostacolato le funzioni di vigilanza svolte dalla Consob (posto in essere in seguito alle operazioni di aumento di capitale dell’istituto nel 2014).
Il provvedimento finora non era andato avanti per ragioni di conflitto di competenza; il primo infatti era stato ordinato dal gip di Vicenza nel maggio dello scorso anno, sempre su richiesta della Procura. In seguito, tuttavia, la Procura stessa legittimò la competenza dell’azione giudiziaria a Milano. Per questo l’operazione delle fiamme gialle è slittata. Il conflitto è poi passato su altro ordine di giudizio alla Cassazione, la quale, in un primo tempo, ad ottobre scorso, sancì che il sequestro non dovesse considerarsi ‘eccessivo’ così come aveva obiettato la Procura.
In ogni caso il provvedimento era stato bloccato, fino al nuovo verdetto della Cassazione, emanato a dicembre 2017, che ha definitivamente sancito la competenza dell’azione giudiziaria a Vicenza, non a Milano.
Non era ipotizzabile che, nell’ambito dell’inchiesta, la BpVi la facesse franca, si è trattato di indebito arricchimento, dovuto all’ostacolo che il management della banca ha esercitato sulle funzioni di vigilanza della Consob, e infatti il colpo puntuale è arrivato. Gli amministratori, dopo il rinvio a giudizio disposto dalla Procura, ora dovranno difendersi davanti al giudice delle indagini preliminari.
DI VIRGINIA MURRU
Il colosso sudcoreano, secondo la pubblicazione dei resoconti finanziari del quarto trimestre 2017, continua a presentare performance da record, i profitti volano al 64,3% su base annua, ossia a 15,2 trilioni di won, che ‘convertiti’ in dollari ammontano a 14,15 miliardi. I risultati sono in linea con le previsioni degli analisti, del resto un “forecast” positivo per il gigante asiatico non era poi così azzardato.
Intanto, secondo una notizia riportata su ‘Finanza on line’, c’è da considerare anche il balzo da tigre nelle quotazioni Samsung Electronics, che spiccano un salto di oltre il 5% a Seul, in seguito all’annuncio della Samsung di uno split azionario 50:1.
Lo split è un frazionamento azionario che non crea alterazioni nella capitalizzazioni in borsa di una società, e pertanto del suo valore nel mercato. Ciò che varia invece, in presenza di uno stock split, è il numero delle azioni disponibili sul mercato e il loro valore unitario.
La Samsung ha spiegato in un comunicato, che la scelta deriva da una ragione ben precisa: ossia l’ostacolo rappresentato per i potenziali investitori, dal prezzo elevato del titolo.
Il 23 marzo prossimo il frazionamento delle azioni sarà sottoposto all’Assemblea dei soci, il valore nominale passerà da 5mila a 100 won, secondo il rapporto indicato. E’ implicito quindi l’aumento del numero di azioni ordinarie, che passeranno da 128 milioni a oltre 6,50 miliardi, e questo, come precisa il comunicato della Samsung, avrà il fine di diffondere con più semplicità il titolo tra gli investitori retail, favorito anche dalla destinazione dei dividendi, che mira a utilizzare il 50% del free cash flow.
Samsung Electronics ha aumentato i suoi profitti netti a 42.180 miliardi di won, a ben +85,6%. Sui semiconduttori i profitti operativi vanno a oltre 35 miliardi nel quarto trimestre. Per quel che concerne i semiconduttori le altissime performance raggiunte dipendono anche dall’alta domanda di chips per server, dispositivi mobili e pc. Invece risultano meno cospicui gli utili derivanti dalla “mobile division”, difficoltà individuate nella promozione della linea ‘smartphone Galaxy’.
Sembra non ci siano riflessi negativi sulle traversie giudiziarie che hanno riguardato Lee Jae-Jong, che fa parte della famiglia dei fondatori del colosso Samsung, e ricopre la carica di Vice presidente (ma di fatto ne è il leader). Un anno fa era stato coinvolto in uno scandalo di corruzione, che ha colpito anche la presidente della Repubblica sudcoreana, Park Geun hye, determinandone l’impeachment. Per tanti l’arresto di Lee Jae-Jong è stata un’occasione per cambiare la corporate governance dei grandi gruppi, permettendo alla legge di applicare il principio che “la Giustizia deve essere uguale per tutti”, anche quando nel mirino finiscono importanti personaggi.
Lee Jae-Jong è stato accusato di avere versato ‘mazzette’ all’amica sciamana dell’ex presidente, Choi Soon-sil, la quale si sarebbe poi prestata a intervenire per indurla a portare avanti una compiacente politica economica che avrebbe favorito la Samsung.
La Corte costituzionale sudcoreana l’aveva infatti deposta il 10 marzo del 2017, in un’atmosfera rovente di scontri politici e agitazioni nella stessa Seul. L’accusa è di corruzione, per avere favorito una certa clientela, sottraendo in modo illecito risorse in termini di milioni di dollari, alle aziende nazionali. Park Geun-hye, che è stata poi arrestata lo scorso anno e tradotta in carcere, è il quarto presidente indagato.
L’ex presidente era rappresentante di una grande dinastia, figlia di Park Chung-hee, che aveva a sua volta ricoperto la carica di presidente per circa 15 anni tra gli anni ’60 e la fine degli anni ’70. Fu poi assassinato dai servizi segreti.
E’ giusto anche ricordare che, sebbene il padre dell’ex presidente sudcoreana, fosse un corrotto dittatore, era stato anche il protagonista del cosiddetto “miracolo” Han, perché aprì nella Corea del Sud le porte al progresso e la trasformò in un Paese avanzato e moderno.
Oggi, alcune multinazionali, come la Samsung, sono il fiore all’occhiello della tecnologia a livello mondiale.